La radice psico-sociale della responsabilità in B. Croce 

 Parlare di radice psico-sociale della responsabilità in Benedetto Croce, potrebbe far pensare a qualcosa che contrasti frontalmente con il suo noto antipsicologismo. In realtà non è così se si tiene bene presente l’esatto significato dell’antipsicologismo emergente nel pensiero crociano. Al riguardo sembra particolarmente illuminante quanto lo stesso Croce ha modo di puntualizzare in Filosofra della pratica: «Nel rifiutare ripetute volte… il metodo psicologico, siamo stati bene attenti ad aggiungere le frasi di cautela: “metodo filosofico-psicologico”, “metodo speculativo-descrittivo” e simili, perché si avvertisse che la nostra ostilità era contro quel miscuglio, ossia contro l’intrusione di quel metodo nella filosofia, ma non contro la Psicologia stessa»l . 

Come si può agevolmente rilevare, la polemica del Croce non è contro il “metodo psicologico” o la psicologia senz’altro, ma contro la confusione che a volte si tende a fare tra psicologia e filosofia o, per usare la stessa espressione del Croce, contro il loro indebito “miscuglio” emergente ogni volta che si giudica possibile un «passaggio dall’empiria (nel caso la psicologia) alla filosofia»2 , quasi che l'”empiria” possa essere «affinata…a filosofia»3. 

Per quanto si voglia “affinare” la psicologia (giusto per stare a ciò che qui particolarmente ci interessa), questa non potrà mai tramutarsi in filosofia, per il semplice motivo che appare finalizzata ad un obiettivo specificatamente diverso da quello della filosofia: ha per scopo infatti, secondo il Croce, «di ordinare e classificare in qualche modo le infinite intuizioni e percezioni…e di ridurle a schemi pel più facile possesso e maneggio»4, non di risalire alla loro intrinseca ultima scaturtgine, e quindi «di investigare i principio»5. La filosofia, invece, si propone proprio quest’ultima cosa6 : ha, infatti, per oggetto lo stesso Spirito universale concreto, inteso come principio immanente del reale, “omnirappresentativo” e “ultrarappresentativo”7 insieme, «autocoscienza che genera e regge la conoscenza»8, ossia come ciò che, una volta intravisto nella sua intrinseca vitalità, consente di intendere il reale storico concreto come progressiva 

attuazione di questa sua vitalità, e più segnatamente delle categorie (=estetica-logica-economia-etica) che ne scandiscono le varie direzioni. 

Insomma, si potrebbe dire sinteticamente che, mentre la filosofia abborda il reale alla sorgente (e cioè lo indaga a partire dalla sua intrinseca scaturigine), la psicologia (come ogni altra scienza empirica) lo abborda alla foce (limitandosi a “ordinare e classificare” quanto da quella sorgente emana), conseguentemente con finalità teoretiche (la filosofia) e pratiche (la psicologia). Si tratta, pertanto di due discipline ugualmente giustificate, distinte però per natura e, in quanto tali, irriducibili l’una all’altra. 

Questa distinzione, tuttavia, non significa, né può significare l’esclusione di reciproci e complimentari influssi tra le due discipline: esse, infatti, se da una parte appaiono distinte e inconfondibili tra loro, dall’altra non possono non rivelarsi strettamente connesse nella circolarità dello spirito di cui esprimono due diverse e ineliminabili esigenze vitali. 

L’analisi crociana della responsabilità rappresenta un significativo e concreto esempio di questa distinzione e, insieme, complementarietà tra filosofia e psicologia: si tratta, nel caso di un’analisi in sé tipicamente psicosociologica, subordinata, però, a un “tutto” altrettanto genuinamente filosofico. 

Ciò precisato, possiamo tentare di puntualizzare brevemente l’atteggiamento crociano sul problema della responsabilità. In Etica e politica il Croce, nell’intento di chiarirci il suo pensiero al riguardo, dopo avere accennato alle discussioni circa la libertà di arbitrio da parte dei deterministi e dei difensori di tale libertà, sottolinea l’inutilità di una simile polemica in quanto verterebbe circa un problema mal posto e come tale inesistente. L’errore qui, secondo il Croce, sta nel contrapporre come inconciliabili tra loro libertà e necessità, con l’ovvia conseguenza di negare o la libertà (è il caso dei deterministi) o la necessità (è il caso dei difensori del libero arbitrio): elementi ugualmente caratterizzanti dell’atto volitivo in sé considerato. 

Libertà e necessità – precisa il Croce – non sono due elementi contrapposti, inconciliabili tra loro, ma al contrario sono a tal punto collegati che, se esaminiamo a fondo la cosa, dobbiamo concludere con l’identificarli. La libertà coincide con la necessità, e consiste nell’agire conforme a quello che si è momento per momento. «Azione libera – così il Croce – è quella che il nostro spirito crea perché non potrebbe crearne altra, l’azione pienamente conforme all’essere nostro nella situazione determinata»9. Ciò «è comprovato – soggiunge – dalla forma perfetta del conoscere, il conoscere storico, nel quale le azioni sono spiegate, qualificate e intese, ma non lodate o condannate, e non vengono riportate agli individui come a loro autori ma al corso storico, del quale sono aspetti»10, cioè queste azioni «non vengono lodate o condannate» appunto perché, in ultima analisi, esse trovano la loro scaturigine in qualcosa che è al di sopra dei loro autori, e cioè precisamente in uno stato di necessità a cui questi ubbidiscono. 

Del resto la «stessa cosa – sottolinea ulteriormente il Croce – traluce nella tante volte notata molestia dei grandi, consapevoli di essere stati strumenti di qualcosa che li supera»11 e addirittura «nella candidezza di certi scellerati, che affermano che hanno dovuto fare quello che hanno fatto e non potevano non fare, ubbidendo a una necessità»12. 

Ma se la libertà coincide con la necessità, come si può parlare di responsabilità? «La risposta – dice Croce – è semplicissima: non si è responsabili, e chi ci fa responsabili è la società, che impone certi tipi di azione e dice all’individuo: Se tu vi ti conformi, avrai premio: se vi ti ribelli, avrai castigo; e, poiché tu sai quello che fai e intendi quel che io ti chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai»13. 

 

Una situazione analoga si verifica nel nostro intimo «quando poniamo un ideale o un fine» da aggiungere, e cioè quando agiamo non in rapporto a ciò che siamo momento per momento, ma a ciò che ci proponiamo di diventare: «in quell’atto stesso, ci facciamo responsabili di non adempierlo o di non averlo adempiuto» 14. Da qui il rimorso che consiste nel prendere coscienza dello stacco tra ciò che abbiamo fatto e ciò che avremmo dovuto fare in base all’ideale propostoci. Se però «dall’atteggiamento pratico, dallo sforzo di volontà intento a creare il mondo», e cioè a realizzare un cambiamento in noi e nelle cose (e quindi un “fine”, un “ideale” che ci poniamo) ci fermiamo «al puro atteggiamento teoretico»l5, ossia a ciò che siamo momento per momento, ci renderemo conto dell’irragionevolezza del rimorso su tale piano, in quanto il nostro agire, di cui «ci addoloriamo», non poteva non essere quello che è stato. Esso, infatti, corrisponde a ciò che eravamo in quel momento: «quel che abbiamo fatto – precisa appunto il Croce – rappresenta l’essere nostro»l6. 

Di responsabilità, pertanto, non si può parlare in rapporto all’atto volitivo in sé, ma solo al dovere essere: in altre parole – come il Croce spiega ulteriormente – la responsabilità «è un momento della dialettica del fare»17, cioè nasce per “fini pratici”, perché ci sia responsabilità in concreto si richiede che l’individuo «abbia la capacità di intendere quel che ha fatto e quel che da lui si chiede e si pretende»18, perché solo se «è in grado di comprendere e ragionare, ha in sé la condizione per un cangiamento volitivo»19. 

In termini alquanto diversi, si potrebbe dire che noi non siamo responsabili in rapporto al volere in sé, perché questo, considerato nella sua intrinsecità, si presenta come coincidenza di libertà-necessità e perciò come creatività, sottratta, in quanto tale, ad ogni deliberazione (proprio come analogamente avviene per l’espressione estetica in rapporto al sentimento su cui nasce20. Siamo. però, responsabili in rapporto a quella che è la base di questo nostro volere (e cioè il nostro essere concreto), in quanto è nelle nostre possibilità modificarla, incanalandola in una direzione consona all'”ideale”, al “fine” che ci viene imposto dalla società o anche da noi stessi (che siamo poi società immagazzinata), in modo che il nostro volere possa risultare opportunamente orientato nella sua creatività21 . 

Questa scaturigine psico-sociale della responsabilità, secondo il Croce, non può non gettare una luce più giusta su quello che dovrebbe essere fondamentalmente l’atteggiamento della società verso il colpevole. Anche il delinquente ha agito in conformità a ciò che è. Si tratta di portarlo (attraverso un’azione di recupero) a diventare diverso da quello che è. Il dovere della società, di conseguenza, non è tanto di punirlo, ma quanto di metterlo in condizione di cambiare se stesso. e questo tanto più che quel “se stesso” trova proprio nella società gran parte della sua spiegazione. Certo, con questo non si vuol dire che non sia giustificata la pena. Oltretutto, se di responsabilità non si può parlare in rapporto al singolo atto volitivo in sé considerato, in quanto espressione necessaria di ciò che si è, se ne deve normalmente parlare in rapporto alle eventuali manchevolezze passate che hanno consentito le attuali deformazioni di chi agisce: «la verità – dice, infatti, al riguardo Croce – è che dal cuore viene anche tutto quel male che sembra prodotto di falso vedere, perché quel falso vedere essi se lo sono foggiato coi loro sofismi»22. Anche in tal senso, però, la pena, perché sia ragionevole, non deve essere mai fine a sé: deve avere di mira di «disporre diversamente la volontà dei componenti di un complesso sociale», o, ciò che è lo stesso, deve avere «un valore energetico sulle coscienze»23. Insomma, anche nel caso della giusta pena non ci si deve mai dimenticare che – non siamo responsabili, ma siamo fatti responsabili». 

L’analisi crociana sulla scaturigine del sentimento di responsabilità non si limita solo a gettare una luce nuova sul modo più giusto di intendere la pena, ma, come è facilmente intuibile, si presenta ricca di significativi riflessi anche sul poblema psico-pedagogico concreto, specie per quanto concerne lo sviluppo della coscienza morale nel fanciullo. L’intuizione crociana, infatti, qui può significare (un po’ in analogia a quanto in grande viene affermato con la positività della storia, «mai giustiziera, ma sempre giustificatrice»24 una forte motivazione in più per sdrammatizzare gli errori di percorso del fanciullo, sgombrare il suo animo da pericolosi accumuli psicologici negativi, in modo da favorire, così, il massimo equilibrio nella formazione del suo io etico-sociale. A conclusione di questo breve accenno all’atteggiamento crociano sul problema della responsabilità, sembra opportuno sottolineare che, qui, ciò che rende meritevole di particolare attenzione il discorso crociano non è tanto quello che esso si sforza di mettere in risalto, ma tanto il fatto che ciò che viene affermato, oltre che frutto di attenta analisi psico-sociologica dei fatti di esperienza, si presenta supportato dalla luce di fondamentali intuizioni filosofiche (quale, ad esempio, la positività della storia), alle quali il discorso crociano appare subordinato. 

Alberto Nave 

1.B. Croce, Filosofia della pratica, Bali, Laterza, 1973, pag. 69.
2.  Ibidem, pag. 78. 
3.  Ibidem. 
4.  Ibidem, pag. 69. 
5. Ibidem, pag. 78. 
6.  Cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia. Bari, Laterza, 1973, pag. 141. 
7. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1971, pag. 16. 
8. B. Croce, Filosofia e storiografia, Bari, Laterza, 1969, pag. 40.
9. B. Croce, Etica e politica, Bari, Laterza, 1973, pag. 102. 
10. Ibidem. 
11. Ibidem. 
12. Ibidem, pag. 103. 
13. Ibidem. 
14. Ibidem. 
15. Ibidem. 
16. Ibidem. 
17. Ibidem. 
18. Ibidem. 
19 Ibidem. Circa il sottofondo teoretico su cui si delinea l’atteggiamento crociano sulla “responsabilità”, tra gli altri, cfr. anche: D. Soleri, Ubertà e moralità nella filosofia di Benedetto Croce, Reggio C., Tip.”Fata Morgana”, 1944, pagg. 11 e ss.; G. A. Roggerone, Croce e la fondazione del concetto di libertà, Milano, Marzorati 00.,1966, in particolare, pagg.220 e ss.; L. Dondoli, Benedetto Croce: intuizione, conoscenza storica e panteismo etico, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1984, segnatamente le pagg. 43-71; V. Vitiello, Etica e liberalismo nel pensiero di B. Croce, Napoli, 1964. 
20. Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1965, pagg. 57-59; come pure, sempre dello stesso Croce, Problemi di estetica, Bari, Laterza, 1966, pagg. 17-30.
21 Non è superfluo sottolineare, qui, che la libertà affermata dal Croce come coincidente con la necessità è la libertà intesa rigorosamente come spontaneità: essa non ha nulla a che vedere con la cosiddetta libertà di arbitrio o di scelta, di cui il Croce non mostra interesse a discutere direttamente, sia per la nausea provocata al riguardo dalle vuote polemiche del recente passato, e sia, soprattutto, perché la presuppone cosa troppo ovvia (altrimenti non si potrebbe neanche essere “fatti responsabili”). A differenza della prima, che caratterizza l’agire in sé considerato (ossia, l’agire in quanto espressione di ciò che siamo momento per momento), la libertà di arbitrio è qualcosa che caratterizza l’agire rapportato a ciò che dovremmo essere, o anche (giusto per essere più aderenti al contesto crociano) l’agire rapportato alla dialettica del fare. 
22 B. Croce, Filosofia della pratica, cit. pag. 46 
23 B. Croce, Etica e politica, cit., pag. 104. 
B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., pag.79. 

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 19-24.

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