Il mio paese
Sono nato in un paese di cui conservo solo il ricordo. Vi passai la mia infanzia, e me ne allontanai quando cominciai a guardarmi attorno, scoprendo il mondo con occhi non più bambini.
Cosa potrei allora dire del mio paese, se non quello che mi porto dentro e mi appartiene?
Sorge su un’altura e guarda il mare. Una volta, dalle parti più alte, ad occhio nudo si saranno viste entrare nelle rade le navi pirata ammainanti bandiera bianca, ché non credo i pirati abbiano usato qui le scimitarre o i tromboni.
A strapiombo sul mare sorgeva il castello fatto costruire nel 1358 da Federico III Chiaramonte, conte di Modica, a cui questa terra apparteneva. Un maniero imprendibile, utilizzato come deposito di grano e roccaforte in caso di emergenza. Il visitatore l’avrebbe potuto ancora ammirare, se il tempo, le incurie e l’ignoranza degli uomini (queste ultime superano di gran lunga il primo nella loro opera di distruzione) non l’avessero reso un immenso cumulo di macerie, utile ricovero per i delinquenti o, nel casocmigliore, improvvisato ovile.
Ricordo che il maestro delle elementari – un uomo di mezza età, serio, poco colloquiale con noi ragazzi, ma umanamente buono (anche a volerlo citare, non ricordo il nome) – parlando delle origini del mio paese, diceva che sul posto dove venne fondato sorgevano tante palme e da esse prese il nome.
Contadini robusti, armati di accette, asce e picconi, vennero dalle vicine terre di Licata, e ci fu lavoro per tutti e per diverse stagioni. A testimoniare ciò quella brava gente lasciò una palma che, a sfida del tempo radicalmente mutato e degli uomini. resistendo, ancora svetta in cìelo i suoi rami, sicuro riparo dei passerotti. Vanno lì nella bella stagione a nidificare.
Contadini d’una volta su cui si poteva contare, e con pochi grilli per la testa, che tramandavano ai figli i lavori, ed erano gratificati e edificati dai loro signori, ché non credo ci siano paesi che vantano santi, beati e uomini di chiesa quanti il mio.
A fondare il mio paese furono due gemelli, Carlo e Giulio Tomasi, due sant’uomini all’antica che avevano a cuore il bene degli altri e praticavano le virtù come massime di vita a cui sempre bisogna guardare se si vuole la misericordia divina dalla nostra parte. Sta di fatto che Carlo rinunciò di lì a poco al ducato per vestire l’abito talare, e divenne teologo e servo di Dio. Al posto suo subentrò il fratello Giulio, II duca di Palma e I principe di Lampedusa. Carlo lasciò che il fratello continuasse la sua opera e che Giulio sposasse persino la sua ex fidanzata, Rosalia Traina, baronessa di
Torretta e di Falconieri.
Il mio paese allora doveva essere costituito da poche casupole di coloni che sorgevano attorno al palazzo ducale. Ma ben presto Giulio Tomasi si diede alla costruzione di chiese e monasteri, seguendo i consigli che gli venivano da più parti. Innanzitutto quelli del fratello Carlo che, dal monastero dei padri teatini di Palermo, dove s’era rinchiuso, insisteva perché si adoperasse a fare del bene al prossimo e, con opere più che con parole, tenesse viva la fede evangelica tra la gente. E poi quelli della moglie, Rosalia Traina, che di lì a qualche anno si sarebbe fatta suora.
Giulio I Tomasi di Lampedusa finì per cedere il palazzo ducale che divenne monastero benedettino e se ne fece costruire un altro dove passò i suoi giorni nella preghiera e in opere di bene.
Il duca santo – così da allora cominciarono a chiamarlo – era un uomo tutto cuore che non si faceva sfuggire la pratica della carità che, anzi, programmava e curava di
persona, vestendo gli ignudi e sfamando gli affamati. Anche lui si era votato interamente a Dio, dopo che aveva visto farsi monache le quattro figlie e la moglie, da cui consensualmente nel 1661 si era diviso, volendo «vivere in celibato per il rimanente della loro vita».
Da una famiglia così pia e serafica chiunque si sarebbe aspettato un santo, e il santo c’è stato nella persona di Giuseppe Maria (nato nel 1649), figlio del duca Giulio e della baronessa Rosalia Traina.
Seguendo le orme dello zio Carlo, Giuseppe Maria Tomasi abbandonò ogni cosa e si fece religioso, entrando nel monastero dei padri teatini, a Palermo. E di qui a qualche anno andò a Roma per continuare gli studi di filosofia e teologia.
Chi volesse rendergli visita, trovandosi a Roma, può portarsi nella chiesa di S. Andrea della Valle. Qui in una cappelletta della fiancata destra riposano i suoi resti mortali.
Non saprei descrivere quale fu la mia impressione andando la prima volta a rendere omaggio ad un si grande concittadino. So soltanto che sembrava come chi, dormendo, è in balia di un piacevole sogno, e la sua espressione è serena, soffusa di gioiosa dolcezza.
A volte mi chiedo dove siano andati a finire la santità e il timore di Dio degli antichi miei concittadini, ora che il paese è noto e conosciuto esclusivamente per i fatti e i misfatti che vi succedono. Chissà, forse per una rivalsa delle forze demoniache che nei tempi passati non avevano mai avuto il sopravvento o, forse. per la confusione che nella gente c’è tra ciò che è bene e ciò che è male. Ma, intanto, spesso si sconfessa la ragione e si rifiutano certe norme del vivere civile.
Il paese della mia infanzia differisce di molto dall’odierno «Comune d’Europa», come recita la scritta turistica postavi all’entrata. Ora non lo riconosco più, e mi sento un estraneo tutte le volte che vi ritorno. Certo, lo starne lontano ha influito parecchio. Le cose vengono guardate da angolature diverse, e l’uomo è portato a elaborarle criticamente e a confrontarsi con gli altri, uscendo dal suo piccolo e curando i contatti, indispensabili in una società in continuo cammino come la nostra. Aumentate le sollecitazioni, crescono gli interessi e, vuoi o no, sei portato ad arricchirti culturalmente. Al contrario, quando non ci sono stimoli, tutto rimane fermo, e non c’è niente che contribuisca a farti uscire dal chiuso in cui ti sei cacciato, e vi rimani come farfalla che non sa allontanarsi da una lampadina accesa.
Eppure qualcosa è cambiata al mio paese. C’è il passeggio, e dal primo pomeriggio fino a sera, una marea di giovani attraversa in lungo e in largo corso G. B. Odierna. Certo, l’evoluzione arriva anche qui, dove in passato bisognava stare attenti a guardare una donna. Subito veniva chiamato in causa l’onore e allora scattavano i ragionamenti chiarificatori e le scuse. Altri tempi, quando, per lo meno, si chiacchierava e tutto finiva lì, bevendo del buon vino sopra i discorsi che si protraevano fino a notte. Ora che il progresso ha mandato in soffitta l’onore, non c’è motivo alcuno di ragionare. E chi sbaglia. paga, perché la giustizia. al mio paese, non sta (nemmeno a parole) nei tribunali.
Il progresso ne ha fatta di strada! Ci sono al mio paese le vigili, e si fanno sentire, coi loro fischietti, anche se nessuno le tiene in considerazione. E, per chi viene da fuori, è un rischio guidare. Gli stop, i divieti, i sensi unici non sono rispettati, e chiunque ha dalla parte sua la ragione. Ricordo che in uno dei miei sporadici ritorni. dettati più che altro da dovere filiale, una persona, solo perché non le diedi la precedenza, avendo la mia destra libera, mi guardò con due occhioni così brutti che, a pensarci, mi incutono ancora paura.
C’è il passeggio, ci sono le vigili e ci sono anche i lunghi cortei funebri, occasioni di ritrovo e di chiacchiere che niente hanno da spartire col morto. Ma non c’è una biblioteca pubblica, e manca anche l’ospedale. D’altronde, come si può pretendere di elevare lo spirito, se non c’è la possibilità di curare il corpo?
I ricordi dell’infanzia mi legano al mio paese, e niente esercita in me una così forte attrazione come i luoghi e le persone che, andandomene, vi lasciai.
Persone che non ci sono più restano ferme e vive nella mia memoria, e i luoghi che mi videro bambino mi richiamano con prepotenza, quasi come dire: «Ecco, siamo ancora qui, nonostante. Nonostante le caotiche costruzioni che ci stringono sempre più e ci rendono irriconoscibili, siamo noi, il tuo mondo d’una volta! Vieni, soffermati un po’ con noi: Via Turati, Convento, Badia, piazza S. Angelo . . . Adesso è come se non ci fossero più bambini, attratti più che mai dalla televisione. Vieni, e resta un po’ con noi».
Eppure mi sento un estraneo, ogni qualvolta tomo al mio paese. Quando provo a passare per queste strade e a sostare in queste piazze, è come se non ci fossi mai stato. La gente mi prende di mira, e mi scruta, considerandomi un intruso. Ma quelle piazze e quelle strade mi appartengono e sono là a dire che furono la mia seconda casa e il mio mondo.
Piazza S. Angelo era il ritrovo dei ragazzini di tutto il quartiere. Qui passavamo tutti i giuochi in rassegna, secondo il tempo e la stagione e, come una moda, duravano poco, perché soppiantati da altri. Ma alcuni rimanevano sempre alla ribalta: quello della mosca cieca, dei coy-boy e gli indiani, del nascondino. Ce n’erano altri particolarmente singolari. Uno consisteva nel catturare più api possibile e liberarle dopo aver attaccato loro un lungo filo alle zampe posteriori. Chi riusciva a farne volare di più risultava vincitore.
Nelle giornate d’inverno, quando pioveva o l’insistenza del vento non permetteva di stare molto all’aperto. trovavamo riparo in qualche androne, dove – come in un calderone sul fuoco – si raccontava di tutto. Si rientrava in casa a buio inoltrato, dopo che le madri ad uno ad uno chiamavano i propri figli.
Non dimenticherò mai, tra i personaggi di pubblica conoscenza, Sarvaturi. Non so perché lo chiamassero così. anziché Turiddu o Totò, come di solito viene chiamato Salvatore. Era il banditore del mio paese, il giornale cittadino parlante, il divulgatore delle ordinanze municipali o degli avvisi che le autorità davano alla cittadinanza. Sarvaturi, con tamburo e cappello di pubblico ufficiale, si faceva il giro del paese, annunciandosi prima a colpi di grancassa e poi gridando il bando ai quattro venti, in un dialetto infarcito qua e là di vocaboli italianizzati.
Il rullo del tamburo era il richiamo di noi ragazzi che scendevamo subito in campo e, con tutto ciò che poteva servire a far rumore, improvvisavamo un coro. E seguivamo Sarvaturi per tutto il quartiere, fino a quando, stanchi di gridare, non tornavamo ciascuno nel posto da dove eravamo venuti.
Sarvaturi era un uomo sui generis: bonaccione, facile allo scherzo ma pronto a montare su tutte le furie! Ed erano guai. Dovevi dartela subito a gambe, se non volevi buscarti una sassata in testa. Per questo, lo accompagnavamo coi nostri tamburi improvvisati, ma poi dovevamo ascoltarlo in silenzio, se volevamo tenercelo buono.
Spesso Sarvaturi prestava la sua opera a privati che, avendo smarrito un porco, una capra o un tacchino, ricorrevano a lui perché, rendendo pubblico lo smarrimento, qualcuno si facesse avanti e restituisse al padrone l’animale. In cambio era previsto un premio per chi l’avesse trovato, a parte la tariffa prevista per il banditore che, in ogni caso, veniva pagato.
Non ho saputo più niente di Sarvaturi, e non so quale fine abbia fatto. Proverò a chiedere notizie e. state certi, ve ne parlerò qualche altra volta.
È curioso il mio paese. non è vero?
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 33-37