1. La storia della riflessione filosofica sul tema della pace, iscritta nel più vasto ambito della filosofia morale e politica, riprodurrebbe in sintesi la storia stessa della filosofia. Dai sofisti a Platone. da Sant’Agostino a San Tommaso, da Hobbes a Kant, non è mai mancato l’assillo di fornire una risposta definitoria e definitiva alla questione della pace tra gli uomini e tra i popoli. Nella tradizione filosofica l’interrogativo si è risolto in teorie, sistemi compiuti, visioni del mondo, ed è sembrato volta a volta destinato a soluzione durevole. In Kant ritroviamo forse il momento più alto di tale pretesa di normatività, nella quale il rigore logico dell’enunciazione aggredisce la complessità storico-politica del problema.
Ma la filosofia moderna. che trova in Kant la sua più conseguente sintesi, è stata già da lungo tempo corrosa dallo spirito della «critica» (essa stessa sorta con Kant); diviene sempre più ricorrente la figura del «declino» della filosofia, correlata alla epocalità della crisi della civiltà occidentale. Anche chi non ha fatto proprie le metafore del «pensiero debole» e non ha accettato l’idea di una dissoluzione della filosofia nella letterarietà ornamentale riconosce la difficoltà di un filosofare ancorato ad assunti normativi, dovuta soprattutto a una crisi della cultura che ha reso tangibili secolarizzazione e disincanto1. Quando la filosofia non si fa scienza, e non fornisce una risposta «produttiva» alla crisi, deve giocoforza dedicarsi a svelare una realtà frantumata. facendosi così luce critica. ma – nello stesso tempo rispecchiandosi come linguaggio retorico, discorso mitico che ancora una volta trasforma e cela il reale.
Se la filosofia affronta quindi oggi il tema della pace lo fa soltanto a partire dalla crisi della propria stessa collocazione in quanto filosofia. In altri termini, i «filosofi» si trovano da un lato nell’impossibilità di assegnare alla realtà odierna un «destino», o anche soltanto un ordine ultimo e un senso teoretico, dall’altro nella necessità di assolvere al compito che viene loro affidato (anche contro la loro volontà), articolando nuove modalità di pensare il reale. Da un lato il disincanto dinanzi alla diffusione incrementale della guerra, in forme e strategie non ancora pienamente «comprese», disincanto che può risolversi in una critica nichilistica dell’effettuale: dall’altro il rinnovarsi di un discorso che oltrepassi il disincanto e la stessa epocalità della crisi per farsi speranza concreta, nella forma sempre uguale dell’intreccio tra logos e mythos. Per quanto consapevoli della profondità della frattura che – nella società contemporanea – si è prodotta rispetto a una tradizione millenaria, i «filosofi» muovono ancora sempre dal luogo del discorso, dal carattere ultimativo del discorso filosofico. Oggi come non mai la crisi della filosofia si muta nel variegato panorama di una «filosofia della crisi». Al suo interno trova senso una riapertura del dibattito filosofico sulla pace.
2. A parziale motivazione di quanto sopra scritto sul carattere irreversibile del passaggio dalla tradizione critico-sistematica della filosofia moderna alla costellazione frantumata della filosofia della crisi mi sia permesso soffermarmi brevemente su qualche aspetto di quest’ultima, anche in relazione al mutare del referente morale e politico del quale qui si tratta, ovvero del tema della pace.
La riflessione su tale passaggio non è del tutto compiuta, se è vero che le «cronache» filosofiche si sono tanto fermate sul rapporto tra teoresi e tacita o esplicita adesione al nazismo in Heidegger2. Senza voler entrare in alcun modo nei particolari, va ricordato che è in questione proprio l’autolegittimazione della filosofia come luogo centrale e assoluto della cultura di un’epoca e come commento fondante della stessa prassi politica. Nella filosofia della crisi si concorda sull’abbandono di questo ruolo universalistico, ma si riconosce anche che la rinuncia alla centralità della filosofia non deve comportare la riproduzione di una fondazione «forte» – se pure negativa – della filosofia stessa. Non basta tuttavia che i «filosofi» non si ritengano più depositari di un sapere universale e politicamente efficace, poiché, in qualche modo, viene richiesto loro da parte dei «non filosofi» pur sempre un «orientamento» che presuppone profondità e responsabilità teoretica. Per quanto muti la figura «professionale» del «filosofo» e il suo stile di pensiero, il pensare stesso, inteso nella distanza e nello scarto rispetto alle forme e ai miti del senso, si fa sempre filosofia. Ma, forse, lo stile del pensiero è costitutivo del pensiero e nel nuovo stile di pensiero sono impresse le tracce dell’epocalità della filosofia della crisi. Si possono infatti individuare nuovi abiti e figure: crisi della ragione. complessità, pensiero debole sono termini che comportano nuovi profili, nuove metafore e anche nuovi miti. I termini sono ormai polisemici e non univoci, racchiudono una insolubile contraddizione, poiché rinviano a un pensare che si distacca dai miti del senso comune per riprodurne altri ugualmente «infondati». La filosofia della crisi intende quindi distinguersi per la sua dedizione ad «abitare la contraddizione del pensiero» (P.A. Rovatti). Pensare nel luogo stesso della contraddizione tra il pensiero e il mondo, senza far prevalere il primo rispetto al secondo e senza ritenere questo luogo un ancoraggio fisso: così la filosofia risponde alla crisi. Essa muta livello, allontanandosi e differenziandosi rispetto alla stessa tradizione filosofica e affermandosi come riflessione di secondo grado rispetto a questa tradizione. In altre parole. il «filosofo» accetta che la distanza non neghi la passione, che la responsabilità si risolva in semplice disponibilità a rispondere, che il pensare stesso ospiti e sia ospitato nel mondo, senza alcuna «volontà di potenza».
Tale trasmutazione di stile dovrebbe rendere la filosofia nuovamente accessibile, oltre che sul piano degli interrogativi anche su quello della scrittura (sempre più intessuta di letterarietà), rinnovando la sua valenza morale e politica. Sappiamo bene che l’urgenza etica condensata negli interrogativi che tutti ci poniamo non è soltanto l’effetto di un ripensamento interno sul ruolo attuale della filosofia, ma come – ben più – essa traspaia con forza dai mutamenti concreti della materialità stessa della civiltà occidentale. Se da un lato il declino della filosofia si risolve in una filosofia multiforme della crisi. dall’altro la crisi reale della civiltà occidentale annuncia un baratro possibile, che la filosofia può soltanto pensare, ma che ha il dovere di pensare. Inutile qui ricordare le vicende catastrofiche che hanno attraversato il XX secolo, dominato – fino al 1945 – da una guerra mondiale
La civiltà «planetaria» nella quale viviamo mette infine in discussione le ottimistiche previsioni sugli stessi tempi di sopravvivenza del genere umano. Pur senza menzionare le trasformazioni della storia recente, appare tuttavia ben stagliato lo scenario contemporaneo, in cui dominano conflitti, singolarità, contingenze non più riducibili ad un ordine o ad una «filosofia della storia». È questa la crisi della quale si parla, crisi che non tocca soltanto la quantità e la complessità degli eventi, ma che implica una rottura profonda degli equilibri che hanno permesso il consolidarsi di sistemi sociali e viventi all’interno dell’ambiente-mondo. Non è un caso se divengono frequenti i tentativi scientifici e filosofici volti a valorizzare una «coscienza ecologica». Si uniscono gli sforzi per educare ad una «ecologia della coscienza» che si prospetta come l’esito di una rivoluzione intellettuale senza precedenti e si riconosce nel «ritorno del catastrofismo» l’effetto di superficie di un più consistente mutamento nell’immagine della civiltà planetaria3.
Dinanzi alla doppia trasformazione che coinvolge insieme modi di pensare e volto del mondo, umano e naturale, l’arco delle possibili risposte è ampio, ma tutte si iscrivono in una prospettiva genericamente politica.
3. Prima di presentare due soluzioni filosofiche sul tema in questione, a modello del modo di pensare moderno e di quello attuale, offrirei un sondaggio, appena accennato, su qualche figura ricorrente nelle odierne prese di posizione dei «filosofi» dinanzi alla crucialità della trasformazione.
Se il filosofo è destinato – come si è sopra concluso – a «comprendere e […] ordinare la diversità fenomenica secondo un ordine di ragione – o di ragioni»4, allora egli deve interpretare il proprio tempo, essere il proprio tempo nella sua forma migliore. All’urgenza etica sollevata dai conflitti del mondo si risponde con una «pazienza filosofica», che moltiplica le circostanze nelle quali è possibile pensare. In tal modo il dialogo e l’interrogazione sostituiscono il conflitto, ma con modalità spesso divergenti.
C’è chi interpreta oggi il dialogo infinito, il «pathos dello stupore» nel quale si muove il pensare, come un abbandono volontario della filosofia. La letteratura prende il posto della filosofia della crisi poiché nella prima il pathos dello stupore è rappresentabile senza «volontà di potenza»; bellezza e verità si fondono in un pensiero pacificato.
Altri accolgono fino in fondo l’esperienza corrente, le aspettative più diffuse nel senso comune, moltiplicate dal sistema delle comunicazioni di massa, e risolvono il ruolo politico della filosofia nella continuità dell’esperienza collettiva. Il filosofo si fa portavoce delle aspettative dei più e la filosofia diviene «retorica sociale». Riflettere sulla pace equivarrà ad amplificare luoghi e figure del pensare comune.
Ma, in direzione opposta, si sottolinea che il conflitto comporta sempre una possibilità di scelta e che il filosofo è coinvolto nella scelta, non solo come uomo, ma anche come filosofo «professionale». Heidegger e Gentile hanno scelto per la guerra come altri (Cassirer, Lukàcs) hanno lottato contro la guerra. E i primi non furono responsabili soltanto come cittadini, ma anche in quanto il loro ruolo implicava la «critica», la presa di distanza, «un uso cautamente responsabile» della parola loro concessa per collocazione professionale.
Infine non manca la prospettiva della cancellazione della «pazienza filosofica» nell’impegno sociale e politico, tanto più se questo impegno coinvolge scelte ecologiche che assumono la loro forza dall’accumularsi di teorie biologiche e cosmologiche sempre più raffinate5.
La conflittualità epocale del presente dissolve la filosofia in letteratura, viene minata nella retorica sociale, viene esaltata dalla critica dialettica, viene superata nell’olismo dell’ecologia. Figure possibili e concrete di una risposta difficile all’eventualità di una «filosofia della pace», tra rinuncia, insuccesso e marginalità utopica.
4. Non si può negare una qualche nostalgia per la lucidità e la sicurezza con la quale la questione della pace perpetua veniva risolta – nella prospettiva più alta della filosofia moderna – dal genio di Kant6.
Nel suo scritto più celebre sull’argomento Kant si pone in una prospettiva irenica, insieme ancorata e separata rispetto al corso degli eventi, oscilla tra utopia e progetto, secondo un movimento tipico della ragione illuministica. La nozione di pace assume un aspetto «categorico»: essa non può che essere perpetua, altrimenti non è vera pace. Nell’orizzonte della «ragion pura pratica» non c’è posto per le teorie della «ragion di Stato» e non si può accettare la massima si vis pacem, para bellum, in quanto la corsa agli armamenti è scorretta sul piano teoretico (non risponde al concetto di pace) e su quello concreto (genera un reale pericolo di guerra). Ma Kant è consapevole che la realizzazione di una pace perpetua può avvenire soltanto se si fonda una volta per tutte il diritto internazionale; deve di conseguenza ricorrere alla teoria hobbesiana del contratto sociale, estendendola al rapporto tra gli Stati. Tuttavia se l’idea di stato di natura viene trasposta sul piano degli Stati produce un esito paradossale: il diritto istituito, del quale gli Stati sono la più alta rappresentazione, coesiste con lo stato di natura, raffigurato nell’aggressività tra Stati e nella persistenza della guerra.
La quarta esigenza viene esemplificativamente fatta valere da W.I. Thompson in Gaia e la politica della vita. Un programma per gli anni novanta?, in AA.W., Ecologia e autonomia, cit., pp. 169-210.
Kant coglie questo paradosso, che avvolge la civiltà europea: essa è in fondo incivile e selvaggia, anche se culla del diritto. Peraltro dietro di esso si nasconde – a detta di Kant – una disposizione morale assopita, che prima o poi prenderà il sopravvento sul male. Il diritto internazionale va quindi compreso e fondato sempre a partire dalla legge a priori della «suprema potenza morale legislatrice», della «ragion pura pratica». L’inevitabile divaricazione tra necessità astratta della legge morale e complessità concreta e storica delle relazioni internazionali provoca sì in Kant un supplemento di indagine, in vista di una riduzione prospettica della seconda nella prima, ma le proposte, anche rilevanti, formulate al proposito non possono risolvere le aporie insite nell’affermazione che una legge a priori della ragione pura soggiace e orienta entità storicamente definite e volte alla supremazia e al conflitto. Kant si rifugia allora in risposte di tipo provvidenzialistico e naturalistico. Il destino, originato dalla natura stessa degli uomini, finalizza le discordie umane a una prospettiva di concordia, poiché proprio le continue discordie renderanno consapevoli gli uomini della necessità di un accordo ultimo. Tale destino assume anche la profondità di una legge incognita e cela quindi il disegno di una superiore Provvidenza. Al di là delle interpretazioni che si possono fornire sui limiti di questa istanza di secolarizzazione va riconosciuta l’oscillazione presente nell’argomentazione kantiana: felicità e pace sono utopiche, ma pur sempre oggetto di un desiderio naturale, forniscono il «senso» stesso della storia, originata nella naturalità di un desiderio e tesa a quella moralità non meno radicata nella natura umana. Un’oscillazione che – si è detto – è tipica della ragione illuministica e che è comunque sorretta dalla negazione di ogni discordanza razionale tra morale e politica. Con questo movimento Kant elabora lo stile più compiuto di una filosofia normativa della pace, nello spirito sistematico della modernità; ma pone anche le condizioni per il suo «declino», tramite la dissoluzione della legge universale in utopia irrealizzabile, definitivamente staccata dal procedere devastante della storia dei popoli. La teleologia provvidenzialistica e naturalistica prospettata da Kant si infrange nella tragicità delle catastrofi storiche, che – a partire dalla rivoluzione francese – hanno segnato l’intera umanità.
Dobbiamo allora abbandonare la nostalgia per le definizioni ultime e prescrittive, per una sanzione perpetua sulla questione della pace.
5. Il modello con il quale intendo chiudere il cerchio di .questa riflessione frammentaria, si ritrova alla fine di quel processo di trasmutazione di stili e di modalità del pensare sopra rievocato. Esso riconosce soprattutto la dilatazione estrema delle contingenze presso le quali risiede, viene dopo la crisi e la catastrofe, sa del crollo delle speranze più vitali. Si potrebbe dire, con una impossibile metafora, che ha già assistito alla fine dell’umanità7. Pur tuttavia intendo – tramite l’opera di Michel Serres – rinviare a una filosofia della pacificazione.
In questo paragrafo sono utilizzate soprattutto le seguenti opere di Serres: Genesi (1982), tr. it. di G. Polizzi, il melangolo, Genova 1988; Statues, F. Bourin, Paris 1987 e Lucrezio e l’origine della fisica (1977), tr. it. di G. Cruciani e A. Jeronimidis, Sellerio, Palermo 1980.
Serres rende consistente e credibile una modalità del pensare estranea alle forme del pensiero polemico, pensiero espresso in linguaggio militare o giudiziario, intessuto di strategie e di giudizi. Il razionalismo e la dialettica negano o coprono l’evenienza delle molteplicità, del possibile indifferenziato, vanno d’accordo con l’argomentazione del politico o con la logica dello scienziato, sempre finalizzate a rendere stabile la «ragione». Sul versante del possibile il filosofo dovrebbe invece mirare a salvaguardare il nuovo, l’inatteso, abbandonando consapevolmente l’ordine costituito della ragione imperante e sopportando le difficoltà di un’odissea senza fine, prezzo da pagare perché ci sia ancora un futuro per la cultura.
Pacificazione innanzitutto come imperativo «fisico»: l’evento di una conciliazione tra uomini e mondo richiede uno spazio aperto, privo di steccati e di garanzie, che permetta alle molteplicità irriducibili della naturalità e della storia di miscelarsi senza scontrarsi. Una fisica della riconciliazione, epicurea e lucreziana, che ritiene ancora possibile un ritorno all’indifferenziato, per salvare la consistenza materiale del nostro mondo.
Pacificazione quindi come imperativo «morale»: l’evento di una conciliazione tra gli uomini presuppone l’abbandono di quell’idealismo diffuso che fa credere a ciascuno di noi di essere centrale ed eterno, in nome di un «noi» che designa l’elemento miscelato e unitario del nostro vivere. Non si tratta soltanto di una impresa filosofica, nella quale alla contrapposizione classica tra soggetto e oggetto si sostituisce l’apertura alla miscela di vita e di morte che compone insieme il corpo vivente e la società. Si tratta di una necessità vitale. L’incubo persistente della morte atomica e della morte ecologica costringe ad ascoltare una filosofia che annuncia una pace senza alternative.
La «filosofia dei corpi miscelati» è allora una scommessa augurale che – tramite le figure congiunte del messaggero Ermes e della bella Afrodite – diffonde la novella della pienezza e dell’abbondanza, la logica del terzo incluso, la mescidanza dei nostri corpi nella miscela infinita della vita sociale e naturale. Ritrovare l’androgino che dimora nel «noi», nella collettività, è impegno straordinario, ma ne va della vita o della morte. Se fossimo consapevoli di quanto sia piccolo lo scarto tra vita e morte, di quanto sia ridotta la fluttuazione che permette alle masse umane e sociali di ondeggiare sulla nostra matrice materiale, riverseremmo tutto il nostro impegno nel tentativo di allontanare il più possibile la morte individuale e collettiva che scandisce inesorabilmente il nostro tempo.
Prima di inchinarci definitivamente dinanzi all’impeto di distruzione e di morte che – nella forma odierna di una pace sempre più guerreggiata – attraversa l’intera nostra civiltà, possiamo sentire ancora un’esigenza di resurrezione. Su questa tenue speranza poggia la parola filosofica di Serres.
6. Il richiamo alla filosofia di Serres può però apparire puramente retorico. Siamo tutti convinti che una «filosofia della pace» presuppone una qualità pacificata del vivere. Si potrebbe anzi aggiungere senza forzature che l’intera filosofia si dispiega secondo modalità del vivere essenzialmente pacificate. Oggi è facile diagnosticare invece un mondo attraversato fin nelle sue pieghe più profonde dalla violenza e dalla «potenza»; in esso la tradizionale dialettica pace-guerra è venuta meno, sostituita dalla pervasività di una guerra non combattuta e di una pace guerreggiata, da uno stato di guerra interna (si pensi a delinquenza, droga, inquinamento, ecc.) e da una condizione di pace conflittuale tra gli Stati (si pensi al coesistere di accordi generali e generici e di guerre locali e irrisolvibili). Di conseguenza la «filosofia della pace» si è risolta nella forma «privata» di un’utopia. La filosofia di Serres può sembrare retorica dinanzi alla normatività kantiana, ma è cogente come modalità del vivere individuale; essa non è priva di aporie e non possiede alcuna conclusività, ma ci costringe a cimentarci con la speranza, per quanto esile, di una pace possibile. Sappiamo che soltanto una interdipendenza reale tra i popoli e all’interno dei popoli che escludesse ogni logica di dominio potrebbe sostanziare la diffusione sociale di una «filosofia della pace». Siamo liberi quindi di assumere l’aspetto retorico della questione. Ma sappiamo anche che esistono vincoli ai quali non possiamo più sfuggire, che una nuova modalità del vivere e del pensare si impone come obbligo dinanzi al futuro individuale e sociale.
L’epocalità della crisi conduce a disperare, ma – proprio per questo motivo – a far sempre rinascere la scommessa di una filosofia. Un rapporto tra pace e filosofia è dunque ancora possibile. E forse può rinascere proprio dalla Sicilia che tutti noi tristemente conosciamo, ma che è stata spesso anche metafora concreta per la rinascita del pensiero: «Agrigento, Selinunte, Catania, Siracusa, Palermo, abbiamo fatto il giro dell’isola o quello del mondo; Empedocle, Archimede, Majorana, ecco chiuso il ciclo del tempo, della storia, delle scienze; abitiamo ormai una sorta di Sicilia isolata chiusa sotto la luce nera di Etna numerosi, che dipendono e che non dipendono da noi»8.
Gaspare Polizzi
(1) Sul tema del disincanto e del pensiero tragico rinvio a s. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Milano 1988. Le tematiche concernenti il «declino» della filosofia e le sue responsabilità, anche in rapporto alla crisi della tradizione del pensiero moderno, sono state oggetto di recente dei fascicoli monografici di «aut-aut», n. 226-227, luglio-ottobre 1988 (Il filosofo e l’effettuale. Questioni sulla responsabilità della filosofia) e di «autrement», n. 102, novembre 1988 (A quoi pensent les philosophes), ai quali rinvio per uno sguardo d’insieme aggiornato sui temi considerati nei primi tre paragrafi.
(2) Il dibattito sull’adesione di Heidegger al nazismo e sui più generali rapporti tra filosofi e potere si è esteso fino a coinvolgere anche i quotidiani; per un orientamento più diretto rinvio – oltre ai fascicoli sopra ricordati – ad «Alfabeta», n. 103, 105, 107, 113, 1987-88. senza confronti in durata, in morti, in distruzione,e – nella metà successiva – da una pace, puntuata di conflitti profondi e persistenti, interni ed internazionali.
(3) Ricavo queste considerazioni dal saggio di W. I. Thompson Le implicazioni culturali della Nuova Biologia, in AA.W., Ecologia e autonomia. a cura di W.I. Thompson. presentazione di M. Ceruti, tr. it. di L. Maldacea, Feltrinelli. Milano 1988, pp. 33-52, dove si sostiene tra l’altro: «Il passaggio da una condizione di conflittualità ideologica a una ecologia della consapevolezza a livello globale richiede oggi un chiarimento più profondo di quello offerto in Europa dalla filosofia illuminista che ispirò le rivoluzioni americana e francese» (p. 49).
(4) Cfr. P. – J. Labarrière, Quand est-il temps de philosopher? in «autrement», cit., pp. 71-75.
(5) Le posizioni qui presentate richiamano, nell’ordine, i contributi di F. Rella, Contro la seduzione del potere, di G. Vattlmo, Predicare il nichilismo?, di M. Vegetti, Per una dialettica indebolita, in «aut-aut», cit., pp. 102-108, 111-116, 117-120. È il caso di ricordare le seguenti affermazioni divergenti di Vattlmo e di Vegetti: «Da noi – del resto secondo una tradizione che risale a Vico, Croce, Gramsci – la filosofia appare più chiaramente come una ‘re-torica sociale’; e può darsi che questo modello italiano non sia destinato a valere solo per noi, e configuri invece i tratti (post-moderni?) di una responsabilità filosofica per la prima volta consapevole della dissoluzione dclla metafisica e del suo problematico superamento» (p. 116); «Ma se c’è comunque responsabilità dei filosofi (in ogni caso impegnati nel conflitto perché gli piaccia o no impegnati dal conflitto), può valer la pena di tentare un uso cautamente responsabile di quel tanto di parola che è loro concessa, nei margini di indeterminazione che la conflittualità sociale consente. Per il resto, o altrimenti, è meglio tacere o parlar d’altro, come saggiamente fa la maggior parte degli uomini» (p. 120).
(6) La posizione di Kant è espressa nello scritto Per la pace perpetua (1795), per il quale rinvio all’edizione italiana a cura di D. Faucci, in I. Kant, Scritti di filosofia politica, La Nuova Italia, Firenze 19692.
(7) La fine dell’umanità sta assumendo gli aspetti di uno scenario immaginabile, nel quale si possono comporre: la catastrofe nucleare (civile e militare), la sovrappopolazione, la scomparsa delle specie animali e vegetali, l’inquinamento delle terre, dei mari e dell’atmosfera, la sovrapproduzione di scorie.
(8) M. Serres, Statues, cit., pag. 273.
da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg 19-28.
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