Alcuni mesi fa l’estensore di un articolo su un noto mensile d’informazione libraria, stampato a Milano, si occupava della crisi che travaglia la nostra editoria. E in realtà più il tempo passa e più ci si accorge che l’interesse dei lettori per le nuove opere continua a scemare nella misura in cui le loro aspettative vengono disattese per mancanza o povertà di contenuti, di obiettività da parte di chi scrive, d’incisività, di viva partecipazione e quindi per carenza di quegli accorgimenti tecnico-linguistici che sono alla base di ogni buona riuscita di un’opera e di ogni buona lettura.
Ma l’articolista non si soffermava ad approfondire il perché di queste carenze né analizzava quali e quante le cause che le hanno determinate, quali siano state le prime insorgenze che hanno limitato se non privato la nostra cultura di quei meriti che sono stati per secoli la gloria delle nostre tradizioni artistico- letterarie.
Forse per motivi di spazio non si è potuto soffermare su argomenti tanto importanti e si è limitato soltanto ad affrontare il problema delle diminuzioni delle vendite che turba i sogni degli editori; o forse, più probabilmente, perché egli sa che non si può continuare a proporre ai lettori opere di poco interesse, senza qualità avvincenti, mancando di virtù esaltanti, di estro, di originalità, di tutti quegli accorgimenti che un tempo li rapivano e li rendevano vivamente partecipi della vita, delle speranze, delle ansie, degli slanci, dei rischi, delle sconfitte e delle vittorie dei protagonisti, sicché, a lettura ultimata li facevano esclamare di contentezza: bene, questo scrittore mi convince, il suo lavoro mi è piaciuto, leggerò tutti gli altri, se ne ha scritti, se ne scriverà ancora.
Oggi, purtroppo, questo entusiasmo tende sempre più a diminuire, e del resto non ha motivo di esserci, se vengono a mancare validi presupposti per dare a chi legge il desiderato appagamento.
Da molti anni in qua i lettori si sono accorti di non essere più rispettati dalla maggior parte degli scrittori, è subentrato in loro un senso di sfiducia, di delusione, la stessa di colui che si reca spesso dal fruttivendolo per comprare patate, sicuro di averle buone come le precedenti e invece se le trova dure di cottura e di difficile impasto, non rispondenti ai suoi gusti e alle sue esigenze. Il cliente rifiuterà, vita natural durante, altre patate e, probabilmente, altri prodotti della stessa ditta fornitrice. Così per i libri.
Opere di poco conto, deludenti, che irridono i lettori, che nemmeno meriterebbero di essere sfiorate – tanta è la loro superficialità -, giacciono a «pile» nelle librerie, con tanto di strisce policrome per meglio attirare l’attenzione dei visitatori e indurli agli acquisti. Ma quelli, ormai, non si lasciano più abbindolare: un’occhiata fugace, spesso con le labbra atteggiate ad una beffarda smorfia di noncuranza, passano oltre e continuano, tutt’altro che convinti, la loro rassegna lungo i banchi di vendita. Non credono più ai premi e ne hanno ben donde. Sanno che cosa si agita dietro le quinte di questi, quali e quanti siano gli interessi di prevaricazione ad opera di sensali e di galoppini che si spostano in lungo e in largo per il territorio nazionale ed anche internazionale allo scopo di ordire trame e d’interferire, a volte con sordida e delinquenziale determinazione, nell’altrui operato. E a tal proposito è proprio di non molto tempo fa l’intervento della Squadra Mobile della Questura di Bologna contro un cinquantenne «Rettore» recidivo, denunciato a piede libero, millantatore che ha sempre intrallazzato per anni, adergendosi ad unico coordinatore di un’infinità di premi letterari, sbandierando di essere il solo autorizzato da Enti, Istituti internazionali e Università, a rilasciare diplomi, riconoscimenti e attestati validi, oltre ad avere licenza di nominare e pontificare con spregiudicata padronanza. Il tutto per motivi concorrenziali e di lucro, probabilmente di concerto con qualche stampatore o editore (sic) locale da lunghi anni amico e collaboratore, con l’intento di screditare altrove l’operato e l’incalzante avanzare di altri concorrenti, sorretto e invogliato da settoriali spinte di satrapi politicastri. E così avanzano allegramente e s’impreziosiscono le glorie letterarie italiane ad opera di lungimiranti lavoratori indefessi ai quali non dovrebbe mancare la gratitudine di tanti geni assurti ai fastigi della celebrità con l’inganno dei venditori di vento e di «patacche».
È ovvio che con questi sistemi di redditizia adulazione, peraltro furbescamente pilotati, restano fuori gli autori migliori, cosicché la sana cultura risentirà sempre dei contraccolpi devianti di chi non può far cultura, di coloro che, inclini a perfidia in appoggio a deliberate scelte di comodo in disprezzo delle altrui capacità, perseguono la loro azione inquinante con una condotta perversa e mistificante.
Da qui la povertà culturale di molti uomini politici, di tanti papaveri che scrivono perché fa loro comodo e possono farlo impunemente, trattandosi di un vandalismo consentito, protetto e incoraggiato dalla Carta suprema dello Stato. E uno Stato incolto non può dare che miseria e morte, povertà mentale, decadenza, distruzione e i frutti di una sempre più raffinata delinquenza a qualsiasi livello.
Gli è che quell’art. 21 della Costituzione varata nel 1947, che recita: «tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero, con le parole, lo scritto e ogni altro mezzo di espressione», va completato con un’aggiunta assai eloquente che scoraggerebbe tanti incolti rampanti che infestano luoghi vitali di questa nostra sventurata Italia. Si aggiunga: …tranne che coi piedi.
«Già cinquant’anni prima di Cristo, Terenzio Varrone, stabilendo in un suo famoso trattato un’analogia tra il cattivo uso della lingua e ogni altro delitto, si chiedeva come mai non esistesse alcuna pena per questo reato. Ce lo chiederemmo anche noi se l’art. 21 non fosse lì a darcene risposta. I pupilli di questo articolo, anche se rozzi, incivili e guitti, anche se distruttori d’un patrimonio nazionale, non si toccano». Però sia ben chiaro: se non si porrà riparo ad una cultura di diseredati mentali, se non si farà ritorno alla fonte vivificante del sapere, bandendo il superfluo, l’inconcludente e il deleterio, non si avanzerà di un micron sulla strada del vero progresso, non ci sarà più storia nè istituzioni che tengano, ma solo anarchia che un’imbelle società di fedifraghi e di allegri governanti hanno alimentato con la loro deplorevole acquiescenza.
Ma abbiamo divagato, trasportati dall’onda irruenta dell’orgoglio, di preservare la nostra lingua dallo scempio di squallidi cacasenno, ed è il caso di ritornare, sia pur per poco, alla farsa dei premi letterari.
Se prima di assegnarli si facesse ricorso a giurie popolari con vasta partecipazione di lettori disinteressati e insensibili a sollecitazioni di pietosi caldeggiamenti che disonorano la tradizionale severità di scelta delle figure più rappresentative del genio italico, la cultura avrebbe molto da guadagnare e nulla da perdere, venendo a mancare la pressione monopolistica di frange ristrette di alcuni squallidi figuri che operano in mala fede e pretendono di farsela giustificare con forzature tipiche della perversa miopia letteraria che non bada a proprietà di linguaggio e all’osservanza di regole sintattico grammaticale.
Allora sì che col predetto sistema delle giurie popolari – alle quali, del resto, si fa già ricorso in qualche attribuzione di scelta letteraria – i riconoscimenti avrebbero ben altro significato e molti scrittori illustri, da decenni ignorati dalla volontaria inquisitoria esclusione di scuderia, otterrebbero il meritato riconoscimento sulla base di giudizi spontanei e la verità, lungamente soffocata da interessi di parte di oziosi mestieranti, verrebbe ad esplodere in tutta la genuinità di libera scelta, apportando un effetto disinquinante e benefico nel ginepraio dei premi letterari.
Non sono i premi assegnati che qualificano i concorrenti, e tanto meno le solite case editrici che li ipotecano, bensì il valore dei giudicanti, di coloro che per raggiungere livelli di probità e competenza hanno vissuto una vita di tormento e di non pochi preclusi raggiungimenti, assai spesso proprio ad opera di aridi intrallazzatori che hanno loro sbarrato la strada di un meritato successo. Costoro hanno avuto più fortuna, hanno saputo strisciare meglio e via via si sono accontentati della loro megalomania, misero vanto di pecorina sudditanza al primo padrone che li ingaggi. Ed appunto da detta megalomania discende la logica della faciloneria, della superbia e della irrazionalità, dell’incompetenza ad esprimere giudizi obiettivi e quindi la dimostrazione pratica dell’incultura con tutte le dolorose anomalie che ci regalano coloro che si attentano a scrivere e a dire, ritenendo, a torto, che è come dare di zappa, che non ci vuole eccessivo sforzo per riuscire ad esprimersi bene; oggi, poi, è più che mai una passeggiata: per ciascuno c’è una parola di lode, un premio, non ci sono problemi, e se non è uno è l’altro, tanto, sempre premi sono.
Di questo passo, di adulazione in adulazione, la vera cultura corre il rischio di diventare totale appannaggio degli illetterati, dei furbastri traffichini che ben si prestano a svilirla, specie se remunerata lautamente per il loro impegno di devastazione letteraria in questo scorcio di secolo ventesimo.
Scrivere bene equivale a saper soffrire altrettanto bene, non significa alzarsi la mattina, dopo aver dormito col posteriore scoperto, mettersi davanti allo specchio e incoronarsi poeta eccellente o sagace scrittore.
Occorre rigore e trasparenza linguistica, non megalomania, libidine di prevaricazione, tradimenti, raggiri e calunnie per sminuire il valore di autentici talenti avversati dalla mafia letteraria dei perversi monopolizzatori che prediligono una cultura spicciola e di cassetta. Ma per fortuna ci sono ancora scrittori che non sono in vendita, che non accetteranno mai di rassegnarsi allo squallore di una cultura dissacrante che può far comodo soltanto a molte frange di intellettualoidi ai quali dobbiamo lo sfascio socio-politico della nostra sventurata Italia.
Se potesse parlare dalla tomba il grande Vincenzo Cardarelli, ci rimprovererebbe di certo la faciloneria con cui crediamo di esprimerci nel buon uso della lingua italiana e ci ricorderebbe la lotta titanica da lui combattuta per difenderla e salvarla dagli attacchi dei trasformisti di comodo della sua epoca. Ma, ai nostri giorni, il richiamo al rigore e alla trasparenza linguistica del Vate di Tarquinia sortisce il solo scopo di fare impallidire tanti boriosi che non hanno né arte né parte, ma spocchiosa megalomania, libidine di prevaricazione con tutte le armi a loro disposizione, comprese quelle del tradimento e della calunnia.
Nel 1985, all’inizio di una introduzione ad una mia modesta ma fortunata opera dal titolo «Profili critici di scrittori contemporanei per la storia della letteratura italiana» già tracciavo alcune note frammentarie e un po’ dispersive che volevano essere un timido tentativo di esegesi critica di un piccolo cenacolo di scrittori, ad integrazione, entro certi limiti, appunto della nostra storia letteraria che di norma non tiene in debito conto autori nuovi, talora di qualche rilievo e comunque suscettibili, se adeguatamente apprezzati, di successivi sviluppi in quel mondo dell’intelletto e dell’anima che è il mondo dell’arte letteraria.
Già nel suddetto saggio mettevo in risalto l’inutilità della verbosità che tanto opprimente si espande con la radio e la televisione, con i discorsi degli uomini politici quasi sempre impolitici, con i tanto ciarlatani che ci ottundono il cervello e impoveriscono lo spirito con le loro pietose inconcludenze, evasive e a volte ridicole nel tentativo di non prendere posizione su problemi di scottante interesse, con le loro miserabili ricerche di alchimie che nulla edificano e molto cancellano, con le loro stupidaggini che distolgono l’attenzione e ostacolano la serenità della nostra mente. Tanta deleteria verbosità che a lungo andare condizionerà ogni possibilità di libera scelta, non deve penetrare anche nel sacello dello scritto che, immiserito da prezzolati impostori di mezza tacca al servizio di una politica di dissennati e di rinnegati, è ostacolato nel riprendere la sua posizione di predominio nel mondo del pensiero e dell’apprendimento. Se il silenzio è d’oro, è conseguente che l’oltraggioso bombardamento televisivo al servizio di una esasperante produttività industriale che minaccia di snaturare l’uomo e l’ambiente in cui egli vive ed opera, altro non è che un costante insulto alla dignità di coloro che sdegnosamente respingono la perversa illusione di un illimitato progresso, il bieco mostro che decimerà, se non addirittura distruggerà se stesso e l’umanità per libidine di ricchezza e di vergognoso utilitarismo.
Altrove dissi che è quanto mai necessaria e urgente un’inversione di rotta, che occorre riflettere sugli errori del passato e, soprattutto bonificare la cultura a lungo inquinata, renderla sana, cardine e principio informatore di ogni effettivo progresso che non congiuri contro l’uomo e gli preservi il dono della vita e ne allunghi la durata.
Ma oggi la cultura non svolge più il ruolo primario che dovrebbe avere! Servili sparvieri, operando al servizio di prezzolati e protervi opportunisti che pretendono di asserragliare il pensiero degli uomini liberi, protesi a difendere le glorie di un patrimonio culturale di elevato valore, che nepoti immemori da trent’anni in qua si sforzano con ogni mezzo di lottizzare e ostacolarne la continuità; oggi, dicevamo, la cultura è piatta e soggiace alla volontà di avventurieri che nulla hanno a vedere coi principi edificanti, con una volontà di rifondare una società più equa e maggiormente interessata alla risurrezione dei buoni costumi.
Non illudiamoci di raddrizzare le sorti nazionali senza una cultura sana, mettendone al bando le strutture basilari sino a compromettere, a vanificare i risultati di secolari ammaestramenti. Tutti i mali e le mostruosità della moderna società sono dovuti all’insegnamento e alla pratica di una cultura deviante, disumana, aggressiva e dissacrante, sacrificata al Molock di un’industria incontrollata, selvaggia e devastante.
Finché non sarà data via libera alla collaborazione di pensatori validi, forti di una preparazione umanistica, finché in ogni programma, in ogni azione, in ogni intento, presente e futuro, saranno trascurati e, peggio, ignorati i grandi autori del passato e la loro morale, gli uomini diverranno sempre più miseri e la possibilità della loro completa disumanizzazione diverrà realtà. Per evitarla c’è un solo rimedio: mettere al bando tutte le opere che non abbiano un fine educativo, almeno nelle scuole.
Ma per attuare ciò bisogna fare opera di prevenzione, occorre smascherare quanto accade in ambienti e circoli culturali, legati agli estensori delle terze pagine di alcuni giornali di massa.
Per qualche anno fui eletto a rivestire una carica di una certa responsabilità in una nota Associazione culturale. Quel che mi fu dato di vedere e di constatare va oltre i limiti dell’indecenza. Fu allora che, da vicino, mi resi conto dello sfruttamento disinvolto di uomini fedifraghi, in nome di una cultura farraginosa, da cui hanno attinto immense risorse figure che disonorano la nostra letteratura per la loro povertà cerebrale. Costoro, però, quando operano per il loro tornaconto trovano sempre il sistema migliore per inserirsi negli spazi auriferi di una millantata professionalità. Ma la meraviglia delle meraviglie, la punta di diamante delle trovate è data dalle varie congreghe di esponenti politici di spicco, di autorità religiose, di scienziati che tutti insieme, con la loro presenza, concorrono a solennizzare le tante cerimonie di premiazione quando vengono invitati a ritirare patacche dalle mani di organizzatori che non fanno certamente onore al prestigio e al buon nome dei partecipanti. E ogni anno sempre con la stessa apertura mnemonica di un discorso stantìo, scarno quando non è addirittura inconcludente, che finisce tra applausi, baci, e abbracci e osanna in una esilarante cornice di volti radiosi per gli «ambìti» riconoscimenti ricevuti.
E così, in questo scorcio di secolo ventesimo, retaggio di glorie letterarie immortali, nel ginepraio di una lingua offesa e vilipesa e devastata, la farsa della celebrazione del genio italico continua, ad integrazione di altre glorie maturate all’ombra del sei politico e di riforme volute da dissennati politicastri che hanno regalato alle nostre scuole una folta schiera di docenti tuttora congiurati, avversi alla tradizione culturale del nostro paese. Ben fece l’illustre Prof. Giacomo Devoto a dimettersi quando non ebbe più dubbi che la sua Università era ormai una fabbrica di somari. «Mi rifiuto» disse, «di continuare ad essere il rettore di una facoltà di asini».
Il vero è, comunque, che molti hanno perduto il senso della misura in tutti i campi, non si rassegnano a restare nel senno di ieri, preferiscono oggi una società schizofrenica, che non sa più dove andare perché alla deriva dell’infido andazzo di una cultura immiserita, non più turgida di principi informatori, non più veicolo equilibratore tra una millenaria esperienza di esaltanti conquiste dello spirito e un’arida fatica per il raggiungimento di lontanissimi orizzonti che non sottraggano all’umanità bisognosa immense risorse vitali e non la condannino alla vergogna di una sempre più spaventosa miseria, alla morte per fame di milioni di nostri simili. E la chiamano cultura del progresso! Se così fosse, parafrasando la storica frase di Madame Roland, potremmo esclamare «O progresso, quante ingiustizie, quante miserie e quante e quali barbarie per colpa tua, quando congiuri contro l’umanità!».
Donato Accodo
Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 8-14.
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