Le scelte materiche di un artista possono obbedire talvolta a ragioni che sono ben al di là e ben più in alto delle ragioni della tecnica creativa. Le scelte materiche possono anche attingere dimensioni di profondità concettuale, tale da trovare la radice dei propri processi di determinazione, in termini di logiche espressive, produttive, generative, sul piano delle stesse scelte motivazionali, esistenziali dell’individuo artista che, attraverso quelle scelte, estrinseca oggettivandoli i propri parametri interiori di attività e di giudizio. Le scelte materiche di un artista, in buona sostanza, sono riconducibili ad un rapporto tra la dimensione esistenziale dell’essere e la realtà talvolta dolente del divenire che quell’essere attraversa, risultandone condizionato e nello stesso tempo determinandolo e improntandolo.
Non coglierebbe certamente il senso, lo spessore, la densità emotiva di questo rapporto chi immaginasse che l’orientamento materico di un artista, nel momento che precede la fase creativa, ma che talvolta con essa si identifica, sovrapponendosi, se non in termini temporali, almeno in termini di coincidenza emozionale, si sviluppasse attraverso un accostamento alla materia valutata e accettata in funzione della sua disponibilità estrinseca all’intervento creatore. L’itinerario di questa scelta-rapporto è ben diversamente ricostruibile, sempre che si voglia ricostruirlo in termini di penetrazione della diacronia storica dell’opera d’arte.
Il cammino che porta l’artista all’approccio creativo con una determinata materia trascende la dimensione intrinseca della materia stessa, che non è più vista come supporto naturale, come elemento di estraneità, di alterità, rispetto allo slancio creatore che nell’artista palpita di una propria vitalità autonoma, che autonomamente va accolta, registrata, promossa, sviluppata, fino all’oggettivazione nel manufatto artistico.
Di qui discende lo statuirsi di un processo biunivoco, per il quale la materia si offre all’artista e l’artista alla materia, nella prospettiva di un reciproco arricchimento/impoverimento, quasi spasmodico dono di se stessi all’altro, ad un altro che è l’individuo creatore ed è anche la “cosa” creata, per cui due avidità sembrano accoppiarsi con una fame dell’altro che può anche essere sentita nella prospettiva di una sessualità intellettuale, alla quale non è estranea né l’angoscia del desiderio, né l’appagamento del piacere raggiunto, goduto, sofferto.
A questo punto si potrà anche immaginare e dire che ci sono materie che si offrono con maggiore sensualità all’artista rispetto ad altre che sembrano racchiudersi in una loro gelida frigidità, che l’artista riesce magari a violentare, plasmandole alla propria volontà, senza però che esse conoscano l’ansimare partecipato e partecipante del godimento comune. E questo ovviamente non soltanto in funzione della materia in sé, ma anche in relazione alla fame esistenziale dell’artista.
La tela col suo distendersi aperta nel candore che sa di verginità preziosa e inutile nello stesso tempo, reagisce poco e male alla carezza/oltraggio del pennello o della spatola, per cui il dono del colore che è dono di sangue e di intelletto sembra ricevuto senza gratitudine, nella prospettiva di un omaggio dovuto, di un ossequio istintivo, quasi compenso/risarcimento per la perduta (ma non donata) verginità.
Il marmo col suo incombere massiccio e greve, finché ovviamente levità non gli venga dallo scalpello che fruga, penetra e crea, sembra postulare un distacco, rispetto all’artista, sembra statuire una sorta di distanza di rispetto, che l’intervento creatore riesce a superare soltanto se ed in quanto la forza sua intrinseca sappia e possa domare, per così dire, il blocco, il masso, il nemico/estraneo di marmo. E le stesse reazioni del marmo all’intervento passionalmente violento della mano scalpellante dell’artista, restano in termini di rigidità, di freddezza, di estraneità, poiché si concretizzano in schegge dolenti e scabre, in blocchi che si staccano, in elementi di superfluità che vengono eliminati e che comunque conoscono una sorta di processo di rifiuto, di rigetto, di distruzione.
Il bronzo nasce alla vita dell’arte passando attraverso un diaframma che si pone con secchezza ardente tra l’artista e il risultato della sua emozione creativa: penso al diaframma del fuoco della fusione, il cui peso nel processo creatore non saprei quantificare senza chiedermi dove finisca l’impegno dell’artista e dove cominci la forza di natura, che l’artista deve assoggettare alla sua volontà ma che attraverso i vincoli e i legami della tecnica, attraverso i limiti rappresentati dalla forza limpidamente eppur ottusamente costruttiva delle leggi della fisica, può anche rifiutarsi all’imperio emozionale del creatore. La lunga notte/lotta del Cellini, l’angoscia che avvelenava il suo gioioso anelito creativo, in attesa della riuscita della fusione, se da una parte segnano una delle pagine più brillanti della sua prosa autobiografica, dall’altra traducono in termini letterari un dramma artistico che trova la sua matrice proprio in quel fuoco/diaframma che separa l’artista dalla materia bronzo.
Non diversa appare la situazione relazionale per quanto concerne la creta, che nella morbidezza della sua umida modellabilità contiene un germe di fragilità, che soltanto attraverso il passaggio del fuoco attinge una solidità che non è però resistenza né durata nell’assoluto del tempo e dello spazio.
Resta il rame, che mi pare fra i materiali che si offrono alla scelta dell’artista quello che maggiormente coniuga la disponibilità con la “durata”, intesa non come durata intrinseca, come durata materica, bensì come durata della creazione, come durata delle forme che lo slancio emozionale dell’artista ha assunto per se stesso e per il mondo al quale egli parla. Sul rame la mano dell’artista interviene con la morbidezza della carezza appassionata, carezza non priva, quando la sensualità della creazione lo esiga, del necessario peso, della necessaria insistenza ai limiti della violenza dolce/forte, che la materia sembra non sgradire, talché la sua resistenza è fatta di cedevolezza, quella cedevolezza che genera il rilievo, il segno, la rotondità, l’espressività.
Nel rame palpita la vita, splende la luce, vibra il calore, si dispiega il colore, attraverso il variegarsi della superficie che acquista toni caldi e pastosi, nelle zone in cui si distende maggiormente per creare il rilievo, accanto a toni volutamente più freddi negli angoli nei quali la bruschezza dei dislivelli genera zone d’ombra, oscurità di sentimento e senso.
In questa prospettiva spirituale le scelte materiche di Romano Cammarata, che ha, a lungo, privilegiato il rame sfogando su di esso una sua rabbiosa fame di vita, di certezze, di bisogni indistinti eppur sofferti, assumono il senso di una affermazione esistenziale, tesa a dire, attraverso le mani e il martello sul quale quelle mani cercavano e trovavano ritmi di vitalità anelante, quello che la parola si rifiutava di esprimere.
La biografia interiore di un artista non può ignorare certi dati della vicenda umana, che se non condizionano l’evoluzione spirituale dell’uomo rappresentano comunque un elemento che interviene nella storia intima dell’essere. Taluni momenti di dolente realtà hanno segnato l’interiorità di Cammarata, che ne è uscito proiettato verso il mondo esterno, in un rapporto che è di continua presenza/testimonianza: una presenza che è fatta di multiformità di impegni, di varietà di interessi, di pluralità di moduli espressivi; una testimonianza che è fatta di unità e di costanza nel rapporto col mondo esterno/interno dei singoli e del tutto col quale Cammarata si rapporta.
Ed ancora una volta il rame, come scelta materica nella prospettiva creativa, dice qualcosa di particolare, fornisce qualche ulteriore elemento di chiarificazione per una decodifica sincera e sicura dei messaggi che l’attività/produttività di Cammarata manda a chi voglia accoglierli con altrettanta disponibilità di testimonianza. Il rame dice il bisogno dell’artista che, uscendo da un mondo personale e oggettivo di dubbi, di incertezze, di terrori che sono fisici e poi morali proprio perché fisici, aveva bisogno di poggiare le sue mani su una materia che fosse insieme rigida e morbida, amica e nemica, amica da amare e nemica da domare. Il rame dice l’ansia di afferrare la vita, di possederla, di plasmarla, con un contatto diretto, non mediato, non strumentalizzato da diaframmi, non allontanato da passaggi intermedi. Il rame dice ancora la soddisfazione del risultato creativo che nasce e cresce nella immediatezza di un rapporto tra gli occhi e le mani dell’artista, in una tridimensionalità che non ha spigoli, non ha sbalzi, non ha contrappunti, non ha bianchi/neri, ha soltanto morbidezze, rotondità, levità.
La prospettiva assai specifica ed individualizzata di questo rapporto tra materia e intervento creatore che Cammarata ha determinato con la scelta del rame si traduce in talune linee che costantemente caratterizzano la sua produzione. Si spiegano in questa ottica alcuni momenti/elementi della sua galleria ideale. Penso alla pienezza di talune figure femminili, alle cosce robuste ed esibite di taluni nudi che si materializzano in offerta impudente ma non impudica, al sesso che talvolta sembra isolarsi in certe prospettive di moraviana centralità. In queste linee calde e sensuali vibra una fame di vita che può e sa essere indifferentemente fame di terra e di cielo, fame di prosa e di poesia, fame di amore e di sesso, purché terra, cielo, prosa, poesia, sesso, amore nascano dalla vita e vita offrano a chi li accoglie con la serenità/duttilità che è indispensabile per l’uomo nel mondo: per intenderci, la serenità/duttilità del rame.
Antonio Portolano
Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 49-52.
Lascia un commento