Il mondo del Principe (a cura di G. Scaraffia), Palermo, 1995. 

Il mondo del Principe, a cura di Giuseppe Scaraffia, è un bellissimo titolo. Il libro viene pubblicato da Sellerio editore di Palermo in occasione di una mostra organizzata anche dalla fondazione culturale Lauro Chiazzese presieduta da Francesco Pillitteri. 

Il mondo del Principe è un volume dedicato al “famoso” Gattopardo e allo scrittore-personaggio Giuseppe Tomasi di Lampedusa. L’operazione è condotta intervistando amici e studiosi che, in qualche modo, hanno avuto contatti diretti o indiretti con il Giuseppe Tomasi. Dalla provocante miscellanea nasce un impasto di verità e menzogne. Ci sono i peccati, le invidie di casta, le manie borghesi, le feroci persecuzioni, il piacere del ricordo, le magnifiche ambiguità e il siciliano direenondire. Agli intervistati non mancano le cosidette “affinità elettive” ma ogni cosa è ricondotta in un dolce sentiero profumato dove tutto diventa “misericordioso”. 

Nel volume c’è anche il Luchino Visconti e il suo film. Andrea Vitello che ha scritto il volume più documentato, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, (edito da Sellerio nel 1987), non è presente. 

La mostra di Ettore Viola presentata con classe da Giuseppe Scaraffia e il libro Il mondo del Principe meritano una segnalazione e un commento. 

Giuseppe Tomasi di Lampedusa è lo scrittore italiano più significativo per la cultura della tradizione. Nel luglio 1957 morì a Roma in una clinica a sessantasei anni. Pochi amici se ne accorsero. Venne seppellito a Palermo in una estate odorosa di zagare e di mare. 

Il Gattopardo era ancora da pubblicare e le grandi case editrici avevano respinto il manoscritto. Vittorini in testa. Come faranno per Guido Morselli o per Salvatore Satta. 

Pochi discepoli in Sicilia lo ricordavano. Aveva vissuto appartato. Un solo atto “eroico”. Aveva lasciato a vent’anni il suo caffé di Palermo ed era andato volontario nella prima guerra mondiale. InteIVentista. Poi fino al 1925 ufficiale effettivo dell’esercito italiano. 

Giuseppe Tomasi nel Gattopardo racconta di un suo bisnonno ma impasta tutto. Ci sono i suoi pensieri e il destino già segnato per morire. Allora. Il principe Don Fabrizio Salina era nel suo osservatorio. Pensava al peccato e alla morte con Don Pirrone. L’avventura della vita era nelle stelle che come i pensieri di verità dominano la terra e rendono cronaca la storia e orizzontale ogni speranza. 

Ma chi è questo principe che non cerca il tempo perduto? Il personaggio nella vita si chiama Giulio Fabrizio Maria Tomasi, ottavo principe di Lampedusa, nato a Palermo nel 1815 e morto a Firenze nel 1885. 

Gli avvenimenti si svolgono con meticolosa cronologia. L’udienza reale con Ferdinando di Borbone, lo sbarco dei Mille, il formarsi di nuove istituzioni amministrative con il giungere dello Stato burocratico piemontese, il presentarsi della nuova classe dirigente, l’Aspromonte, e, infine, la decadenza di quella “nobiltà” che non aveva accettato patteggiamenti e compromessi. E questi fatti destano nell’animo del Principe reazioni svogliate, sentimenti contrastanti, impassibilità politiche, giudizi ironici, meditazioni amare, riflessioni politico-religiose. 

Macerato da queste riflessioni, il Principe resta fuori dalla cronaca. Giudica ma non partecipa, come un solitario gigante che, in cima al suo castello, vede l’andare 

affannoso delle carovane degli zingari. «I conti dell’uomo con la storia non tornano mai». Don Fabrizio è troppo principe, troppo aristocratico. troppo astronomo scrutatore dei cieli. per piegarsi alle cose di terra e scomporsi per la piccola avventura di Garibaldi («Eroe giacente sotto un castagno del mondo calabrese») o per quello che si «va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome» (e l’ironia qui per Carlo Marx è staffilante). 

Don Fabrizio in una rassegnata fatalità chiude la storia nella luce prismatica della pigrizia, della nobiltà e del richiamo alla tradizione. 

La tradizione è la guida sicura che permette di distinguere i compromessi dalle novità. il piccolo gioco del conformismo dalle verità, l’apparenza di un potere dalle esigenze della vita. 

Il Principe vive da spettatore. Non ha bisogno di fischiare o di applaudire una storia che non è reale (e sconfina nell’episodico). 

Vive nel suo castello di Donnafugata, nelle sue sale di Palermo, sulla torretta del suo piccolo laboratorio astronomico, divertito, ironico, amareggiato, attonito, scettico per le faccende umane. E, quando è costretto ad occuparsi delle cose del mondo, lo fa con disprezzo e con la tristezza nel cuore. Ma senza avvilirsi mai. Il suo mondo possiede le verità raccolte dalla siderea e infuocata natura e dalla morte dolcissima e trasparente creatura da sempre temuta. 

Sono due spazi spirituali (la natura e la morte) che permettono al Principe di considerare scetticamente l’affannoso affaccendarsi, di sorridere per le ambizioni di Don Calogero o per la pietà tutta siciliana di Padre Pirrone, di riflettere amaramente sulla storia della sua Sicilia, sulla miseria, sull’orgoglio, sulla sessualità, sulla fedeltà. Malgrado Garibaldi o Vittorio Emanuele, esisterà sempre la giovinetta evocata, nel suo letto di morte, con «l’aspetto ridente, l’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate nella strada». 

La natura e la morte occupano l’animo del Principe. La natura, infatti, è intesa come metafisica cosmologica, animata da un archè spirituale e trascendente che movimenta il suo rappresentarsi fenomenico. Accompagna il Principe nella infinità della bellezza siderea e nel silenzio dell’apocalittico sole della Sicilia. Abituato a ironizzare, superbo, non sorride più e si china umile dinanzi alle rose Paul Nejron che «aveva egli stesso acquistato a Parigi» e che erano degenerate a causa del clima e della terra «in una sorta di cavoli color carne, osceni». Prega raccolto e commosso dinanzi alle stelle «felicemente incomprensibili, incapaci di produrre angoscia» e si china umilmente osservando nel cielo «Venere, chicco d’uva sbocciato, trasparente e umido». 

La morte, d’altro canto (la «giovane signora: snella con un vestito marrone da viaggio ad ampia toumure, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliziosa avvenenza del volto»), è inseguita dal Principe con il desiderio dell’innamorato. È una creatura che entra, come un male affettuoso, nel sangue e alla fine si presenta incantevole in una stanza di albergo di Palermo. 

Quando la signora giunge, un sogno si avvera già previsto nelle sale da ballo della casa Pallavicino. È un sogno fastoso che non ha paura perché limpidamente definito nella immagine dei granelli che «si affollano e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia». 

La morte è dentro la vita, e, forse, per il Principe, è più della vita. Rappresenta, finalmente, la completa liberazione nel «silenzio assoluto» È l’affacciarsi su una finestra aperta nei secoli per ammirare la infinita magia di luce e amore senza rimpianti. Come un «naufragio alla deriva su una zattera, in preda ci correnti indomabili», amaramente tentato di «raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici». 

E allora chi è questo Principe? Che cosa resta di Tomasi di Lampedusa? E di questo Principe che appartiene «a una generazione disgraziata, a cavallo tra i vecchi tempi e i nuovi e che si trova a disagio in tutti e due»? 

Resta l’ostinazione perseguita per tutta la vita nell’evocare ombre generose e avventurose di cavalieri e di poeti, di duchesse e di marchesi, nella tristezza consapevole che si tratta solo di illusione. E anche il gigante, «appassionato fino alla violenza» di altri tempi, quando si poteva vivere felicemente sognando la dolce morte e l’incantevole stellata, mentre intorno i garibaldini sbarcavano a Marsala. 

Aldilà di ogni retorica il neorealismo imperante e sostenuto dalla cultura egemone del tempo venne sconfitto dal Principe con il suo Gattopardo. L’arte resta e la cultura muore e finisce. Ed è giusto che sia così. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 27-30.