La poesia arabo-siciliana nel Medioevo 

Ci volle la venuta degli Arabi per far risvegliare la Sicilia dal sonno socioculturale in cui era caduta all’indomani della definitiva conquista da parte di Roma nel 209 a. C. Non dico che essa riprenderà l’antico splendore greco, ma per lo meno uscirà da quel torpore durato quasi otto secoli! Nel caos in cui era venuta a trovarsi, contesa com’era da Barbari e Bizantini, il diffondersi dei monasteri e l’opera dei monaci, soprattutto quella dei basiliani intorno all’VIII secolo, instaurarono un clima culturale molto ricco, ma furono gli Arabi a mettere ordine in Sicilia, ad aprirla all’ agricoltura e ai commerci e ad un nuovo clima di cultura, che ebbe le sue fasi migliori sotto i Kalbiti e i Normanni1. 

Gli Arabi, dopo un primo periodo di euforia religiosa e di intolleranza nei confronti dei miscredenti, abbandonarono la loro iniziale bellicosità, cercarono nuovi spazi e li trovarono un po’ dappertutto, in Spagna come in Sicilia e in terra d’Oriente. Specie laddove le popolazioni credevano in un solo Dio, essi si mostrarono subito tolleranti, perché in Sicilia nell’aprile dell’827 sbarcarono, insieme con le armi, il Corano e il diritto islamico, e i condottieri, a partire da Asad ibn al-Furàt, furono più abili conoscitori di diritto e teologi che guerrieri2. Questa predisposizione permise loro di crearsi attorno un clima di accettazione e di convivenza che garantì relativa pace. Perciò, la prima cosa a cui gli Arabi pensarono furono le moschee, che sorsero nel più breve tempo un po’ dovunque, ed esse divennero luoghi di preghiera e scuole, idonee ad interpretare il loro testo sacro e a diffonderne gli insegnamenti. 

Nell’ambito di questo clima in Sicilia fu in rapida ripresa la ·cultura e si sviluppò anche la poesia che, per le condizioni di vita, il nomadismo e la solitudine vissuti nei deserti dagli arabi carovanieri, era stata da sempre praticata, per cui, una volta sopito in Sicilia il rumore delle armi, il ricorso ai versi e alla rima recò un privilegiato diletto a tutti, sia agli emìri che alla gente qualunque. Sfortuna volle che tutto questo patrimonio poetico andasse dimenticato per lungo tempo e in parte perduto con la definitiva cacciata degli Arabi. Resta quel tanto che basta per farci un’idea di quella poesia che, seppure sbiadita, nonostante una consolidata ripetitiva prassi, testimonia una forte vitalità dovuta ai temi e al variegato modo di esprimerli. 

Il merito della riscoperta della poesia arabo-siciliana è di Michele Amari, che, mentre andava riordinando e pubblicando il materiale destinato alla sua monumentale Storia dei Musulmani di Sicilia (1854-1872), diede alle stampe nel 1857 a Lipsia Biblioteca arabo-siciliana. Di lì prese il via Poesia e arte degli Arabi di Spagna e di Sicilia di Adolf von Schack del 1865, mentre Celestino Schiaparelli, discepolo e amico di Amari, pubblicava a Roma nel 1897 il suo Canzoniere di Ibn Hamdis, l’unico arrivatoci completo, perché l’altro, quello di al-Billanubi, ci è pervenuto mutilo, tradotto sempre dallo Schiaparelli, ma non pubblicato fino al 1959, quando Umberto Rizzitano lo inserì nell’edizione curata per conto dell’Università del Cairo. Per la verità, di al-Billanubi è stata curata un’altra edizione, ampliata a 600 versi, dall’iraniano Hilal Nagi nel 19763. 

Di altri poeti conosciamo qualcosa da alcuni estratti dell’opera di Ibn al-Qattà, filologo, letterato e poeta siciliano (si sa che nacque in Sicilia nel 1041 e morì al Cairo nel 1121). L’opera era un’antologia, andata perduta, dal titolo La perla preziosa sui poeti dell’Isola, che riuniva 170 poeti per un ammontare di ben ventimila versi. Si tratta di poeti fioriti sotto i Kalbiti (947-1050), in un periodo tranquillo per la Sicilia. Un estratto è quello fatto da as-Sayrafi (morto nel 1147), curato e tradotto in italiano da Ignazio Di Matteo4, contenente 348 versi di 18 poeti. Dagli arabisti (U. Rizzitano, F. Gabrieli, A. Borruso e altri) il lavoro del Di Matteo è ritenuto meritorio dal lato filologico, ma non da quello critico, perché esagerato nei giudizi. A dire il vero, senza volere invadere il campo dell’ arabistica, tranne il componimento, di at-Tamimi, che fa riferimento alla guerra di conquista normanna, siamo dinanzi a temi e motivi della poesia araba preislamica e di quella neoclassica del periodo abbàside più splendido, che va dal 750 con Abu al- Abbas fino all’850 circa, con i califfi Harun alRashid e al-Ma’mun. Poi il califfato cominciò a perdere la sua unità e fu definitivamente abbattuto dall’invasione mongola del 1258. 

Altro estratto di poeti arabo-siciliani è quello inserito nell’antologia compilata da al-Isfahani (morto nel 1201). Ma tutto questo è ben poco rispetto a quella che sicuramente è stata la poesia arabosiciliana. Ci si auspica un’edizione completa perché il lettore interessato e il cultore di cose siciliane possa farsene un’idea più chiara. 

Abbiamo già detto che i temi sono quelli della poesia araba preislamica e neoc1assica. Basti sfogliare l’estratto di as-Sayrafi fatto da Di Matteo: l’elogio di sé o degli altri, l’amore, la descrizione di luoghi e di giardini, per lo più indeterminati, sul far della primavera, il vino con i suoi pregi e gli effetti che produce, la gnomicità e, ancora, la descrizione di fenomeni atmosferici, come il lampo, o oggetti vari (il liuto, il cero), ma anche l’arancia, la palma, o animali. Non manca il tema del dolore. Mancano gli accenni alla Sicilia, qua e là qualche richiamo storico, per il resto i temi sono ripetitivi e, come fa notare Francesco Gabrieli5, ripresi da altri poeti, spagnoli o orientali; ciò era di norma nella poesia araba di quel tempo. 

Il fatto che nella poesia araba siciliana manchino i richiami alla terra di Sicilia gli studiosi se lo spiegano dicendo che gli antologisti fecero volutamente una cernita, eliminando ciò che potesse far venire meno 1’orgoglio arabo ed essere di elogio anche indiretto ai nemici. Tranne che in qualcuno, solo nel Canzoniere di Ibn Hamdìs (nato tra il 1055/56, morto nel 1133) abbiamo riferimenti chiari di sicilianità. Ciò significa6 che, rimanendo un unicum, non fu toccato da mano estranea. Diversamente non si spiega come tanti altri poeti non fanno cenno alla loro terra, a cui erano certamente legati. 

Ma veniamo ad alcuni esempi che possono aiutarci a comprendere questa poesia che, se per certi aspetti è ridondante, mani eristica, per altri evidenzia una sensibilità artistica sintomo o di un disagio interiore o di una situazione che volge al peggio, come in al-Kalbi7, allusivo eppure profondo per il significato sotteso specie nei primi versi: 

Io conosco le tue colline, ora già misere, 
mentre erano delizia 
nei giorni in cui tu eri 
generoso verso le donne leggiadre, 
nei giorni in cui presso di te v’era 
un paradiso amato di donne 
dal seno benfatto e un inferno di delatori. 

Il poeta vanta la gioia piena della giovinezza, le donne «dal seno ben fatto» (immagine ritornante nei nostri poeti del ‘900, a partire da Cardarelli). Vero, il poeta vanta la sua stirpe ed esagera, eppure s’intravede in questi versi l’inesorabile fugacità del tempo e il tutto che gli va dietro rovinoso. Altrove c’è la perdita di una persona cara, di un figlio o di un fratello, che esprime un sentimento vero, un dolore sofferto che segna l’animo e commuove, allora come ora. Ibn Hamdis piange i cari morti e anche la perdita della sua serva. At-Tamimi8, piangendo il fratello morto, s’accorge che a niente vale la gnomicità di certe sue asserzioni, quando si è dinanzi ad una realtà che non può più essere cambiata. 

La morte non viene a te che all’improvviso: 
sta’ in guardia! 
Questo è il massimo degli avvertimenti. 
Sopporta pazientemente il nocumento 
che ti colpisce, 
in considerazione della sua utilità, 
perché spesso sorge un’utilità dal nocumento. 
[...] Oh, l’unico, la cui perdita io temevo, 
se avesse potuto giovarmi il mio timore per te! 


La poesia arabo-siciliana canta il vino e l’amore, la spensieratezza o il bisogno di dimenticare, o di alleviare la pena della lontananza. AI-Husayn b. Al-Qattà9 in una qasida dice: 

Il vino ci aiuta con la gioia: cessa dunque 
dal montare i giovani cammelli [...] 
E vieni di buon’ora a visitare il vino, 
il cui suono di fermentazione 
s’allontanò dopo altri suoni. 
E Nasr al-Katib10 così lo esalta: 
Un certo vino, puro di colore, fresco, 
fatto venire da lontano, che scaccia le tristezze. 
Se viene annacquato, tu immagini 
che nel suo calice sia penetrata 
una solida pietra preziosa di giacinto. 
E Ibn Hamdis11 sembra fargli eco: 
Vino di colore e odor rosa, mescolato 
all’acqua ti mostra stelle tra raggi di sole. 
Con esso cacciai le cure dell’animo, 
con una bevuta il cui ardore 
serpeggia gentile, quasi inavvertibile. 
L‘argentea mia mano, stringendo il bicchiere, 
ne ritrae le cinque dita dorate. 

Si può notare come i temi siano ritornanti in questa poesia e come i poeti sembrano emularsi a vicenda. E, in effetti, questi poeti spesso erano chiamati a partecipare a gare e a confrontarsi con gli altri per essere meglio accolti tra gli amici del signore e far parte della sua cerchia. Ibn Hamdìs dovette improvvisare versi, sfidato da al-Mùtamid, per diventare suo favorito. Ancora: 

Ecco il vino fresco: le sue bolle 
nel calice sembrano perle. 
Ha il colore del papavero, e di esso nel calice 
pare stendersi un manto. 
Camminavo al bagliore del lampo, 
e le tenebre, al rosseggiar della notte, 
parevano un negro che perdesse sangue 
dal naso12. 

La poesia araba classica e, ovviamente, la poesia arabo-siciliana, è definita barocca. Questa di Ibn Hamdìs, come di tanti altri poeti del periodo, è un esempio di barocchismo; il poeta ricorre ad immagini azzardate, ad artifici e a giuochi di parole che, a leggerli, sorprendono. La ricerca dell’effetto e i richiami sottesi sono una dimostrazione di alchimia della parola. Il lettore, resta stupito, per l’incalzare delle immagini che la parola suscita e presenta in modo imprevisto e gratuito. Il poeta diviene un giocoliere della parola, per raggiungere gli obiettivi sperati, calzanti e impregnati di un forte senso del reale. La tecnica è quella del concettismo, che consiste nell’individuare paragoni e svilupparli (le bolle simili a perle, il colore è quello del papavero, la velatura del vino nel bicchiere è come un manto, il lampo è l’ effetto del vino, l’energia che sprigiona rosseggiante richiama i fumi dell’alcol, e la notte, come un negro, è schiarita dal vino, paragonato al sangue dal naso). 

È tempo di bere per dimenticare: «l’ardore della sua fiamma brucia la tristezza nelle viscere», com’era per i Greci o i Romani, com’è tuttora, per quanti altri nel vino vogliano affogare l’amaro del vivere. Ibn Hamdìs ubbidisce a quello che era un manierismo di moda, ma lo fa con disinvoltura, senza appesantire il verso, a differenza di altri. 

In una poesia così hanno posto anche gli oggetti e gli strumenti, la frutta e, piante e i fiori, gli animali e gli insetti. Tutti offrono occasione di riflessione o lo spunto per aprirsi a un argomento caro al poeta, e tutto è descritto con meticolosa cura (il cero, il liuto, il bicchiere, la spada, l’arancia, la palma, gli anemoni, il cavallo). Ecco come Abu-I-Hasan Alì b. ar-Rahmàn al-Katib13 descrive l’arancia: 

Su, gioisci della tua arancia raccolta: 
è presente la felicità, quando essa è presente. 
Si dia il benvenuto alle guance dei rami, 
e sian benvenute le stelle degli alberi. 
Sembra che il cielo abbia profuso oro fino 
e che la terra ce ne abbia formato 
delle sfere lucenti. 

Ar-Rahmàn al Katib, come altri poeti, Ibn Hamdìs compreso, è attratto da questo frutto per la pienezza che gli è propria, in cui la sfericità e il colore vivo, solare, sono simbiosi di terra e di cielo. Nel suo componimento Ibn Hamdìs è però più sensuale: le arance, più che sembrare guance dei rami, s’avvicinano guancia a guancia e, più che essere come sfere lucenti, bruciano accanto a noi carboni roventi14. Ci troviamo davanti a poeti di forte immaginazione, abili nel verseggiare e con una propria personalità. 

Non sono trascurati neppure i fenomeni atmosferici, come la nuvola o il lampo, che a Buscri al-Katib15 fa ricordare il fuoco d’amore: 

È apparso il lampo dalla parte di al-Higiaz, 
facendomi ricordare di Sulma e di Sa ‘da: 
e tal ricordo mi fa soffrire. 
(Il lampo) risplende sul colore delle tenebre 
e sembra (nei suoi guizzi) 
come tante spade roteanti sulle vesti azzurre. 
Oh come eccellente è il lampo, il cui bagliore 
ha tormentato (il mio) cuore! 
È forse ogni amante tormentato per i lampi? 


Se in Buscri al-Katib il lampo ricorda gli amori e ne rinnova i tormenti, non così è in Ibn Hamdis16: 


In quella plaga buia, guizza nell’aria 
da occidente a oriente, 
quasi un razzo di nafta che dalle nuvole 
esce a incendiare le tenebre. 
Se ne durasse il bagliore nell’oscurità, 
parrebbe una traccia d’oro 
sulla pietra di paragone. 

In questi versi c’è già sentore di guerra. La nafta era soprattutto utilizzata per bruciare le navi, scompaginare il nemico e metterlo in grave difficoltà. 

Tra tutti i temi, quello dell’amore è il più frequente, con riferimenti presi da altri poeti, primo fra gli altri. Abu Nuwàs, il maggiore rappresentante della poesia araba dell’epoca abbaside, vissuto a Bagdad tra il 750 e l’815. Lo si nota in questi versi di al-Billanubi17: 

Mi hanno ucciso sguardi di donne simili a statue, 
fra un candore di denti e labbra 
di scura porpora; 
dopo aver detto che la mia giovanile follia 
si era ormai conclusa, 
eccola rendermi nuovamente pazzo d’amore 
e di passione. 

È una qasida ben congegnata, la cui struttura segue un canone preciso: quando la passione sembra essere sopita, ecco che l’apparire della donna fa agitare nel poeta il fantasma dell’amore che gli si ripresenta inaspettato. La donna, «la gazzella», con le sue malìe, paragonata alla «luna che lo spasimante venera, come chi in passato, indotto dalla tentazione, ha adorato gli idoli», fugge lontano, a causa di un malevolo detrattore, facendo sfumare ogni contatto e rendendo difficile la vita. Meglio affidarsi al «capo dei capi», il solo che può offrire tranquillità e pace. La nota encomiastica chiude il componimento; il poeta non chiede niente, elogia soltanto l’emiro a cui si riferisce, considerandolo come «una nuvola che profonde pioggia» e si sente tutelato. 

L’amore più spesso è sofferenza, sentimento inappagato o represso, come in as-Sa’di18: 

Sarei venuto, per l’ardente amore, a visitarti 
camminando sulla mia faccia o sul mio capo. 


o in Sadus an-nahwi19: 

È stata lunga questa notte, tanto da sembrare 
un secolo, senza mattino 
che illumina e senza aurora. 
E il fantasma (dell’amata) è stato avaro 
di unirsi (a me) durante la notte: 
oh meraviglia! Perfino il fantasma 
mi abbandona. 

Il sentimento amoroso è vissuto con trasporto e passionalità, e questo in genere da tutti i poeti, nei quali la sensualità è una caratteristica. La riscontriamo in Ibn Harndis20 che non sfugge a quest’ agone poetico spesso sfoggio di bravura e non datore di vera poesia. 

Dal seno ben formato, arriva sospirando 
e se ne va, ed il mio cuore resta 
come leone in petto a lei avvinghiato. 

E così in tanti altri versi d’amore: 

una guancia dal color di rosa, 
e un delicato ramoscello che si dondola 
con le mele. 

in cui Ibn Hamdìs, servendosi di immagini come queste, è fortemente allusivo e sensuale. Altrove, come fanno notare anche F. Gabrieli21 e A. Borruso22, il poeta alle immagini dà maggiore slancio e respiro e riesce a fare vera poesia, come in Un giardino o in Incontro, nei quali l’avvicendarsi dell’aurora dà il senso della pienezza e, al tempo stesso, è il tentativo, e anche il bisogno di voler fermare, perché non sfumi, e contemplare meglio, ora la bellezza della ragazza, ora la gioia d’amore 

sospirai sbigottito, ma solo sospirai 
per lo spuntar dell’aurora. 

nel timore che il sopraggiungere della luce del giorno non la porti via. La stessa sensibilità è nel frammento Stelle lucenti23. 

Non la finivo di bere al calice delle sue mani, 
e la saliva era condimento alla mia bevanda. 
Le stelle lucenti declinavano ad occidente, 
come cigni si tuffano in uno stagno. 

Anche qui la retorica e la ricerca smodata di immagini, che poi sono consuete nella poesia araba, passa in sott’ordine di fronte a queste stelle che, declinando, lasciano un alone di nostalgia per il tempo che se ne va e con esso le cose belle della vita, le donne, l’amore, mentre la vecchiaia incombe su ciascuno come uno stagno privo di vita. 

Ma il tempo di poetare dei poeti arabo- siciliani volgeva al termine. La splendida stagione kalbita si spense tra le liti intestine che portarono il disordine e la guerra. Difatti, quando le lotte di predominio diventarono più frequenti, ecco che furono pronti ad appropriarsi della Sicilia i Normanni, presenti già nel meridione d’Italia. Fu proprio durante la lotta fratricida tra Ibn-Turnnah di Siracusa e Ibn al-Hawwas di Castrogiovanni (Enna) che Ibn-Turnnah chiamò i Normanni in suo aiuto. 

Durante questa lotta e anche dopo molti poeti arabo-siciliani intrapresero la via dell’esilio: alcuni, come Ibn Hamdìs e Abu’l Arab, si diressero verso la Spagna, altri verso l’Africa o l’Oriente, come Ibn at-Tubi. In questa seconda fase declinante per gli Arabo-Siciliani, troviamo sprazzi di sicilianità abbastanza sinceri, come li possiamo cogliere in Abu’ l-Arab, poeta che, attaccato alla sua terra, dinanzi alla conquista dei Normanni, scelse di andare incontro ad un esilio incerto. 

Egli è tormentato dall’incertezza che l’idea dell’ esilio gli prospetta e dall’idea stessa di dover partire, essendo stata la Sicilia fatta propria dai Cristiani. Ecco il componimento nella traduzione di A. De Stefano24: 

Perché corro dietro a vane,fallaci speranze? 
Mi basta solo eh ‘io batta dritta la via. 
Ma dove ne andrò? Già l’anima mia esitante 
or verso Occidente, or verso Oriente si volge. 

Dopo questi interrogativi il poeta si fa consapevole della realtà e, con uno scatto d’orgoglio tutto siciliano, cerca di uscire dallo stato di depressione, facendosi coraggio, pensando che in fondo tutto è successo e a niente vale abbattersi. Meglio accettare la realtà, vivere dove capita e in mezzo ad altri uomini che gli sono fratelli. 

lo vivrò nel boschetto dove fanno nido le aquile. 
Nacqui dalla terra, qualunque terra mè buona, 
ogni uomo è mio fratello, il mondo è la mia patria. 

Abu’l-Arab è un cosmopolìta e anticipando idee proprie dell’Illuminismo: l’uomo cittadino del mondo, con un forte desiderio di integrarsi in esso e vivere la vita com’è giusto che sia, non essendo possibile altrimenti. Aspirazione di quanti con umiltà vengono a chiedere lavoro e un minimo di serenità, dato che nella loro terra vigono guerre e miseria. 

L’emiro Abu’l-Qasim Abd Allàh ibn Sulaymàn Yakhlaf al-kalbi25 canta il vino, l’amore, ma ha anche versi carichi di nostalgia per la Sicilia che ha dovuto abbandonare. 
Ha reso dolce la mia vita beata in quelle dimore 
dedicarmi al piacere dal vespro all’albeggiare; 
Laggiù l’anemone assomigliava 
ad una gota scintillante per peluria 
e nel colore della violetta sembravano 
amalgamarsi tenebre e luce; 
Il giglio aveva il candore delle cupole, 
con al centro aurei pistilli 
e sui teneri steli ammiravi i narcisi: 
parevano lanterne sospese ai sostegni; 
i cedri ricordavano cofanetti d’oro 
in ordinata serie, o seni di fanciulle. 

E ancora: 

Ho libato in giardini radiosi 
al garrulo tubare dei colombi [. . .] 
in un giardino che invaghisce, 
con la varietà delle vedute e il cinguettìo 
chi lo contempla; 

Ibn Sulaymàn apparentemente canta il vino e le gioie della vita al di là di ogni preoccupazione, ma sente dentro di sé tutto il rammarico che gli viene dalla mancanza di un bene di cui non può fare a meno, e che si porta nel cuore, e rivive ogni qual volta gli si presenti l’occasione: è la Sicilia ricca di colori, di suoni e di odori che vengono dagli opulenti giardini che allora circondavano Palermo e visti anche dalla località delle 

«Torri», citata ma difficile per noi localizzare. Qui il tema bacchico è di spunto al poeta per ritornare in quei luoghi carichi di ricordi dove consumò la spensierata giovinezza e dove nacquero le prime avvisaglie dei dissidi: 

Ho assaporato [il vino] in notturno [simposio], 
tenebroso come la mia sorte, 
e fra le incognite degli eventi. 
che portarono alla perdita dell’isola. 

Ritornando ad Ibn Hamdis, egli andò in esilio, prima a Siviglia, poi in Marocco e in Tunisia e, per ultimo, a Maiorca, dove morì. In lui, oltre ai temi della poesia classica, come abbiamo visto, c’è il rimpianto e la struggente nostalgia per la sua casa e per la terra che fu sua: 

Oh, custodisca Iddio una casa in Noto, 
e fluiscano 
su di lei le rigonfie nuvole! 
Ogni ora io me le raffiguro nel pensiero, 
e verso per lei gocce di scorrenti lacrime. 
Con nostalgiafiliare anelo alla patria, 
verso cui mi attirano 
le dimore delle belle donne. 
E chi ha lasciato il cuore a vestigio 
di una dimora, 
a quella brama col corpo fare ritorno. 

E ancora: 

Vento, perché non spremi la pioggia 
e non ne irrighi i campi assetati? 
Spingi verso di me le sterili nuvole, 
ch’io le riempia dell’acque delle mie lacrime. 
Abbeveri il mio pianto la terra dell’amore; 
possa esser sempre, 
nella sterilità, abbeverata di pianto!26. 

È uno tra i componimenti più belli della poesia arabo-siciliana: le immagini delle nuvole e delle piogge, il dolore dell’esule, sono forti per essere dimenticate. 

Il motivo del dolore fa tutt’uno con quello del ricordo; il sentimento del rimpianto si fa scontento: ormai è impossibile per lui potervi ritornare! 

Altri poeti, all’arrivo dei Normanni, rimasero in Sicilia, come Abd-ar-Rahmàn di Butera27, che elogia la munificenza del Regno: 

Non c’è vita serena, se non all’ombra 

della dolce Sicilia, 

sotto una dinastia che supera 

le cesaree dinastie dei re, 

e la gioia di vivere qui, tra i colori vivi di una primavera che dilata la sua luminosità sulle cose e sulle persone; o come Abd-ar-Rahmàn al-Itrabànishi28, il segretario trapanese, che esprime il desiderio che la pace possa durare e solo la bellezza del luogo e l’Amore possano dettare leggi. Egli cantò il fasto della corte di Ruggero II nel componimento dedicato alla villa reale della Favara, costruzione araba abbellita dai Normanni. 

Favara dal duplice lago, ogni desiderio 

in te assommi: 

vista soave e spettacol mirabile. 

Dove i tuoi due laghi s’incontrano, 

ivi l’amore s’accampa, 

e sul tuo canale la passione pianta le tende. 

Il poeta innalza un inno alla bellezza del luogo ed auspica la pace, la sola garante di prosperità e gioia di vivere; poi formula l’augurio che la felicità duri a lungo e le sciagure stiano lontane dalla Sicilia, e in cambio vi domini incontrastato l’Amore. È l’augurio nobilissimo di un animo innamorato della sua terra. 

I Normanni s’impadronirono della Sicilia gradatamente, nel corso di un trentennio, dal 1060 al 1091. Poi fu di nuovo la pace e un periodo di splendore per l’isola, un periodo in cui uomini di razza, lingua, religione diverse, convissero da cosmopoliti e cooperarono senza discriminazione, chiamati, alcuni, ad amministrare il Regno, altri, a nobilitarlo nella cultura e nell’arte, sempre sotto re 

Ruggero. Così la Sicilia ebbe i requisiti necessari per rendersi grande. La corte palermitana divenne centro di cultura e di scambio di idee. Vi si fecero acquisizioni scientifiche e traduzioni utili a conservare il patrimonio culturale antico, e lo stesso sovrano collaborò ai lavori, realizzando un’ integrazione di uomini e di culture senza precedenti.Un esempio di integrazione tra popoli diversi sotto Ruggero II è la Cappella Palatina, in cui c’è la contaminazione di elementi bizantini, arabi e latini, indice di grande creatività. Ma ce ne sono tanti, come il bellissimo esempio di arte arabo-normanna che è la Zisa, palazzo costruito da Guglielmo I, ricco di giardini lussureggianti e zampilli d’acqua. 

L’auspicio di Abd-ar-Rahmàn doveva, però, di lì a poco essere vanificato dall’egoismo e dal prepotere di baroni ed ecclesiastici che male vedevano la stima sovrana degli arabi di corte. Finì che re Ruggero, non potendo più controllare, anche perché ammalato, la situazione, cedette alle tante maligne insinuazioni che produssero le prime condanne con giudizi sommari. L’accusa di tradimento di Filippo al-Mahdia, gran consigliere di Ruggero, bastò a scatenare lotte e fatti di sangue che produssero, nel 1227, la relegazione di migliaia di Arabi a Lucera. Ciò avvenne sotto dominio svevo, con Federico II, e di lì una serie di lotte tese a disperderli, con conseguenze negative per la Sicilia. 

Salvatore Vecchio 

NOTE: 

1 S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, Torino, ERI, 1964, p. 130 e segg. 
2 U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo, S.F. Flaccovio, 1975, p. 139. 
3 A. Borruso, «La poesia araba in Sicilia nel Medioevo», in Saggi di cultura e letteratura araba, Mazara del Vallo, Liceo Adria, 1995, p. 95. 
4 I. Di Matteo, Antologia di poeti arabi siciliani, estratta da quella di lbn al-Qattà, Palermo, Archivio Storico Siciliano, 1935. 
5 F. Gabrieli, «Arabi di Sicilia e Arabi di Spagna», in Pagine arabo-siciliane, Mazara, LiceoAdria, 1986, p. 24-25. 
6 U. Rizzitano, «La Sicilia nella cultura araba», in Studi arabo-islamici in memoria di U. Rizzitano, Mazara, Liceo Adria, 1991, p. 291. 
7 I. Di Matteo, cit., p. 99. 
8 Ivi, p. 128. 
9 I vi, p. 100. 
10 Ivi, pag. 103. 
11 Ibn Harndìs, Poesie (a cura di A. Borruso), Mazara, Liceo Adria, 1987, p. 73. Traduzione di F. Gabrieli. 
12 Ibn Hamdìs, cit., p. 74. 
13 I. Di Matteo, cit., p. 123. 
14 Ibn Harndìs, cit., p. 30. 
15 I. Di Matteo, cit., p. 104. 
16 Ibn Hamdìs, cit., p. 45. 
17 U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, cit., 184. 
18 I. Di Matteo, cit., p. 102. 
19 Ivi, p. 102. 
20 Ibn Hamdìs, cit., p. 88. 
21 F. Gabrieli, lbn Hamdìs, Mazara, S.E.S., 1948, pp. 47-48. 
22 Ibn Harndìs, cit., p. 15. 
23 Ivi, p. 87. 
24 A. Di Stefano, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, Palermo, Ciuni, 1938, pp. 17-18. 
25 U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, cit., 181-182. 
26 F. Gabrieli, lbn Hamdìs, pp. 24 e 50. 
27 A. Di Stefano, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, cit., 15. 
28 Ivi, p. 16.

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 5-12.

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