La Comunità di salvezza come cura e terapia dell’uomo 

 di Claudia Gaeta 

La presente riflessione parte dalla domanda se per lo Stato moderno l’eugenetica, la scienza del giusto allevamento umano, non sia da considerare come un ideale di salvezza o sanità dei corpi. 

Nel mondo occidentale la parola salvezza rimanda immediatamente all’ambito del cattolicesimo ed è partendo dal suo contesto originario che si è indagata in varie sfaccettature fino a concludere che lo Stato ha fatto proprie queste istanze religiose, secolarizzandole e rendendole operative nel contesto socialel; slittamento, questo, posto in essere dalla stessa religione cattolica nel momento in cui sottolinea come non possa esserci salvezza, nemmeno sul piano prettamente individuale, al di fuori della comunità. 

Con la fondazione dello Stato moderno si ricrea, sul piano secolare, il grande ideale di comunità che era da sempre stato il pilastro portante del cattolicesimo. La comunità, in entrambi i casi, si configura come una «comunità di salvezza»2, nella quale salvezza viene ad indicare una «prospettiva» alla quale tutti i membri della comunità devono necessariamente aderire per salvaguardare la sanità/santità della comunità stessa: «Soltanto una razza intimamente sana potrà essere sicura del suo avvenire. Questo concetto ha valore universale e perenne perché corrisponde ad una legge generale della natura»3. 

Chiaramente essendo una prospettiva, la salvezza4 è anche un progetto che indirizza l’azione e la vita stessa. 

E, per rendere più chiaro il concetto, possiamo affermare che la salvezza svolge in ambito cattolico lo stesso ruolo che svolge l’utopia all’interno del pensiero politico, quello, cioè, di orientare «la condotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto»5, rivelando così la sua attuabilità nel futuro. È anche in virtù di ciò che la salvezza cattolica si fa nella storia, anzi la salvezza si identifica con la storia, col tragitto, cioè, che riconduce l’uomo al regno di Dio: «La salvezza è già realizzata, ma non ancora perfetta, cresce nella storia, esige impegno storico6», leggiamo in G. Mongillo. Lo stesso «destino di salvezza» è attribuito allo Stato moderno, soprattutto dopo aver fatto proprio il concetto positivistico di progresso e dopo essersi identificato con questo processo storico-naturale di continuo miglioramento. 

La prosecuzione nel cammino della salvezza implica un forte impegno politico, da cui tutti gli uomini non possono prescindere, in un rapporto di dipendenza che assoggetta l’intero essere umano al compimento di questa missione, ed è in questo senso che prende forza una normativizzazione assoluta della vita; dal momento che al di fuori della norma che ci dirige l’uomo rischia di perdere di vista la sua necessità. È indispensabile, quindi, forgiare uomini nuovi capaci di portare avanti questa missione, ma per far ciò è necessario in primo luogo incanalare la vita attraverso la normati-vizzazione dell’ uomo. 

Il problema sorge fattualmente nel momento in cui la vita, e quindi l’uomo come essere per la vita, si forma a partire da Dio o si identifica con lo Stato. Questi ultimi si definiscono come termini superiori di un’alleanza al di fuori della quale non c’è salvezza, ma dissoluzione, nella forma del peccato e della degenerazione. Questo sancisce la fine dell’ uomo come essere autodeterminantesi, soggetto primo del movimento della vita, per divenirne «oggetto» sul quale si esercita la forza di una vita sviluppata a partire dalla necessità. Necessità che si esplica a partire dalla normativizzazione della sua dinamicità. Canalizzando la dinamicità si nega, quindi, la libertà come possibilità incondizionata di scelta; si afferma, di conseguenza, una libertà ad un livello più alto proprio perché questa nasce dalla necessità di aderire ad una volontà superiore che ha creato e, quindi, preordinato il mondo. 

Con questo, si ha la trasformazione della vita come cominciamento in una vita per la salvezza, che è eterna e non più unica ma finalizzata ad un’identità superiore che la qualifica e la forma in prima istanza proprio dalla definizione del corpo, che altro non deve essere che la rappresentazione materiale di questo cosmo ordinato e funzionale. Non è, infatti, un caso che l’uomo sia stato creato ad immagine e somiglianza di Dio: «L’uomo nuovo che è creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità»? Quindi il corpo di Adamo, essendo ad immagine e somiglianza di Dio, fu creato secondo la bellezza e la bontà del Padre creatore8, in perfetta salute e non soggetto alla morte. Soltanto il peccato di Adamo introdusse nel mondo, e di conseguenza nel corpo dell’uomo, la bruttezza, la malattia e la morte come segno dell’ esplicita ribellione a Dio, dato, anche, che al di fuori della bellezza di Dio non esiste comunicazione, e quindi alleanza, fra le parti della comunità: 

Per ogni cosa, dunque, il bello ed il buono sono amabili e desiderabili; da ogni cosa sono prediletti. Grazie ad essi anche le cose inferiori amano quelle superiori, convertendosi ad esse; [ … ] quelle superiori amano le inferiori, provvedendo ad esse’. Non solo ma senza questa bellezza non esiste l’ordine per cui le cose sono state create: Per tutte le cose, infatti, c’è uno stato ed un moto che [ … ] colloca ciascuna cosa nella propria condizione e la dirige verso il proprio movimento [ … ]. Tutto ciò che proviene dal bello e dal buono, ed in essi risiede, si volge verso il bello e il buono”’. 

L’uomo nel contesto della comunità, pertanto, deve essere «curato» in tutti i suoi aspetti, proprio perché deve essere garantita la sua funzione di membro del corpo comunitario ed è in virtù di ciò che il pensiero cattolico delle origini assume la concezione dell’ uomo come unità inscindibile di anima e corpo. Quest’affermazione può spesso trarre in inganno perché nasconde in sé un dualismo basato sulla differenza di importanza fra i due termini del rapporto; infatti, il corpo è visto in funzione dell’anima, vissuta come la parte immortale del rapporto, l’unica che, almeno fino alla cosiddetta «resurrezione della carne», può assurgere a Dio con la morte della sua parte materiale, il corpo appunto. Il corpo più dell’anima determina il nostro essere perché non solo dà forma alla nostra vita, ma implicitamente la determina essendo esso l’elemento corruttibile del rapporto: 

Il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. [ … ] Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? [ … ] Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo11 ! 

Ma la chiusura nei confronti del corpo va oltre, arrivando ad affermare che nel momento in cui è quest’ultimo a determinare le azioni dell’ uomo, non solo non ci sarà sanità, ma ci sarà un fiorire del peccato, e quindi della malattia, che dovrà essere estirpato. 

Solo quando la carne, che è «piena di brame contrarie allo spirito» sta sotto il dominio dell’anima, noi siamo sani e liberi, e veramente sani e liberi. Allora infatti il corpo segue il giudizio dell’anima e segue la guida sicura di Dio. [ … ] Se infatti il terreno del nostro corpo non viene continuamente lavorato, restando incolto e inattivo, subito produce spine e rovi. Porta allora frutti che non verranno raccolti nei granai, ma dovranno essere sterminati col fuoco, secondo le parole del Signore: Ogni piantagione non coltivata dal mio Padre celeste verrà estirpata (Mt 15, 13). Dobbiamo dunque proteggere con cura ogni seme e germoglio nobile che abbiamo ricevuto dal giardino del divino seminatore. Con calma circospezione dobbiamo perciò curare che l’astuzia dell’odiato nemico non arrechi danno a questo dono di Dio e che nel giardino paradisiaco della virtù non germogli lo sterpame del vizio12. 

Secondo lo stesso principio, nel contesto dell’ organizzazione statale, la popolazione e la pianificazione della vita divengono così affari di Stato in nome della necessaria superiorità non solo degli interessi, ma proprio dello Stato in quanto essere naturale. È così che si arrivò alla formazione di un apparato statale per la salvaguardia della salute pubblica che passava inesorabilmente dalla determinazione a priori della «forma» della popolazione. Forma che poteva essere perseguita attraverso la coincidenza degli interessi dell’ eugenetica intesa come trasposizione artificiale di un meccanismo naturale quale la selezione della razza -, con lo Stato, anch’esso visto come prosieguo della Natura. 

I totalitarismi, ma anche i regimi cosiddetti democratici, fecero loro snodo portante la centralità dello Stato, facendo divenire questo il regolatore della vita pubblica e privata, il che comportava inesorabilmente l’espansione della sua necessità razionalizzatrice e moralizzatrice a livello globale partendo proprio dalla possibilità eugenetica di modellare il corpo e la vita del cittadino a sua immagine e somiglianza. Di conseguenza, l’essere umano è soltanto una delle parti dell’intero organismo, con un ruolo definito e una funzione specifica, per cui esso sarà sciolto nella sua biologicità, per essere governato dalle stesse leggi che regolano l’ordine naturale, favorendo un progressivo svuotamento dell’identità del singolo, ma anche, ad un livello più ampio, ponendo in essere un processo d’annullamento dell’umanità dell’uomo, inteso sempre più come appartenente alla specie, ad una specie omogenea alla quale si offre la possibilità di essere depurata ed allevata e, di conseguenza, salvata. Si può, a questo punto, meglio denotare il rapporto che intercorre con l’eugenetica di Stato, anch’essa nutrita dal desiderio di «riprogettare» il cittadino affinché col suo inserimento organico nella struttura statale portasse alla rigenerazione individuale e collettiva. Rigenerazione – morale ma anche necessariamente biologica – che sola può condurre la società civile verso il suo destino di miglioramento e di benessere. 

Non per tutti, comunque, è la salvezza, intesa come l’entrata nel cosmo della grazia, ma solo per un’élite che lo è per nascita. Per il resto della popolazione la via della salvezza è essenzialmente quella dell’obbedienza e del sacrificio, come sottolinea lo stesso Paolo quando afferma che: «ciò che Israele cercava non l’ha ottenuto, ma l’ha ottenuto soltanto la parte eletta»l3. Parole a cui fanno eco quelle di Galton, il fondatore dell’eugenetica, che la definì «la scienza del miglioramento della specie umana, garantendo alle razze o alle stirpi più adatte una migliore opportunità di prevalere rapidamente su quelle meno adatte» 14. Andando più a fondo è rinvenibile, già in ambito cattolico, l’idea per cui la diminuzione dei soggetti a cui è ascritta la caduta, o in termini contemporanei, la degenerazione, è utile, funzionale, diremmo, all’accrescimento del potere dei gentili; gentili che sono una parte del popolo, sicuramente la parte più alta: 

Ma se la loro caduta è stata la ricchezza del mondo e la loro diminuzione la ricchezza dei gentili, quanto più lo sarà la loro totalità15. 

È chiaro che la comunità di cui stiamo parlando è una comunità organica, ordinata e funzionale, perfettamente in linea con una concezione che inserisce il mondo umano in una visione predeterministica; in altre parole, sia lo Stato che la Chiesa concepiscono il mondo come inserito in una rete di valori e di volontà da cui non si può prescindere, perché diretta emanazione di una volontà superiore alla quale gli «inferiori» devono aderire con tutto il loro essere. Non solo, ma è presente anche una specificità per nascita, per la quale ognuno deve rispettare il suo ruolo e la sua funzione, se vuole contribuire alla sanità del corpo comunitario: 

Per la grazia che mi è stata data, io dico a ognuno di voi di non stimarsi più di quanto si deve, ma d’ispirarsi a sentimenti di giusta stima, ciascuno secondo la misura di fede che Iddio ha dispensato. Come infatti in un sol corpo abbiamo più membra e di queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così noi, benché in molti, formiamo un sol corpo in Cristo e, da singoli, siamo membra gli uni degli altri. Poiché noi abbiamo dei doni differenti secondo la grazia che ci è stata data: il dono della profezia, da usarsi in proporzione della fede; l’insegnante, nell’insegnare; l’esortatore, nell’esortare; il donatore, con liberalità; chi presiede, con premura; il compassionatore con gioia16. 

Ed ancora: «Secondo la natura di ciascuno, egli ha diviso il suo beneficio»l7. 

È qui che si apre la possibilità del peccato, dato che per la teologia cattolica «la vera essenza del peccato» sta «nell’opzione fondamentale con la quale si rifiuta di accettare la volontà di Dio come norma incondizionata della propria esistenza»18. 

Chiaramente anche lo Stato riconosce una volontà superiore che ha formato ed informato di sé la Natura e così come per il cattolico il peccato definisce la «condizione escludente» dalla comunità di salvezza, per lo Stato, diretta emanazione della natura, il peccato, divenuto sociale, viene identificato con la malattia, che è un ribellarsi alla sanità del corpo sociale/statale. Questa trasposizione di piano è supportata anche dal fatto che la malattia è da sempre, anche se in maniera più velata, interpretata come frutto di comportamenti morali sbagliatil9: 

Poiché ci è stato ordinato di tornare alla terra alla quale eravamo stati tratti e siano stati legati alla dolorosa carne, destinata alla morte per causa del peccato e soggetta per questo alle malattie, affinché talora, in una certa misura, i malati potessero guarire20. 

Più esattamente nella concezione statale si ha la sovrapposizione fra il male naturale (malattia) e il male morale (peccato)21, per cui, nel momento in cui viene sancita a livello scientifico la corrispondenza fra caratteri fisici, psichici e morali, la malattia diviene peccato. Il peccato, infatti, nella sua formulazione originaria è «l’infrazione di una legge», in altre parole la rottura di quell’ alleanza che costituisce il patto, cioè le regole, dell’alleanza. Sostanzialmente il peccato allontana l’uomo dalla comunità perché disintegra le sue relazioni con Dio e con gli uomini e non tende più a finalizzare l’uomo alla salvezza della comunità. 

Nel contesto statale, il cosiddetto deviante – dove per deviante si intende qualunque soggetto si discosti dai parametri fisici, psichici o morali socialmente dati, includendo al suo interno categorie molto diverse che vanno dal delinquente al malato – si sovrappone alla figura del peccatore e come quest’ultimo diviene, di conseguenza, la rappresentazione vivente, corporea diremmo, dell’individuo che si è posto al di fuori della comunità; esso, come ha affermato D. Chapman, «viene visto come una funzione del mantenimento dell’ordine costituito, un individuo costruito per rappresentare in sé, funzionalmente, […] con immagini stereotipiche formate da quelle caratteristiche che un dato sistema sociale ha interesse a presentare come negati ve ed oggetto di sanzione»22, proprio perché la devianza, così come il peccato, è la condizione che pone al di fuori della comunità stessa, tanto da indicare «un destino da evitare, più che dei comportamenti da evitare»23. Più che la condizione escludente, quella del peccatore/degenerato rappresenta già la condizione dell’escluso, di colui che si è distaccato dalla comunità24 e, quindi, dell’ altro, del «nemico» diremmo, usando una terminologia schmittiana, che rappresenta un pericolo per la comunità stessa non riconoscendone lo stesso fondamento superiore; in questa chiave, dunque, vanno lette affermazioni del genere: «Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde.25» Certo non è esclusa la possibilità di essere reintegrato all’ interno della collettività qualora si accetti la cura offerta da quest’ultima. 

Sovente, poi, caduti nelle malattie a motivo di castigo, siamo condannati a sopportare un’aspra e pesante cura onde sfuggire alle sofferenze della malattia. In tal caso il raziocinio ci persuade a non ripudiare né le amputazioni né le cauterizzazioni né l’asprezza dei rimedi amari e molesti né i digiuni né l’osservanza d’una dieta o di un particolare tipo che ne deriva per l’anima: colui il quale avrà fatto tesoro di quest’esempio, infatti, imparerà ad imitarlo nella cura di se stesso26. 

Ma non solo, perché essendo il peccato, così come la degenerazione, caratterizzato da questa forte dimensione sociale, la comunità non può subire «passivamente che il penitente si reintegri in essa», ma deve concedere «attivamente la sua appartenenza, attraverso l’atto del potere pubblico esercitato dal capo della comunità»27; se ciò non avviene per un libero atto della collettività allora la cura necessaria sarà la morte dell’individuo; rivelando, ancora una volta, la natura politica delle prescrizioni riguardanti la vita dell’uomo. 

La guarigione non garantisce dalla morte, ma libera dalla disperazione di essere-per-la-mor-te. [ … ] Guarire è cominciare a diventare capaci di assumere, condividere e sviluppare le concrete possibilità della condizione umana, anticipando la pienezza di umanità alla quale siamo chiamati in Cristo e ciò non solo sul piano personale, ma anche su quello socio-politico28. 

Infatti, l’uomo è guarito nel momento in cui si reintegra armonicamente col cosmo per il quale è stato creato, facendo fruttare a pieno proprio questa condizione esistenziale di «aderenza» alla realtà superiore, sia essa lo Stato o Dio; sottolineando, inoltre, che «nella visione cristiana della vita, la guarigione è emergere di armonia, solidarietà, trascendenza, e processo nel quale fluiscono iniziativa di Dio, risposta dell’uomo, solidarietà umana e inserimento nel mondo»29. 

Ma le somiglianze fra la concezione del peccato e quella della malattia non si fermano alla loro presunta «disfunzionalità» nei confronti della totalità, ma trovano la loro radice anche nelle categorie dell’ereditarietà e della trasmissione, nonché nella possibilità di propagarsi indefinitamente così come la sindrome degenerativa della razza avvertita come pericolo costante dallo Stato. È il motivo che ha portato Paolo di Tarso ad affermare che «come per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel cosmo e a causa del peccato la morte, e così la morte ha attraversato tutti gli uomini, per il fatto che tutti hanno peccato»30. Sappiamo esattamente che su queste due categorie si fondava tutto il pensiero medico-biologico novecentesco che fu responsabile di catalogare ed identificare le «vite indegne di vita». 

La piaga ereditaria del peccato forma e informa la vita prima ancora del suo farsi, tant’è che il bambino nasce peccatore a causa del peccato originale che si trasmette appunto per via ereditaria nell’atto del concepimento, ed è proprio in virtù di ciò che sia la Chiesa che lo Stato focalizzarono l’attenzione sul momento riproduttivo inserendolo nel contesto comunitario e ponendolo fuori dalla sfera privata. 

È a partire dalla biologia politica e dal concetto di salvezza, divenuta «sanità», che si definisce, allora, la «degenerazione/peccato» rivelandone così la sua realtà. È a questo che deve ovviare la comunità col potere terapeutico che gli è stato donato proprio per il suo essere in comunione con Dio – o con la Natura, come nel caso dello Stato moderno. 

Ma vi sono altre azioni per le quali le molteplici e numerose malattie dell’anima vengono sanate in modo eccelso, e quasi ineffabile: e se questa arte medica non fosse stata mandata da Dio ai popoli, non vi sarebbe nessuna speranza di salvezza per l’uomo, che tanto smodatamente avanza nel peccato; anche se considerando più profondamente le origini delle cose, ci si accorgerà che anche l’arte medica rivolta al corpo giunge agli uomini come dono di Dio, a cui dobbiamo attribuire la salvezza di tutte le cose e lo stato in cui si trovano31. 

Tutto questo è possibile attuando uno slittamento semantico da un mondo governato da Dio ad un mondo dove la forza primaria è la Natura, all’interno della quale il ruolo di «testa» (vedi le innumerevoli citazioni riguardo all’uomo come testa della natura in ambito cattolico) è svolto da un’élite che s’identifica con lo Stato che porta, con la morte dei degenerati – che sono tutti quelli che non «obbediscono» al canone biologico desiderato -, alla vita di quell’élite che così può sopravvivere incontaminata (e quindi liberata dalla possibilità della morte come depauperamento fisico, mentale e morale e, di conseguenza, del suo ruolo di guida) e far risplendere la razza che si fa attraverso il suo mantenersi «sana». In altre parole, lo Stato che si muove seguendo le leggi naturali si trova imbrigliato – o sarebbe meglio dire che all’interno di questa logica si trova «protetto» – nel determinismo naturale, che diviene così pianificazione dello sviluppo evolutivo, che non può avere altra direzione che quella di un progresso migliorativo. 

Per concludere, possiamo ora affermare che i dispositivi eugenetici di funzionamento degli Stati moderni (ricordiamo in particolare quello nazista) la normativizzazione assoluta della vita e la doppia chiusura del corpo32, altro non sono che gli stessi presupposti su cui poggia la teologia cattolica riguardo all’uomo come composto inscindibile di anima e corpo, con l’unica differenza sostanziale posta in essere dal terzo dispositivo’ quello cioè della soppressione anticipata della nascita, che è l’esatto rovesciamento in negativo del principio cattolico della difesa aprioristica della vita. Di una vita fatta coincidere con la nascita, ma anticipata al momento del concepimento a partire dal 1902, proprio in risposta all’introduzione di tecniche, quali l’aborto terapeutico o la possibilità del parto prematuro, che sottraevano l’ambito della nascita alla sfera della vita consacrata a Dio per consegnarla nelle mani della medicina33. 

Ponendo come discrimine all’appartenenza al corpo sociale l’aderenza a modelli, fisici e comportamentali, stabiliti a priori da coloro ai quali è stato assegnato il ruolo di guida della società al fine di garantire la funzionalità del sistema, diviene un passaggio carico di effetti sulla vita del singolo quello della «cura», che in ambito cattolico pare condensarsi attorno alla cura e alla salvezza dell’anima, mentre in ambito statale si concentra più sulla cura dei corpi, ma che, mutatis mutandis, si indirizza in ambedue i casi ad una presa in carico da parte del potere della vita, privata della sua variabilità. Questo dispositivo, ad un’analisi più attenta, svela la sua natura politica di meccanismo di funzionalità e autoconservazione del sistema, senza il quale non solo non c’è salvezza, ma cadrebbero anche i presupposti di una vita comunitaria: «La salvezza per essere integrale e plenaria deve concernere tutto l’uomo considerato come unità di corpo-anima e ciò sia come individuo, sia come gruppo e società»34. 

Claudia Gaeta

NOTE 

1 «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti» (C. Schmitt, Le categorie del ‘politico‘, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 61). 
2 Z. Alsezeghy, Confessione dei peccati, in G. Bargaglio – S. Dianich (a cura di), Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), p. 176. 
3 J G. Landra, Difendiamo nella maternità le qualità della razza, in «Difesa della razza”, II, n. 4 (20 dicembre 1938), pp. 6-8. 
4 Sottolineiamo per inciso che la salvezza è un archetipo culturale, in altre parole è un’idea in-nata che viene trasmessa all’individuo in virtù della sua appartenenza ad una collettività. È in questo senso che vogliamo indagare l’archetipo della salvezza nelle sue due più grandi rappresentazioni storiche, il cattolicesimo e i totalitarismi novecenteschi, o meglio, lo Stato moderno. 
5 Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1967, p. 201. 
6 D. Mongillo, Esistenza cristiana, in Dizionario di teologia, cit., p.438. L’autore afferma più avanti anche che: «L’uomo chiamato alla salvezza è quello stesso che vive nella storia e pertanto non può né esimersi dal convivere con gli altri, né pensare che tutte le vie di impegno siano autentica liberazione» (ivi). 
7 Paolo di Tarso, Lettera agli Efesini, 4:24; cfr. anche Colossesi 3: l0. 
8 «Il bello sussistente (cioè Dio) si chiama bellezza, a causa di questa bellezza ch’esso comunica a tutte le cose, ciascuna secondo la sua misura» (Pseudo-Dionigi Areopagita, “I nomi divini”, 4, 7.10 in Dizionario di teologia, cit., p. 105.) 
9 Pseudo-Dionigi Areopagita, “I nomi divini”, 4, 7.10 in Dizionario di teologia, cit., p. 106. 
10 Ivi. Notiamo qui per inciso che questa identificazione fra bontà e bellezza è l’equazione che sta alla base degli studi di Lombroso. 
11 Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi, 6, 13-20. 
12 Leone Magno, “Sermoni”, 81 in Dizionario di teologia, cit., p. 226. 
13 Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 11. 7. 
14 F. Galton, Inquiries into Human Faculty, Mc Millian & co., London, 1892, p. 17. 
15 Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 11. 12. 
16 Id., 12.13. 
17 Clemente Alessandrino, Stròmata, 7, 2, in AA.VV., La teologia dei Padri. Dio-Creazione-Uomo-Peccato, Città Nuova, Roma, 1981, p. 118. 
18 Z. Alsezeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., p. 176. 
19 «Spesso, invece, le malattie sono punizioni dei peccati, mandateci per convertirci» (Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, 5, in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 277.) Ma anche: «Dio poi suscita la malattia in coloro per i quali è più utile avere le membra impedite piuttosto che agili e pronte nel muoversi verso il peccato» (Basilio il Grande, Omelia «Dio non è l’autore del male», 2-3,5 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 342.) 
20 Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, l in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 276. 
21 «In quanto realtà umana, il peccato è da intendersi come realtà morale: è un atto morale negativo dell’uomo; in quanto da una parte il valore morale, la legge e la norma sono perfezioni inerenti alla dignità della persona umana, anzi sono la stessa dignità della persona umana definita in sé e nelle sue componenti, e dall’ altra l’agire umano è la libera attuazione di questa dignità in modo corrispondente o non corrispondente ad essa, il peccato inteso moralmente si riduce ad essere la non-corrispondenza tra la dignità umana (valore, legge, norma) e la sua libera attuazione, ad essere cioè una disarmonia della compagine umana, una diminuzione dell’uomo nella sua dignità, che ne diviene il criterio, l’origine, il contenuto negativo, e messa in atto precisamente della peculiarità caratteristica, che è il costitutivo supremo di quella dignità personale come valore, legge e norma, e che è appunto la libertà umana: il peccato è allora la contrapposizione che è immanente alla libertà umana costituente la dignità della persona umana, e che dispone, cioè pone liberamente, della sua dignità in senso contrario ad essa» (A. Molinaro, “Peccato”, in in Dizionario di teologia, cit., p. 2031). 
22 D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, Einaudi, Torino, 1971 , pp. XI-XII. 
23 Ibidem , p. XII. 
24 «La chiesa […] come comunità vivificata dallo Spirito santo. Il peccato è un distaccarsi interno di questa comunità» (Z. Alszeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., p. 179). 
25 Luca, 11 ,23 . 
26 Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, 4 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 277. 
27 Z. Alszeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., pp. 179-80. 
28 D. Mongillo, “Esistenza cristiana”, in Dizionario di teologia, cit., p. 431 . 
29 Idem , p. 433. 
30 Paolo, Lettera ai Romani, 5, 12. 
31 Agostino, I costumi della Chiesa cattolica, 1,55.56 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 267 . 
32 Cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004, p. XVI. 
33 Cfr. E. Betta, Le forme del decidere: norme cattoliche per l’ostetricia abortiva, in A. Menzione (a cura di), Specchio della popolazione. La percezione dei falli e problemi demografici nel passato, Forum, Udine, 2003, pp. 105-119. 
34 C. Vagaggini, “Storia della salvezza”, in Dizionario di teologia, cit., p. 1574.

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 3-10.

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