Nel ricordo del 4 novembre. La famosa telefonata

Trascrivo una telefonata avvenuta molti anni or sono. Il telefono allora era un privilegio. Pochi, pochissimi lo possedevano. In genere era appeso al muro. Per chiamare bisognava girare una maniglia e fare suonare la campanella. Ora tutto è più facile.

La telefonata avvenne tra una donna di nome Maria Bergamas, residente nel Friuli, e il generale Armando Diaz, duca della vittoria, comandante generale delle truppe italiane nella prima guerra mondiale. La conversazione telefonica è avvenuta realmente. Il servizio segreto che controllava la linea del generale che abitava a Roma (e che diverrà ministro della guerra, come allora si chiamava il Ministero, nel primo governo Mussolini di coalizione) ha inciso sul nastro.

Un mio amico perfetto archivista lo ha trovato “buttato” in uno scantinato. Pensando alla mia curiosità me lo ha prestato e io ne ho fatto una copia.

Ancora il telefono ci porta un frammento del nostro passato. Il telefono è anche memoria della nostra storia.

La donna Maria Bergamas è vissuta per lunghi anni ed è morta a Trieste a ottantanove anni. Ho fatto ricerche per saperne di più. Era madre di un ragazzo colpito al cuore mentre usciva dalla trincea. Dimenticavo di dire che la telefonata avviene il cinque novembre 1921. Il giorno prima era stato portato nel Vittoriano il milite ignoto da Santa Maria degli Angeli. Il nostro milite ignoto venne accompagnato dal rullo dei tamburi con le corde allentate.

Il telefono mi ha fatto riflettere a lungo sull’episodio. E adesso provve-a trascriverlo. La voce femminile è quella di Maria Bergamas. Quella maschile è di Armando Diaz. Immaginate, cari lettori, le cadenze e i toni.

Maria. “Buongiorno, signor generale”.
Diaz. “Buongiorno. Chi parla?”
Maria. “Come, non mi riconosce? Sono io Maria Bergamas. Ci siamo visti più volte.
Maria Bergamas.”
Diaz. “Ho capito. Mi dica, Signora.”
Maria. “Ecco.

Mio figlio non è stato più ritrovato. Era tra la terra quando un cecchino lo inquadrò nel mirino. Ta-pum, ta-pum, ta-pum. E chiuse gli occhi per sempre.

Finita la guerra sono stata chiamata ad Aquileia per scegliere il milite ignoto. Nell’antica basilica lasciata alla nudità della pietra ai piedi della gradinata dell’altare c’erano due catafalchi coperti di tappeti viola, crespi neri e festoni verdi. Vi erano allineate undici bare (cinque da un lato e sei dall’altro) avvolte nel tricolore. Sopra erano gli elmetti cinti di lauro.”

Diaz. “Ricordo bene, Signora. Mandai un mio generale da lei a Trieste per portarla a scegliere l’ignoto milite da tumolare a Roma. Lei doveva indicare l’ignoto tra gli undici morti sorteggiati in undici cimiteri di guerra. È così. È stata una madre fortunata…”
Maria. “Fortunata? No. Fortunata no, signor generale. Allora fu tremendo. Chiusi gli occhi e pensai al mio povero figliolo disperso tra le montagne del Friuli. Nella basilica c’era il Duca d’Aosta, i ministri, i sindaci, le scolaresche. Il vescovo di Trieste, capo dei cappellani militari, monsignore Bartolomasi sull’altare pontificale celebrò la santa Messa. Intorno, fiori e le bandiere dei reggimenti. Con me madri e vedove pregavano e piangevano per l’uomo che non era più tornato.

Non so cosa successe. Ma, nello scegliere la seconda bara della fila di sinistra, ebbi la sicurezza che dentro c’era mio figlio. E il dolore si attenuò al pensiero che tutti gli italiani per i secoli avrebbero amato e pregato per lui. Poi, il vescovo con l’aspersorio colmo di acqua del Timavo benedisse.

La cassa di legno dopo mezzogiorno venne racchiusa in una di zinco. E poi in una di quercia. Sul coperchio, ricordo, c’erano un fucile, un elmetto, una bandiera e le medaglie d’oro delle tre città friulane.”

Diaz. “Ricordo. Ricordo, Signora. È ancora in linea? Pronto. Sì. Iniziò così il viaggio da Aquileia verso Roma sul treno con diciassette vagoni. Tacquero le fazioni. Uomini di ogni ideologia alle stazioni ferroviarie si accostavano al treno, baciavano le bandiere e salutavano le medaglie d’oro e i decorati di guerra che scortavano l’ignoto amico.

Il treno giunse a Termini il 2 novembre. Vittorio Emanuele III con i principi venne alla stazione su berline, con staffieri in livrea rossa e parrucca bianca, precedute da carrozzieri a cavallo in alta uniforme. In attesa, il Re si fermò a conversare con un giovane dimesso che portava sul petto la medaglia d’oro del fratello caduto del quinto reggimento genio. La cassa fu deposta su un affusto di cannone e lentamente nello sventolare armonioso delle bandiere raggiunse Santa Maria degli Angeli. Le batterie dei cannoni sistemate su monte Mario, sul Gianicolo e altre alture sparavano a salve.”

Maria. “Una perfetta messa in scena. Perfetta liturgia. Sì. Pronto. Era una perfetta manifestazione.

Ma lei dove lo mette il nostro dolore di madri? Il nostro disperato dolore per un figlio partito in grigio verde e non più tornato tra le nostre braccia? Ma lei lo capisce? Ricordo che sulla facciata di Santa Maria degli Angeli c’era un’epigrafe:«Ignoto il nome, folgora lo spirito, dovunque è Italia, con voce di pianto e d’orgoglio, dicono innumeri madri, è mio figlio». Rimasi turbata perché capivo i motivi dell’epigrafe, ma non volevo dividere mio figlio morto con nessuna altra madre. Non esiste il dolore universale. Il dolore come l’amore è solamente mio. Non so se si ricorda di me, signor generale Armando Diaz. Nella basilica le venni presentata. Lei mi guardò a lungo e mi disse che la Patria onorava i suoi eroi. E io le risposi che la Patria onorava i suoi morti. Dopo questa mia battuta lei mi voltò le spalle e non ci siamo più incontrati.” Diaz.

(Dopo un lungo silenzio) “La basilica era decorata con lunghi festoni di alloro. Il feretro era circondato da tripodi di bronzo sui quali ardevano fiammelle che rendevano ancora più immenso lo spazio.

Molti dopo la preghiera si fermavano nel lato destro del transetto per osservare sul pavimento la meridiana che segnava il mezzogiorno per la città fino al 1846. Era chiamata la “clementina” in omaggio a Papa Clemente XI Albani. Venne realizzata dal canonico veneziano Francesco Bianchini. L’inaugurazione avvenne il 6 ottobre del 1702. Il papa fece coniare una bella medaglia con la chiesa attraversata da un raggio di sole.

” Maria. “Pronto. Signor Generale non se ne vada. Non abbassi il telefono. La prego. Dopo che lei mi aveva volto le spalle mentre il milite ignoto (che io, nell’illusione, forse credo ancora mio figlio) era tra le bandiere vegliato dai corazzieri, dagli alpini e dai bersaglieri che si davano il turno, anch’io sono andata alla “clementina”. C’era una linea di sole che veniva dal foro gnomonico ricavato lassù nella congiustione sud della navata con il transetto. Mi sembrò allora che il sole della meridiana illuminasse anche il corpo del figlio. Tu diventavi il mio tempo, figlio mio. E ti vedevo nel sole mentre correvi nei campi assolati o quando ti portavo al mare alle porte di Miramare a Trieste. Tu non eri più soltanto un ricordo ma la memoria della mia vita. E per quelle illusioni che prendono all’improvviso quando l’amore è grande, vedi mio figlio accanto a lei, signor generale Armando Diaz. Lui giovane sorridente e lei già vecchio e stanco.”

Diaz. “La prego, Signora. Lei parla con il generale Diaz. Ho organizzato tutto per bene. Una cerimonia impeccabile, mi ha detto il Re. La prego, Signora…”
Maria. “Non la offendo. Ma mio figlio è morto giovane. E lei è vivo vecchio. È contronatura. Sì. Pronto. Mi faccia finire. Santa Maria degli Angeli così carica di fiori profumati era come una giornata di primavera. E c’era mio figlio con tutti i dispersi, le medaglie d’oro alla memoria, i morti mentre andavano all’assalto. Erano vivi e insieme cantavano canzoni di pace. La chiesa diveniva così la casa della risurrezione. Poi, come lei sa, signor generale, mio figlio venne portato a piazza Venezia al Vittoriano… Pronto. Pronto.”

Il nastro è terminato. La trascrizione mia è finita.

Il telefono mi ha restituito la madre che soffre disperatamente e il generale. Il telefono non è solo comunicazione.

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 46-49.

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