A Jerry Essan Masslo
Jerry, amico mio,
perdonami il lungo silenzio. Sei urtato, lo so! Dopo il fattaccio e la gran cagnara che s’è fatta, tutto sembra sia rientrato nella normalità, come se niente fosse mai successo. Anzi a dir la verità, i giornali se ne sono occupati per un po’, a causa della Chiesa Battista che, facendoti un suo adepto, ha denunciato l’egemonia cattolica per averti imposto quel rito funebre.
Sono situazioni da cui una persona esce sconcertata: gli speculatori colgono tutte le occasioni e le fanno buone per imbastire ogni sorta di discorso che dia loro credibilità e potere, a scapito della povera gente o di chi non può difendersi. Come te, d’altronde! Cosa si aspettano. che venga fuori a dir la tua?
E sei urtato Jerry, per quello che ti hanno fatto, per come ti hanno trattato e continuano ancora a fare. È valso a qualcosa il tuo sangue innocente? Tu che eri desideroso solo di un po’ di giustizia e di tanto amore, ora proverai grande commiserazione per questa meschinità che è negli uomini; ti ripugnano le loro bassezze, così come la malvagità che tante volte ti aveva visto soffrire: le morti violente dei tuoi cari, un esilio silenziosamente vissuto, lontano dalla tua terra e dalla gente assieme a cui eri cresciuto, l’accanimento dell’odio fratricida …
Eppure, so cosa pensavi quella sera d’agosto: un mondo che ti avrebbe socialmente riscattato! E questo chiedevi: il diritto alla vita senza discriminazioni. Disteso su una brandina sgangherata, la tua mente volava al paese d’origine, così vario nei colori, così diverso nella vegetazione, così ricco che, se non fosse per l’ostinata apartheid, potrebbe competere a pieno titolo con i Paesi europei più industrializzati. Pensavi a ciò che ti era stato negato solo perché ti eri battuto per la parità dei diritti; e non potevi restare certo indifferente al solo pensiero che i bianchi spadroneggiassero, a scapito dei fratelli negri costretti a vivere una vita di stenti nei lavori più duri e, per di più, considerati di seconda classe. E volevi che gli uomini fossero veramente umani, nel rispetto dei valori più semplici e profondi al tempo stesso, non addossando agli Africani la sola colpa di essere scuri di pelle e per ciò segregandoli e non privilegiando i bianchi che, solo perché tali, vogliono arrogarsi la superiorità.
Mi chiedo: com’è possibile che ancora sussistano queste differenziazioni? Addirittura, in certi Paesi – come nel tuo – il razzismo è legalizzato, quasi a voler togliere dalla coscienza dei singoli il complesso di colpa che tale pratica genera; in altri lo spettro razziale è vivo e vegeto, e il suo spiritello s’insinua là dove apparentemente tutto sembra vivere in pace. E noi non potremo mai dimenticare le votazioni antitaliane tenute qualche anno fa in Svizzera, l’accanimento della Germania contro i Turchi, della Francia e dell’Italia nei confronti degli immigrati provenienti dalla vicina Africa.
L’Europa che nel corso dei secoli ha dettato leggi in materia di civiltà, ora ha da fare i conti con insorgenti forme di razzismo che fanno veramente pensare. Per non andare troppo lontano, l’Italia, a più di cent’anni dalla sua unificazione territoriale, assiste a «lighe» politicamente organizate contro i «terroni», segno che l’unificazione vera e propria ancora non si è avuta, ea niente è valso lo sforzo dei tanti uomini che vi hanno lavorato. Quando in una città come Torino si legge «Non si loca a siciliani», o in una Milano esiste ancora il «Vietato l’ingresso ai meridionali», città dove – lo sanno bene tutti i settentrionali – enorme è stato ed è l’apporto degli Italiani del Sud, i commenti vengono da sé.
Amico, come vedi, la discriminazione s’annida dappertutto; nelle scuole, per le strade, nei bar, e noi, presi come siamo dai nostri interessi, non ce ne accorgiamo o, meglio, non ci rendiamo conto che, così agendo, coltiviamo un terreno che a lungo andare potrebbe franare. L’Italia – mi si dice – non è stata, poi, tanto razzista. Vero. Durante il ventennio, grazie anche all’influenza della Chiesa, non si ebbero quegli eccessi che in Germania culminarono nell’uccisione di una gran moltitudine di Ebrei e di zingari. Eppure da noi
c’è un’insofferenza che via via s’è manifestata e si è accentuata negli ultimi decenni, da quando, insomma, nelle piccole città o nelle metropoli, sono sorti grandi complessi popolari – con tutti i problemi che si portano dietro – privi dei servizi più elementari, spesso incontrollabili e, perciò, facili preda di delinquenti e uomini senza scrupoli che vogliono ad ogni costo arricchirsi alle spalle degli altri. In ambienti del genere, viene praticata ogni sorta di violenza, e non solo gli scippi e le rapine sono di casa, ma sono anche frequenti le aggressioni ai deboli, agli handicappati e alla gente di colore. A parte il tuo, che ha toccato veramente il fondo della vigliaccheria più spietata, è recente il caso di quella giovane madre negra che, tornando dal lavoro da uno dei quartieri periferici di Roma, viene malmenata e costretta a scendere dal mezzo pubblico proprio perché negra. Aberrazioni isolate, senza dubbio, ma non per questo meno pericolose. Ad esse già sul sorgere, vanno trovati i rimedi, e solo così si potrà evitare il peggio.
Lo Stato con le sue istituzioni e i mass-media devono adoperarsi perché si crei nel cittadino una coscienza di fraterna solidarietà fra tutti gli individui, senza alcuna distinzione di razza o di religione. È quanto di più umano si possa sperare. Messa da parte, e per sempre, la famigerata superiorità dell’uomo bianco. che non è nemmeno il caso di prendere in considerazione, il problema va posto entro i termini della fortuna: questi nostri fratelli, vicini di casa, tra l’altro, per questioni storiche e ambientali, sono stati meno fortunati di noi ed ora, più che mai, ci chiedono aiuto, stanchi come sono di vivere nella miseria e nello sfruttamento.
Un giovane africano, l’altra sera, per televisione, parlava della situazione di disagio in cui si vengono a trovare gli immigrati di colore in Italia e non riusciva a spiegarsi questo trattamento di distacco proprio da un paese che ha sempre allacciato rapporti di amicizia e di commercio con l’Africa e tuttora trae vantaggi dall’emigrazione di tanta sua gente all’estero. Ed è anche vero. I Paesi industrializzati e l’Italia devono accettare i lavoratori di colore, così come dai Paesi europei e d’oltremare vennero accolti e accettati i nostri emigranti per accudire ad umili e faticosi lavori, proprio quei lavori che ora fanno da noi gli Africani.
Sono d’accordo con te, Jerry, quando dici che gli uomini del Continente nero non tolgono lavoro a nessuno. Per la maggior parte dei casi, questi immigrati vengono utilizzati o in fatiche ove si richiede tanta manodopera o in altre prettamente tradizionali che i nostri lavoratori non vogliono più praticare. Il benessere, per la maggior parte, – perché in Italia c’è ancora gente che vive nella miseria e tra gli stenti – ha portato anche questo: il rifiuto di quelli che vengono considerati. da che il mondo è mondo, lavori umili, umilissimi. La corsa verso la città ha spopolato, come mai in passato, le campagne, ed è qui che vengono maggiormente utilizzati i lavoratori di colore. Portano al pascolo greggi, raccolgono frutta, vendemmiano. Di tutto fanno questi poveri diavoli! Basta inizialmente guidarli, e allora trovi il manovale, il giardiniere, il marinaio, il tutto fare insomma, e il commerciante che va in lungo e in largo dappertutto: il «vu’ cumprà». A negri è affidata la cura dei boulevards parigini, Negri trovi a Londra e un po’ dappertutto. Si accontentano di poco, con la sola sacrosanta richiesta di vivere anch’essi umanamente la loro vita.
E così noi bianchi ce ne serviamo e poi li ghettizziamo. senza per niente curarci della loro presenza. Li mettiamo da parte come oggetti da riutilizzare alla bisogna, mentre – più degli altri – necessitano di comprensione e di amore. Se non altro, consideriamoli per quelli che sono, uomini che cercano, senza togliere niente a nessuno, un po’ di spazio per acquisire anch’essi una loro dignità.
Se facessimo almeno questo, Jerry, certamente ci troveremmo sulla buona strada e tu, per lo meno, non saresti morto invano! Sì, se accettassimo questa gente con quel tanto di umanità che è dovuta agli uomini, non assisteremmo a certe escandescenze, frutto di eccessiva birra, o a litigi che tra essa si verificano a volte per futili motivi. Ma è sempre un modo, come un altro, per reagire ai soprusi, allo sfruttamento, alle meschinità che spesso deve subire. In ogni caso, non c’è in essa certa spavalderia di Italiani all’estero che non sempre si sono mostrati riconoscenti presso i Paesi ospitali.
Caro amico, male, veramente male ci rimasi quel mattino di marzo del ’75 quando, trovandomi nel bar della stazione ferroviaria di Karlsruhe, un gruppo di Italiani, ultimato il turno di lavoro e consumata la colazione, cominciò a schiamazzare. gettando a destra e a manca tazze e piattini, imprecando «bastardi» ai Tedeschi. A niente valsero le proteste del gestore che, ad un certo punto, fintosi indifferente, diceva tra sé parole di biasimo e di riscontro in un gergo incomprensibile. Fu la polizia a disperdere in malo modo quell’ingrata gentaglia. Me lo ricordo ancora quel mattino – la primavera era già alle porte, la temperatura mite – me lo ricordo.
Eppoi, da più parti si predica un nuovo umanesimo. Ma quale? L’uomo nella corsa verso il benessere è impazzito, non domina più se stesso, ha messo da parte gli antichi valori, dandosene altri, inumani ed effimeri.
Scusami, Jerry, se mi sto dilungando. Non vorrei tediarti con le mie chiacchiere. Ma tu mi guardi con indifferenza, come se la discussione non t’interessasse. Mi agito. A volte non trovo le parole: è il mio io che, sconvolto, non mi dà pace. Spesso mi chiedo: perché nascondere la realtà delle cose? A fatti avvenuti, c’è la falsa pretesa di volersi dare delle risposte risolutorie, come se si volesse far tacere la coscienza. Non si ricercano nemmeno le cause e, nel caso tuo, c’è stata la volontà di addossare ad altri uomini di colore il tuo assassinio.
Gli abitanti di Villa Literno avrebbero voluto uscirne indenni: si preoccupavano della rispettabilità della cittadina. Lo stesso parroco del paese non ha fatto un discorso coerente, e le sue parole palesano un certo disagio. Il fatto è che ci si ostina tanto a nasconderci dietro ad un perbenismo che non regge ai primi scossoni e ci riveliamo spesso vuoti e inconcludenti.
Vorresti, caro amico, che per lo meno il tuo sangue servisse a qualcosa, a far capire agli uomini che apparteniamo tutti ad un’unica grande famiglia, dove il rispetto e l’amore verso il prossimo, al di là delle razze e del colore, devono star di casa. So che non chiedi vendetta; ma, purtroppo, non ci sarà uguaglianza e giustizia sino a quando permarranno nell’uomo sentimenti di odio e di prevaricazione, rimanendo così indifferente ai problemi degli altri.
La strada da seguire non è poi tanto semplice, Jerry! Non per questo bisogna desistere: occorre adoperarsi perché i governanti prendano seriamente in considerazione il problema – di problema qui si tratta – la cui soluzione rimuoverebbe tanti ostacoli e dissolverebbe molte perplessità.
L’estate scorsa, in Italia, per esempio, si sono inscenate manifestazioni contro i «vu’ cumprà» e tanti commercianti sono caduti veramente nel ridicolo. Ebbene, per il momento assisteremo a proteste e tafferugli del genere, ma cosa si verificherà nel giro di qualche anno quando – statistiche alla mano – la popolazione diminuirà e gli immigrati aumenteranno a dismisura? A questo punto non rimane che affidarci al buon senso dei nostri governanti e a quanti operano disinteressatamente per il bene e la pace sociale.
Il rammarico per la tua triste fine è stato grande, Jerry. La buona e brava gente – ce n’è tanta ancora – è rimasta scioccata e non si spiega come fatti del genere possano ancora verificarsi. Eppure non c’è che rassegnarsi; vuol dire che doveva andare proprio così perché le cose potessero veramente cambiare, in meglio s’intende. E i primi frutti credo si stiano raccogliendo. Il fatto che si parla più insistentemente che non nel passato dei Negri in Italia, fa pensare che qualcosa già si sta muovendo in favore e che il tuo sangue non è stato versato invano. Me lo auguro di cuore, amico mio. Allora la tua anima potrà finalmente trovare pace e il sorriso ritornerà sui volti abbrutiti dalle fatiche: sarà come se non fossi mai morto, e noi ti ravviseremo nei tuoi che sono anche nostri fratelli.
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 39-43.