Lettera da Motya 

 

Caro direttore, 

ho ricevuto il numero 2 di Spiragli. Ti ringrazio per lo spazio riservatomi alla rubrica «Arte» e per le opere riprodotte le quali, anche se in bianco e nero, conservano misteriosamente la loro forza espressiva. 

La rivista appare chiara, schietta, utile. Ed ha una sua «linea» nei titoli e nei caratteri ed in ciò che tratta. Si vede che nasce con intenti di sana inconsueta forma intellettuale, volta non a interessi di parte ma alla divulgazione della cultura come cibo indispensabile per vivere meglio. Rivista «di servizio» quindi, nella più generosa accezione. 

Il titolo Insieme nella pittura è quanto mai felice. «Insieme» indica unione, compagnia, colloquio, armonia, conoscenza. Ed è ciò che io mi propongo di fare nel mio campo, quello della «pittura» il cui fascino e mistero, da che esiste l’uomo, hanno prevaricato su qualsiasi altra emanazione dell’intelletto. 

Prima di intraprendere – cordialmente insieme – il discorso che tenda a far capire, una buona volta. che cosa è «la qualità» nell’arte (e nella pittura in particolare), consentimi di raccontare a te e ai lettori di Spiragli, l’avventura occorsami in una rapida improvvisa escursione a Motya, l’isola che si intravede appena, in faccia a Marsala. Con questa breve storia, vissuta personalmente, oltre che interessare il lettore per la sua singolarità, spero di dare un modesto ma convincente saggio di cosa io intendo per «chiarezza espressiva», il modo cioè di «raccontare» di se stessi e della pittura in maniera facile e scorrevole, alla portata di tutti. Favole. 

Di Motya (si pronuncia Mozzia, con due belle zeta siciliane?) hanno raccontato e scritto chissà quanti scrittori e viaggiatori venuti da tutte le parti. E quindi, nello scriverne, io non farei alcunché di nuovo, e ti deluderei. Ma è che ho trovato, avvicinandomi all’isola, un elemento così imprevisto ed operante, di così assidua e cocciuta presenza, da mozzarmi il fiato. Sono convinto che la storia di Motya è sì fatta di antichissime felicità o infelicità terrene – che puoi immaginare percorrendo il margine estremo fra la tremula striscia di schiuma salina e gli attoniti gruppi di fichi d’India, fra le pietre bionde e le macchie di estenuato verde cimarolo -, è sì, anche, una storia di morte di bimbi e di uccelli, di agguati e convegni, di sole e di rose tea, ma è soprattutto un’allucinante perpetua storia di vento. Non che ci sia sempre vento; ma qui, ed è questa la singolarità, c’è vento anche quando manca del tutto. 

Mi spiego. Prendo la barca per andare all’isola (il mare rumoreggia lontano, attraverso un tratto d’acqua appena increspata, come fosse un lago). Penso al vento che soffiava durante il tragitto del lungo molo che porta alla barca. Ora è cessato: non lo avverto più nel frenetico sbattere dell’impermeabile sulla gamba. Eppure, mentre la barca scivola verso l’isola, sento qualcosa nell’aria profumata di fresche alghe, e mi guardo attorno. Lui, il vento, sta in giro. C’è, su quel placido corridoio d’acque che unisce Lilybaeum e Motya, uno strano suono: una sorta di nenia che non è né musica, né rumore, né fischio. Forse un ronzio, un roco sibilare, un fruscìo. È il vento che ruota, caprioleggia, punta, guasta. E all’improvviso me lo sento addosso, in faccia, sulla nuca, sulle gambe, mi avvolge, mi spinge, mi fa barcollare. Ed anziché difendermi, trovare qualche riparo nella barca, apro la bocca e lo respiro quel vento, respiro, respiro e me ne inebrio come fosse un miracoloso farmaco. Il cappello è volato via, la barca si inclina, ed io sono lì, incosciente, i capelli bianchi sugli occhi, pervaso da una felicità sconosciuta (per chissà quale sortilegio fenicio… ). Poi il vento riparte, poco prima dell’approdo, e va ad aspettarmi sull’isola. 

Motya mi appare come quei giardini nascosti in cui non sai se c’è più verde o più fiori. L’amenità del luogo mi distrae dal pensiero che sono sbarcato sull’isola che contiene la più straordinaria miniera di resti di antiche civiltà – se appena scavi, trovi – che si possa immaginare. Alberi contorti – che sembrano atleti in lotta, per i rami che si divincolano e strisciano quasi sull’erba – nascondono il padiglione del piccolo museo; mi avvio. Motya è fatta di vigneti (certe viti nane che dicono siano le migliori del mondo), di ameni boschetti, di tenerissime insenature dove mi piace pensare che approdino minuscole galere variopinte, insieme a imbarcazioni moderne dai sottili alberi per tele bianche e arancione. 

Pochi ruderi intorno. Percorro il sentiero che fa il giro dell’isola sull’orlo vicino al mare (trema la frangia bianca che adorna tutta la riva). Ora il vento ritorna, prima furioso, poi cordiale, suadente, ti prende per mano e non ti lascia fino alla partenza. Nei furtivi atrii dei giardini, scopro mosaici quasi intatti eseguiti da artisti che Cartagine inviava a Motya. Alcuni, raffiguranti lotte di fiere, hanno uno straordinario senso dinamico quasi che gli animali fossero anch’essi mossi dal vento. Sono tentato di scavare col dito una stupenda anfora che affiora. O di toccare la finissima polvere delle mura funerarie: è ancora quella dei fanciulli sacrificati nell’orrendo rito pagano. Mi fermo all’ingresso di un piccolo porto, grazioso al pari di un laghetto dell’Olimpo, con pietre pulite e verdi prati che lo circondano, senza tempio. Qui dovettero sbarcare ninfe o regine, o dee, ad attendere un uomo; perché il luogo è il più vasto e soffice talamo che si sia mai visto, e l’aria è purissima. Il vento mi sussurra incredibili storie d’amore. Maschere di satiri e fauni ridono, negli anfratti. 

Ritornare alla barca è come uscire da un incantesimo. Motya si allontana, nella trasparenza che le concede il vento. Prima di lasciare l’isola (dove, si dice, nelle notti senza luna, nel buio fosforescente, si odono fitte variegate musiche di ignoti strumenti), ho guardato oltre una siepe: al centro di un rovo squassato dal vento, lo stelo alto e spinoso di una stupenda rosa tea, era immobile nel sole. 

Carlo Montarsolo 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 5-7.

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