È difficile riassumere, in poche parole, la trama semplice, eppure straor-dinariamente complessa di questo romanzo.
Un ufficiale americano, di stanza a Colonia, durante la seconda guerra mondiale, è ospite, per caso, in una vecchia canonica, dove si imbatte con i resti di una biblioteca e, quel che più conta, con un manoscritto, dalle cui annotazioni a margine si intravede l’esistenza di un altro Vangelo, il quinto, dopo i quattro canonici.
Il protagonista, Peter Bergin, inizialmente scettico, si appassiona a mano a mano all’idea: rovista da capo a fondo tutto il materiale esistente nella canonica; segue tutte le piste e le tracce emerse, alla ricerca del quinto Evangelio sconosciuto. Esplora mezza Europa, scrive a tutte le biblioteche coinvolte in qualche modo nella vicenda e alle persone che si presume possano fornire qualche indicazione, anche minima. Nonostante il materiale raccolto sia moltissimo, il protagonista, non sicuro che il quinto Evangelio esista ancora, scrive prima di morire al Segretario della Pontificia Commissione Biblica di Roma, per sottoporre al suo esame tutto il materiale raccolto e per chiedere se esistano a Roma altri eventuali documenti che provino l’esistenza del prezioso Evangelio perduto, che conterrebbe tantissime novità, rispetto ai quattro Vangeli, ritenuti finora i soli degni di fede.
La Commissione Biblica risponde quando il signor Bergin è già morto. La sua segretaria, Anne Lee, ringrazia la Commissione della sollecitudine dimostrata e coglie l’occasione per inviare altri documenti, tra cui, importantissimo, il dramma «quinto evangelista», rifacimento e ampliamento di una bozza di dramma, trovato da Bergin nella canonica di Colonia e, tra le pagine del dramma, una novelletta scoperta dallo stesso Bergin all’inizio della sua attività di ricerca:«Un uomo andava pellegrino cercando il quinto Evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, per l’affetto d’averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: “Procura di incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto Evangelio”».
Così l’autore, in sordina, quasi senza dar peso alle ultime battute del romanzo, condensa in una novelletta (buttata lì come a far credere che si tratti di un semplice scrupolo di documentazione) il messaggio, sempre attuale, nuovo ed eccezionale, che, al di là della lettera, è contenuto nello spirito del Vangelo, al di sopra delle eventuali incompletezze, contraddizioni, lacune, che pure emergono dall’esame dei testi. Stilisticamente composito, classico e spigliato o, se si preferisce, moderno nello stesso tempo, agevole anche nella trama (che sarebbe potuta risultare pesante, data la materia trattata), dai risvolti divaste proporzioni. Sono messi in evidenza tutti i problemi che i Vangeli e la figura di Cristo hanno suscitato nei duemila anni della storia cristiana: l’iniziale incertezza sul significato da dare, in senso più o meno ecumenico, alla missione di Gesù: le varie interpretazioni date all’insegnamento di Gesù stesso, che gli uomini sono stati capaci di identificare con i modelli più contraddittori e strani della moralità singola e collettiva, del costume, spesso anche immorale delle diverse epoche. Cristo è stato coinvolto, nel corso della storia, con grande disinvoltura, con l’inquisizione, il dissenso, la rivoluzione, la repressione, la violenza, l’oppressione, l’ingiustizia. Le istituzioni politiche buone e cattive, la Chiesa, anche nei periodi più oscuri della sua storia, si sono servite di lui come puntello e sostegno del potere. Anche il problema della divinità o dell’umanità di Cristo, della sua storicità, è sottolineato con forza.
È autentico il contenuto dei quattro Vangeli? È completamente da condannare quello dei Vangeli apografi? Che senso hanno le lacune, le inesattezze, i disaccordi che emergono dalla lettura dei testi sacri? Tutti interrogativi che il narratore pone alla considerazione di chi legge, ma senza mai comparire, senza mai prendere posizione, in prima persona, fra una tesi e l’altra. Egli fa parlare i personaggi: i testimoni della vicenda umana, dalla nascita alla morte, di Cristo, Cristo stesso, il ricercatore, i suoi collaboratori, i manoscritti, le leggende, i documenti storici o inventati, gli attori del dramma conclusivo. Tutti esprimono opinioni, fanno valutazioni, apprezzamenti, interrogano, chiedono, assolvono o condannano. L’autore rimane sempre dietro le quinte. Fa parlare gli altri. Obbliga, così, il lettore a seguire più attentamente i documenti, i personaggi e le loro tesi e a trarre da solo le conclusioni. Contatto, intelligenza e bravura romanzesca (anche se la materia sembrerebbe prestarsi poco ad una storia romanzata), Pomilio parla continuamente al lettore, ma per mezzo di intermediari, che egli trasforma in protagonisti di eccezione. Anche il più modesto manoscritto medioevale acquista l’autorità di una testimonianza, che impegna molto chi legge.
Il Quinto Evangelio, sotto forma scenica soltanto alla fine, a noi è parso un vasto dramma, dall’inizio alla fine, dove diventano personaggi tutti: uomini, documenti storici o inventati e cose. Non c’è brano che non parli al lettore con l’immediatezza e la forza di un interlocutore vivo, con una voce precisa ed eloquente. Anche quando cala il buio sulla scena finale, lo spettatore attende un atto ancora, che continui ad approfondire l’appassionante tema, il quale, nonostante sia stato sviscerato fin nei ripostigli più segreti, non risulta esaurito. Del resto è la tesi fondamentale del romanzo: la tesi, appunto, che il Vangelo non si esaurisce mai. Ad ogni epoca ha da dire qualcosa. Chiunque può sempre attingervi, senza limiti di spazio e di tempo, nel confronto con la propria coscienza, con i propri dubbi e le proprie certezze.
«Ho detto piuttosto (è la professione di fede di Pietro d’Artois) che quanto ai segni resta quello, ma in perpetuo si rinnova quanto ai sensi più profondi: al modo stesso che una sorgente rimane sempre la medesima, ma quella che ne sgorga è acqua sempre nuova; e al modo stesso, se posso servirmi di un’altra comparazione, che coloro che vanno a bervi son mossi sempre da nuova sete… Che io dunque sostenga che, siccome gli Evangeli non furono bastanti a redimere e cambiare il mondo, il Cristo ce ne ha dato di scrivere un quinto, non significa affatto, come m’è stato rimproverato, che io abbia inteso designare materialmente un altro libro, ma solo che penetrando sempre più negli Evangeli, “cercandovi la carità”, come domanda S. Paolo, l’intelligenza che ne avremo sarà più perfetta, che veramente sarà come se ne avessimo composto un quinto. E alcunché di simile ho voluto dire nel luogo dove ho scritto che a ogni nuovo santo che nasce è un nuovo evangelio che si scrive. Il che tuttavia può anche essere inteso altrimenti: che le opere buone che compiamo sono il nuovo evangelo che si scrive; o propriamente che il Vangelo muore e nasce tante volte quante la carità declina o rifiorisce… ciascuna generazione d’uomini riscrive il suo Vangelo».
Il quinto Evangelio, che Bergin insegue, è quello di Pomilio. Non sembri un’affermazione puerile. Pomilio, in realtà, dopo aver sottoposto in primo luogo i quattro Vangeli, in secondo gli altri testi del Nuovo Testamento ad una critica serrata, dai più diversi angoli visuali (del credente, del non credente, dell’uomo comune, del depositario del potere, dell’eretico, ecc.) conduce, quasi per mano, il lettore alla scoperta di quel quinto Vangelo: carità, giustizia e amore nella sostanza profonda, che dovrebbe mettere a tacere, per chi vuole veramente trovare Cristo, ogni dubbio e ogni incertezza di qualsiasi natura.
In fondo è lo stesso Pomilio di sempre, che in maniera diretta o per contrasto ci invita a meditare, con la sua produzione di narratore, su certi traguardi o valori fondamentali della vita dell’uomo, come l’importanza della coscienza nelle scelte, l’aspirazione ad una superiore giustizia, la vittoria sulla morte attraverso l’amore, che rimane l’esigenza ultima per ogni autentica moralità individuale e sociale, prima fra tutte quella cristiana.
Non riteniamo di poter chiudere il profilo su Pomilio, senza soffermarci, seppure rapidamente, sulla sua collocazione nella letteratura contemporanea. Non sarebbe difficile, data la statura del narratore, trovare precursori e seguaci della sua opera, tra gli scrittori italiani e stranieri, viventi e nonviventi.
A noi preme mettere in risalto il rapporto (che dovrebbe essere approfondito di più dalla critica) con due grandi della nostra letteratura: Pirandello e Manzoni.
È fuori di dubbio la straordinaria forza drammatica delle opere di Pomilio, di alcune in particolare. Per convincercene senza fatica, basta scorrere le conclusioni de «Il testimone», de «Il nuovo Corso» e le pagine de «Il Quinto Evangelio» relative ai tremendi interrogativi posti da Giuda sulle presunte responsabilità di Dio di fronte al suo tradimento. Tutto il romanzo, per essere più precisi, ci è apparso – come abbiamo detto – un vasto ed autentico dramma, dall’inizio alla fine, e non soltanto nelle ultime pagine, che sono sotto forma esplicita del dramma.
Tutto acquista, ne «Il quinto Evangelio», la consistenza, lo spessore, le caratteristiche peculiari del personaggio: non soltanto gli uomini, ma anche gli stessi documenti storici o inventati e le altre cose, pure le più insignificanti, che parlano al lettore con l’immediatezza e la forza di un interlocutore reale, dotato di una sua voce precisa ed eloquente.
Anche quando cala il sipario sull’atto finale, il lettore-spettatore resta al suo posto, con la netta sensazione che qualcuno stia per comparire ancora, per proseguire gli interrogativi sull’affascinante tema, che sembra non esaurirsi mai: accettando, con ciò, lo stesso dramma dell’uomo di fronte al suo destino.
La differenza tra la sostanza e il contenuto del dramma dei due scrittori sta nel fatto che, in Pirandello, la verità e la menzogna non hanno alternanze, al di fuori di un’eterna e insuperata lotta di coscienza; in Pomilio, la stessa lotta trova lo sbocco in una superiore esigenza di moralità, di giustizia, di Dio.
Il rapporto con il Manzoni sorge spontaneo, se si pensa alla visione fortemente etica e religiosa di ambedue gli scrittori, anche se con qualche diversità di approccio agli stessi temi.
Al Manzoni il piano provvidenziale di Dio si presenta alla maniera tradizionale, in linea con l’interpretazione teologica cattolica e in termini di educazione e di ammaestramento. La storia dovrebbe servire, cioè, a convincere gli uomini che esiste un disegno di Dio, di cui essi rappresenterebbero le pedine, non sempre coscienti, libere e responsabili. Una «Città di Dio», anche se in chiave non propriamente agostiniana, ma pur sempre espressione di una Provvidenza che non lascia, molto spesso, il dovuto spazio alle scelte spontanee dell’uomo.
In Pomilio, invece, il discorso si fa meno teologico e più morale. Il piano provvidenziale di Dio o la «grazia» (come lo scrittore preferisce) ha bisogno, per manifestarsi, della collaborazione delle coscienze individuali, le quali rappre-sentano il presupposto indispensabile dell’opera di Dio, che è prima nelle coscienze, poi fuori di esse (come amava esprimersi anche Silone, suo grande conterraneo). La coscienza in Pomilio diventa, insomma, protagonista della storia, più di quanto non sia nell’autore dei Promessi sposi.
Manzoni, inoltre, mostra di avere quasi timore, per scrupolo di magistero, di scavare nelle coscienze oltre certi limiti. Pomilio, invece, scava maggiormente proprio negli angoli più tenebrosi e proibiti e nei momenti più disperati di esse, con il risultato che alcune sue figure risultano più vive e drammatiche di quelle del Manzoni.
Giovanni Salucci
* La prima parte del saggio Mario Pomilio narratore di Giovanni Salucci è stata pubblicata in «Spiragli», anno 1, n.1, gennaio-marzo1989.
1 Ed. Rusconi – Milano 1975 (Premio Napoli – Premio per il miglior libro straniero in Francia – Premio Pax in Polonia).
Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 17-21.