Gentile e la cultura siciliana 

Giovanni Gentile, figura di spicco nella storia della filosofia contemporanea, s’interessò con molto impegno della Sicilia e della sua cultura. Siciliano (nacque a Castelvetrano, in provincia di Trapani nel 1875, e morì a Firenze nel 1944, barbaramente ucciso da partigiani), ricevette a Trapani la sua prima educazione umanistico-filosofica e a Palermo insegnò dal 1906 al 1913, venendo in contatto con gli uomini più in vista di allora. 

Estimatore ed amico di Pitrè, volle e inaugurò, con la pubblicazione del primo volume dei Canti popolari siciliani (1940), l’ «Edizione nazionale delle opere di Giuseppe Pitrè», facendosi sostenitore dello studio delle tradizioni popolari già bene affermato in Italia e nel mondo. Basti pensare a G. Cocchiara che nel 1923 pubblicò l’ormai classico Popolo e canti nella Sicilia d’oggi e ai tanti che come lui intrapresero la strada additata da Pitrè e da Vigo. 

Gentile raccolse in un libro, Il tramonto della cultura siciliana (1917), i saggi pubblicati su «Critica» di Croce, saggi che da una parte onorano la figura e l’opera di Pitrè, dall’altra vogliono evidenziare come la cultura siciliana con la scomparsa del grande demopsicologo si stesse avviando al suo tramonto. Egli temeva che con la morte di Pitrè, Di Marzo e Salomone-Marino avvenuta nei primi mesi del 1916, gli studiosi siciliani si sarebbero rivolti a temi ed argomenti di respiro nazionale e tutto ciò che di regionale li aveva interessati sarebbe stato accantonato. Tale convinzione gli veniva dal fatto che era un convinto nazionalista e, soprattutto, interpretava la tendenza degli uomini di cultura siciliani ad aprirsi alla realtà italiana come un volgere le spalle a quella siciliana. Alla base del libro (molto valido e informato sulla cultura siciliana di fine Settecento) c’è questo presupposto che ne costituisce il vizio di fondo. 

Il popolo siciliano, che aveva avuto parte attiva nel Risorgimento, si sentiva tradito; aveva sperato di ottenere libertà ed autonomia, aveva pensato di essersi liberato di un governo sordo alle sue istanze, incapace il Borbone di farsi garante di tutti, es’ era trovato nella stretta di un altro dominatore, prepotente, esigente esattore di tributi. E gli intellettuali siciliani se ne erano resi conto. 

Lo Stato piemontese ingrandito non soltanto esigeva tasse dai meno abbienti, ma toglieva loro i figli che servivano per l’esercito, e niente faceva per quanti avevano creduto di poter migliorare la propria esistenza. Si pensi al modo in cui fu spazzato via quel vento di primavera tutto siciliano che furono i Fasci dei lavoratori (1892-1893). Fu un senso di sfiducia che alimentò il separatismo. D’altronde, i Siciliani non avevano combattuto a partire dal ’48 e s’erano uniti successivamente all’impresa di Garibaldi per la liberazione della Sicilia? I più erano convinti e auspicavano l’autonomia, pur in una confederazione di Stati. 

Così l’isola subì un periodo di stasi, durante il quale letterati, studiosi e gente comune andarono altrove in cerca di fortuna; altrettanti restarono, sperando in tempi migliori. Era logico che tutti si adeguassero alla nuova realtà, allargando i loro orizzonti culturali; ma questo non significò che una maggiore apertura, non un collasso della cultura siciliana. Era anche logico che la prospettiva con la quale si erano visti e affrontati i problemi dell’isola non fu più la stessa, perché inserita in un contesto più largo, italiano, ma l’anima di fondo siciliana, la cultura, che è vita di un popolo, non sarebbe venuta mai meno, destinata ad alitare in ogni isolano perché sia consolidata e tramandata e continui a vivere. 

Giovanni Gentile esclude tutto questo nel suo libro, e afferma il contrario, sia nell’ampia introduzione che lo riassume, sia nella trattazione, organica nel suo insieme, ma di parte. 

«La cultura siciliana, scarsa di contenuto e di tenacia di tradizione, non mancava, per altro, di un carattere suo ben determinato; e non era possibile infatti che non vi stampasse un’ impronta rilevata quell’isolamento geografico e storico, onde essa rimase tutta chiusa in se medesima, come una nazione particolare, fin quasi alla vigilia del ‘601.» 

Si può ben notare come il filosofo, tutto preso dal suo punto di vista, dimentica il ruolo di mediatrice culturale della Sicilia nel corso dei secoli ed’ un tratto si scrolla l’immensa mole di cultura di cui essa, aere perennius, da sempre è stata depositaria. 

Senza andare troppo lontano, la Sicilia è stata sempre un porto di mare aperto ai commerci e alla cultura. Messina fu nel Medioevo città di intenso movimento: vi si convogliavano merci provenienti da Oriente e da Occidente, e con esse anche libri che tramite i mercanti giungevano ai committenti. Dante era letto e studiato; tanti studenti uscivano fuori dell’isola per andare a studiare nella penisola da dove tornavano per intraprendere nei luoghi d’ origine le varie professioni, cosi fu per Tommaso Calojra agli inizi del XIV secolo. Questi a Bologna fu compagno di studi ed amico di Petrarca, con il quale, una volta ritornato a Messina, mantenne fino alla morte (1341) una corrispondenza epistolare. 

I contatti e gli scambi culturali da e per la Sicilia ci sono sempre stati. Uno splendido esempio ci viene dato dall’ età umanistico-rinascimentale che da noi fu fertile di ingegni e di opere2. Uomini di cultura, scrittori, insegnanti, si trasferirono da una città all’ altra, perché chiamati ad insegnare o a gestire le segreterie comunali, e ben pagati per meriti acquisiti. Tutto un gran fèrvere di attività culturali, ma non solo. Troviamo i nostri umanisti nelle migliori corti e studi sparsi per l’Europa, onorati e stimati per scienza ed opere che già allora facevano grande la Sicilia. Tommaso Schifaldo, marsalese, andò a studiare a Siena, dove si laureò nel 1460 e insegnò in varie città; Pietro Ransano, palermitano, viaggiò molto e per tre anni (1488-1490) fu ambasciatore in Ungheria presso Mattia Corvino; Lucio Marineo e Lucio Flaminio insegnarono a Salamanca, Cataldo Parisio Siculo in Portogallo, Priamo Capozio in Germania, e così tanti altri. 

Non fu «chiusa» né, tanto meno, «sequestrata » la Sicilia. Essa fu ed è sempre aperta alle nuove istanze. Nel SetteOttocento, secoli a cui Gentile fa riferimento, intense furono le relazioni culturali tra Sicilia e Spagna, e tanti i libri siciliani tradotti e pubblicati in Spagna, così come quelli spagnoli venivano letti e divulgati in Sicilia; molti furono gli spagnoli che da noi vennero ad esercitare l’arte della stampa. Si trattava, per lo più, di pubblicazioni agiografiche, ma anche di storia, di narrativa e di teatro. Viene, a proposito, citato Giovanni Meli che in un suo componimento, Don Chisciotti e Sanciu Panza, richiama Miguel de Cervantes, ma conosciuti e influenti per il teatro nostrano furono Felix Lope de Vega e Pedro Calderon de la Barca3. 

La Sicilia fu aperta a tutta l’Europa. Ricordiamo gli scambi culturali con la Francia, la circolazione dei libri che molto influenzarono e fecero dibattere i nostri intellettuali. Erano da noi noti e letti gli enciclopedisti e gli opinionisti francesi (Voltaire, Diderot, Helvétius, D’Alembert, Montesquieu, Rousseau), e non mancarono gli studiosi che contribuirono con le loro opere a diffonderli e farli conoscere ad un pubblico più vasto. 

Sicché le idee circolavano tra i vari ceti, tanto da spingere alle rivolte. Si ricordi la ribellione di popolo a Palermo nel 1773, che cacciò il vicerè Fogliani. Ad annotare le conseguenze a cui quelle idee «malsane» portavano fu un nobile conservatore, Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, che nel suo Diario paLermitano difende ed elogia il viceré4. La rivolta non ebbe l’esito sperato e presto tutto tornò alla normalità, e questo fu possibile per l’ accentuato particolarismo della società siciliana, per gli interessi di parte dei ceti emergenti capaci di bloccare ogni spinta innovativa e rivoluzionaria. 

Particolarmente Montesquieu e Rousseau ebbero non solo lettori ma anche seguaci e censori. Tra i primi, tanto per citare alcuni nomi più rilevanti, vanno ricordati Cesare Gaetani della Torre, Salvatore Maria Di B1asi, che difese Rousseau dagli attacchi di Isidoro Bianchi e di Francesco Paolo di Blasi, il quale scrisse una Dissertazione sovra L’ egualità e la disuguaglianza degli uomini (1778) e sarà in seguito giustiziato per le sue idee liberali; critici furono Antonio Pepi che nel Trattato della inegualità naturale degli uomini (Venezia 1771, Palermo 17782 ) ammette l’uguaglianza naturale ma non sociale degli individui, Tommaso Natale e Nicola Spedalieri. 

Figura poliedrica di intellettuale fu Tommaso Natale che studiò la filosofia di Leibniz e la divulgò con una sua rilettura abbastanza originale: Filosofia Leibniziana esposta in versi toscani. A lui si deve anche l’opera Riflessioni politiche intorno alt efficacia e necessità delle pene, scritta nel 1759 ma pubblicata nel 1772. Ciò significa che la Sicilia era veramente un laboratorio di cultura che non solo attingeva dal continente, ma elaborava un suo pensiero anticipatore e per certi aspetti originale. Ciò significa anche che la Sicilia non era «chiusa» e nemmeno «sequestrata». Essa stava vivendo un momento della sua storia come tanti altri, momento ricco di grandi aspettative e di forti contraddizioni, lo stesso che stavano vivendo gli altri paesi d’Europa, protesi verso il nuovo e desiderosi di voltare pagina. La sola differenza stava nel fatto che da noi si era aperti in cultura, mentre dal punto di vista politico più moderati e conservatori, perché a costituire per lo più il ceto intellettuale erano persone agiate che, seppure auspicassero riforme e miglioramenti, anche per un senso di filantropismo abbastanza diffuso nel secolo dei Lumi, tenevano molto al loro status e ai privilegi di cui godevano5. Di conseguenza, anche se le idee circolavano ed erano molto rivoluzionarie, i ceti emergenti non avevano l’interesse a cambiare radicalmente le cose. Per un benessere collettivo era il ceto colto che, fatte proprie le idee d’Oltralpe, auspicava veramente miglioramenti e riforme. Esso avrebbe voluto attuarle, cosa che risultò impossibile, non tanto perché, come scrive Gentile: «la Sicilia era stata la sola parte dell’Italia a non risentire socialmente il contraccolpo della Rivoluzione francese», quanto perché c’era nella massa un rilassamento spirituale6, un bisogno di conservare e di migliorare il proprio stato sociale, da parte dei nobili, del clero e dei borghesi, senza sovvertire l’ordine politico. La povera gente, rurale e contadina, era asservita a questi ceti e da essi dipendeva. La borghesia, che in Francia fu parte attiva e fece da traino al terzo stato, da noi cercò di emulare i ceti emergenti e di consolidare una sua posizione di privilegio, per cui, a volere usare le stesse parole di Virgilio Titone, «non manca chi, dietro le quinte, si serve della plebe e la dirige e consiglia per fini più lontani7.» 

La Sicilia è stata sempre così, ed è tuttora difficile apportarvi cambiamenti significativi. Ognuno ha pensato a sé, dimenticando gli altri. I molti interessi dei pochi ne hanno condizionato lo sviluppo. Così è tuttora. E la massa, se prima seguiva ciecamente, o rassegnata, il signore da cui dipendeva, adesso vota per l’amico che le ha promesso un lavoro, o per l’amico dell’amico di cui può avere bisogno. La povera gente non era libera allora come ora o, per lo meno, non aveva la possibilità di fare scelte, perché erano i potentati a scegliere per lei; un male, questo, così radicato da ostacolare ogni sviluppo, politico e socio-economico. 

Eppure le idee circolavano.Tra il Sette-Ottocento ci furono accesi dibattiti che affrontarono i più disparati problemi del tempo e si prospettarono soluzioni in linea con quelle avanzate in altri paesi. Così avvenne con la pena di morte, anticipando le conclusioni di Beccaria, o a proposito della querelle degli antichi e dei moderni, nella quale intervennero, tra i tanti, Vincenzo Gaglio e Giuseppe Alondres: il primo nei suoi scritti risente dell’influsso di Montesquieu ed è per i moderni, l’altro della filosofia morale del Sei-Settecento e preferisce gli antichi. 

Le dispute interessarono problemi di attualità, di diritto, di filosofia, di religione, ma anche di storiografia, tanto che si cominciò a vedere più oggettivamente il fatto storico, a voler conoscere cosa fu realmente, al di là delle spinte emotive o delle convinzioni che fino ad allora erano state di ostacolo alla verità. Nicola Spedalieri da Bronte confutava molte tesi di Edward Gibbon, l’autore della Storia della decadenza dell’Impero Romano, in una sua opera molto apprezzata da Domenico Scinà8, e l’agrigentino Vincenzo Gaglio si meravigliava come Voltai re potesse esprimere un giudizio negativo nei confronti di Augusto. Ma non accettava anche punti di vista di autori classici latini come Livio, che allora, insieme con tanti altri scrittori, era conosciuto e studiato9. 

Quanto detto finora, credo sia indizio non, come afferma Gentile, «della scarsezza di contenuto e però della debolezza di tradizione della cultura, che la Sicilia al momento della unificazione nazionale recava seco, come proprio patrimonio10 >>, bensì di ricchezza di contenuto e di un suo solido radicamento nella tradizione culturale siciliana. Se poi molti scrittori nostrani costretti a stabilirsi nella penisola (Gentile cita P. E. Giudici e F. Ferrara), ma anche quelli che continuarono ad operare nell’isola, non ebbero difficoltà alcuna a fare proprio il nuovo clima che veniva ad instaurarsi con l’unificazione, il merito va alla stessa cultura siciliana perché da sempre era stata a contatto con quella italiana. Di conseguenza, all’atto dell’unificazione, le due culture (quella siciliana e l’italiana) avevano tanti tratti comuni; per questo i nostri si sentirono a casa loro, imponendosi e dettando leggi in ogni campo della vita nazionale. D’altronde, quale altra regione della nuova Italia aveva e tuttora ha una letteratura così ricca da competere con quella siciliana? Lo stesso Dante ne riconobbe il primato11, anche se poco dopo la storia cambierà corso, come si sa, e quel primato passò alla Toscana. 

Gentile, a riprova della sua affermazione, porta come esempio il verismo di Verga, Capuana e De Roberto, la cui arte non può spiegarsi se non come prodotto del vasto movimento culturale dilagante in Europa in quello scorcio di secolo. Vera senza dubbio l’affermazione, ma non si può pretendere il contrario, che, cioè, non c’era motivo per cui la Sicilia non avrebbe dovuto risentirne, perché diversamente avremmo avuto davvero la chiusura, cosa che non ci fu. 

Le idee circolano e si diffondono adeguandosi alle diverse realtà. In Sicilia il positivismo e il verismo trovarono terreno fertile negli scrittori sopra riportati e in tanti con tanti altri, ed ebbero anche come cantore Mario Rapisardi, che fece sua la tendenza del tempo, anche se dalla sua poesia traspare un animo candido innamorato della vita e delle intime manifestazioni del cuore. Se Rapisardi, verista e romantico al tempo stesso, operò al di fuori dei canoni di scuola, non così fu per gli altri che vi si adeguarono fin quando poterono, perché nei veri artisti è l’estro che prende la mano, facendo tesoro di una materia che, messa in luce dall’arte (a niente erano valse le tante inchieste), con tanto effetto denunciava i mali della società siciliana. 

Quello che vogliamo dire è che, comunque, l’originalità non consiste nell’essere promotori di un pensiero o di un’arte, ma nel modo come quel pensiero e l’arte vengono fatti propri. Oggi parliamo di Capuana più come teorico verista che come artista; il contrario diciamo di Verga, universalmente riconosciuto come indiscusso maestro. Vogliamo ancora aggiungere, e Gentile sapeva benissimo questo, che un movimento di cultura, se è veramente tale, si diffonde da sé a macchia di leopardo, in una nazione prima, in un’altra dopo, come fu per lo stesso positivismo nella seconda metà dell’Ottocento: prima in Francia e in Inghilterra, poi in Germania, in Italia e negli altri paesi. Come tutti gli altri movimenti di cultura del passato, esso sarebbe arrivato in Sicilia lo stesso, anche a non essere unita all’Italia, e avrebbe avuto i suoi studiosi. 

Ritornando al verismo italiano, esso fu veramente tale grazie all’arte degli scrittori isolani e, soprattutto, grazie al Verga che fece assurgere a dignità elevata una materia prettamente siciliana, purificandola e vestendola di una universalità tutta propria ed originale che niente ha a che fare con il regionalismo. Il verismo italiano fu tale perché prima di tutto fu siciliano. Non per questo agli autori menzionati aggiungiamo altri, meno famosi ma meritevoli di essere ricordati e studiati, come Alessio Di Giovanni, che nei suoi lavori e in particolare in Gabrieli lu carusu12, risalta un’umanità sofferente che in Sicilia come nelle varie parti del mondo rivendica migliori condizioni di vita e invoca una giustizia negata. 

Scrive Giovanni Gentile: 

«L’Isola era stata sempre sequestrata, a causa del mare e della scarsezza dei commerci, da ogni relazione col resto del mondo. Quando nel 1781 ci venne come vicerè il napoletano Domenico Caracciolo, credeva di giungere, dice uno storico siciliano, fra gl’Irochesi e gli Ottentotti13.» 

Lo storico ricordato è Isidoro La Lumia, grande sicilianista che, rispolverando documenti e antiche carte redatte sotto i Borboni, contribuendo con il suo lavoro di studioso al bene della patria, aveva notato un regresso rispetto al passato e coglieva l’occasione, l’isola ormai accorpata allo Stato italiano, per auspicare interventi e maggiori attenzioni da parte di chi quelle attenzioni e quegli interventi aveva promesso già a partire dal 1860. 

La Sicilia è stata sempre un’isola aperta, mai «sequestrata». Al centro, com’ è, del Mediterraneo, ha mantenuto buone relazioni non solo con i paesi costieri, ma anche con quelli più lontani che vi trovavano generi di prima necessità e quant’ altro vi si produceva. Durante tutto il Settecento, nonostante l’ assolutismo borbonico, i commerci furono floridi soprattutto con la Spagna, e in Sicilia venivano a rifornirsi navi maltesi, inglesi, francesi, olandesi, portoghesi, per non dire di quelle provenienti dal nord Italia, genovesi, veneziane, livornesi e altre ancora. Si esportavano grano, orzo, sommacco, zolfo, e tanti prodotti isolani; in cambio, si importavano spezie varie, cacao, panni, legno, zucchero e merci che servivano al fabbisogno nostrano14. 

Ci furono pure periodi di crisi dovuti a cattivi raccolti che facevano registrare un rallentamento dei commerci, ma era normale e ciò si verificò dovunque. Eppure, i baroni e i mercanti trovavano il modo, con la compiacenza di uomini di governo, di vendere il grano destinato all’ approvvigionamento delle popolazioni, con i conseguenti aumenti dei prezzi e, quindi, con le epidemie e le rivolte che ne derivarono, come avvenne nel 1763 sotto il vicerè Fogliani15. Frutto, comunque, di cattiva amministrazione legata ad interessi di parte, piuttosto che ad una politica tesa a migliorare il paese, nonostante le sue risorse naturali ed umane. Se a questo aggiungiamo che gli stessi commerci che si svolgevano per mare non erano sicuri per via delle scorrerie piratesche (i pirati infestavano tutti i mari e spesso erano reclutati da nazioni nemiche per ostacolare i commerci tra stati amici ed accaparrarsi le merci), il quadro della Sicilia del Settecento è più completo. 

Ad evidenziare le potenzialità della Sicilia sono gli stessi viaggiatori che già nel Settecento affluirono dai diversi paesi per visitare l’isola tanto decantata per il clima, le bellezze e le antichità, e non calcarono la penna sulle negatività che enumera Gentile; c’erano pure, ma non era tutto nero come fa apparire. In Sicilia, come in altri paesi, si viveva quasi la stessa realtà. Certo, in alcuni di essi c’era più liberalismo, da noi vigeva un assolutismo che doveva fare i conti con le nuove idee e che in altre parti stava crollando. 

Il tedesco Friedrik Miinter e l’inglese Henry Swinburne16 fecero considerazioni abbastanza positive sulla produttività del terreno, per tanta parte, però, lasciato incolto e facevano ricadere la colpa sul governo. Altri viaggiatori notarono i commerci che abbisognavano di potenziamenti, rallentati spesso da crisi dovute a carestie o altri fattori umani. Erano visitatori che, attratti da curiosità artistico-culturali, paesaggistiche, antropologiche, spinti da quel far parlare di sé proprio della Sicilia, affrontavano non pochi disagi per visitarla, tra strade malandate, inesistenti o ridotte a pantani d’inverno, malsicure per il brigantaggio dovuto ai tanti problemi irrisolti e all’ abbandono in cui la povera gente viveva e, comunque, già molto ridimensionato nella seconda metà del Settecento. Esso non fu un fenomeno soltanto siciliano, tant’ è che i governi cercarono nel tempo di ovviare all’inconveniente ricorrendo alle maniere forti, come agì il vicerè Fogliani che diede incarico al principe di Trabia di fare piazza pulita dei banditi. 

Giovanni Visconti Venosta17, citato da Gentile, parla di rischi «bensì sempre inferiori alla leggenda». Ma siamo già nel 1853. Brydone18, che fu in Sicilia nella primavera-estate del 1770, si premunì di guardie del corpo, ma non ebbe incontri spiacevoli, anzi fu bene accetto e rispettato ovunque. Lo stesso Hager19, che visitò la Sicilia in due occasioni, tra il 1794 e il 1796, riferisce di aver sentito parlare di banditi, ma non ebbe di essi conoscenza diretta. 

C’è da dire che in Sicilia i briganti, per un insito senso di ospitalità, avevano sempre avuto massimo rispetto per i viaggiatori stranieri. Mlinter, scrive: «A dispetto di tutti i racconti di banditi e di assassini, io ho viaggiato disarmato nella più perfetta sicurezza. [ … ] Collera e vendetta sono i peccati ereditari di ogni nazione meridionale d’Europa. Si trovano questi in grado distinto tra i Siciliani, ma un forestiero che non ha alcuna occasione d’irritare un nazionale, oppure, che sappia osservare la necessaria precauzione, non ha nulla da temere.» La stessa cosa in tempi più recenti affermerà H. Koenigsberger (20) che nei Siciliani riconosce come «preminente caratteristica: la loro umanità». 

Giovanni Gentile, che certamente ebbe a cuore le sorti della sua terra, voleva con i suoi interventi dare un contributo alla causa nazionale dell’Italia che, politicamente unita, mancava ancora di quell’unità spirituale che la rendesse veramente una nazione. Essa ancora non aveva saputo legare a sé le popolazioni perché non aveva mantenuto le promesse fatte, lasciandole nel più completo abbandono, aumentando così lo stacco tra Nord e Sud e favorendo brigantaggio e rivolte. 

La Sicilia, dallo sbarco di Garibaldi in poi e quasi per tutta la prima metà del 

secolo scorso, non aveva visto niente di nuovo, e la sua gente aveva aspettato invano la terra promessa; tante volte si ribellò, bruciò perfino archivi e municipi, ma lo Stato centrale non fece altro che mandare l’esercito a sedare con la forza le rivolte21. A niente servirono le denunce e le inchieste. Lo Stato non aveva la forza di garantire la giustizia perché non c’era alcuna volontà politica di risolvere i secolari problemi delle classi rurali e contadine. E questo malcontento acuì lo spirito separati sta dei Siciliani, da Napoli prima, quando nel 1848 idearono e si batterono per un’autonomia tra Stati confederati, e dallo Stato italiano dopo, quando nel 1866 Palermo insorse per separarsi da Torino. Tentativi entrambi falliti non perché mancavano gli uomini e le idee, ma perché la classe colta che se ne faceva promotrice non trovò l’unità d’intenti con le altre classi sociali, per cui facile venne ai poteri costituiti ristabilire l’ordine con l’esilio e l’uccisione dei capi rivoltosi. 

Il 1848 fu una grande lezione politica per tutti, ma dovunque, nei vari Stati europei come in Sicilia, la rivoluzione rientrò e ci fu una forte repressione; il 1866 fu la rivolta palermitana del «Sette e mezzo» (durò poco più di una settimana dal 16 al 22 settembre) causata da diversi fattori, non ultimi il malessere dilagante e la delusione: i Siciliani, nell’abbandono sotto i Borboni, si erano venuti a trovare ancor più abbandonati, spogliati e soli sotto i Savoia! 

Ancora una volta le aspirazioni dei Siciliani erano state disattese. E anche se tanti, a cominciare da Mazzini, per un motivo o per un altro, condannarono l’accaduto (l’Italia stava vivendo una congiuntura sfavorevole per via della guerra con l’Austria), certo non fu, come scrive Gentile, pur riconoscendo il disagio e l’ amarezza della popolazione siciliana, «opera brigantesca degli elementi più torbidi delle infime classi sociali, sobillati e sostenuti segretamente da clericali e borbonici, colpiti ne’ loro privati interessi»22. Essa fu, per dirla con Francesco Renda, «senza dubbio una manifestazione incontenibile ed esplosiva di malcontento e di protesta popolare» che trova le sue cause in un insieme di motivi che andavano al di là della stessa Sicilia e vedevano coinvolti l’economia isolana, il governo centrale e la stessa politica, sia della destra che della sinistra23. In ogni caso, fu un campanello d’ allarme che denunciava la fragilità del costituito Stato italiano e il desiderio di una vera autonomia, tradita e sempre lontana. 

Unita all’Italia, la Sicilia s’avviò verso il tramonto come nazione, ma non rinunciò mai alla cultura nella quale la sua gente si è sempre riconosciuta e continuò a tenere viva la sua aspirazione autonomistica. Le rivolte a cui abbiamo fatto riferimento, il separatismo del 1943, la stessa rivolta del 1958 e le spinte in tal senso di questi ultimi anni confermano questo assunto. Ciò vuoi dire che, pur in una visione politica unitaria italiana, la Sicilia non ha mai cessato di sperare in una sua indipendenza e di guardare alla tradizione, non come rimpianto del passato, bensì come punto di riferimento ad un presente che è pure incerto. Senza dubbio, l’unità apportò un notevole cambiamento, ma il modo di vedere e di sentire siciliano, pur arricchendosi di nuovi apporti, rimase invariato. 

Gentile non manca di vedere in tutto questo il persistere di un regionalismo che andò dissolvendosi dal 1860 in poi24. Egli individua la causa della «dissoluzione di questa cultura regionale» nell’isolamento in cui la Sicilia era rimasta fino al 1848, «estranea e ripugnante » alla nuova cultura che si respirava in Italia e altrove, alludendo alla cultura romantica, con gli studi giuridici, filosofici, letterari e con la nuova concezione della storia. 

La Sicilia, aperta e sensibile al nuovo, respirò quella cultura, anche criticamente, calandola nella sua realtà. Sicché lo stesso romanticismo non fu «estraneo » né «ripugnante», perché da noi si verificò quello che stava avvenendo (o già era avvenuto) negli altri paesi. Anche qui ci fu tutta una polemica classico-romantica che coinvolse i letterati migliori e che si svolse tramite dibattiti e articoli pubblicati nei diversi giornali e riviste siciliani e italiani, come «La Ruota» e «Il Vapore» di Palermo, «Lo Stesicoro» di Catania, «Lo Spettatore Zancleo» di Messina, «Giornale Arcadico » di Roma. Tanto per citarne alcuni, classicisti furono F. Malvica, T. Gargallo, A. Gallo, L. Vigo, S. Costanzo, F. P. Perez; romantici F. Bisazza, M. Coffa, G. Turrisi Colonna, Eliodoro Lombardi, G. Daita, S. Barbagallo-Pittà. 

Ma, al di là degli schieramenti, classicisti ·e romantici furono accomunati dal desiderio di vedere la Sicilia socialmente riscattata e più democratica. I primi auspicavano maggiore autonomia, senza cambiare né l’orbita d’influenza né l’ordine sociale; i secondi propendevano, invece, per un cambiamento radicale, vedendo nell’unità con le altre regioni italiane maggiori possibilità di sviluppo per la Sicilia. Per questo, entrambi, accomunati nel bene maggiore e in esso concordi, mirarono ad una letteratura che fosse comprensibile e popolare25. 

Anche dal punto di vista filosofico la Sicilia risentì del clima culturale italiano e straniero (soprattutto tedesco e francese) del Settecento e primo Ottocento. Essa da sempre aveva avuto rapporti strettissimi con il resto d’ Italia e non rimase sorda alle nuove istanze del pensiero europeo che vi giungevano, passando dalla Francia; semmai, elaborò e fece proprie quelle che riteneva più congeniali per un suo rinnovamento morale e civile. I suoi filosofi migliori, che pure si erano nutriti dell’empirismo e del razionalismo del Settecento, e avevano assimilato bene la filosofia di 

Wolff, giudicarono parolaio e inconcludente l’idealismo tedesco di Fichte, Schelling ed Hegel, conosciuto attraverso l’eclettismo di Victor Cousin, che fu seguito da molti filosofi siciliani, come Francesco Pizzolato e Salvatore Mancino. 

Di Cousin i nostri studiosi apprezzarono l’afflato spiritualistico, l’ affermazione della libertà, della spiritualità indi viduale e dell’ esistenza di Dio. Perciò, se da un lato veniva a consolidarsi lo spiritualismo, terreno fertile aveva trovato in Sicilia il positivismo e l’evoluzionismo spenceriano, studiati anche dal giovane Gentile al liceo «Ximenes» di Trapani26. 

L’apertura allo spiritualismo, la formazione di una coscienza nazionale, il guardare alla tradizione, era il clima culturale del Risorgimento, ed era quanto avveniva in Italia, dove il pensiero illuminista venne sviluppato nel sensismo di Condillac e di Tracy, o anche criticato, come fecero Galluppi, Gioberti, Rosmini, Romagnosi e altri. 

Contrariamente a quanto afferma Gentile (27), che, cioè, la cultura siciliana rimase ferma al secolo XVIII, tra la fine del Settecento e il primo Ottocento in Sicilia si respirò lo stesso clima che in Italia. Lo studio e la ricerca mirarono alle esigenze del momento storico e perciò Vincenzo Tedeschi studiò e approfondì Kant, quello della Metafisica dei costumi (1797), cioè, Kant etico e politico, ma anche P. Galluppi, a sua volta studiato da Antonio Catara-Lettieri, e G. D. Romagnosi, che fu seguìto da un folto gruppo di studiosi e filosofi, come V. d’Ondes Reggio, B. Castiglia, E. Amari, F. Ferrara. 

Romagnosi fu apprezzato per la sua «filosofia civile» e per il recupero della filosofia della storia, la quale aprì agli studi storici e fece conoscere ed avvicinare i filosofi siciliani a Vico. Così, lo stesso V. Gioberti, che ebbe anche lui diversi seguaci (il citato Catara-Lettieri, Antonio Maugeri, Nicolò Garzilli), fu studiato per il suo ontologismo che afferma l’ «Ente» e valorizza l’ «esistente» come fattore di storia. Di qui l’esigenza di indagare la storia millenaria della Sicilia per farla meglio conoscere nella realtà e nei bisogni presenti. Per gli storici siciliani non fu facile, ma questo obiettivo li guidò nella ricerca e nella vita, da uomini di studio e di impegno nel sociale. Ciò li portò a sacrificare per il momento il principio dell’autogoverno siciliano e ad accantonare tutte le altre rivendicazioni. 

Queste argomentazioni riprendono quelle che Gentile espone nel Tramonto della cultura siciliana. Da quanto espresso, però, questo «tramonto» non ci fu, perché la cultura siciliana seppe affrontare il nuovo corso politico e continuò ad essere voce e riflesso dei Siciliani. È vero che la Sicilia rinunciò per il momento, come era avvenuto nel passato con le altre dominazioni, alla sua autonomia e si inserì a buon diritto nel nuovo contesto italiano, ma l’«anima siciliana », la cultura restò attiva ed operosa, anzi, risultò corroborata, perché si arricchì, adeguando le sue problematiche alla nuova realtà. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

1. G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, pagg, 4-5, Sansoni, Firenze, 1963′. 
2. S. Vecchio, L’Umanesimo siciliano, «Spiragli», 1997, anno IX, n. 3-4, pag. 5. 
3. C. Messina, Sicilia e Spagna nel Settecento, Società Siciliana per la Storia Patria, 1986, pag. 245, Palermo. Cfr. anche S. Correnti, La Sicilia nel Settecento. Il tramonto dell’Isola felice, voI. II, Tringale, Catania, 1985. 
4. S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, Torino, ERI, 1964, pago 250. Vedi anche F. De Stefano, Storia della Sicilia. Dal secolo XI al XIX, Bari, 1948, pag. 236 e segg. 
5. F. De Stefano, cit. pag. 261. 
6. Ivi, pag. 305. 
7. V. Titone, Sicilia e Spagna, Novecento, Palermo, 1998, pag. 293. 
8. L’opera è: Confutazione dell’esame del Cristianesimo fatto dal signor Edoardo Gibbon nella sua Storia della decadenza del Romano Impero», Roma, 1784. Scinà scrive: «Gibbon alle prese con lo Spedalieri ti pare un pigmeo, ti fa proprio pietà.» Cfr. C. Messina, Settecento italiano classicista e illuminista, Herbita, Palermo, 1980, pag. 29. 
9. V. Gaglio, Problema storico-critica-politico: Se la Sicilia fu più felice sotto il governo della repubblica romana, o sotto i di lei imperatori, in «Notizie de’ Letterati», Palermo, 1772; poi in Opuscoli di autori siciliani, voI. XVII, Palermo, 1775. Cfr. C. Messina, ciI., pagg. 56-57. 
10. G. Gentile, cit., pag. 3. 
11. Dante, De vulgari eloquentia, I, 12,2; I, 2,4. 
12. A. Di Giovanni, Teatro siciliano, Studio Editoriale Moderno, Catania, 1932. Si trova anche in Teatro verista siciliano (a cura di A. Barbina), Bologna, 1970. 
13 G. Gentile, cit. pag. 5. 
14. C. Messina. Sicilia e Spagna nel Settecento, cit. Cfr. V. Titone, Economia e Politica nella Sicilia del Sette e Ottocento, Palermo, 1947. 
15. S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, cit., pagg. 244-250. 
16. F. MUnter, Viaggio in Sicilia (a cura di D. Peranni), Palermo, 1823; H. Swinburne, Voyage dans les Deux Siciles (a cura di J. B. de la Borde), Parigi, 1787. 
17. G. Gentile, ciI. pago 7. Cfr. G. ViscontiVenosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute, Milano, 1904. 
18. P. Brydone, Viaggio in Sicilia e a Malta nel 1770 (a cura di V. Frosini), Milano, 1968. 
19. J. Hager, Impressioni da Palermo, Palermo, 1997. 
20. D. e H. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquant’anni), Caltanissetta, 2002. 
21. S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, cit., pagg. 289-292. 
22. G. Gentile, cit., pag. 22. 
23. F. Renda, Storia della Sicilia (dal 1860 al 1970), vol. I, Palermo, 1984, pagg. 208-212. 
24. F. De Stefano, ciI., pag. 393. 
25. G. Santangelo, Letteratura in Sicilia da Federico II a Pirandello, Palermo, 1975′. Cfr. F. De Stefano, cit., pag. 354. 
26. M. Di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze, 1975, pago 6 e segg. 
27. G. Gentile, cit., pag. 31.

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 10-19.