Artifex additus artifici

Nel dicembre del 1984, in un’aula della Facoltà di Magistero di Torino, con una sobria ed assai significativa cerimonia, in perfetta armonia con il carattere e lo stile di Ettore Bonora, amici, colleghi e scolari hanno voluto degnamente onorare il settantesimo compleanno dell’illustre studioso, presentando in volume alcuni suoi scritti sulla critica letteraria del Novecento: Protagonisti e problemi, Torino, Loescher, 1984. 

A primo acchito sembrerebbe che a tenere legata la raccolta di saggi e di note sia il dato cronologico (il Novecento), ma a ben guardare vi è una unità interna, una disciplina strutturale ed una metodologia essenziale che li stringe e li annoda in un corpus organico. 

Il volume che si avvale di una deferente presentazione e di una completa bibliografia degli scritti di Ettore Bonora apparsi in varie riviste fra il 1939 ed il 1984, è costituito da nove organici ed omogenei interventi: Benedetto Croce e la letteratura del Rinascimento, La drammaturgia settecentesca nella storiograjia italiana da De Sanctis a Croce, Il dibattito sulla letteratura dialettale dall’età veristica a oggi, Il Seicento “protagonista vero e immanente” dei “Promessi Sposi” nella interpretazione di Luigi Russo. Appunti per un ritratto critico di Mario Fubini, Fubini direttore del “Giomale storico”. Breve discorso sul metodo di Gianfranco Contini, Dalla storia della letteratura alla scienza della letteratura. 

Il lettore attento sa accorgersi dell’improba e meritoria fatica di rendere lucido, anzi traslucido e sintetico, il pensiero critico di un Benedetto Croce, di un Luigi Russo, di un Mario Fubini, di un Gianfranco Contini o di un Hans Robert Jauss; lo studioso esperto riconosce non meno velocemente l’attenzione impeccabile del lavoro, la cura scientifica nell’organizzare e conseguentemente esprimere, con sicura evidenza, in una scrittura controllatissima, un organico panorama di idee di tutta una attività critica che, dai nomi summenzionati, passa alle generazioni future alcuni principi motori della nostra indagine letteraria. Ciò avviene perché lo studioso, con la sagacia e l’acribìa che gli sono pressoché unanimemente riconosciute, non si limita a rendere conto doviziosamente del pensiero del critico che è oggetto della sua riflessione, ma avanza sovente nuove e sostanziali ipotesi, propone e indica delle soluzioni, per cui i saggi di un Croce o di un Russo acquistano in intelligibilità. 

Arte del chiarire e dell’integrare ai fini di una corretta interpretazione è da dirsi quella del Sonora storico della critica letteraria. Ed è un “maieutico” aiutare non solo a capire. ma anche ed essenzialmente ad avvicinarsi al critico di turno (ma sarebbe più giusto ai critici per la vastità del respiro esegetico dato all’argomento) con ben altri strumenti interpretativi, con ben altre cognizioni. In questo individuato ambito è legittimo affermare che l’autore sia andato oltre il proposito di essere il semplice storico della critica, perché la rara esperienza e gli approfonditi studi, uniti, oseremmo dire, ad una “naturale” vocazione critica, gli hanno consentito di compiere quanto maggiormente è auspicabile: nel chiarire il pensiero del critico, costruire sulla critica nuova critica (ci si perdoni la voluta iterazione del termine), non solo illuminando. ma altresì prospettando chiavi di lettura, e probabili soluzioni senza mai influenzame l’oggettività critica. 

Lo studioso appare quindi come il sempre più auspicabile artifex additus artljìci che nell’utilizzo delle forme agili evita la pedanteria e rifugge dall’accademia “pura”. E non è certo solo un caso se il volume si chiude con 

l’osservazione del Thibaudet: “Un libro di critica è vivo solo se suscita la critica, se tiene la sua parte in un dialogo, se comunica la sua vibrazione a un movimento che lo supera – vale a dire, insomma, se è incompleto, se porta il lettore a rettificarlo”. 

Una verità essenziale che il Sonora ha da tempo tesaurizzato nella sua integralità aprendo sempre un autentico e chiarificatore dibattito di idee ove è facilmente rilevabile l’avvertito bisogno di inverare con proprie convinzioni posizioni critiche che pur mantengono sovente inalterate le loro prerogative di validità. Ciò senza nulla togliere alla messa a fuoco delle posizioni e delle ragioni critiche da cui gli interventi erano scaturiti. Pertanto il senso del dibattito lievita nella ri11essione che si rivolge al testo problematizzandolo. 

Una capacità di lettura, quindi, aderente al testo e all’autore, ma nel contempo sostanzialmente dialettica: un saper leggere che il Sonora ha attinto dalla sua lunga esperienza di solerte studioso e di fine e sensibile interprete. Un leggere con volontà di collaborazione che rivendica alla critica il suo ruolo legittimo di crescita sociale e culturale additandone i caratteri peculiari su cui si regge e prospera: il confronto, l’integrazione e lo scontro di idee che ne garantiscono il progresso e ne legittimano la essenzialità. 

Rigorosamente calati in un preciso diagramma storico-critico questi studi tengono sempre in debita considerazione l’intero arco critico degli studiosi esaminandone l’opera specifica in una visione radiale e globale di insieme, rifuggendo da arbitrari e spesso fuorvianti estrapolamenti. Anche per ciò, a nostro avviso, i saggi sono altamente esemplativi di quanto l’intelligenza critica, messa a disposizione della serietà di lettura, pur se in un settore così complesso e vario come l’ermeneutica, diventi una proposta destinata ad inl1uenzare tutto un modo di fare storia della critica. Singolarmente esemplativi a tal proposito sono i saggi su Benedetto Croce, su Mario Fubini, su Gianfranco Contini e su Hans Robert Jassus, per non parlare della “querelle” fra il Garlanda ed il Pirandello sulla struttura dell’endecasillabo dantesco che appare quasi come un pretesto per una più ampia ed articolata discussione. Che dire poi della esemplificazione magistrale che il Bonora ci fornisce del pensiero di Luigi Russo a proposito del “Seicento protagonista vero e immanente” dei “Promessi Sposi”: “Il Seicento è il protagonista del romanzo non già per gli elementi storici, chè questo poteva essere ingrediente esteriore, impalcatura, scenografia del così detto romanzo storico, ma in quanto spirito, logica, gusto, vita morale”? Non minor pregio per sintesi e precisione ha il discorso sul metodo del “postcrociano” Contini, ove lapalissianamente si evidenzia che alla base della metodologia di uno dei maggiori rappresentanti della critica stilistica sta l’analisi della tecnica di uno scrittore e dell’organizzazione di un’opera, intesa come prodotto linguistico: analisi che si fonda su un attento esame delle varianti per individuare le direzioni di lavoro dello scrittore ed il processo formativo del testo. 

Sobrietà, chiarezza ed una singolare accuratezza informativa ne fanno un volume fondamentale sia per gli specialisti che per i lettori comuni di buona cultura che anche dal Sonora storico della critica riceveranno la conferma della sua onestà critica ed intellettuale (una dote che si va vieppiù rarefacendo nella larga schiera degli studiosi), sia nelle note dedicate al “maestro degno di essere ascoltato” (Fubini) sia nei saggi sul Croce, di chi proprio crociano il cento per cento non è, ma che certo sarebbe pronto (e noi con lui) a “bollare” di “imbecillità” chi pretende di ignorare l’entità notevole della sua opera di critico e i filosofo, e misconoscere financo “il gusto sicuro di lettore” e la essenzialità di non poche sue pagine. 

Anche questa, ormai assodata, onestà concorre a qualificare il Bonora come uno degli ultimi veri grandi maestri, accanto a quelli che sono stati oggetto della sua riflessione, da cui le giovani generazioni di studiosi possono copiosamente attingere sicuri di trovarvi gli stimoli necessari al loro non comune e faticoso impegno. 

Vito Titone 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 41-44




La nascita di Afrodite 

Era un’alba radiosa di primavera, 
la terra sorrideva e tra le fronde 
lo zèfiro spirava leggero a sera. 
Il mare con lento moto dell’onde 
carezzava le coste di Citèa. 
Si cullava in una conchiglia 
baciata dal sole, in cocchio regale 
una dea di Zeus figlia. 
«Afrodite! Sull’azzurro mare sale 
con i tritoni e delfini!» – disse Zeus, 
accostandosi a riva. 
Così Afrodite, con moto del capo vezzoso, 
scrollòl’acqua dai capelli, balzò come diva. 
Al suo passo si placò il mare focoso. 
Erbe e rose spuntaron al suo passo graziato. 
Felice fece tutto l’Olimpo in quel dì radioso, 
germogliarono le zolle al suo delicato fiato. 
Giovanni Teresi 
Dies natalis Veneris 

 

Collucebat prima lux veris, 
ridebat terram et frondes 
Zephyrus afflabat levis vespere. 
Mare undarum lento motu 
permulcebat Citherorum litora. 
Movebat se in concha, quasi in cuna, 
sole circumdata, sicut in regio curru, 
una ex diis Iovis filia. 
«Ecce Aphrodite! Super caeruleas aquas salsas 
cum tritonibus et delphinis!»- dixit Iuppiter 
dum ea accedit ad oram. 
Ita Aphrodite, pulchri capite quasso, 
excussit aquam e capillis, repente se tollit. 
Dum incedit maris motus se vehemens placavit. 
Herbae et rosae exortae sunt pede venusto. 
Beatum fecit totum Olympum illa die fulgenti, 
levi halito eius orta sunt germina. 

Giovanni Teresi

(vers. lat. di Gioacchino Grupposo) 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 51.




BLU E OLTRE 

 Lì dove soffia il vento sottile 
tra le fragili nuvole 
abita la verità ineluttabile 
della profondità dell ‘ universo, 
il divino ingegno. 
Equilibri, orbite, vuoti 
avvolti nel blu e oltre 
annullano il tempo, 
la loro presenza / assenza in bilico 
sull’ unico filo d’ eterna luce. 
Lì oltre il blu, 
altre stelle brillano 
nella via dell’universo. 
Grandezza incommensurabile, 
incontenibile 
nella fragilità dell’ essere. 

Giovanni Teresi 

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 48.




 Il Sud del mondo

Un primo consuntivo 

Volendo trarre un consuntivo della mostra di Marsala. Il Sud del mondo – L’altra arte contemporanea, a più di un mese dalla sua inaugurazione, devo dire che la prima valutazione che mi piace fare riguarda l’aspetto umano del problema, ossia la grande partecipazione di visitatori che francamente non mi aspettavo. non perché la mostra non lo meritasse, ma pensavo che, in una zona decentrata rispetto al cuore dell’Italia, tutto questo non potesse accadere. Invece, con mia grande sorpresa, flotte di studenti marsalesi e visitatori da ogni parte, a ripetizione, vengono a vedere e rivedere. Questa è la mia prima soddisfazione e, penso, anche dell’Ente Mostra Nazionale di Pittura «Città di Marsala» perché non sempre si è abituati a vedere un coinvolgimento intenso. continuo. che non sembra cessare. 

La stampa, devo dire, è stata oltremodo attenta, anche la televisione. Credo che la felicità dell’iniziativa consista, oltre che nell’imponenza o nel suo primato, in quanto questa di Marsala è anche la prima mostra in assoluto che si tiene sul tema, nel fatto che è un’iniziativa che può essere letta a tanti livelli, ossia da quello specialistico, critico, storico a quello sociologico, etnologico e, soprattutto. a diversi livelli di cultura. C’è occasione di fascino, di coinvolgimento sia per il grosso pubblico che per gli specialisti e gli uomini di cultura dalle più differenti aree. 

Questa mostra riscuote grande attenzione da ogni parte del mondo e suscita interesse tra gli operatori artistici. Lo testimonia la fitta corrispondenza che tutti i giorni intessiamo. C’è effettivamente la voglia di approfittare, da parte anche dei musei, di questa circostanza, nella quale si possono vedere a confronto culture iconografiche tra loro, e c’è anche il fatto che ormai tutti, con diverso grado di coscienza, sappiamo che il Sud del mondo ci aspetta. 

Il fatto impressionante di questa mostra è che, per la prima volta, vengono rappresentate le nazioni del Sud del mondo in modo così massiccio che non si era mai verificato in nessuna altra parte. Questo era uno scopo che mi prefiggevo e lo avevo sottolineato giorni prima dell’apertura. Ma la cosa simpatica è che a parlarne sono gli altri. Lo ha bene evidenziato, per prima, questa rivista per cui scrivo, e lo ha confermato durante la sua visita un estraneo alla mostra, Vittorio Sgarbi, che ha detto press’a poco le stesse cose. 

Tutti questi consensi, a dir la verità, mi danno un gran sollievo, a premio e ricompensa di tutta la fatica che c’è dietro questa mostra veramente grande. Significa – senza volere niente esagerare – che ho impostato bene il mio lavoro. Quando curo una mostra la mia attenzione è rivolta anche. e in modo particolare, alla sua presentazione. E presentare bene una mostra non significa spettacolarità fine a se stessa, ma una sottolineatura dei valori anche in senso speltacolare, finché è possibile, senza per questo alterare i contenuti intrinseci. L’altro aspetto su cui pongo la mia attenzione è la qualità stessa delle opere che in sé spesso sono spettacolari. Basti considerare l’arte della scultura africana, ad esempio. L’altro elemento è certamente l’allestimento in senso tecnico e, non a caso, in questa mostra, è stato affidato all’architetto Fabrizio Crisafulli e alla scenografa Silvana D’Amaro. 

Al di là di tutto questo, la presenza massiccia dei rappresentanti del Sud del mondo attribuisce alla mostra di Marsala una grande carica comunicativa, e il 

visitatore riceve una miriade di messaggi che non possono non scuotere la sua umanità. In diversi di questi Paesi coinvolti la vita pubblica individuale e sociale non sempre è facile e agevole. Per questo c’è in tantissime opere l’anelito verso l’alto. Un esempio potrebbe essere l’opera artistica di Gustavo Lopez Armentia oppure la scultura di Mario Irrazabal, in cui il popolo cileno è rappresentato attraverso una corona di personaggi sofferenti che portano su di sé un immenso carico, una grande scultura. Evidentemente l’anelito alla libertà è molto chiaramente manifestato, ed è sintomatico non solo del Cile, ma anche di tutta una serie di Paesi. Comunque sono anche rappresentati Paesi, come la Nuova Zelanda e l’Australia, che dal punto di vista sociale e del regime politico sono democraticamente avanzati e che pure non sono insensibili a questi aneliti di libertà. Difatti, la vera importanza di questa mostra è l’avere instaurato un dialogo non solo tra il Nord e il Sud, ma fra tutti i Paesi del mondo. Se consideriamo che questo Sud, di cui ho trattato, parte, per dare un senso verso Oriente, dall’America Latina, poi dall’Africa, Medio Oriente, Sud-Est asiatico, per arrivare all’Oceania, evidentemente parlo di Sud, ma ho dinanzi a me il mondo a 3600. 

Se oggi si parla con larghezza di vedute di questo dialogo tra Nord e Sud, dobbiamo essere grati a Marsala che, a buon titolo, potrebbe essere sede di un’Accademia di Belle Arti, purché mantenga lo spirito vitale che ha manifestato e dimostrato in occasione di questa mostra, imponendosi all’attenzione del mondo. 

Carmelo Strano

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 37-39




 «L’uomo è nato libero e ovunque è in catene». Rousseau: teorico della democrazia o padre del totalitarismo? 

di Anna Vania Stallone 

Riflettere su un’immagine di democrazia quale forma di regime politico, sia pure del popolo, è necessario per prendere consapevolezza dei limiti di questa forma di governo e della sua vulnerabilità. Il fatto che della democrazia venga spesso fornita un’immagine fuorviante deve portare a comprendere fino a che punto sia lecito definire Rousseau «padre del totalitarismo» quanto piuttosto non sia opportuno continuare a considerarlo il teorico della democrazia, come si è fatto finora. La riflessione inevitabilmente deve partire da un’analisi attenta del pensiero di Jean Jacques Rousseau, anche se di democrazia e di forme di governo non fu certo il primo a parlare. 

Già Erodoto, portavoce della saggezza politica della Grecia antica, parlava di tre forme di governo: di uno, di pochi e di molti, considerando la democrazia la migliore tra queste, anche se come le altre due era soggetta a degenerazione, scadendo nella demagogia. Platone, poi, nella Repubblica teorizzava lo Stato perfetto, concependo in modo ideale l’aristocrazia o governo dei filosofi, ma, come Erodoto, contemplava le diverse forme di governo, individuando le possibili degenerazioni nella timocrazia, nella oligarchia e nella tirannide. Anche nel Politico Platone si sofferma a riflettere sulle diverse forme di governo e precisa ulteriormente che è la presenza o la privazione delle leggi a dare ad un governo un’impronta positiva o a determinarne la degenerazione. 

Seppure le leggi non possano prescrivere il bene per ognuno, considerato il loro carattere generale, Platone ne ribadisce comunque la necessità, poiché esse, data questa loro caratteristica, indicano ciò che è meglio per tutti. Fissate le leggi nel miglior modo possibile, esse vanno rispettate e conservate, poiché la loro assenza determina la rovina dello Stato. È Platone a dare lezione di autentica arte politica, individuando nella giusta misura la caratteristica dell’uomo politico che deve evitare l’eccesso o il difetto. 

Una riflessione politica di tutto rispetto viene ancora fornita, in ambito filosofico, da Aristotele, il quale, partendo dalla necessità per l’individuo della vita associata, poiché egli non basta a se stesso, si pone il problema della costituzione più adatta, affermando, nel IV libro della Politica, la necessità di un governo non solo perfetto, ma attuabile ed adattabile a tutti i popoli. Egli parte da una critica rivolta alle costituzioni esistenti per pervenire alla costituzione perfetta. Come Platone, anch’egli prende in considerazione monarchia, aristocrazia e democrazia e ne analizza le corrispondenti degenerazioni che vengono messe in atto quando il governo non ha più come fine il vantaggio comune, bensì il proprio. In modo specifico, soffermandosi sulla democrazia, egli distingue la democrazia, che si fonda sull’eguaglianza assoluta dei cittadini, da quella in cui il governo è riservato a cittadini con speciali requisiti, e quando nella democrazia prevale l’arbitrio della moltitudine, a scapito delle leggi, essa, dice Aristotele, si trasforma in tirannide. 

Facendo un salto nell’età moderna, la riflessione politica, passando attraverso il giusnaturalismo, concentra l’attenzione sul rapporto individuo-libertà, ponendo l’idea del diritto di natura al centro delle varie teorie. Dallo Stato assoluto di 

Thomas Hobbes a quello liberale di John Locke, la democrazia di Jean-Jacques Rousseau è sicuramente una delle più grandi concezioni politiche del mondo moderno. Considerare quello che la storia dall’ età moderna ad oggi ha offerto in termini di rivoluzioni e conflitti induce, non a formulare la costituzione perfetta, come è accaduto ad Aristotele, ma ad utilizzare differenti chiavi di lettura per gettare discredito su quelli che sono stati da sempre considerati i punti di riferimento ideologici del pensiero liberale, democratico o totalitario. Con molta disinvoltura è più semplice abbandonarsi a forzature revisionistiche piuttosto che ancorarsi a teorie e a principi difficilmente confutabili. 

Considerare Rousseau «padre del totalitarismo» è di certo una forma di revisionismo che disorienta il lettore comune, ma che certamente costituisce un input molto forte per chi è invece fermamente convinto che Rousseau non possa essere attaccato sui principi cardini del suo pensiero democratico. Seppure nel Contratto sociale sia egli stesso ad utilizzare espressioni che si prestano ad interpretazioni fuorvianti, come per esempio: «Il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto»1, certamente Rousseau vede la nuova condizione dell’individuo, dopo la stipulazione del patto sociale, non in termini di peggioramento, come in apparenza potrebbe sembrare, bensì come un miglioramento, in quanto, mentre nello stato di natura l’individuo era esposto all’arbitrio degli altri individui, nello stato civile il vivere nel diritto comune gli dà quella sicurezza e quella certezza che mancava nello stato di natura: l’individuo nello stato civile si sente, dunque, protetto e in questo consiste il miglioramento. 

L’origine del contratto nasce comunque da esigenze ben precise: «Trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, mediante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima.» Da queste parole è facile cogliere la teorizzazione e l’esaltazione della sovranità del popolo, che fanno del Contratto sociale il testo per eccellenza del pensiero democratico. Il contratto mira, infatti, a conciliare la difesa della vita, peraltro considerata punto forte anche del pensiero di Hobbes (teorico dello Stato assoluto), con la libertà, conciliazione che segna le distanze di Rousseau dall’assolutismo di Hobbes. 

Rousseau, infatti, non considera il superamento della guerra civile come obietti va della sovranità del popolo: «usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune»2, ma obiettivo della sovranità popolare è il superamento di uno stato di schiavitù per una vita da uomini liberi, e la libertà di autodeterminarsi per l’uomo si realizza solo nella società civile e mediante il contratto sociale. Conciliare, allora, difesa della vita e libertà è possibile per Rousseau, se tutti gli uomini diano se stessi e i propri diritti a tutta la comunità: è questa la clausola fondamentale del contratto, che pone gli individui in condizione di radicale uguaglianza, poiché entrano nella società creata dal patto tutti allo stesso modo: «dando tutti se stessi». 

Pregnante e densa di significato e di valore democratico è l’espressione che, ancora, si legge nel Contratto: «Chi si dà a tutti non si dà a nessuno, e siccome non vi è associato sul quale ciascuno non si acquisti un diritto pari a quello che gli si cede su di sé. tutti guadagnano l’equivalente di quello che perdono e una maggiore forza per conservare quello che hanno»3. Forse è da questa affermazione finale che nasce l’equivoco di Rousseau «padre del totalitarismo»? O non è più consono riflettere sulla prima parte dell’assunto e cogliervi, piuttosto, l’esaltazione della libertà? L’individuo, infatti, perde ciò che riceve e, dunque, mantiene la libertà che aveva in origine. 

Spostando l’attenzione sul concetto di volontà generale che fa tanto discutere, poiché a tale concetto si associa. come peraltro fa lo stesso Rousseau, quello di alienazione dell’individuo, va precisato che «l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità»4 comporta che nessuno (poiché tutti si trovano nella medesima condizione di eguaglianza) ha interesse a prevaricare sugli altri e la società stessa garantirà i diritti di ciascuno e servirà gli interessi di ciascuno e di tutti. L’alienazione è, dunque, a vantaggio dell’io comune, della volontà generale, l’alienazione è di sé a se stesso: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo, inoltre, ciascun membro come parte indivisibile del tutto»5. La volontà generale è per Rousseau l’espressione del bene comune, essa è ciò che vi è di comune negli interessi particolari di ciascuno: «Soltanto la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune.» 

La fiducia totale nella volontà generale è bene evidenziata da Rousseau laddove, ancora nel Contratto, si legge: «La volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica»6, anche se tale fiducia non è condivisa dagli esponenti del pensiero liberale che paventano, proprio a partire da tale volontà, una sorta di «dispotismo della maggioranza», timore che anche Aristotele, come già detto, aveva manifestato riguardo alla democrazia, la quale, quando lascia prevalere l’arbitrio della moltitudine, rischia di trasformarsi in tirannide. A questo punto, timori e perplessità, non presenti certo in Rousseau, potrebbero portare ad interrogarsi: chi è divenuto storicamente l’interprete della volontà generale? Il partito, il fuhrer, le oligarchie … 

Che la storia offra esempi numerosi di degenerazioni delle varie forme di governo, degenerazioni già teorizzate nell’antichità classica, è un dato di fatto e, in quanto tale, inconfutabile, questo però non deve portare a pensare che chi ha teorizzato dette forme di governo debba essere etichettato a partire dalle degenerazioni e non, piuttosto, dalle idee, sane peraltro, che ha messo a punto! Sostanzialmente si vuole affermare che definire Rousseau «padre del totalitarismo », a partire da quelle che sono state storicamente le degenerazioni del sistema democratico moderno da lui teorizzato, è davvero una forzatura. Prendere in esame il periodo del Terrore e non considerarlo quale degenerazione politica della Convenzione che avrebbe dovuto governare la Francia democraticamente, mentre si è scaduti nella dittatura di Robespierre, e attribuirne la paternità a Rousseau, potrebbe portare, mutatis mutandis, a riflettere sul fenomeno fascismo e, anziché considerarlo frutto della crisi del liberalismo italiano, attribuirne la paternità a Jonh Locke. Cosicché anche Locke, come Rousseau, si vedrebbe addossata l’etichetta di «padre del totalitarismo». 

Tutto ciò rasenta l’assurdo. È lecito, semmai, concordare con Jonh Stuart Mill, quando parla della tirannia della maggioranza, che è più pericolosa del dispotismo dei re del passato, così come è lecito difendere la libertà non solo dal dispotismo ma anche dal conformismo di massa in cui sono scadute le moderne democrazie. Alexis de Tocqueville, nella sua opera La democrazia in America, è tra coloro che ritengono legittimo rispettare il majority rule, cioè il principio di maggioranza. E la democrazia, infatti, trova la sua sostanzialità proprio nella maggioranza che, sulla base dei consensi ottenuti alle elezioni, governa, mentre la minoranza costituisce l’opposizione. Questo è il sistema migliore per la democrazia. Ma la preoccupazione di Tocqueville emerge quando sostiene: «Non vorrei che il potere di fare tutto, che rifiuto ad un uomo solo, fosse accordato a parecchi»7, preoccupazione che è rivolta a quella degenerazione cui la democrazia potrebbe andare incontro sconfinando nel potere tirannico della maggioranza che comporta, per l’individuo, la perdita della libertà. 

Chiamare in causa Karl Popper potrebbe tornare utile per meglio comprendere il senso di quanto finora detto. Nell’opera La società aperta e i suoi nemici Popper ritiene che la democrazia non possa semplicemente caratterizzarsi come governo della maggioranza, ciò sarebbe, infatti, riduttivo. La democrazia si sostanzia, per Popper, nel limite che i governanti incontrano nel poter essere licenziati dai governati senza spargimento di sangue. La democrazia è tale nella misura in cui chi detiene il governo sia in grado di salvaguardare alla minoranza la possibilità di operare per un cambiamento pacifico della società, in caso contrario non si potrà parlare di democrazia, ma di tirannia. La lezione di Popper sulla società aperta, da lui considerata continuamente riformabile e migliorabile, apre la strada ad un ripristino della paternità del pensiero democratico che va, senza ombra di dubbio, attribuita a Rousseau. 

Avere definito Rousseau «padre del totalitarismo» significa essere partiti da un errore di fondo: avere considerato, cioè, gli avvenimenti storici dell’età moderna, in modo particolare la fase della radicalizzazione del processo rivoluzionario francese, non come «tentativi ed errori» della messa in atto delle teorie democratiche, ma come deliberate scelte politiche scaturite dalla coincidenza della volontà individuale con la volontà generale, scelte che avrebbero determinato una società in cui le parti, cioè gli individui, sono state subordinate al «tutto», dove il tutto ha prevalso ed ha predominato sulle parti. «In ogni campo possiamo imparare attraverso tentativi ed errori, facendo sbagli e miglioramenti […]. Dobbiamo aspettarci che, data la nostra mancanza di esperienza, saranno commessi molti errori che possono essere eliminati solo mediante un lungo e laborioso processo di piccoli aggiustamenti»8. 

Stallone Anna Vania

NOTE 

1. J. J. Rousseau, Il contratto sociale, a cura di V. Gerratana, Torino. 1977, p. 44. 
2. T. Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, 2000. 
3. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
4. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
5. J. J. Rousseau, op. cit., p. 24. 
6. J. J. Rousseau, op. cit., p. 42. 
7. A. de Tocqueville, La democrazia in America (a cura di G. Candeloro), Milano 1996, p.257. 
8. K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, tr. It. R. Pavetto, Roma, 1973, p. 230.

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 17-20.




 Restituiamo a Gentile la sua identità 

Da qualche tempo si assiste ad un lavorio intellettuale finalizzato ad una sorta di riesumazione del passato, di quel passato che non passa, cui appartiene la figura del filosofo castelvetranese Giovanni Gentile, che alla neonata repubblica italiana appariva il filosofo scomodo, il simbolo del fascismo, il filosofo del «manganello». A distanza di oltre mezzo secolo Gentile non fa più paura, e si tenta di rivalutarlo, squarciando il velo dell’ostracismo che l’aveva coperto, per cogliere aspetti più o meno evidenti all’interno del suo pensiero filosofico-politico. Che si tratti di revisionismo storico è possibile, un giudizio storico infatti non è mai pronunciato per l’eternità; anche la più scrupolosa delle interpretazioni è suscettibile di mutamenti. 

Il revisionismo gentiliano presenta caratteristiche peculiari, anche se per certi versi simili a quello del tedesco Nolte. Se Nolte ha cercato di relativizzare i crimini nazisti (La guerra civile europea dal 1914 al 1945) interpretandoli come una derivazione-imitazione di quelli comunisti staliniani, allo stesso modo assistiamo ad un relativizzare la posizione di Gentile all ‘ interno del fascismo per mettere in evidenza aspetti della sua filosofia legati piuttosto all’ideologia marxista o liberalsocialista. 

Una pagina del revisionismo gentiliano è quella che ha cercato e scavato nelle opere del nostro filosofo, sottolineando quello che sicuramente in epoca fascista non poteva venire alla luce. Ecco allora che Gentile è diventato ispiratore del movimento liberalsocialista, lo vediamo sostenitore dell’antirazzismo (caso Kristeller), lo consideriamo aperto alle stesse istanze dell’antifascismo nel «discorso» del 24 giugno ’43, che ha ispirato interpretazioni diverse, talvolta contrastanti. Ma chi fu veramente Gentile? Perché mettere in secondo piano, o addirittura sconfessare, da parte di certa critica gentiliana, l’intima convinzione fascista del filosofo? Forse la sua centralità nel mondo intellettuale del ‘900 filosofico verrebbe a essere offuscata? 

Eppure studiosi di grande portata rifiutano l’immagine di Gentile filosofo del fascismo, sostenitore del totalitarismo, e cercano di accreditare l’opposta figura di un Gentile paladino della libertà. Se è vero che, dopo il delitto Matteotti, Gentile prese le distanze dal fascismo, è anche vero che la sua adesione al fascismo sopravvisse a questo difficile momento. Tanto che nel 1943, aderendo al governo fantoccio, dimostrerà sicuramente la sua coerenza morale, ma anche la sua fedeltà al regime. 

Un momento di riflessione su qualche pagina di Genesi e struttura della sociepotrebbe aiutarci a restituire a Gentile la sua vera identità. Là dove si legge: «La forza del volere, in quanto forza che si chiama diritto (dura lex sed lex), è il volere voluto, che si pone come limite alla libertà», emerge una concezione che riduce il diritto alla forza, che si concretizza nella realtà politicamente organizzata, cioè nello Stato. Visione del diritto che porta Gentile verso posizioni antitetiche rispetto a quelle su cui poggia invece il liberalismo moderno, che si fonda, al contrario, sul diritto naturale. 

È il diritto naturale che fa da substratum a qualunque diritto positivo e che a questo conferisce validità. 

Gentile filosofo della libertà? Ciò che sostiene Gentile è distante, addirittura, dalla stessa visione del diritto di Hobbes, da sempre considerato teorico dell’assolutismo, ma che, in questo caso, sarebbe di un assolutismo, direi, più moderato rispetto a quello gentiliano. Hobbes ha riconosciuto, infatti, come via d’uscita dell’uomo, dalla guerra di tutti contro tutti, quella di un diritto naturale che comunque non è infallibilmente realizzata. Il «volere voluto» che leggiamo in Gentile è il diritto come forza, che si è realizzato, che si è tradotto in legge, non un diritto come dover essere, ma come identificazione di dovere essere e essere, come identificazione di norma e realtà. 

Questo è sicuramente l’insegnamento che Gentile ha ereditato da Hegel e che, come Hegel, lo distanzia dalla stessa concezione kantiana del diritto. Hegel prende le distanze da Kant per il quale il diritto è «l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell ‘uno può accordarsi con l’arbitrio dell’ altro, secondo una legge universale della libertà». Secondo questa teoria, diritto naturale e diritto positivo non differiscono, ma la loro di versità consiste nel fatto che il diritto naturale si fonda sui principi a priori e il diritto positivo nasce invece dalla volontà del legislatore. 

Hegel sosteneva che, accolta la volontà del singolo, la sua individualità particolare, il suo particolare arbitrio, siamo scaduti nella «superficialità» del pensiero da cui sono scaturiti gli orrori della rivoluzione francese, ed è a questa e alle teorie illuministiche che Hegel sferra il suo attacco. 

Dentro l’influsso del pensiero hegeliano matura la riflessione etico-politica di Giovanni Gentile, che ancora in Genesi e struttura della società continua a parlarci di «limite necessario» che non può mancare. Questo, per Gentile, «è il momento del diritto, dello Stato come autorità, che è volere potente, innanzi a cui deve cedere l’arbitrio», parole che si commentano da sole, forti, che segnano la distanza dalle teorie liberali alle quali Gentile è stato forzatamente avvicinato. Le leggi vengono a limitare così le libertà degli individui, singolarmente presi. Ogni arbitrio individuale deve cedere di fronte alla volontà universale dello Stato, «lo Stato è lo stesso individuo nella sua universalità». In questa visione diventa costitutiva, dello Stato la forza, l’autorità. Una vera e propria ripresa della concezione hegeliana del primato dello Stato sugli individui, di contro al pensiero liberale che, rivendicando la priorità dei diritti individuali, intende salvaguardarli dalle eccessive ingerenze dello Stato. 

È questa l’identità che Gentile rischia di perdere e che, pur non condivisa da tutti, non pregiudica «il convincimento che il filosofare gentiliano è prima di tutto una condizione speculativa anche per quanti militano, per così dire, sotto altre bandiere filosofiche» (N. Abbagnano). 

Anna Vania Stallone

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 20-21.




Un ponte tra l’effimero e l’Immenso e maturità poetica di Tommaso Romano 

Emana un fascino singolare la poesia di Tommaso Romano, recentemente riproposta in questa ricca antologia. Una riflessione in versi lunga quarant’anni, un’instancabile interrogazione esistenziale vibrante di tensione etica ed ansia gnoseologica, che ne fanno un originale esempio di poesia-pensiero di ascendenza filosofica. Una vera e propria Weltanschauung (mai termine fu più appropriato) si dispiega in queste liriche ‘elementari’, spesso d’intensa brevità come quelle che compongono la prima sezione della raccolta, costruite sull’ossessivo ritorno di parole-chiave – tutto/nulla, vita/ morte. Liriche dall’ apparente freddezza cerebralistica, e che invece lasciano affiorare, con straordinaria efficacia, un flusso di coscienza al contempo oscuro e profetico. 

Si affaccia l’ombra del nichilismo in questa solipsistica confessione di un mondo inteso come «chaos di vuoti senza uscite», apparentabile al mondo come «grande deserto» cantato da Sbarbaro, un universo astratto e metafisico dove si staglia la reverie sonnambula del poeta, quella che risente ancora delle atmosfere del sogno notturno: «Il mio era pensiero triste; / camminavo e la via era deserta / non vidi bene, / la nebbia, pensai, / e continuai i tristi sogni / ad occhi aperti, ma non sognavo, piangevo». La componente gnomica di questi versi giovanili, immersi in un clima di stanchezza esistenziale, scandito dai rintocchi inesorabili del demoniaco Χρóνoς, si ritrova con sorprendente coerenza anche negli esperimenti poetico-visuali d’impronta futurista, come se dietro la parola agita, quella che graffia la superficie del foglio, s’insinuasse sempre il rovello filosofico, ma anche l’istanza religiosa scaturente dall’urgenza di sfidare il Tempo, lanciando un ponte fra l’Effimero e l’Eterno: «linfa / latomie / in fiore / accende / il suono / anelito / vita-morte / apparenza / D.N.A. = eterno / amen». 

È proprio di una duplicità di piani che si sostanzia la poesia di Romano, oscillante fra un’ anima futurista, piena di élan vital – specchio dell’ anima agens dell’autore – e una tormentata vena intimistica – l’anima cogitans, che spesso prende il sopravvento. Quasi che la cognizione dolorosa della sostanza effimera delle cose umane – il mondo delle apparenze – frustasse in partenza l’ansia febbrile del fare, a meno che questa non si orienti in tutt’altra direzione, nell’ottica di una panteistica trascendenza, di un superamento del transeunte. Quest’ansia di Assoluto, del resto, scaturisce proprio dalla consapevolezza senecana dell’implicito legame tra la vita e la morte; da qui il ritorno ossessivo di questa diade nelle poesie dell’ autore, che trova un precedente illustre soltanto in certe meditazioni filosofiche michelstaedteriane: «Vita, morte / la vita nella morte; / morte, vita, / la morte nella vita». 

Guarda caso, proprio Michelstadter invocherà, nella sua ansia di redenzione, la figura di un Salvatore inteso come l’antiZarathustra, e Romano, sottraendosi alla delusione del quotidiano, rilancerà sempre la sua sfida a Χρóνoς, nell’attesa salvifica dell’Eterno. Una sfida reiterata anche nei componimenti più maturi, quelli che compongono la seconda sezione dell’antologia, dove un lirismo nominale traduce la frammentazione del vivere, di cui il poeta fa l’inventario: «La mia solitudine, / una canzone di Leo Ferrè mille volte ripetuta / un pezzo di piombo / miraggio d’immortalità, / qualche poeta maledetto / nostalgie di memorie perdute / vecchie stampe e fiabe sui castelli / carta su carta / di mistici, filosofi e sapienti … » Ma ciò non basta e allora l’autore, «qualche volta incatenato alla noia / – apprendista eremita -» ricompone esausto ogni giorno «frammenti d’esistenza mortale / in attesa d’eterna, sacra quiete». Perché la sua vera aspirazione è quella di fuggire la noia, il cui alleato più fedele è proprio il Tempo, dio sinistro e implacabile, veicolo di lutti e sventure. 

A dare corpo a quest’inesausta riflessione è allora una pronuncia scarna e rigorosa, che non si compiace in vacui estetismi, so stanziata di memorie poetiche – Ungaretti, Rebora, Caproni, Luzi – ma sostenuta anche da memorie filosofiche – ad esempio Julius Evola, traduttore degli oscuri e profetici Versi doro dei Pitagorici – e soprattutto di memorie musicali, – Beethoven, Wagner, 

Dvorak, Malher – che dettano al testo un’orchestrazione polifonica, rimandante i diversi stati d’animo dell’ autore. Certo, il tono dominante è quello luttuoso-malheriano della quarta sinfonia, eppure, coerentemente con queste fantasie funeree, si celebra l’ansia metafisica dell’io, la dolcezza addolorata che ci rammenta la caducità del vivere e, al contempo, la «speranza dell’altezza». Quello della morte è infatti uno dei leit-motiv delle liriche, la morte che «prende ogni giorno» come «un implacabile doganiere asburgico», ma in un misterioso rito iniziatico è possibile «rigenerare i corpi / eternare la vita / al fuoco sacro». Il desiderio di risarcimento nella sfera del Sacro non rimuove tuttavia la consapevolezza dolorosa della finitudine umana: «So che ricerco infinito / più arduo è comprendere quest’ esistente / che risveglia dai sogni / inesorabile e scarno»; «È facile invocare il sole d’Eone / più difficile ammettere la paglia umida di Chrònos». 

La quotidianità, fatta di urgenze e «diari di bordo», è analizzata sempre con ironico distacco, e persino le incombenze della politica, ridotte talvolta a monotona routine priva di significato, sono spogliate di qual si voglia narcisistico compiacimento perché è un’altra la meta cui anela il poeta, oltre le concatenazioni spazio-temporali, oltre i miraggi e le lusinghe inconsistenti. Ma, come dicevamo all’inizio, l’ansia prometeica è talvolta minata dalla stanchezza esistenziale, spesso oggettivata dai luoghi «in antica decadenza pietrificata», come la Venezia viscontiana de I logori merletti, o la Palermo tomasiana delle dimore avite, rose dall’usura del tempo. A fronte di questa condizione, di questa malheriana percezione del vivere, la parola poetica, misurata ma straordinariamente pregna d’intensità espressiva, si configura allora come «esmesuranza», enfasi e delirio beethoveniano, viatico d’intensa spiritualità per chi non accetta di piegarsi alla «vacua temporalità» del mondo, ma osa far risuonare, ostinatamente, la sua confessione nel deserto. 

Lavinia Spalanca 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 59-61.




GIARDINO DI IERI 

Inutilmente s’apre la finestra 
sul giardino di ieri. 
Ancora verde 
l’erba del prato. 
Il profumo dei fiori 
ora mi punge 
come 
il vociare gioioso dei bambini 
che fummo. 
E guardo appena. 
Perché non c’è una porta. 


Lilia Souza 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 53.




NEI MEANDRI DEL TEMPO 

 Nei meandri del tempo a ritroso 
ripercorro le galassie del mondo: 
i fondali marini, le vette, l’ombroso 
mio cielo, le nubi squarciando 
con luce del cuore redento. 
Ho lottato con le tigri celando 
teneri agnelli agli artigli 
dell’antico nemico: ho nascosto 
ritornando fra le orme torchiate 
di porpora e giallo come sogni sfumati 
dell’ alba, ho ascoltato i suoni dell’ora 
più vera, la sera, sperando fioritura 
d’ inverno di germogli per sempre perduti. 

Francesca Simonetti 

DANS LES MÉANDRES DU TEMPS 

Dans les méandres du temps je reparcours 
à reculons les galaxies du monde: 
fonds marins, hauts sommets, ombres 
de mon ciel; je déchire les nues 
avec les rayons de mon coeur rédimé. 
J’ai combattu des tigres et soustrait 
de tendres agneaux pattes, griffues 
de l’ancien ennemi: j’ai caché 
papiers et livres sous les frondaisons, 
en retournant sur mes empreintes piétinées 
de pourpre ed d’or comme reves évaporés 
de l’aube,j’ai écouté les sons de l’heure 
véridique et vespérale, en escomptant 

l’hivernale floraison de bourgeons perdus à jamais. 

versione francese di J.P. de Nola

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 52.




DICEMBRE A PALERMO 

 Solo dicembre 
qui prelude all’inverno 
perché il sole è ancora 
dolce e luminoso a tratti. 
L’araba mollezza si protrae 
per la magia dei suoni e dei colori, 
le facciate antiche 
illuminate nel contesto 
del mistero delle chiese sparse, 
ovunque c’è un mercato o il mare, 
parlano di una città 
regina e prigioniera, 
nobile negli intenti ma caduca 
e vinta nello svolgersi silente 
di tragedie e d’eventi … 

Francesca Simonetti 

Conversazioni per una poesia, Ila Palma, Palermo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 39.