Domenico Cara, Bajlcàl, Milano, Editrice grafiche abidue, p. 1324

 Non posso evitare di dire che ho letto Bajlcàl, l’ultimo libro di poesie di Domenico Cara, che fra l’altro è una penna che non scrive solo poesia e di poesia, in compagnia delle indicazioni di percorso che lo stesso autore ha dato con una sua nota a fine testo e di quelle dell’introduzione di Mario Lunetta, che, a sua volta, cita, la figura del “poetaforista” di Stefano Lanuzza. 

Bajlcàl è una raccolta di poesie che si suddivide in quattro parti: Arpa omofona, Charme assoluto (monoloquio sull’altrove), Flotiglia dell’orsa e Camera delle similitudini. 

Non azzardo nessuna cucitura tra questi quattro sottoinsiemi e l’insieme della raccolta. 

Dico solo che parole-luoghi come “interrogazioni, tempo, ironia, metafisica, logos, contingenza, caduta, altrove, lineamenti di realtà, aliquota del quotidiano, piazza, trascendenza, il punto dell’effimero, caso, caos, aleatorio, ecc. , erano quelle/i che mi prendevano con più insistenza e che più di ogni altra rete di connessione si ponevano come centro di gravitazione orbitale nel tentativo di un mio rapporto più ravvicinato col detto e il non detto della poesia di Cara. 

Non saprei spiegare perfettamente perché, ma sicuramente cercavo un filo, una trama, delle tracce, dei frammenti, anche aforismatici, a me familiari e da utilizzare come tali per “colloquiare”, si fa per dire, con il testo del poeta nel suo flusso di “accumulo barocco”, interrotto dalla necessaria discontinuità della scrittura e della scrittura poetica in particolare che si concretizza nella polimorfia del verso. 

Mi sono venuti in aiuto due versi di Maurice Blanchot – “Parlava, andando di parola in parola / per consumare la sua presenza” – che Cara ha utilizzato a fronte come segno d’incipit per la poesia Le trascendenze, l’attesa, l’oblio (p. 101). 

Domenico Cara, infatti, consumando le presenze sotterranee del «lago> , di Bajakàl nella consistenza della scrittura che si erode nella coesistenza oscillante tra profondità e limpidezza di pensiero e di sintassi, pone la sua poesia in un rapporto permanente di interrogazione col tempo. Un tempo che sosta divenendo in un ininterrotto seguirsi, senza principio e senza fine, di presenza e di assenza, dove la consumazione è una cancellazione senza la conservazione della memoria: il gioco dell’acqua del mare, ma anche del «lago>, quando il vento innesca il moto delle onde. 

“. . . la parole indicibile” così dice e non dice, e le “. . .cicali invisibili” consumando la loro invisibilità nella corporeità del canto cancellano il loro suono nei segni che vengono tradotti in scrittura, in un “ritorno” che Nietzsche chiama “eterno”. 

La citazione è un altro “luogo” dove Cara e Blanchot mi hanno portato, ma non chiedetemene una ragione logocentrica. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 82-83.

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