Ai giovani studenti di Sicilia

Cari giovani amici, 
è iniziato un nuovo anno scolastico e molti di voi che ho conosciuto nel febbraio scorso avranno completato i loro studi e altri hanno iniziato il primo anno di frequenza, o sono passati alle classi successive partecipando allo scorrere naturale della vicenda scolastica che vi prepara a quello più vorticoso e imprevedibile che è la realtà della vita. 

Dopo essere stato con voi, nella vostra Scuola, dopo avervi conosciuti mi ero ripromesso di scrivervi, per dirvi, parteciparvi le sensazioni, i sentimenti, le riflessioni che quell’incontro aveva suscitato in me. 

Volevo dirvi che nel mio intimo è successo qualcosa, qualcosa di bello, di esaltante che mi ha ridato fiducia, una rinnovata carica, ma soprattutto speranza. 

Mancavo dalla Sicilia da qualche anno, ne mancavo fisicamente ma vivevo con immutata intensità, con accorato struggimento il mio essere siciliano. 

Andavo segnando sul mio quaderno ogni pensiero, componevo versi dedicati all’Isola, ai ricordi, facevo riflessioni su un presente deludente mentre sognavo un futuro diverso, senza però trovare agganci, motivazioni reali, possibili: riconoscevo lo stato d’animo di un innamorato tradito. 

Poi, dovendo tornare alla mia terra per una visita breve, quasi ufficiale, per accogliere da amici un riconoscimento, ho voluto compiere un gesto che mi urgeva nel cuore e nella mente: un incontro con i giovani per una presa di coscienza nuova, immediata, diretta della realtà che essi, in prima persona, rappresentano. 

Ed ora sono qui a scrivervi per ringraziarvi. Ringraziarvi per come mi avete accolto, poiché sento ancora il vostro canto e le parole che lo componevano; ringraziarvi per i vostri sorrisi che erano simpatia, e, perché no, anche per i baci che ci siamo scambiati; ringraziarvi ancora per quello che siete oggi e sarete domani! 

Non è retorica la mia, e non voglio neanche rivedere lo stile e la qualità di questa lettera per lasciare intatta !’immediatezza e la naturalezza di quanto vado pensando e scrivendo. E con la stessa immediatezza voglio dirvi che siete migliori di noi adulti, perché siete più spontanei, più attenti, e più preoccupati per il vostro futuro, quel futuro che noi adulti, invischiati, condizionati e forse responsabili di una situazione sociale lacerata, confusa, non riusciamo a vedere con chiarezza o non vogliamo vedere. 

E allora? Un’esortazione: voi siete ancora dentro la scuola, avete i vostri programmi di studio, avete accanto i vostri docenti che lavorano per voi e vi vogliono bene. Fate tesoro di questa occasione per crescere bene culturalmente, civilmente, moralmente. Pretendete ogni attenzione, perché ne avete diritto, perché rappresentate il vostro futuro, e la “Città” fra qualche anno dovrà essere vostra. 

Nell’introdurre questa mia lettera ho accennato al mio bisogno di recuperare ricordi e sentimenti, e a come vivo, con immutata intensità, il mio essere siciliano. Allora consentitemi di intrattenervi ancora su questo tema che riguarda da vicino il nostro sentire, il nostro “essere” presenti nella nostra Isola. 

Tempo fa scrivendo dei versi, mia attività preferita, composi una lirica che intitolai così: “Tomo all’Isola circondata d’ignoto”. Poi subito mi chiesi perché, io siciliano, pensando e desiderando la mia terra, la accostavo così istintivamente al mistero, all’ignoto? Anzi, nell’ignoto la vedevo racchiusa? 

La poesia, si sa, è un modo tutto particolare di espressione, ma è anche la più genuina, la più istintiva manifestazione del pensiero, dei sentimenti, del modo di interpretare, di vedere le cose, forse al di là della ragione stessa. 

E per questo volevo capire questo riferimento all’ignoto. Forse le origini antiche, i miti, le leggende? La presenza dei templi, di vestigia di una civiltà scomparsa, sparsi lungo la costa e sui monti? Il richiamo a un necessario rimescolamento tra gli uomini e gli Dei? Oppure era un richiamo a quel senso di oscuro dominio di forze incomprensibili e non domabili che ogni siciliano si porta dentro da sempre e comunque, e che sente immanente, essenziale, ma anche nemico? 

Ho cercato sempre di capire questa condizione, o meglio contraddizione, per trovare una chiave di lettura della Sicilia e del nostro essere siciliani oggi. 

In questo riferimento alla Sicilia, nel bene e nel male, ma più spesso nel male, ci si chiede: perché? 

Certo, sarebbe facile e forse semplice richiamarsi alle condizioni sociali, politiche, economiche, sia vecchie che nuove (e quelle nuove sono ancora cronaca), trarre delle conclusioni che poi si riducono abusate, comode dichiarazioni di conoscenza, comprensione, alla individuazione di priorità necessarie, di recuperi morali, civili, da attirare. Giusto, come le medicine prescritte su una ricetta da un medico “interessato” e frettoloso. 

Ma sappiamo che il malato non guarisce (forse non si sente ammalato), o non vuole guarire, prigioniero, com’é, della sua nobiltà o della sua miseria. 

Credo che noi siciliani siamo quasi tutti degli ammalati inconsapevoli, o meglio, dei portatori sani di virus. Ma quali? Questo è il punto! 

Dovremmo scavare nel nostro humus, nella nostra storia remota e recente, gettare uno sguardo largo sulla nostra terra, quella che ancora è rimasta intatta, dove d’estate, nelle campagne riarse, il riverbero delle stoppie brucia gli occhi e dove, sui campi scoscesi, si ergono ancora le bianche pietraie, che sono i calcificati sacrari della fatica umana, nella dura scoperta di una terra avara. 

Dovremmo, con sequenze veloci, come lo è stato per molta parte d’Italia, recuperare le immagini del passaggio da un’economia agricola, da una civiltà contadina, a quella industriale prima e postindustriale subito dopo, e cogliere l’animo dei siciliani spettatori attenti, ora da emigranti, ora da utile mercato altrui, per capire, se non accettare, un atteggiamento endemico sul quale, come cellule cancerogene, si sono insediate manifestazioni devianti, violente, assassine, che provocano reazioni a catena che assumono connotati assordanti, assurdi, offensivi. 

Ma voglio pensare ai siciliani, capaci, nei momenti magici della febbre dell’intelligenza, di creare letteratura, arte, scienza, di dare spettacolo di grande nobiltà e capacità. 

Voglio pensare – e i ricordi, come uccelli migratori, tornano sempre all’origine – e dire, con la memoria divenuta parte essenziale della vita di chi, da oltre trenta anni, vive fuori dall’Isola, lo struggimento di tante notti accarezzate dagli accordi di chitarra, dai canti lenti di uomini che nell’abbraccio del buio perdevano la potenza preda dei soli sentimenti, e divenivano fantasmi buoni a rincorrere sogni, i soli capaci di spezzare catene tollerate. 

I suoni, allora, erano lamenti, e i lamenti canti di uomini che vivevano senza 

tempo ad aspettare qualcosa; uomini abituati a respirare la vita goccia a goccia, a spartire l’amore con l’odio, che era amore dei sensi oppressi. 

Sono ricordi a trama fitta, intensamente colorati, arabescati: le cose che vi cadono dentro ora con dolcezza, ora con violenza, non sfuggono più e rivelano mille segreti rapporti, percorrono sentieri imprevedibili che sono quelli del gelsomino, dei fichi d’india o dei fiori lilla dei capperi, e che tutti portano alle case antiche, lungo i pendii dei monti. 

Comprendo bene che anche stavolta mi sono lasciato andare mescolando sogni, fantasia, realtà e, infine, poesia, la poesia dell’incontro con voi, con la vostra giovinezza che mi fa dire grazie ancora, per il vostro sorriso che è, di per sé, sogno, fiducia e augurio per tutti voi. 

Un caro e tenero abbraccio 

Romano Cammarata


* La relazione del direttore Cammarata ha subito una lieve aggiunta e modifica nella parte introduttiva; per il resto viene rispettata integralmente. Abbiamo preferito questa relazione perché aiuta meglio a conoscere il mondo umano e poetico dell’Autore.

 

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 13-16.