La quête intermittente, Paris, Gallimard, 1987.
Eugenio Ionesco non finisce mai di sorprenderci. Quasi ottantenne (è nato a Slatina, in Romania, nel 1912), con questo nuovo libro, affronta il pubblico con fierezza ed orgoglio per difendere ancora una volta il suo teatro e, nello stesso tempo, è ansioso e preoccupato per la vecchiaia che avanza, le difficoltà finanziarie, l’incerto avvenire della sua donna Rodica e della figlia Marie-France.
La quête intermittente è un diario, il diario dell’anima di Ionesco, che è poi una continuazione del Journal en miettes del 1967. Viene scritto tra l’estate del 1986 e il gennaio dell’87 a Saint-Gall, dove festeggia i suoi cinquant’anni di matrimonio, e Le Rondon, un posto tranquillo dove passa l’estate in un pensionato per anziani con Rodica.
L’autore è più disteso, tante focosità battagliere in lui si sono spente e, all’approssimarsi della morte, vuole continuare il dialogo con se stesso, a volte, per rafforzare le sue convinzioni e restare fermo in certe sue posizioni, a volte, per sentirsi vivo e presente a sé e agli altri. Quello che Ionesco insegue è un po’ più di tranquillità, di giustizia, dopo una vita spesa per la «ricerca» del vero, al di là di ogni convenzionalismo, per il bene dell’uomo e di certi ideali che essi solo fanno affrontare con dignità la morte.
Così come Bérenger di Le roi se meurt, giunto verso la fine dei suoi giorni terreni, consapevole che l’ineluttabile passo dovrà pur compiersi, egli si rivolge indietro negli anni intravedendovi la gioventù, i parenti, tanti degli amici più cari, ohimè!, passati per sempre, le fedi incrollabili, che ora non gli dicono niente, il dubbio ritornante, forse l’unico che non l’ha mai lasciato…
Ionesco è scrittore di grande umanità e di finissima sensibilità: e quello a cui egli si rivolge è il mondo, il suo vissuto di uomo e di artista in cerca ancora di una identità, che è segno di vitalità umana oltre che intellettuale. La sua «ricerca» consiste in un continuo interrogarsi, in un manifestarsi per non tradire il suo io e rivelarsi nella sua interezza.
Prima di tutto, il libro è un canto di riconoscenza e di amore rivolto a Rodica (ed è l’elogio più bello che una moglie possa ricevere) ed offre anche spunto a Ionesco per manifestare il suo amore paterno, le sue premure e preoccupazioni per l’unica figlia che, quasi indifesa, per l’avanzata età del padre, ha da affrontare il mondo sempre più pieno di insidie e di malvagità.
«A côté de moi, allongée, elle lit. Sereinement. Mon amour n’est pas irréel,
l’amour n’est pas irréel. La vie de l’amour est d’une réalité irréfutable. Je
suis certain, maintenant, que l’amour est éternellement irréfutable» (pag. 34).
E ancora:
«La nuit tombe. De nouveau, la panique. Elle est si fragile! Si fragile, la
pauvre, ma petite. Et moi-meme si fragile…
Je pense aussi à Marie-France. Pauvre petite, elle aussi» (pag. 86). Ma, a parte questo che è uno degli aspetti più caratterizzanti dell’opera, Ionesco non perde l’occasione per parlare di teatro ed imporre anche la sua presenza, ad onta di chi ne vorrebbe sminuita la portata artistico-letteraria. Gli si rinfaccia di non essere stato comunista, quando tutti si atteggiavano a comunisti e maoisti, come Sartre, seguendo le direzioni del vento.
«On n’avait pas le droit d’etre anticommuniste quand les encore «jeunes»
philosophes étaient communistes, il fallait etre stalinien, maoiste avee eux,
et, maintenant, après eux, dire qu’on s’était trompé: la lumière ne devait
venir que par eux» (pag. 43).
Ionesco non ha fatto mai politica attiva o, per lo meno, la sua è stata sempre la politica dell’uomo per l’uomo, nel senso che alla base di ogni suo scritto, sia una pièce o un romanzo c’è la ricerca e la riscoperta di quei valori che, messe da parte ingiustizie e malignità, fanno veramente umano l’uomo. Sicché critica ogni tipo di ideologia, gli uomini ammalati di «rinocerontite» (vedi Rhinocéros del 1959) e propugna la via verso un mondo migliore, dove siano finalmente debellati i soprusi e le violenze.
Contro coloro che fanno Beckett promotore del «teatro dell’assurdo», che Ionesco preferisce chiamare «teatro nuovo» o «d’avanguardia», egli porta le sue pezze d’appoggio, citando nomi di autori ed opere, rivendicando a sé, con La Cantatrice chauve del 1950, il ruolo di iniziatore di questo teatro «d’avanguardia», «una avant-garde toujours vivante, puisque depuis les années 1950, ce théatre, très caractéristique, n’a pas eu de relève» (pag. 46), e fa i nomi di Adamov, di Tardieu, Weingarten e altri, mentre En attendant Godot è del ’53.
Ionesco crede nel teatro e, come tale, non può sopportare le meschinità degli arrampicatori di specchi. Per questo motivo, non risparmia nessuno, critici ed impresari teatrali che fanno il bello e il cattivo tempo, a scapito del teatro e dell’arte.
La ricerca della verità altro non è che ricerca di Dio: e questo costituisce un altro aspetto del libro, aspetto che, per la verità, Ionesco ha sentito e vissuto sempre intensamente. Sin dalle sue prime pièces, c’è l’anelito della religiosità che a poco a poco andrà prendendo contorni ben delineati: ne Les Chaises (1952), i due vecchi s’uccidono per unirsi agli «invisibili», superando così la loro solitudine, ne La Soif et la Faim (1965), il protagonista Jean tende ad una vita migliore che solo dopo la morte può sperare, ne Le roi se meurt (1962), Bérenger I accetta la morte con serenità, confortato dall’amore e dalla speranza e, ancora, negli ultimi lavori, dove è più marcato il senso religioso della vita e l’approdo nella fede. Basti ricordare il libretto Maximilian Kolbe. Ma, più propriamente, in questo La quête intermittente, c’è la professione di una credenza fortemente cristiana e cattolica, anche se Ionesco non è mai pago per quel suo bisogno di comunicazione profonda che tende istaurare tra lui e il mondo, tra il finito e l’infinito, con Dio.
Un libro, questo, che troviamo utilissimo per la comprensione dell’opera dell’autore, per conoscere meglio Eugenio Ionesco che mai, come ora, si è messo a nudo e si è palesato così per intero. Ma non è solo questo che ci fa accostare a La quête intermittente: esso è una chiave di lettura importantissima e indispensabile per quanti si vogliono accostare alla sua drammaturgia e, in generale, al «nuovo teatro», che veramente ha dell’originale e risponde appieno alle esigenze dell’uomo, mai come ora in cerca della sua vera identità.
Salvatore Vecchio
Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 39-41.
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