J. Ben Jelloun, L’écrivain public. Seuil, Parigi, 1983, pagg. 197. 

Lo scrittore marocchino Jelloun, di lingua francese, in questo romanzo, che – come ogni altro suo scritto – sa della sua terra, parla per quelli che in senso letterario del termine .non hanno la parola•. 

Non affronta, quindi, argomenti pubblici, ma espone al pubblico dei suoi possibili lettori la sua esperienza, la sua vita, le città dell’infanzia, la sua infanzia con le privazioni di quell’età, volendo così manifestare qualcosa che, in fondo, non è soltanto vissuta dall’Autore, ma di ognuno di noi, non sempre in grado di palesare agli altri i propri sentimenti e le proprie sensazioni. 

Ugo Carruba




 J.J. Padrón, I Cerchi dell’Inferno, Libera Università del Mediterraneo, Trapani, pagg. 75, s.p. 

Diviso in 4 sezioni dedicato ad amici poeti, questo libro di J.J. Padrón non è altro che l’insoddisfazione dell’uomo moderno alle prese con la realtà e i problemi della vita, e al tempo stesso segna la sfiducia del poeta dinanzi a questo mondo che va giorno dopo giorno alla deriva. 

Padrón va letto, ed ha fatto bene la Libera Università trapanese a pubblicarlo nella traduzione di F. Chinaglia, perché è un poeta che ha in sé un’angoscia profonda dovuta a questo andare verso un abisso senza fondo e la manifesta agli altri perché se ne rendano conto. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pag. 56.




 M. Crestani, Jules Verne, Fontanelle di Conco, 1995. 

Marco Crestani indulge a un privato diletto: rivisitare l’infanzia attraverso la figura che più di tutte ha stimolato l’infanzia di questi cento anni – quel Jules impressionante profeta dei nostri futuribili. 

Il privato sogno rivela consistenza non aerea grazie all’evocazione di una figura coeva, quella di Edmondo De Amicis, che nella finzione narrativa procura all’incondizionato ammiratore -narratore l’incontro col romanziere. È l’italiano appunto a veicolare nelle proprie parole abitudini carattere e genio del gran francese. 

Pochi giorni dopo la visita giunge la notizia della morte di Verne, e quella lontana giornata del 1905 acquista ancora di più pregnanza e suggestione. L’ignoto visitatore la racchiude nell’aureo scrigno della memoria. Il viaggio sentimentale resta così affidato al vissuto della pagina, in un’atmosfera di realismo elementare, e perciò magico, e perciò fascinatorio, che l’autore sa restituirei. 

Cosma Siani




 EGUALI E DIFFERENTI 

Sono i miei versi a rendermi 
da te diversa, 
ma quante somiglianze tra di noi 
ci sono in tutti i sensi … 
(E i sentimenti?) 
Ci somigliamo tanto, specialmente 
nell’essere mortali, 
ma mi fa differente 
da te la poesia 
perché l’abilità in chirurgia 
ti può fare salvare tante vite 
con le tue mani, 
non creare la vita: 
solo la poesia è creazione! 
A questo mondo Iddio 
ci ha fatto eguali, 
con esclusione 
di ciò ch’è strettamente personale: 
il nostro io.

 
Maria de Lourdes Alba 
versione di Renzo Mazzone 

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 37.




Specchio dell’animo

Eugenio Bruno, calabrese di nascita e romano di adozione, da qualche anno opera in Sicilia, avendo qui ritrovato la disposizione alla pittura già da tempo accantonata. Attualmente lavora per l’allestimento di una personale che avrà luogo a Madrid nel settembre del ’95, ma al suo attivo ha tantissime altre mostre in Italia e all’estero. 

Quello che incuriosisce di questo pittore è il suo silenzio, la sua riservatezza, lo starsene quasi in disparte, a differenza di altri che espongono ad ogni fatta di luna. 

Ogni artista vero è segnato nel suo profondo da stati d’animo e da situazioni personalissime, e solo a sprazzi, quasi ad intermittenza rallentata, sprigiona prepotente ciò che si porta dentro, rtgenerandolo e facendolo vivere di luce propria, vera, come lo è in casi del genere l’arte. Eugenio Bruno è uno di questi, e più che essere ascoltato, ha forte l’esigenza di ascoltare, di capire il suo travaglio, che è, poi, identico a quello degli altri. 

Potrebbe essere questa una delle motivazioni che diamo al suo riserbo, ma non è certo esaustiva. Per questo abbiamo chiesto a Bruno quale altro motivo stia alla base di questa indifferenza che lo spinge ad isolarsi dal contesto produttivo pittorico di questi ultimi anni. 

«Senza dubbio, è vero quanto dice – risponde l’artista -, e lo confermo appieno; ma il motivo profondo, per cui sembro e sono discostante, è la mercificazione che il più delle volte si fa dell’arte. La vera pittura deve innanzitutto rispondere alle esigenze dell’animo, piuttosto che a quelle del corpo. Come può notare, c’è un abisso tra l’arte come esclusivo profitto e quella come la intendo io». 

Questa dichiarazione è molto utile a chi vuole inoltrarsi nel mondo pittorico di quest’uomo che, a spese sue, sa andare contro corrente, a favore, però, di un’arte che è tutta luce ed è, di riflesso, lo specchio di un animo terso, come tale ci appare l’acqua degli abissi marini o quella, più direttamente toccata dai raggi solari, che è in superficie, oggetto in entrambi i casi di tanti suoi quadri. Si vedano, ad esempio, Gli abissi o Paesaggio, con le diverse gradazioni di luce che danno la somma di tanti colori intensi e vivi, di una luminosità sorprendente, che s’accompagnano alle pennellate ora larghe ora smorzate, in ogni caso, sempre sicure e pronte a cogliere nel segno il bisogno di dire e di comunicare che è nell’artista.. 

Nella pittura di Eugenio Bruno l’esplosione della luce dà la tonalità ai colori che riflettono un paesaggio per tantissimi aspetti surreale. E l’ascendenza surrealista non manca certo in questo pittore, proteso, com’è, verso l’onirico, il diverso, appunto, per cogliere in modo nuovo l’essenza della vita che è nella luce che si dilata e dilata le cose e l’uomo. Per meglio cogliere questo aspetto, che è l’essenza primaria della pittura di Eugenio Bruno, si potrebbe tenere come preciso riferimento Arborescenze, in cui i colori, dilatandosi, sembrano formare un “unicum”, simbolo di uno stato di cristallina purezza, a cui l’artista tende, volendo in esso rispecchiarsi e ad esso richiamare gli altri che questa purezza hanno (ohimè, per sempre?) perso di mira. In questa prospettiva si colloca la splendida tela dedicata a Don Chisciotte. Bruno, con la sua pittura, come il personaggio di Cervantes, in un contrasto di luce, dai colori forti, esprime la condizione dell’uomo di oggi proteso tra la realtà e il sogno, tra la quotidianità e l’evasione. 

L’artista è travagliato da questo dualismo, per cui è spinto da un’esigenza di ricerca che va al di là dell’aspetto estetico, intento, com’è, a scoprire l’essenza della vita e delle cose. Quello che lo interessa è la zona buia del profondo, l’estrazione di quell’io che fa difficoltà ad emergere proprio perché troppo l’uomo è preso dalla materialità e dai rumori. Sicché, se in un primo momento, Bruno si era dato al paesaggio e al fIgurativo, via via è venuto a sviluppare un’arte tutta propria che, pur awicinandolo alle varie esperienze del Novecento italiano ed europeo (De Chirico, Picasso, Kandinsky, Marc), trova la sua ascendenza nel surrealismo, che così recita, servendoci di una frase di De Chirico, a sua volta mutuata da Bréton: «L’opera d’arte deve abbandonare del tutto i limiti dell’umano, deve rinunciare completamente al buon senso e alla logica». 

Le esigenze dello spirito sono quelle che maggiormente contano nella pittura del Nostro. Così si spiega il suo scandagliare delle profondità marine o certi suoi lavori che chiamerei “aerei”, per quel suo giuoco di luci e di ombre che sa di sacche di nubi e di chiaro intenso, facile a vedersi volando. E si spiega così la luminosità che fa da padrona in ogni suo quadro, sia che si tratti di visioni oniriche o che oggetto della sua attenzione sia il mare o il cielo, perché alla base della sua creatività artistica c’è l’aspirazione alla purezza. Di qui anche il contrasto, su cui abbiamo insistito (luci e ombre, lineare e non lineare), che è caratteristico di quest’arte. 

Le stesse sculture, che si rifanno alla millenaria civiltà di Sicilia (in particolare i sei pannelli in cemento che ripercorrono la storia di Marsala dai Fenici ai giorni nostri), riprendono questi motivi che tendono alla ricerca di una forma che bene non si configura. Come nella tela Resurrezione, o in quella ispirata alla Famiglia, opere ben riuscite sia per la fattura, che sa di una delicata stilizzazione degli elementi, sia per i colori, dove perviene (la luce del Cristo resuscitato che squarcia la tenebre attorno; nell’altra, il senso dell’unione, proprio della famiglia, che s’amalgama con l’unicità-molteplicità del creato) ad una simbiosi di realtà e di sogno. 

L’informale che c’è nella pittura di quest’artista si origina dall’insoddisfazione che è in lui, dal bisogno di ricercare una forma che, magari andando al di là della realtà, sia capace di comunicare con sé e con gli altri. Si veda, per esempio, la tela Sicilia, oppure l’altra, La notte. Nella prima, il contrasto prodotto dalla luce (contrasto che caratterizza l’Isola e i Siciliani) o, meglio, la dilatazione propria della luce proietta cladodi di ficodindia somiglianti a ombre umane, mentre nella Notte, che è sinonimo di buio, e anche di paura, i volti stralunati, toccandosi, fanno pensare a una boscaglia, dove i colori, facendosi breccia, urtano (il rosso e il nero sono di predominio) ed esplodono una luce che meraviglia e suscita stupore. Partendo da una realtà, quindi (la Sicilia, per quello che essa è, e la notte che, di per sé, dovrebbe essere un momento di riposo), l’artista va al di là del visibile per immergersi in un’atmosfera insolita, ma pur sempre radiosa e avvincente. E questo viaggio che lo coinvolge ci rende partecipi e ci avvince. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg.41-43.




 Sin nombre 

Sobre la cama aun caliente 
desparrama los pétalos mustios 
enrieda las sabanas entre manos dolientes. 
Suenan campanas en un aire templado, llaman al mistico encuentro 
de sabanas blancas, 
enrieda su cuerpo con piernas dobladas, 
gesto tras gesto el corazón se inflama, 
juega la carne con carne sagrada, 
envuelve los cuerpos la prontitud, 
sigue la busqueda entre llamas, 
juega la carne con carne marcada, 
muerde, sangra 
la lengua que pasa en la cara sofiada, 
la mano que busca la mano amada, 
sigue la masa humana 
encarnando 
savia verde. 
Suenan campanas en un aire templado, 
llaman al mistico encuentro 
de sabanas blancas, 
verde, verde que asoma a su frente, 
fluye el calor en su cuerpo vencido, 
asoma el cansancio 
mientras la brisa enfria 
la savia verde. 
Isabella Mazzei

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pag. 41.




 S. Lanuzza, Vittorio Imbriani – uno spadaccino della parola. Napoli, E. Cassitto ed. 1990, pagg. 127, s.p. 

Stefano Lanuzza ha dedicato un agile volumetto, denso di informazioni e di notazioni critiche a uno scrittore dell’Ottocento ingiustamente trascurato. Lanuzza si muove con sicurezza nel «gran mare» degli scritti di Imbriani e degli scritti su Imbriani, conducendo il lettore nella progressiva riscoperta di questa presenza dirompente ma emarginata della letteratura del secolo scorso. 

«Pochi scrittori del suo tempo furono attivi, profilici e capaci di spaziare in “tutte le scritture” quanto Vittorio Imbriani, che nello stretto arco della sua vita ha pubblicato un’infinità di titoli, talmente tanti che non è stato ancora possibile redigerne la completa bibliografia» (p. 10). 

Attraverso undici capitoli il lettore è condotto sempre più addentro l’opera di questo «affabulatore di razza, capace di fondere complessità strutturale e lessico in una scoppiettante trama di fatti», nato a Napoli nel 1840 e morto il 31 dicembre del 1885. 

Antimanzoniano «sostiene l’integrazione nella lingua italiana dei dialetti tutti, perché, a suo avviso, «non potrai esprimerti mai bene in una lingua, che non è viva nell’animo tuo, che devi imparacchiare nella pozzanghera d’un vocabolario» (pag. 41). 

Lanuzza richiama opportunamente l’attenzione dei critici come Croce (che ripubblica alcune opere) e Flora (che curerà una antologia «Le più belle pagine di V.I. – Milano, Trevres, 1929») ebbero per questo scrittore e polemista, ingiustamente trascurato per tanto tempo ma che è necessario riscoprire non solo per una più completa comprensione del nostro Ottocento ma per l’attualità della ricerca linguistica e per la ricchezza dei suoi scritti, sempre interessanti anche quando non sono condivisibili. 

Conclude Lanuzza, dopo l’attenta disamina della vicenda umana e artistica di Imbriani: «Ingegnarsi per valorizzare il lavoro di scrittura al di là d’ogni specializzazione disciplinare indotta da esigenze di opportunità è lo scopo dell’opera imbrianesca, sempre condotta sul filo di un rigore che lo preserva dai dilettantismi dell’eccentricità programmatica e ne giustifica appieno l’onnivora, tipica intellettualità barocca. Questa è sostenuta da un’intelligenza multidimensionale mai dimentica delle ragioni letterarie, dell’esigenza di uno stile che se è sempre virtuosistico non è in nessun caso affrancato dall’esigenza di formare concetti e dar luogo anche a occasioni pedagogiche ed espedienti di verifica generale del sapere, oltre che del narrare e criticare» (pag. 115). 

Giovanni Lombardo

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 46-47.




R. Riggio, Frammenti di spiritualità, Milazzo, 1997, pagg. 62.

 Frammenti di spiritualità esprime il travaglio di uno che, vittima del dolore, trova rifugio in Dio. I riferimenti evangelici coronano i sentimenti di amore, di speranza, di pace e di carità, che sintetizzano la ragione d’essere dell’Autore. 

C’è nella parte finale lo sconforto, dovuto ad una drammatica realtà sociale, che Riggio vive in prima persona, ma c’è anche un sentito bisogno di amore e di bontà, perché gli uomini diventino più buoni e più giusti. 

M. Lombardo

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pag. 61.

 




 Mario Pomilio narratore *  «Il Quinto Evangelio»

È difficile riassumere, in poche parole, la trama semplice, eppure straor-dinariamente complessa di questo romanzo. 

Un ufficiale americano, di stanza a Colonia, durante la seconda guerra mondiale, è ospite, per caso, in una vecchia canonica, dove si imbatte con i resti di una biblioteca e, quel che più conta, con un manoscritto, dalle cui annotazioni a margine si intravede l’esistenza di un altro Vangelo, il quinto, dopo i quattro canonici. 

Il protagonista, Peter Bergin, inizialmente scettico, si appassiona a mano a mano all’idea: rovista da capo a fondo tutto il materiale esistente nella canonica; segue tutte le piste e le tracce emerse, alla ricerca del quinto Evangelio sconosciuto. Esplora mezza Europa, scrive a tutte le biblioteche coinvolte in qualche modo nella vicenda e alle persone che si presume possano fornire qualche indicazione, anche minima. Nonostante il materiale raccolto sia moltissimo, il protagonista, non sicuro che il quinto Evangelio esista ancora, scrive prima di morire al Segretario della Pontificia Commissione Biblica di Roma, per sottoporre al suo esame tutto il materiale raccolto e per chiedere se esistano a Roma altri eventuali documenti che provino l’esistenza del prezioso Evangelio perduto, che conterrebbe tantissime novità, rispetto ai quattro Vangeli, ritenuti finora i soli degni di fede. 

La Commissione Biblica risponde quando il signor Bergin è già morto. La sua segretaria, Anne Lee, ringrazia la Commissione della sollecitudine dimostrata e coglie l’occasione per inviare altri documenti, tra cui, importantissimo, il dramma «quinto evangelista», rifacimento e ampliamento di una bozza di dramma, trovato da Bergin nella canonica di Colonia e, tra le pagine del dramma, una novelletta scoperta dallo stesso Bergin all’inizio della sua attività di ricerca:«Un uomo andava pellegrino cercando il quinto Evangelio. Lo venne a sapere un santo vescovo e, per l’affetto d’averlo veduto vecchio e stanco, gli mandò a dire queste parole: “Procura di incontrare il Cristo e avrai trovato il quinto Evangelio”». 

Così l’autore, in sordina, quasi senza dar peso alle ultime battute del romanzo, condensa in una novelletta (buttata lì come a far credere che si tratti di un semplice scrupolo di documentazione) il messaggio, sempre attuale, nuovo ed eccezionale, che, al di là della lettera, è contenuto nello spirito del Vangelo, al di sopra delle eventuali incompletezze, contraddizioni, lacune, che pure emergono dall’esame dei testi. Stilisticamente composito, classico e spigliato o, se si preferisce, moderno nello stesso tempo, agevole anche nella trama (che sarebbe potuta risultare pesante, data la materia trattata), dai risvolti divaste proporzioni. Sono messi in evidenza tutti i problemi che i Vangeli e la figura di Cristo hanno suscitato nei duemila anni della storia cristiana: l’iniziale incertezza sul significato da dare, in senso più o meno ecumenico, alla missione di Gesù: le varie interpretazioni date all’insegnamento di Gesù stesso, che gli uomini sono stati capaci di identificare con i modelli più contraddittori e strani della moralità singola e collettiva, del costume, spesso anche immorale delle diverse epoche. Cristo è stato coinvolto, nel corso della storia, con grande disinvoltura, con l’inquisizione, il dissenso, la rivoluzione, la repressione, la violenza, l’oppressione, l’ingiustizia. Le istituzioni politiche buone e cattive, la Chiesa, anche nei periodi più oscuri della sua storia, si sono servite di lui come puntello e sostegno del potere. Anche il problema della divinità o dell’umanità di Cristo, della sua storicità, è sottolineato con forza. 

È autentico il contenuto dei quattro Vangeli? È completamente da condannare quello dei Vangeli apografi? Che senso hanno le lacune, le inesattezze, i disaccordi che emergono dalla lettura dei testi sacri? Tutti interrogativi che il narratore pone alla considerazione di chi legge, ma senza mai comparire, senza mai prendere posizione, in prima persona, fra una tesi e l’altra. Egli fa parlare i personaggi: i testimoni della vicenda umana, dalla nascita alla morte, di Cristo, Cristo stesso, il ricercatore, i suoi collaboratori, i manoscritti, le leggende, i documenti storici o inventati, gli attori del dramma conclusivo. Tutti esprimono opinioni, fanno valutazioni, apprezzamenti, interrogano, chiedono, assolvono o condannano. L’autore rimane sempre dietro le quinte. Fa parlare gli altri. Obbliga, così, il lettore a seguire più attentamente i documenti, i personaggi e le loro tesi e a trarre da solo le conclusioni. Contatto, intelligenza e bravura romanzesca (anche se la materia sembrerebbe prestarsi poco ad una storia romanzata), Pomilio parla continuamente al lettore, ma per mezzo di intermediari, che egli trasforma in protagonisti di eccezione. Anche il più modesto manoscritto medioevale acquista l’autorità di una testimonianza, che impegna molto chi legge. 

Il Quinto Evangelio, sotto forma scenica soltanto alla fine, a noi è parso un vasto dramma, dall’inizio alla fine, dove diventano personaggi tutti: uomini, documenti storici o inventati e cose. Non c’è brano che non parli al lettore con l’immediatezza e la forza di un interlocutore vivo, con una voce precisa ed eloquente. Anche quando cala il buio sulla scena finale, lo spettatore attende un atto ancora, che continui ad approfondire l’appassionante tema, il quale, nonostante sia stato sviscerato fin nei ripostigli più segreti, non risulta esaurito. Del resto è la tesi fondamentale del romanzo: la tesi, appunto, che il Vangelo non si esaurisce mai. Ad ogni epoca ha da dire qualcosa. Chiunque può sempre attingervi, senza limiti di spazio e di tempo, nel confronto con la propria coscienza, con i propri dubbi e le proprie certezze. 

«Ho detto piuttosto (è la professione di fede di Pietro d’Artois) che quanto ai segni resta quello, ma in perpetuo si rinnova quanto ai sensi più profondi: al modo stesso che una sorgente rimane sempre la medesima, ma quella che ne sgorga è acqua sempre nuova; e al modo stesso, se posso servirmi di un’altra comparazione, che coloro che vanno a bervi son mossi sempre da nuova sete… Che io dunque sostenga che, siccome gli Evangeli non furono bastanti a redimere e cambiare il mondo, il Cristo ce ne ha dato di scrivere un quinto, non significa affatto, come m’è stato rimproverato, che io abbia inteso designare materialmente un altro libro, ma solo che penetrando sempre più negli Evangeli, “cercandovi la carità”, come domanda S. Paolo, l’intelligenza che ne avremo sarà più perfetta, che veramente sarà come se ne avessimo composto un quinto. E alcunché di simile ho voluto dire nel luogo dove ho scritto che a ogni nuovo santo che nasce è un nuovo evangelio che si scrive. Il che tuttavia può anche essere inteso altrimenti: che le opere buone che compiamo sono il nuovo evangelo che si scrive; o propriamente che il Vangelo muore e nasce tante volte quante la carità declina o rifiorisce… ciascuna generazione d’uomini riscrive il suo Vangelo». 

Il quinto Evangelio, che Bergin insegue, è quello di Pomilio. Non sembri un’affermazione puerile. Pomilio, in realtà, dopo aver sottoposto in primo luogo i quattro Vangeli, in secondo gli altri testi del Nuovo Testamento ad una critica serrata, dai più diversi angoli visuali (del credente, del non credente, dell’uomo comune, del depositario del potere, dell’eretico, ecc.) conduce, quasi per mano, il lettore alla scoperta di quel quinto Vangelo: carità, giustizia e amore nella sostanza profonda, che dovrebbe mettere a tacere, per chi vuole veramente trovare Cristo, ogni dubbio e ogni incertezza di qualsiasi natura. 

In fondo è lo stesso Pomilio di sempre, che in maniera diretta o per contrasto ci invita a meditare, con la sua produzione di narratore, su certi traguardi o valori fondamentali della vita dell’uomo, come l’importanza della coscienza nelle scelte, l’aspirazione ad una superiore giustizia, la vittoria sulla morte attraverso l’amore, che rimane l’esigenza ultima per ogni autentica moralità individuale e sociale, prima fra tutte quella cristiana. 

Non riteniamo di poter chiudere il profilo su Pomilio, senza soffermarci, seppure rapidamente, sulla sua collocazione nella letteratura contemporanea. Non sarebbe difficile, data la statura del narratore, trovare precursori e seguaci della sua opera, tra gli scrittori italiani e stranieri, viventi e nonviventi. 

A noi preme mettere in risalto il rapporto (che dovrebbe essere approfondito di più dalla critica) con due grandi della nostra letteratura: Pirandello e Manzoni. 

È fuori di dubbio la straordinaria forza drammatica delle opere di Pomilio, di alcune in particolare. Per convincercene senza fatica, basta scorrere le conclusioni de «Il testimone», de «Il nuovo Corso» e le pagine de «Il Quinto Evangelio» relative ai tremendi interrogativi posti da Giuda sulle presunte responsabilità di Dio di fronte al suo tradimento. Tutto il romanzo, per essere più precisi, ci è apparso – come abbiamo detto – un vasto ed autentico dramma, dall’inizio alla fine, e non soltanto nelle ultime pagine, che sono sotto forma esplicita del dramma. 

Tutto acquista, ne «Il quinto Evangelio», la consistenza, lo spessore, le caratteristiche peculiari del personaggio: non soltanto gli uomini, ma anche gli stessi documenti storici o inventati e le altre cose, pure le più insignificanti, che parlano al lettore con l’immediatezza e la forza di un interlocutore reale, dotato di una sua voce precisa ed eloquente. 

Anche quando cala il sipario sull’atto finale, il lettore-spettatore resta al suo posto, con la netta sensazione che qualcuno stia per comparire ancora, per proseguire gli interrogativi sull’affascinante tema, che sembra non esaurirsi mai: accettando, con ciò, lo stesso dramma dell’uomo di fronte al suo destino. 

La differenza tra la sostanza e il contenuto del dramma dei due scrittori sta nel fatto che, in Pirandello, la verità e la menzogna non hanno alternanze, al di fuori di un’eterna e insuperata lotta di coscienza; in Pomilio, la stessa lotta trova lo sbocco in una superiore esigenza di moralità, di giustizia, di Dio. 

Il rapporto con il Manzoni sorge spontaneo, se si pensa alla visione fortemente etica e religiosa di ambedue gli scrittori, anche se con qualche diversità di approccio agli stessi temi. 

Al Manzoni il piano provvidenziale di Dio si presenta alla maniera tradizionale, in linea con l’interpretazione teologica cattolica e in termini di educazione e di ammaestramento. La storia dovrebbe servire, cioè, a convincere gli uomini che esiste un disegno di Dio, di cui essi rappresenterebbero le pedine, non sempre coscienti, libere e responsabili. Una «Città di Dio», anche se in chiave non propriamente agostiniana, ma pur sempre espressione di una Provvidenza che non lascia, molto spesso, il dovuto spazio alle scelte spontanee dell’uomo. 

In Pomilio, invece, il discorso si fa meno teologico e più morale. Il piano provvidenziale di Dio o la «grazia» (come lo scrittore preferisce) ha bisogno, per manifestarsi, della collaborazione delle coscienze individuali, le quali rappre-sentano il presupposto indispensabile dell’opera di Dio, che è prima nelle coscienze, poi fuori di esse (come amava esprimersi anche Silone, suo grande conterraneo). La coscienza in Pomilio diventa, insomma, protagonista della storia, più di quanto non sia nell’autore dei Promessi sposi. 

Manzoni, inoltre, mostra di avere quasi timore, per scrupolo di magistero, di scavare nelle coscienze oltre certi limiti. Pomilio, invece, scava maggiormente proprio negli angoli più tenebrosi e proibiti e nei momenti più disperati di esse, con il risultato che alcune sue figure risultano più vive e drammatiche di quelle del Manzoni. 

Giovanni Salucci 

* La prima parte del saggio Mario Pomilio narratore di Giovanni Salucci è stata pubblicata in «Spiragli», anno 1, n.1, gennaio-marzo1989. 

1 Ed. Rusconi – Milano 1975 (Premio Napoli – Premio per il miglior libro straniero in Francia – Premio Pax in Polonia). 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 17-21.




ORMEGGIO

Yun Mu (n. 1986, Pechino)
Sono arrivato qui nella città 
sul lago 
e ho visto per le vie 
un fluttuare instancabile di gente 
come fossero in cerca d’un legame. 
Era un mio sogno 
abbattere una quercia per aprire 
il mio cammino dentro la città, 
ma svaniva sul fare del mattino. 
Perché nella città tutti i mattoni 
erano già occupati … Ed io non ero 
venuto per cercare un altro spazio: 
volevo solo esprimere un saluto 
a una ragazza ancora non andata 
in sposa, e dirle 
che il grano nel suo cesto era maturo 
e la vita ha un valore duraturo. 
lo, che non ho trascorso 
mai una notte sul mare, mi distendo 
adesso 
in riva allago immerso nella luce 
ad aspettare che si chiuda il giorno. 

Yun Mu

Traduzione dalla lingua cinese di Veronica Ciolli, versione di Patricia Lolli e Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 40.