La poesia popolare è un aspetto e un mezzo della cultura d’un popolo attraverso cui egli manifesta e trasmette il suo animo. Oggi lo studioso si trova dinanzi ad un campo aperto e non del tutto conosciuto. D’altronde, lo studio delle tradizioni popolari si è sviluppato a partire dal XIX secolo, quando cominciavano ad essere scientificamente riconosciute le scienze umane, in cui rientrano l’antropologia, l’etnografia, la demopsicologia e la demologia.
I primi studi e raccolte di poesia popolare risalgono agli inizi dell’Ottocento (lo stesso Leopardi pubblicò nello Zibaldone alcune canzonette recanatesi), ma quelli che subito acquistarono rilievo sono: Saggio di canti popolari della provincia di Marittima e di Campagna (1830) di P. E. Visconti e Canti popolari toscani corsi illirici greci (1841) di N. Tommaseo. Gli autori, che sorsero un po’ dovunque nelle regioni d’Italia1, furono influenzati dalle istanze romantiche, tendenti a rivolgersi e a valorizzare il popolo e a ciò che sapeva di popolare.
Una questione aperta e dibattuta, a proposito della poesia popolare, consiste nel fatto se si debba ritenere o non un derivato da quella colta. Molti studiosi sono portati a ritenerlo. Ma, come già aveva intuito Giuseppe Pitrè, va tenuto presente un distinguo; cioè, tanta parte di poesia viene dal popolo; altra, ma in minima quantità, è di derivazione colta o semicolta (lo si nota da come è gestita la parola e dalla struttura del verso più elaborata), assorbita dal popolo e con diverse varianti elaborata e tramandata.
La poesia popolare nasce da un fatto di cultura, insito nelle condizioni di vita del popolo, che subisce influssi e richiami degli eventi verificatisi. Ma quello che qui si vuole sottolineare è che l’evento storico, il fatto di cronaca o la realtà di ogni giorno, che è pure storia vissuta, vengono filtrati dal sentimento che, interiorizzandoli, li elabora in senso lirico. Questo giustifica il canto, sicché tanta parte della poesia popolare non si giustifica se non con il canto, che è l’espressione più naturale per esprimere gli stati d’animo. Va detto anche che la parola nella poesia popolare gioca un ruolo importante, perché spesso ricorre ai doppi sensi e al figurato che la carica di significati diversi. Questa poesia ci fa veramente conoscere l’indole del popolo, che, in fondo, è docile, nonostante l’accanirsi delle vicissitudini ed una politica che spesso non risolve i suoi problemi e la rende restìa e ribelle.
I canti popolari siciliani, di solito, sono costituiti da strambotti, distici, stornelli, mottetti, serenate, canzoni, canti di circostanza, storie sacre e profane, filastrocche, ninne-nanne ed altro. I loro contenuti sono vari (di amore o di rabbia, epico-lirici, religiosi, storici, agresti, e in ogni caso partecipano lo stato d’animo e il vissuto del poeta.
«Cu’ voli puisia vegna ‘n Sicilia
Ca porta la bannera di vittoria
Li so’ nnimici nn’avirannu ‘nvidia
Ca Diu ci desi ad idda tanta gloria
Canti canzuni n’avi centu milia
E lu po’ diri cu grannizza e boria
Evviva, evviva sempri la Sicilia
La terra di l’amuri e di la gloria2».
Qual è la motivazione di tanta poesia? Senza dubbio, essa va ricercata nel dolore e, perciò, nel bisogno di un riscatto che, al momento, trova solo nella parola e nel canto lo strumento idoneo. Sicché, anche il motivo più spesso ricorrente, quello dell’amore, canta amarezze e difficoltà d’ogni sorta, e lo stesso amore non può concretarsi, perché uno dei due innamorati manca di dote e non ottiene il consenso dei genitori.
«Bedda, pi’ amari a tia li me nun vonnu,
ni la me casa cci ha statu lu ‘mpernu3».
Nonostante tutto, l’innamorato spererà e insisterà, perché possa realizzarsi il suo sogno d’amore:
«Vinni a cantari ‘cca e lu fici apposta,
pi’ vidiri si to’ ma’ cala la testa4».
A volte l’innamorato dimentica o, meglio, accantona ogni angustia per esternare il suo sentimento, e allora esalta la bellezza della sua donna ricorrendo ad immagini della natura:
«Vaju di notti comu va la luna,
Vaju circannu a tia, stilla Diana.
Bedda, ca si’ cchiù bedda di ‘na parma,
‘nzoccu ti metti a lu pettu t’adurna5».
Si noti il riferimento letterario «stilla», al posto di stidda, ma pure «Diana» è un’acquisizione dotta, anche se riscontrabile nella terminologia popolare, contadina e marinara. L’immagine è bella; l’innamorato è come chi, annaspando nel buio, cerca la luce, sicuro di trovare appagamento.
In altri componimenti, l’amante esprime il suo amore e, al tempo stesso, vuole esserne rassicurato
(«Bedda, li to’ biddizzi li prutennu», canta il poeta), perché teme la concorrenza e s’ingelosisce.
«Bedda, li to’ biddizzi li prutennu,
e si ad antru li duni, mi nni lagnu;
siddu li duni a quarchi strafazzeri,
si li va ‘ ccancia pi’ un pezzu di pani.
Dunali a mia ca sugnu arginteri;
iu ti li fermu e ti portu li ciavi,
e ti li nesciu a li festi sulleni:
Mezzaustu, Suttemmiru e Natali6».
Spesso l’amore s’accompagna al tempo della raccolta che, alleviando le fatiche, fa sperare bene per meglio vivere e accettare la vita.
«Bedda mia,
lu tempu vinni di cogghiri racina;
lu viddanu s’incammina,
nni la vigna si ‘nni va.
Lu poviru la spremi
e la metti ‘ ntra li vutti.
Bedda mia,
cuntenti tutti,
quannu poi si vivirà7.
Il tempo della raccolta infonde un senso di gioia: è il momento in cui il contadino vede concretati i suoi sacrifici. Nei suoi movimenti, negli ampi gesti che l’accompagnano c’è piena accettazione della vita, ma anche sincera riconoscenza della divinità, che fa pensare ai ringraziamenti e alle propizi azioni degli antichi pagani. Ne sono chiaro esempio le feste che si facevano a raccolto com-plessivo avvenuto (e che tuttora nelle nostre contrade si fanno), oppure i canti che per le varie occasioni si cantavano, come quelli della mietitura o quelli dell’aia, che con varianti più o meno vistose sono presenti dovunque in Sicilia. Nella poesia popolare questo intreccio di sacro e di profano è abbastanza presente. Assillata dai bisogni, la povera gente si rivolge a Dio o ai Santi per risolvere i conflitti o per essere tutelata e aiutata («Duna a tutti la saluti, / a li figghi e a li niputi, / e pi’ nantri piccatura, / tu ci preghi a lu Signuri. / Tanti genti fannu guerra / ni li posti di ‘sta terra, / astutati ‘sti furnaci, / o Riggina di la paci8», ma anche per scongiurare malanni o allontanare da sé eventuali malocchi di chi la vuole male:
«Iu mi curcu pi’ durmiri
‘nni stu sonnu pozzu muriri,
e si ‘un aju ‘u cumpissuri
mi cumpessu cu vu’, miu Signuri.
Tri stizzi di sangu di Gesù,
tri fila di capiddi di Maria,
attaccati e liati manu, vucca e cori
a cu’ mali a mia voli9».
Di qui alla maledizione il passo è breve:
«Cu’ voli mali a mia: scippati l’occi,
du puntareddi appizzati a li gricci.
Cci nn’addisiddu cimici e pidocci,
quantu frummentu cc’è, favi e linticci10».
Al poeta popolare non sfuggono i fatti storici, lontani o più recenti, in cui esalta il sentimento collettivo nazionale che per poco fa dimenticare la miseria. Come in questa ottava, riferita ai Vespri, in cui lo sfogo e la rabbia per i maltrattamenti subìti sono forti.
«Nun v’azzardati a vèniri ‘n Sicilia,
ch’hannu juratu salarvi li coria;
e sempri ca virriti ‘ntra Sicilia,
la Francia sunirà sempri martoria.
Oggi, a cu’ dici Chichiri ‘n Sicilia,
si cci tagghia lu coddu pri so’ gloria;
e quannu si dirà: qui fu Sicilia,
finirà di la Francia la memoria11».
Il popolo siciliano, come fu passivo nel subire le peggiori angherie dai propri sovrani e dai signori locali, mai sopportò quelle infertegli dai dominatori stranieri. Si nota, ad esempio, da un componimento che risale al 1866, In piena dominazione piemontese.
«Lu tempu è fattu niuru,
vinniru arre’ li lutti:
comu si pò risistiri?
Hamu a tinìri tutti? ..
Sentu friscura d’ariu,
lu celu è picurinu;
‘nca cc’è spiranza, populi,
la burrasca è vicinu12!»
C’era chi esaltava ancora la passeggiata garibaldina in Sicilia, ma altri lamentavano una spoliazione mai vista fino allora e parlavano di «granni tradimentu», auspicando tempi migliori. È, in fondo, ciò che Verga denuncia nella novella «Libertà», da leggere per comprendere meglio, fuori dell’ alone pubblicistico piemontese purtroppo ancora forte, la vera realtà della Sicilia e del Meridione in quegli anni.
Anche le «storie» sacre, che si rifanno alle vite dei Santi o ai miracoli, e i fatti di cronaca (le «storie» profane) sono ben recepiti dal popolo che li fa argomento di discussione e di canto. Basti citare l’opera meritoria che svolsero (e che ancora, ma in minor misura nell’interno dell’ isola, svolgono) i cantastorie, per renderci conto di come il popolo sapeva fare propri i fatti e parteggiare per i protagonisti che, pure essi deboli, s’imponevano ed emergevano per i sentimenti di cui si fanno portatori. È il caso della «storia» della «Baronessa di Carini», abbastanza nota, o quella, me-no conosciuta, ma altrettanto coinvolgente, di «Scibilia nobili».
È, questa, la «storia» di una giovane donna del trapanese che, rapita e portata a Tunisi dai pirati barbareschi, non viene riscattata dai genitori, perché, essendosi unita ad un giovane cavaliere senza il loro consenso, dicevano essere stati disonorati. A vuoto cadono le suppliche e le preghiere, i genitori saranno sordi ad ogni richiesta: e preferirono perdere una figlia, anziché l’oro del riscatto. Alla donna il bene le verrà dal giovane che non esiterà a rispondere: «Megghiu perdiri tant’oru / ca ‘n’amanti ‘un l’asciu cchiu!13» E la donna gli rimarrà molto obbligata e fedele; mentre per i parenti, che di lì a poco moriranno uno dopo l’altro, vestirà di rosso, per lo sposo indosserà per sempre un abito nero.
Una «storia» che affascina, ben congegnata e costruita nelle parti che la compongono, ricca di annotazioni psicologiche e, soprattutto, rivelatrice d’un carattere forte che non s’abbatte facilmente e, anzi, resiste e trova il coraggio di reagire.
«Lu me latti è biancu, bianchissimu, / sulu è dignu a li cristiani14». Così risponde ai corsari, che le dicono di dare il suo latte ai cani. Sono versi che rimangono impressi per la loro spontaneità, di una bellezza che tocca il cuore e lega per sempre a questa nobile figura di donna.
Insieme con queste «storie» si diffondono anche le «storie» epiche. Il popolo vi è attratto per le figure emergenti, portatrici sempre di nobili ideali. È il caso della Storia di Fioravante e Rizzeri15, di cui riportiamo questi versi:
(Madre) – Comu fu? Chi cosa ha statu?
(Fioravanti) – Vaju a la morti ‘mmenzu
a tanti genti,
Strittuliatu ‘ntra sta surdatìa,
Pi ‘n esseri di Cristu ubbidienti,
Haju offisu a lu figghiu di Maria.
Vaju a la morti e patirò turmenti,
Accussì voli la furtuna mia.
A vu’, matri, ‘un v’arraccumannu nenti,
Matri, v’arraccumannu l’arma mia!’
(Madre) – Figghiu di lu mè cori e l’arma mia,
Figghiu di lu mè cori e lu mè ciatu,
Strittuliatu ‘ntra sta surdatìa:
Stu corpu tantu beddu ‘ndilicatu!
Sciugghitimillu pi ordini mia,
Quantu sentu la cosa comu ha statu16!
Come il popolo non poteva non apprezzare la lealtà di Fioravante e non partecipare nel contempo al dolore della madre che tutto tenterà per salvare il figlio?
Altri motivi di canto sono dati dalle ninne-nanne e dalle filastrocche. Anche qui, nell’apparente semplicità del dettato, c’è una sottesa denuncia degli squilibri sociali e un
desiderio di migliorare la propria condizione, come in Alavò, per esempio, o in Chiovi, chiovi, chiovi, in cui la denuncia diventa satira che mette in ridicolo il barone,
laddove recita: «affaccia lu baruni / cu’ i causi a pinnuluni17».
Chi può, spesso non spende nemmeno per il necessario, mentre chi vive in ristrettezze, tiene molto alla propria dignità e alla decenza.
I motivi che danno contenuto alla poesia popolare sono tanti e tali da restare meravigliati. Ecco questa ottava, per esempio:
«Masculiddu piruzzu d’oru
dunni camina nasci lu violu;
masculiddu piruzzu d’argentu,
dunni camina ci nasci ‘u frummentu;
masculiddu piruzzu d’addauru
fa lu fruttu e fa lu ciavuru.
Fimminazza piruzzu di chiuppu,
‘un fa né ciauru e né fruttu18».
da “Spiragli”, 2009, Saggi
Si era in un periodo in cui il maschio aveva la preminenza; era lui a lavorare e a contribuire al mantenimento della famiglia. Perciò è esaltato, a differenza della donna
che spesso era di peso e si dava in sposa ancora in giovane età per contenere il bilancio familiare.
Ancora:
«’D pinu Saru mi purta’ a la Ciana,
mancu mi detti ‘na ‘rrappa di racina.
Cci firriavu di la tramuntana,
mi nni cugghivu na fiscina cina19».
In tempo di ristrettezze non erano rispettate nemmeno le buone creanze. Lo zio Rosario non offre niente, nemmeno un raspo d’uva, che il terreno generosamente gli dà, e alla faccia della taccagneria se la fa rubare. Per la gran parte del popolo era la fame, e la fame non tiene conto delle buone intenzioni. E, allora, ecco questa sestina:
«Amici, a tutti quanti vogghiu beni,
sintiti ca vi cuntu la raggiuni.
Si fussi riccu, cunzassi li ceni
e cummitassi tutti li pirsuni;
ma haju lu cori me cinu di peni,
ca mi sta abbianchiannu lu muluni20».
La vita sembra sia registrata nei suoi palpiti, nelle aspirazioni, nei bisogni, nelle gioie del momento e persino nelle considerazioni esistenziali, di cui ad un certo punto il poeta si fa carico e ne sente il peso. Si era in tempi veramente duri, eppure si diceva – come si può notare – di tutto. La realtà è che la diffusione era orale, e la gente parlava, nonostante la chiusura delle classi sociali elevate; parlava e sfogava, se non altro, per scaricare le tensioni e condividere con gli altri il disagio di quella condizione, a differenza di oggi che, presi da una vita frenetica e stressante, non si riesce a comunicare e, più che mai, ci si chiude nel silenzio, bombardati come si è da mezzi di informazione sempre più sofisticati. Così non era un tempo quando, pur nella miseria e negli stenti, la gente si riuniva nelle case o all’aperto, e comunicava e si divertiva. Anche nei campi la vita era vissuta in modo diverso; non c’era ancora la meccanizzazione e gruppi di contadini jumatara sfidavano i duri lavori stagionali, parlando e cantando, e nel loro parlare e cantare c’era un dolore sotteso, non dovuto a rassegnazione, bensì alla constatazione dell’impari lotta, spesso sotterranea, che erano chiamati a sostenere con i padroni. Era nella mentalità dei nobili e dei ricchi feudatari che essi, i contadini, dovevano continuare a vivere la vita di sempre per sostenere l’economia del paese e per mantenere invariato l’ordine pubblico. Derivano di qui il dolore e la rabbia, di cui dicevamo.
Se è vero che la povera gente era maltrattata e mancava di tutto, essa continuava a vivere la vita di sempre nella speranza, attaccata, com’era, ai valori dei padri. Ora l’uomo non ha fiducia in niente, è isolato, non è più nel disagio come prima, ma vive un malessere esistenziale ben più grande e insopportabile. E di questo deve essere consapevole e se vuole riprendersi ciò che gli appartiene, ha bisogno di recuperare, o ricrearsi, quei valori che gli facciano accettare ed amare la vita.
Salvatore Vecchio
NOTE
1 In Sicilia: Canti popolari siciliani di L. Vigo, che risale al 1857 (II ed. 1874) e, in aggiunta alla raccolta del Vigo, Canti popolari siciliani di S. Salomone-Marino (1867). In seguito, la ricerca acquistò maggiore prestigio con G. Pitrè, Canti popolari siciliani, 1870-’71 (II ed. 1891), i suoi Studi di poesia popolare (1972) e Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano (1889), ripubblicati nell’Edizione nazionale delle opere di Pitrè e Salomone Marino (Ila Palma) e, con C. Avolio, Canti popolari di Noto (1875). In seguito la ricerca e lo studio delle tradizioni popolari furono continuati da G. Cocchiara, Popolo e canti della Sicilia d’oggi (1923), Storia del folklore in Europa (1952) e altre opere che lo fecero conoscere in Italia e nel mondo.
2 «Chi vuole poesia venga in Sicilia / che ha la bandiera della vittoria. / I suoi nemici ne avranno invidia, / ché Dio le diede tanta gloria. / Canti e canzoni ne ha in abbondanza / e lo può dire a gran voce e boria. / Evviva, evviva sempre la Sicilia, / la terra dell’amore e della gloria» (G. Cocchiara, Popolo e canti della Sicilia d’oggi, Palermo, Sandron, 1923).
3 «Bella, ch’io ami te i miei non vogliono, / nella mia casa c’è stato l’inferno».
4 «Bella, vengo a cantare qui e lo faccio apposta, / per vedere se tua madre cala la testa».
5 «Vado di notte come va la luna, / vado cercando te, stella Diana. / Bella, e sei più bella di una palma, / ciò che al petto metti tutto t’adorna».
6 «Bella, le tue bellezze le pretendo, / e se le dai ad un altro, io m’offendo; / se le da’ a qualche faccendiere, / va a barattarle per un pezzo di pane. / Dalle a me, che sono argentiere; io le chiudo e porto la chiave, / le prenderò nelle feste solenni: Mezzo Agosto, Settembre e Natale» (È un’ottava che proviene da Palma di Montechiaro, che celebra la festività della Madonna del Rosa-rio, patrona della città, 1’8 settembre).
7 «Bella mia, / tempo è della vendemmia; / il villano s’incammina, / nella vigna se ne va. / Il povero l’uva spreme / e la mette nelle botti. / Bella mia, contenti tutti, / quando poi si berrà».
8 «Dai a tutti la salute, / ai figli e ai nipoti, / e per noi peccatori, / pregaci il Signore. / Tante genti sono in guerra / in ogni parte della terra, / spegnete queste fornaci, / o Regina della pace».
9 «Mi corico per dormire, / nel sonno posso morire, / e se non ho un confessore, / mi confesso con Voi, mio Signore. // Tre gocce di sangue di Gesù, / tre fili di capelli di Maria, / attaccate e legate mani, bocca e cuore / a chi male mi vuole».
10 «A chi mi vuole male: cavate gli occhi, / conficcate due punteruoli nelle orecchie / gli auguro cimici e pidocchi, /tanti quanto frumento c’è, fave e lenticchie».
11 «Non v’azzardate a venire in Sicilia: / hanno giurato di farvi le cuoia; / e ogni volta che verrete in Sicilia, / la Francia suonerà sempre a martorio. / Oggi, a chi dice Chichiri in Sicilia, / gli si taglia il collo per sua gloria; / e quando si dirà: qui fu Sicilia, / finirà della Francia la memoria».
12 «II tempo è fatto nero, / siamo di nuovo ai lutti: / come si può resistere? / Dobbiamo sopportare tutti? .. // Sento frescura d’aria, / il cielo è pecorino; / perché c’è speranza, popolo, / la burrasca è vicina».
13 «Meglio perdere tanto oro, / ché un amante non lo trovo più».
14 «II mio latte è bianco, bianchissimo, / è solo degno dei cristiani».
15 Si trova in G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, cit.
16 (Madre) – Come fu? Cosa è stato? / … / (Fioravante) – Vado a morte in mezzo a tanta gente, / stretto tra la saltataglia, / per non essere ubbidiente a Cristo, / ho offeso il figlio di Maria. / Vado a morte e patirò tormenti, / così vuole la fortuna mia. / A voi, madre, non raccomando niente, / madre, vi raccomando l’anima mia! // (Madre) – Figlio del mio cuore e anima mia, / figlio del mio cuore e fiato mio, / stretto tra questa soldataglia: / corpo tanto bello e molto fine! / Liberatelo per ordine mio, / voglio sentire il fatto come è stato!
17 « … S’ affaccia il barone / con i calzoni che gli vanno giù».
18 «Maschietto, piedino d’oro, / dove cammina nasce un viottolo; / maschietto, piedino d’argento, / dove cammina nasce frumento; / maschietto, piedino d’alloro, / fa frutto e anche odore. / Femminaccia, piedino di pioppo, / non fa odore e nemmeno frutto».
19 «Zio Rosario mi portò alla Chiana, / manco m’ha dato un raspo d’uva! / Vi andai da tramontana, e ne ho raccolto una cesta piena».
20 «Amici, a tutti voglio bene, / sentite che vi dico la ragione. / S’io fossi ricco, imbandirei cene / e inviterei tutti quanti; / ma ho il cuore tanto afflitto / che mi si stanno imbiancando i capelli».
Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 11-16.
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