Un ponte tra l’effimero e l’Immenso e maturità poetica di Tommaso Romano 

Emana un fascino singolare la poesia di Tommaso Romano, recentemente riproposta in questa ricca antologia. Una riflessione in versi lunga quarant’anni, un’instancabile interrogazione esistenziale vibrante di tensione etica ed ansia gnoseologica, che ne fanno un originale esempio di poesia-pensiero di ascendenza filosofica. Una vera e propria Weltanschauung (mai termine fu più appropriato) si dispiega in queste liriche ‘elementari’, spesso d’intensa brevità come quelle che compongono la prima sezione della raccolta, costruite sull’ossessivo ritorno di parole-chiave – tutto/nulla, vita/ morte. Liriche dall’ apparente freddezza cerebralistica, e che invece lasciano affiorare, con straordinaria efficacia, un flusso di coscienza al contempo oscuro e profetico. 

Si affaccia l’ombra del nichilismo in questa solipsistica confessione di un mondo inteso come «chaos di vuoti senza uscite», apparentabile al mondo come «grande deserto» cantato da Sbarbaro, un universo astratto e metafisico dove si staglia la reverie sonnambula del poeta, quella che risente ancora delle atmosfere del sogno notturno: «Il mio era pensiero triste; / camminavo e la via era deserta / non vidi bene, / la nebbia, pensai, / e continuai i tristi sogni / ad occhi aperti, ma non sognavo, piangevo». La componente gnomica di questi versi giovanili, immersi in un clima di stanchezza esistenziale, scandito dai rintocchi inesorabili del demoniaco Χρóνoς, si ritrova con sorprendente coerenza anche negli esperimenti poetico-visuali d’impronta futurista, come se dietro la parola agita, quella che graffia la superficie del foglio, s’insinuasse sempre il rovello filosofico, ma anche l’istanza religiosa scaturente dall’urgenza di sfidare il Tempo, lanciando un ponte fra l’Effimero e l’Eterno: «linfa / latomie / in fiore / accende / il suono / anelito / vita-morte / apparenza / D.N.A. = eterno / amen». 

È proprio di una duplicità di piani che si sostanzia la poesia di Romano, oscillante fra un’ anima futurista, piena di élan vital – specchio dell’ anima agens dell’autore – e una tormentata vena intimistica – l’anima cogitans, che spesso prende il sopravvento. Quasi che la cognizione dolorosa della sostanza effimera delle cose umane – il mondo delle apparenze – frustasse in partenza l’ansia febbrile del fare, a meno che questa non si orienti in tutt’altra direzione, nell’ottica di una panteistica trascendenza, di un superamento del transeunte. Quest’ansia di Assoluto, del resto, scaturisce proprio dalla consapevolezza senecana dell’implicito legame tra la vita e la morte; da qui il ritorno ossessivo di questa diade nelle poesie dell’ autore, che trova un precedente illustre soltanto in certe meditazioni filosofiche michelstaedteriane: «Vita, morte / la vita nella morte; / morte, vita, / la morte nella vita». 

Guarda caso, proprio Michelstadter invocherà, nella sua ansia di redenzione, la figura di un Salvatore inteso come l’antiZarathustra, e Romano, sottraendosi alla delusione del quotidiano, rilancerà sempre la sua sfida a Χρóνoς, nell’attesa salvifica dell’Eterno. Una sfida reiterata anche nei componimenti più maturi, quelli che compongono la seconda sezione dell’antologia, dove un lirismo nominale traduce la frammentazione del vivere, di cui il poeta fa l’inventario: «La mia solitudine, / una canzone di Leo Ferrè mille volte ripetuta / un pezzo di piombo / miraggio d’immortalità, / qualche poeta maledetto / nostalgie di memorie perdute / vecchie stampe e fiabe sui castelli / carta su carta / di mistici, filosofi e sapienti … » Ma ciò non basta e allora l’autore, «qualche volta incatenato alla noia / – apprendista eremita -» ricompone esausto ogni giorno «frammenti d’esistenza mortale / in attesa d’eterna, sacra quiete». Perché la sua vera aspirazione è quella di fuggire la noia, il cui alleato più fedele è proprio il Tempo, dio sinistro e implacabile, veicolo di lutti e sventure. 

A dare corpo a quest’inesausta riflessione è allora una pronuncia scarna e rigorosa, che non si compiace in vacui estetismi, so stanziata di memorie poetiche – Ungaretti, Rebora, Caproni, Luzi – ma sostenuta anche da memorie filosofiche – ad esempio Julius Evola, traduttore degli oscuri e profetici Versi doro dei Pitagorici – e soprattutto di memorie musicali, – Beethoven, Wagner, 

Dvorak, Malher – che dettano al testo un’orchestrazione polifonica, rimandante i diversi stati d’animo dell’ autore. Certo, il tono dominante è quello luttuoso-malheriano della quarta sinfonia, eppure, coerentemente con queste fantasie funeree, si celebra l’ansia metafisica dell’io, la dolcezza addolorata che ci rammenta la caducità del vivere e, al contempo, la «speranza dell’altezza». Quello della morte è infatti uno dei leit-motiv delle liriche, la morte che «prende ogni giorno» come «un implacabile doganiere asburgico», ma in un misterioso rito iniziatico è possibile «rigenerare i corpi / eternare la vita / al fuoco sacro». Il desiderio di risarcimento nella sfera del Sacro non rimuove tuttavia la consapevolezza dolorosa della finitudine umana: «So che ricerco infinito / più arduo è comprendere quest’ esistente / che risveglia dai sogni / inesorabile e scarno»; «È facile invocare il sole d’Eone / più difficile ammettere la paglia umida di Chrònos». 

La quotidianità, fatta di urgenze e «diari di bordo», è analizzata sempre con ironico distacco, e persino le incombenze della politica, ridotte talvolta a monotona routine priva di significato, sono spogliate di qual si voglia narcisistico compiacimento perché è un’altra la meta cui anela il poeta, oltre le concatenazioni spazio-temporali, oltre i miraggi e le lusinghe inconsistenti. Ma, come dicevamo all’inizio, l’ansia prometeica è talvolta minata dalla stanchezza esistenziale, spesso oggettivata dai luoghi «in antica decadenza pietrificata», come la Venezia viscontiana de I logori merletti, o la Palermo tomasiana delle dimore avite, rose dall’usura del tempo. A fronte di questa condizione, di questa malheriana percezione del vivere, la parola poetica, misurata ma straordinariamente pregna d’intensità espressiva, si configura allora come «esmesuranza», enfasi e delirio beethoveniano, viatico d’intensa spiritualità per chi non accetta di piegarsi alla «vacua temporalità» del mondo, ma osa far risuonare, ostinatamente, la sua confessione nel deserto. 

Lavinia Spalanca 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 59-61.

Print Friendly, PDF & Email

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato.


*