F. Grisi, Affettuoso sentiero, Palermo 1995.

Una plaquette in versi di Francesco Grisi, Affettuoso sentiero, pubblicata elegantemente dalle edizioni Thule di Palermo. Collana “Oltre il sole” diretta da Tommaso Romano. Un volume prezioso. Occasioni per riflettere e per inoltrarsi assieme nei viali della memoria. Ma, attenzione. La poesia di Grisi è sorpresa. È un cerchio che non si chiude nel .chiaroscuro del ricordo. Il diario è vitale. Segreto e vibrante. C’è nostalgia stemperata nell’allegria. Perché per Grisi il passato è sempre strettamente connesso al futuro. Tutto è avvenuto e tutto è avvenire. Ecco. Il gioco dinamico del poeta. Il gioco infinito. Luci e ombre. Momenti e figure. E il giocoliere che agisce. La grande magia accomuna la tradizione all’iperbole. Infrange usato e abusato. Non sopravvivono diaframmi. Lo spazio è aperto nel vento fresco dell’immaginazione del sentimento. Le occasioni. I motivi. Chi mi legge e chi legge Grisi da tempo capisce. 

La trama si dipana su temi ormai familiari al lettore amico. La Calabria dove sempre -un fremito scorre tra le pietre•. Cutro e Crotone. -La stagione dell’infanzia / quando l’acqua tremava sulla pelle•. Il mare -colorato con musica-musica / in variazioni tonali•. La figura del padre: -Con te rivivrò mattini di rugiada e ricorderò le lunghe stanchezze del crepuscolo.. L’Umbria. Todi, -città misurata in secoli•. La donna -nata tra cavalli sognati / e calici colorati di vento•. Roma, appena intravista: -Camminiamo tra le foglie accartocciate / dei platani. Gianicolo. / L’autunno romano cicaleggia•. E poi c’è Cristo. E c’è Dio: -Tu sei l’infmito senza geometrie / e io sono nel cerchio confinato•. 

Ma, come dicevo, è un cerchio che non si chiude e si apre a orizzonti sempre più vasti. Ventitré poesie. Ventitré perfette occasioni nelle quali Grisi tiene fede a quanto esplicitamente dichiara a chiusura della breve intervista in apertura al volume: -La vocazione-uomo è quella di ‘raccogliere’ tutta la storia del mondo•. 

Pierpaolo Serarcangeli

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pag. 31.




 La realtà del labirinto irreale nella pittura di Emilio Guaschino

Emilio Guaschino è un pittore tutto figurativo: nel senso di rappresentare volti umani, cieli visibili, muri e finestre controllabili nella realtà, mari navigabili, sentimenti persino aperti all’immediata comunicazione. 

Così delineata, la lettura di Emilio Guaschino, pur se aperta su correnti d’arte che già fanno storia, potrebbe spingerci verso una illustrazione della realtà, anche se somatizzata, cioè trasferita sui volti delle donne e degli uomini, tutti e sempre lavoratori, e resa sentimento dolorante nelle angosce dei calli sulle mani e delle rughe. Ma resterebbe sempre un artista del realismo, sublimato da passioni e compassioni. 

Invece in Guaschino, accanto e dentro questi suoi aspetti, che restano qualità, va individuato quel dosaggio di astrazione mentale per cui il suo realismo si innalza e fa innalzare l’occhio di chi guarda il suo quadro o il suo disegno (perché è gran disegnatore, cosa rara) verso sensazioni e significati multipli, astratti e concreti simultaneamente. Sta in questo la pittura come poesia, e quindi la pittura come ricerca di Bellezza equiparata alla Verità. 

Un carro siciliano (talmente carro che potrebbe essere letto in tal senso sotto qualsiasi cultura e latitudine), volti, braccia, bocche aperte al grido, seni tesi alla provocazione e alla vita, usci chiusi come i nodi sulle mani dei personaggi, tutti gli insistiti ma cangianti problemi e temi di questo artista hanno sostegno mentale e poetico di tanta carica realistica da universalizzarli. 

Si verifica, quindi, il fenomeno di confluenza tra intenzione realistico-figurativa e la sotterranea spinta a costruire un romanzo, cioè una «fantasia». Mi spiego: Guaschino è narratore di ceppo veristico con innesti sociali, la cosiddetta «realtà sociale», che però stabilisce un rapporto fantastico tra le due verità. La grande narrativa siciliana, tra le più ardite ed alte della cultura mediterranea, trova in Guaschino non una replica pittorica, ma un’autonoma e riuscita resa. Una antologia delle opere di Guaschino potrebbe arrivare, se guidata dallo stesso autore con le stesse sensibilità evidenti di ogni singola opera-pagina, a possibilità narranti unitarie, da romanzo. Del resto, la sua tendenza a cicli di temi e di volti è chiara vocazione narrante. 

Guaschino sa concludere opposte spinte verso saldature che firmano l’opera con una evidente sigla tutta propria, pur se con le ascendenze lealmente dichiarate. Quello che conta è questa sigla che gli dà il diritto di avanzare sulla linea dello sparuto gruppo di artisti nostri , riconoscibili, leggibili, godibili sul doppio binario della poesia-verità. 

Si tratta di un saggista della pittura. Cioè un artista che sviluppa spinte di apostolato. Anche tali qualità sono preminenti in questa misteriosa Grande Madre ch’è la sua Sicilia. 

Pertanto l’ analisi di questo artista andrebbe eseguita su interi cicli di produzione del pittore, per ricavarne i significati e gli allarmi multipli della passione d’ arte e di poesia portata avanti sulla tela o sulla carta. Basterebbe la constatazione di questo desiderio del critico, e del lettore del quadro, a prolungare la sosta e 1’analisi davanti e dentro l’opera di Guaschino per verificarne la forza di rappresentazione e di possesso su chi gode l’opera.

Giuseppe Selvaggi

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 41.




Giuseppe Ferrante, Un treno lungo più di cent’anni sino ad Enna da Castrogiovanni, Palermo, Ila-Palma, 2010.

Storia siciliana del I Novecento 

Una storia siciliana dell’emigrazione, uno spaccato di usi e costumi siciliani misti a valori di un umanesimo novecentesco scomparso nei dedali della modernità repubblicana e dell’attuale nichilismo morale che lo scrittore Giuseppe Ferrante rievoca in questo romanzo della memoria, la cui trama s’intreccia con l’epoca fascista che nel 1936 ribattezzò la città di Castrogiovanni in Enna e con certe riflessioni del protagonista Giuseppe senza esondare nel genere del romanzo di idee. Dunque, un romanzo della memoria, a tratti storico. 

Giuseppe, natìo di Castrogiovanni, è un giovane sognatore, bello come un adone, in cerca di affermazione e riscatto dalla consueta arretratezza siciliana. Quando partì alle h. 4,50 per Catania, era riuscito a maritare Maria, la ragazza più bella del paese. 

La partenza è il cauterio secolare dei siciliani che tuttora partono in cerca di fortuna. Insieme alle tiritere dello stereotipo mafioso, questo dell’emigrazione è un tipico remarque della letteratura siciliana, che Ferrante ha avvolto in una prosodia nostalgica che permea tutta la narrazione. Il treno a vapore non solo simboleggia il progresso e le aspirazioni dei siciliani che sperano nel distacco veloce dall’arretratezza, ma nello stesso tempo è il feticcio narrativo di una ambiguità che non recide il cordone ombelicale con la terra natìa, e si presume mezzo di ritorno al punto di partenza. Uno stereotipo, dunque, che tuttavia l’opera di Ferrante impregna di una umanità che reagisce e non si piega alla protervia di un canone violento, ovverosia mafioso. Sotto questo profilo, èun’opera originale che ha meritato la fiducia dell’Ila Palma, nota casa editrice palermitana che pubblica all’insegna della qualità. 

Il viaggio di Giuseppe non è un percorso fine a se stesso, ma è uno slancio interiore che dura «più di cent’anni», ovverosia, oltre lo spirito d’iniziativa che scema in misura inversamente proporzionale all’etàanagrafica. Una statistica che sembra tanto ovvia quanto la necessità che l’esperienza del protagonista si tramandi ai suoi figli, lasciando subodorare al lettore la storia futura di questo prevedibile fato che non perde i connotati della sicilianità dopo avere perduto la congenita negligenza della sicilianitudine: un altro marchio impresso come un cauterio dalla cronaca e dalla letteratura nostrana. 

La struttura ellittica del romanzo si scopre presto, e il feedback è dietro l’angolo. Infatti, la tensione narrativa esaurisce tutta la sua energia nelle vicende amichevoli spese senza tradimenti o congiure. Un’amicizia di vecchissimo stampo, un legame indissolubile, quasi la realizzazione perfetta della filosofia epicurea incarnata da Mario, il maestro di vita di Giuseppe. Insomma, il vero amico è un filantropo, un ottimista capace di dare senza chiedere nulla in cambio. Ad onore del vero, la moglie di Giuseppe, Maria, sentirà spontaneamente il dovere di ricambiare l’ospitalità offerta senza condizioni, garantendo un felice desco quotidiano a tutti gli ospiti della grande casa signorile. 

Sappiamo bene che stature spirituali così alte, purtroppo, non esistono più. Ciononostante, dall’unità d’Italia in poi, è proprio la Sicilia a vantare il maggior numero di filantropi del fare e del dare in amicizia, con onestà e umanesimo solidale. E oggi, uno, non più di due, sono tuttora in vita: che Dio li renda immortali!, affinché siano esempio di abnegazione contro l’intoccabilità delle caste che approfittano dei più deboli fino al delirio d’onnipotenza. 

Il romanzo è ambientato bene. Inizia dalla fine del XVIII secolo e si conclude alla metà del XIX. Nel mezzo, il tempo del dominio regale dove incise l’arretratezza culturale, ma anche un periodo di transizione storica dalla terra all’industria: la posa delle strade ferrate e le macchine a vapore sono la nuova forza motrice applicata al servizio dell’uomo e della produzione; la radio e le traversate transoceaniche fanno sognare il popolino curioso di alterità e l’incetta di notizie è preda di esagerazioni popolari che ingrandiscono a dismisura il mantello della fama; il mito dell’Arcadia è ricorrente, ma lo scrittore Ferrante non esagera, anzi lascia decidere a Giuseppe di quale fato fidarsi. E lui, artigiano del berretto, decide bene, non volta le spalle alla fortuna e insieme alla famiglia raggiunge Alessandria d’Egitto. 

L’autore intesse la sua trama intorno al saggio Mario, il ricco borghese di origini triestine, benefattore di Giuseppe e mentore dell’umanità Dopo la morte di costui, il romanzo si inonda di nostalgia e rammarico. La morte del filantropo porta pesantezza esistenziale, i rapporti economici e sociali di Giuseppe con la gente d’Alessandria d’Egitto si adombrano di sospetto e malafede e Giuseppe entra in crisi, diventa abulico. La borghesia alessandrina è ipocrita e snob, incline alla sufficienza e all’affettazione della verità. E mentre scivola nell’ozio, tradisce Maria per la seconda volta, ma Elisa non è innamorata, ama la lussuria. Egli si sente usato. La società egiziana è volgare e violenta, non tollera neanche la marachella di un bambino. 

Il punto di vista del narratore esterno che corrompe il contesto rivela al lettore la natura melodrammatica della stesura. Il treno è un simbolo onnipotente. Come trascina i vagoni, esso trascina con leggerezza i sogni di Giuseppe, a cominciare dall’amore indelebile della moglie Maria capace di resistere ai rovesciamenti a favore di una meticcia che tradirà il marito incapace di apprezzare la sua femminilità e dolcezza. Fatima è una bella donna. Questa parte centrale del libro denuncia un Ferrante nello stato di grazia che, purtroppo, coincide frettolosamente con l’inizio del denuement. Non inizia la stesura di un romanzo di idee, bensì il contesto si piega alle introspezioni destinate ad esaurirsi subito, perché le paturnie sono dichiarate, non traspaiono fra le righe. 

Giuseppe decide di tornare a Castrogiovanni, dove produrrà berretti insieme ai figli, ormai giovanotti. La svolta è rosea, gli nasce una figlia, gli affari vanno bene, Maria indossa abiti da sera e gioielli da mostrare alla cittadinanza. Il primogenito che nel 1909 si specializza a Torino, tornato a Castrogiovanni, apre la premiata sartoria di piazza Balata. Sull’abbrivio del successo Giuseppe fa innamorare ancora, tradisce di nuovo e lancia una sfida commerciale ai ricchi commercianti della via Etnea di Catania. Tuttavia, la Sicilia di Ferrante danza il ballo del mattone, la vita di paese è quella della piazza e delle speranze riposte nei nuovi ideali fascisti. 

Il fervore patriottico investe anche Castrogiovanni che nel 1936 diviene capoluogo di provincia con il nome di Enna, dove Benito Mussolini è al centro di un aneddoto divertente che riguarda la preparazione di un minestrone. 

Scoppia la guerra. Se le notizie dal fronte non fossero state disastrose, queste pagine sarebbero lietamente intonate con la «sensazione che un passato stava per morire e che il sogno, anche degli ennesi, di un’era di grandezza e di progresso stava per avverarsi». Giuseppe morirà vittima non solo dell’età avanzata, ma di una brutta notizia che alimenterà un senso di colpa mortifero fino al crepacuore. 

Marcello Scurria 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 59-61.




 Emigranti di ieri 

È notti funna, dormi lu paisi 
e lu silenziu cummogghia li casi, 
si spicchialìa la luna nto pantanu, 
un cani si stinrucchia nto nciacatu. 
Na cucucciuta sula, l’occhi tisi, 
supra un rramu accucciata di castagnu, 
pari ca fa la guardia a lu paisi 
unni li matri parranu a li figghi, 
ma sulu nzunnu, pirchì sù luntanu; 
luntanu, assai luntanu, a la stranìa; 
p’un pani amaru quantu si pinìa! 
Ogni matruzza, cu la cruna mmanu, 
cunta li jorna (sunnu ancora quantu?) 
di lu rritornu ca, na vota l’annu, 
vùncia ogni cori d’alligrizza e chiantu. 
Ma la priizza dura picca assai, 
dura quantu un suspiru, un ciatuni, 
dura lu tempu di quarchi carizza 
e poi, di novu, la stissa amarizza. 
Partunu ancora, vannu a la stranìa; 
p’un pani amaru quantu si pinìa! 
Ma forsi, un jornu, si cància la rrota 
(senza speranza nun si po’ campari), 
tannu, strugghiuti tutti li campani, 
curri pi l’aria un cantu suspiratu: 
addiu pi sempri, paisi luntani! 

Traduzione: 
È notte fonda ed il paese dorme, 
il silenzio si stende sulle cose, 
e la luna si specchia in una pozza, 
un cane si stropiccia sul selciato. 
Una civetta appollaiata adocchia 
solitaria su un ramo di castagno, 
sembra fare la guardia al paesino, 
dove le madri parlano coi figli 
solo in sogno perché sono lontani, 
lontano, assai lontano, alla ventura … 
Quanto si pena per un pane amaro! 
Ogni madre col suo rosario in mano 
conta i giorni che mancano al ritorno 
del figlio a casa, che una volta l’anno 
gonfia i cuori di lacrime di gioia. 
Ma la felicità dura ben poco, 
dura quanto un sospiro, appena un fiato, 
non più dell’attimo d’una carezza 
e lascia poi un fondo d’amarezza. 
Partono i figli verso terre estranee 
per guadagnarsi il pane con la pena … 
Ma se un giorno la ruota cambia giro 
(senza speranza non si può campare), 
allora, sciolte tutte le campane, 
sarà per l’aria un canto sospirato: 
addio per sempre, terre mie lontane!

Biagio Scrimizzi

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 40.




 Un mistero del XIV secolo nella città papale in Francia 

di Doroty Koenigsberger 

Un ‘introduzione 

Le esperienze veramente singolari sono rare. I dejà vu, i sogni premonitori, molti li provano. Ma solitamente da soli. Sono esperienze private e personali che gli scienziati chiamano soggettive. Molte persone più spirituali credono che esse avvengano. Ma nessuno sa come avvicinarsi alla visione o al sogno di un altro se non alcuni indovini o gli psicologi della scuola di Sigmund Freud o Carl Gustav Iung. 

La nostra strana esperienza non è stata di questo tipo. Innanzitutto è avvenuta in un luogo reale, la città di Avignone, presso le rovine del palazzo papale. In secondo luogo è accaduta in un tempo reale, in un tardo pomeriggio d’estate nel 1961. Le persone, gli animali e gli oggetti che ne fanno parte sono tutti tri-dimen-sionali e interi. Helli ed io abbiamo vissuto la stessa esperienza simultaneamente. L’abbiamo vista prima di parlarne. Quindi, tutti e due abbiamo visto quello che succedeva davanti a noi e così per molto tempo dopo ci siamo scambiati le nostre impressioni. 

Fu naturalmente durante il nostro viaggio di nozze, ma viaggiavamo già da un paio di settimane e non ci davamo ai sogni né troppo ai romanticismi. Accadde dopo pranzo, ma non avevamo alzato il gomito col vino, perché volevamo soprattutto ammirare le bellezze turistiche. Volevamo ancora altri ricordi di Avignone. E furono ricordi particolari, diversi da ciò che avevamo visto fino ad allora o che avessimo mai pensato di vedere. Gli avvenimenti non sembravano far presagire nulla. Avvennero indipendentemente da noi; avremmo potuto essere due persone diverse o forse nemmeno persone, eppure la storia che racconto nella poesia «Gatti di Avignone» accadde davvero. 

Per farla breve, andò così: notammo due donne minute, con lineamenti orientali. Portavano abiti che potevano sembrare tonache di suore o comunque costumi piuttosto strani. Non erano vestiti tipicamente orientali, sembravano invece abiti di qual-che ordine religioso occidentale, ma di prima che le gonne più corte e le scarpe moderne fossero ‘accettate. Non portavano crocifissi visibili. All’inizio pensammo che fossero due gentili signore che davano da mangiare ai gatti. Però il cibo era insolito, sembravano chicchi, e davano loro anche acqua da bere. Si muovevano piano e noi con loro, e offrivano il cibo ripetutamente in posti diversi lungo il cammino. 

Erano seguite da un numero enorme di gatti, molti, molti più gatti di quanti avessimo potuto pensare di vedere in un solo luogo nel corso di un pomeriggio. Inoltre, tutti quei gatti erano bianchi o neri o a macchie bianche e nere. Naturalmente anche i costumi indossati dalle donne erano bianchi e neri. Sia i gatti che le donne ci ignoravano completamente; eppure restammo a guardare 

questo apparente rituale per quasi un’ ora. Altra gente era qua e là. Pareva che si occupassero degli affari loro. Per quanto ne sapevamo, il rituale poteva essere normale ad Avignone in quel periodo, ma per dei nuovi arrivati appariva molto strano. 

Avvenimenti insoliti accadevano in una città di grande ambiguità spirituale. La lontana storia dello scisma del XIV secolo, di papi controversi e dei lunghi disordini successivi, contribuiva o sembrava contribuire alla rara atmosfera che ci circondava quel pomeriggio. Ma cosa è stata quella nostra esperienza nell’estate del 1961? Cosa significava? Per avere la risposta si deve leggere la poesia. 

traduzione italiana di B. Scimonelli 

Vedi testo originale




 Monarchie, Stati Generali e Parlamenti 

Re Riccardo: « … i leoni domano i leopardi.» 
T. MOWBRAY DUCA DI NORFOLK: «Sì , ma non possono cambiare le loro macchie.» (Riccardo II, l, 1,5-6.) 
Machiavelli fu bandito dal Parnaso «perché fu sorpreso di notte con un gregge di pecore a cui insegnava ad usare falsi denti di cani così che in futuro esse non potessero essere rido Ile all’obbedienza col fischio e con la frusta». (Traiano Boccalini. Ragguagli di Parnaso, LXXXIX) 

PROLOGO 

Lo Stato. che nasce per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice. (Aristotele. Politica, libro l, cap. 2) 

ELEUTHERlA – L’epigramma di Aristotele costituisce la più rivoluzionaria definizione di Stato nella storia del pensiero politico, La maggior parte degli Stati e, ancora di più, la maggior parte degli imperi sono stati fondati e governati per il bene dei governanti o per il bene della tribù. Sia la tribù che i governanti hanno sempre cercato di giustificare la loro azione di governo come volontà degli dei o di Dio. Si riteneva, naturalmente, che la volontà degli dei fosse per il bene dei sudditi. Tutto ciò era, nel migliore dei casi, un ripensamento o, più spesso, semplice propaganda. 

Non che il pensiero di Aristotele fosse originale. Perché almeno 250 anni prima del suo scritto la vita felice era già equiparata all’eleutheria, la libertà, definita sia come libertà del governo da regimi esterni che come libertà dei cittadini dalla tirannia, dal dominio senza leggi di un singolo governante o, a volte, di gruppi di governanti. Ciò che i Greci inventarono nel loro ordinamento politico, fu la cittadinanza, la polis o città-stato, vale a dire la partecipazione dei cittadini alla vita civica nel promulgare o far rispettare la legge, nell’approvare tasse e spese, nel prendere decisioni sulle relazioni con le città vicine e, se necessario, nel prestare servizio nell’esercito. Tutto questo avveniva tramite il dialogo, l’attività reciproca di parlare e ascoltare e le conclusioni razionali che scaturivano da tale attività. Era una relazione dinamica, aperta, incerta nelle sue conclusioni e che sempre correva il rischio di essere sopraffatta dal suo opposto: governo e servitù, comando e obbedienza, certezza e accettazione. 

Per i Greci solo la vita di questa cittadinanza partecipativa costituiva una vera libertà politica. In pratica, essi trovavano questa libertà – che Machiavelli nel XVI sec. avrebbe chiamato un vivere politico – difficile da raggiungere e quando ci riuscivano era solo all’interno del circolo ristretto della polis e dei suoi cittadini a pieno titolo. Donne, stranieri e schiavi erano esclusi, sebbene le donne fossero considerate libere se sposate con un cittadino. Aristotele era interessato solo alla polis. Quando mandava i suoi studenti a studiare le costituzioni fuori di Atene – uno dei maggiori programmi di ricerca mai intrapreso nel campo delle scienze politiche – li mandava solo in altre città-stato del Mediterraneo. 

La cosa rivoluzionaria era la sua definizione del principio dello scopo di uno Stato: la vita felice. 

Sin dalla riscoperta della Politica da parte della Cristianità latina, nel XII sec., essa ha avuto una profonda influenza sulla pratica e sul pensiero politico in 

Europa e, recentemente, in quelle civiltà al di fuori dell’Europa influenzata dal pensiero europeo, anche nei casi in cui tale influenza non è stata apertamente riconosciuta. A volte questo principio è stato deliberatamente ignorato, anche nella nostra epoca e, di solito, con conseguenze disastrose per gli abitanti dello Stato stesso e di quelli vicini. 

Nel Medioevo il principio di Aristotele cadde su un terreno fertile. I princìpi dell’eleutheria non erano mai andati del tutto perduti nell’Impero Romano. Negli Stati che nacquero dalle sue ceneri, questi princìpi furono rafforzati dalla pratica dei re germanici di convocare i propri liberi guerrieri in assemblee generali, per discutere le politiche perseguite dai re e per il consiglio (consilium) e l’aiuto (auxilium) che i vassalli potevano fornire. 

RAPPRESENTANZA – Tutto ciò andava bene per unità politiche relativamente piccole e questa pratica sopravvisse in alcune parti marginali d’Europa. In molte vallate alpine e in alcune aree costiere meno accessibili della Frigia, della Norvegia o dell’Islanda. Il problema era inventare una forma di relazione partecipatoria nelle unità politiche più grandi. La soluzione al problema era sfuggita agli abitanti della Grecia classica o, meglio, essi non l’avevano considerato un problema. Concentrando la loro discussione politica sulla polis, avevano considerato i grandi Stati, come l’Impero persiano o la Macedonia, in ogni caso privi del principio dell’ eleutheria. 

Nell’Europa medievale i principi della relazione feudale tra signore e vassallo non erano di per sé una base per l’eleutheria. La principale virtù medievale, l’ideale verso cui tutti i giovani uomini venivano educati, era tipicamente la lealtà. Non era un ideale da mettere in discussione. Il signore, o il re, era solito rivolgersi ai suoi vassalli per consigli e aiuto; ma per le discussioni e i dibattiti si circondava solo di pochi individui scelti con cura. C’era bisogno di qualcos’altro che potesse associare sezioni molto più ampie della società alla politica del re. Da questo bisogno nacque il principio della rappresentanza. 

Essa era in origine una pratica apolitica derivata dal diritto romano, in cui un avvocato rappresentava il suo cliente o clienti nelle cause civili. Non sorprende che tale pratica si trovi per la prima volta tra gli uomini di Chiesa, cioè, tra quella parte di società che conosceva il latino. I grandi ordini religiosi internazionali trovavano utile la rappresentanza per incrementare la reciproca coesione tra le varie case religiose. Così. nel XIII sec., i Domenicani svilupparono un sistema complesso formato da una gerarchia di consigli elettivi che rappresentavano le singole case, le assemblee provinciali e, infine, l’intero ordine. 

Anche prima che i Domenicani sviluppassero pienamente il loro sistema di rappresentanza, i papi del XII sec. convocavano i prelati dagli Stati papali per consultarli. Nel 1213 Innocenza III fece un ulteriore passo in avanti. Nel convocare il IV Concilio Laterano, egli invitò non solo il clero cristiano, rappresentato dai prelati. i vescovi e gli abati dei grandi monasteri, ma anche gli ambasciatori dei re e di alcune città-stato italiane. 

In modo ancora più incerto, i governanti cominciarono anch’essi a convocare i grandi vassalli in persona e talvolta i rappresentanti del clero e delle città. Se non l’avessero fatto, le conseguenze avrebbero potuto essere imprevedibili e nefaste. Nel 1158 l’imperatore Federico I Barbarossa convocò una grande assemblea feudale, una dieta, a Roncaglia, in Italia, per ottenere tasse su un certo tipo di commercio, sulla zecca e sui diritti delle miniere. Esse erano considerate tradizionalmente prerogative del re o dell’imperatore, le regalie. I notabili di Federico, per la maggior parte tedeschi, non ebbero difficoltà nell’imporre queste tasse alle città italiane dell’Imperatore. Ma queste città non erano state consultate. Esse formarono leghe contro l’Imperatore e lo contrastarono con successo, finché non ottennero virtualmente l’indipendenza dal suo dominio. 

Con maggior successo, alcuni principi riunirono delle assemblee in cui i prelati, i nobili e le città erano tutti rappresentati. Tale fu la prima Corte Spagnola del re di Leòn nel 1188. Questi incontri erano ancora sporadici e non istituzionalizzati. Furono i teologi, specialmente gli avvocati di diritto canonico, dal XII al XIV sec., a sviluppare teorie sistematiche sulla rappresentanza, collegandole all’ assunto aristotelico che lo Stato esiste per il bene dei suoi cittadini (sebbene i notabili e i prelati non avrebbero certo approvato questa affermazione) e furono essi ad impegnarsi in un dialogo moderno sul modello greco con i loro principi e tra loro stessi. 

C’erano buone ragioni perché il pensiero politico ecclesiastico del tardo Medioevo insistesse su quest’ argomento. Per cominciare, c’erano le parole di Gesù, secondo cui bisognava dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Ma questo precetto da solo non bastava a spiegare lo sviluppo di elaborate teorie politiche. Niente del genere avvenne nella teologia bizantina né nella sua erede, la Chiesa russa ortodossa. Nell’Impero bizantino e in Russia (e a fortiori negli Stati islamici successi vi all’Impero Romano) qualsiasi reale opposizione tra l’Imperatore e la Chiesa (o tra i califfi e le leggi dell’Islam) era impensabile. Ma in Occidente il collasso dell’Impero Romano nel V sec. aveva reso il capo della Chiesa, il papa, virtualmente indipendente dall’Imperatore. Anche se per gran tempo non si pensò in termini di opposizione, era impossibile che a lungo andare i loro interessi, politici o teologici, coincidessero sempre. 

Ci vollero parecchi secoli prima che venissero pienamente apprezzate le conseguenze intellettuali di questa situazione contingente e, nella prospettiva della storia mondiale, anomala. Ciò divenne inevitabile, però, quando dall’XI al XIV sec., sia i papi che gli imperatori del Sacro Romano Impero, e in seguito anche i re degli Stati europei indipendenti, cominciarono a richiedere la supremazia. Ogni tanto ci fu guerra aperta e in tutto quel periodo si ebbe un’ accesa campagna di propaganda da ambo le parti. Tutti i protagonisti del dibattito scrivevano in latino e tutti si rifacevano alla Bibbia come la fonte più autorevole in questo campo. Questa situazione costringeva gli uomini ad argomentazioni razionali. Inevitabilmente, specie dopo la riscoperta della Politica di Aristotele. che divenne un testo base nella formazione universitaria di diritto civile e canonico, queste argomentazioni razionali dovevano occuparsi della natura dello Stato e dell’ autorità politica. Ci si trovò a discutere in maniera fondamentale sia sul locus che sui limiti dell’autorità e su quali rimedi ci fossero se un tiranno ne abusava. Poiché, sebbene Gesù avesse affermato che tutto il potere viene da Dio, rimaneva da risolvere la questione pratica di come i re ottenessero il potere: se direttamente da Dio o indirettamente dalla volontà del popolo. E se il potere veniva dal popolo, che diritto aveva il popolo di toglierlo a un re tirannico o, perlomeno, di limitarne i poteri? Chi aveva l’autorità di fare le leggi? E il principe era soggetto alle leggi che lui stesso o i suoi predecessori avevano promulgato? In pratica, quali leggi poteva emanare, come imporre certi tributi, che non fossero in conflitto con le leggi naturali di Dio? E la legge naturale comprendeva significativamente i diritti sulla proprietà. 

Tali discussioni non venivano necessariamente portate avanti in ogni assemblea che il principe convocava. Ma costituivano le questioni fondamentali che determinavano lo scopo e le prerogative delle assemblee rappresentative. Esse erano sostenute da un principio derivato dal codice di Giustiniano: quod omnes tangit ab omnibus approbetur: ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti. Ancora una volta questa era già stata una procedura puramente tecnica nel diritto romano. Si applicava nelle cause civili, come la tutela di un minore da parte di diverse persone. Ma nel corso dei secoli XIII e XIV questo cavillo tecnico, qualche volta formulato in maniera leggermente diversa, diventò un principio politico. Si sarebbe rivelato un principio dagli effetti sconvolgenti. Era usato da coloro che adunavano le assemblee allo scopo di trovare sostegno da parte dei sudditi; fu questo il caso di Edoardo I d’Inghilterra quando convocò il Model Parliament nel 1295. Questo principio veniva usato regolarmente da coloro che ritenevano di dover essere convocati. Perché dare consigli aveva un duplice aspetto: era il dovere del vassallo nei confronti del suo signore o principe e finì per essere considerato un diritto. Così il principio del quod omnes tangit, associato a quello della rappresentanza, finì per riproporre il principio greco della partecipazione alle decisioni politiche cui si arrivava grazie al dialogo razionale e «approvato da tutti». 

ASSEMBLEE RAPPRESENTATIVE – Nel tardo Medioevo il principio della rappresentanza si diffuse in tutta l’Europa cristiana cattolica. Si adattava bene sia alle necessità dei principi che alle tradizioni dei vari governi locali. Queste tradizioni differivano enormemente dalla partecipazione dei lati fondisti inglesi alle corti della contea, all’autogoverno virtuale delle comunità dei villaggi in varie parti d’Europa e, soprattutto, alle corporazioni cittadine, con i loro statuti reali o episcopali, che stabilivano sia la natura che i particolari dei loro diritti. 

I principi, da parte loro, avevano bisogno di tutto l’aiuto possibile da parte dei loro sudditi nella feroce competizione militare che era diventata la norma in Europa dopo che i grandi imperi dei Franchi e dei Danesi erano scomparsi, sepolti in un irrepetibile passato. I principi ricevevano sia informazioni che aiuto dalle loro assemblee. Nel corso del XIII sec. divenne più comodo adunare non solo i notabili ma anche le città; perché erano proprio queste ultime a poter fornire più prontamente denaro per le imprese belliche dei loro prìncipi. 

Per le città era fastidioso e costoso mandare i propri rappresentanti alle assemblee; ma era anche una buona opportunità per far approvare i propri statuti, discutere argomenti di interesse comune, come i rapporti commerciali con le potenze straniere o il conio locale e, soprattutto, tenere il fisco entro limiti ragionevoli. Le città potevano formare leghe, come le hermandades di Castiglia, che si riunirono regolarmente a partire dal 1282 e che, alla fine, svilupparono istituzioni stabili per regolare la loro lega. Nelle Fiandre, i rappresentanti dei quattro membri, le città principali di Bruges, Ghent, Ypres e la zona degli agglomerati urbani e dei castelli tra Bruges e il mare, chiamata la Franc de Bruges (het Vrije van Brugge) tennero più di 4000 incontri tra il 1384 e il 1506, spesso in luoghi diversi e contemporaneamente. In Olanda, tra il 1401 e il 1433, si tennero più di 700 assemblee. Loro scopo principale era discutere di questioni commerciali. Nei principati più estesi e nelle zone prevalentemente rurali gli incontri erano per lo più gestiti dai notabili laici ed ecclesiastici, anche quando vi partecipavano alcune città. Queste riunioni erano molto meno frequenti, a volte con intervalli di parecchi anni, ma a differenza delle assemblee urbane erano molto più complesse e formali. Spesso le presenziava il principe in prima persona. 

La cosa sorprendente è che le città-stato italiane, pur sviluppando la loro indipendenza nella lotta contro gli imperatori tedeschi, non presero parte al movimento di costituzione delle assemblee rappresentative. Le loro leghe, come la Lega Lombarda che combatté Federico Barbarossa, erano poco più che alleanze di unità indipendenti, proprio come lo furono più tardi i membri della Lega Anseatica nel nord Europa. Questa Lega teneva i suoi raduni occasionali: assemblee dei rappresentanti di alcune città anseatiche, ma raramente vi parteciparono tutte. Queste riunioni non si trasformarono mai in istituzioni formali, con membri fissi. 

Le città-stato italiane svilupparono una forte tradizione di libertà politica. Proprio come l’eleutheria per i Greci, questa libertà era vista sia come libertà dall’oppressione straniera che come libertà dalla tirannia interna. I teorici politici umanisti italiani, compreso Machiavelli, non dubitarono mai che la vera libertà dovesse essere repubblicana. Le loro discussioni riguardavano piuttosto la natura del regime repubblicano: se dovesse essere aristocratico, democratico o misto. La rappresentanza era propria delle monarchie e dunque non era considerata un vivere politico, sebbene Machiavelli ritenesse che quando veniva perduta doveva essere ristabilita da un uomo di «virtù». 

Ma c’erano ragioni pratiche perché le città-stato in Italia rifiutassero la rappresentanza. Nei confronti delle aree circostanti il loro contado, esse si comportavano come principi. Le soggiogavano, le tassavano e le usavano come basi di arruolamento per i soldati che avrebbero combattuto per loro. Né le città del contado né la nobiltà rurale venivano consultate per queste guerre e i nobili erano convocati solo quando era necessaria la loro presenza individuale nell’esercito. Per quanto riguarda le città suddite, una che ne aveva in gran numero, come Firenze, non avrebbe mai convocato i rappresentanti delle città toscane insieme, dando loro modo di allearsi l’una con l’altra contro la città «imperiale». Questa tradizione anti-stato era così forte che impedì lo sviluppo delle assemblee rappresentative anche laddove una città-repubblica era diventata principato, come accadde a Milano e Verona e in altre città. Così, né una prevalenza di città, né di relazioni feudali, e nemmeno l’abbondanza di corporazioni ecclesiastiche e la presenza di giuristi canonici, possono da sole spiegare la comparsa di istituzioni rappresentative. Perché ciò avvenisse era assolutamente necessaria un’ulteriore condizione, un elemento inerente all’idea stessa di rappresentanze di località, corporazioni e Stati che si riunissero in assemblea. Mancava il senso della comunità di una struttura politica. Al di fuori delle città, che certamente svilupparono sentimenti comunitari, ma dove, come detto, la rappresentanza non si sviluppò, tale sentimento in origine poteva essere di tipo tribale. Ma più spesso, durante il Medioevo, le origini tribali vennero dimenticate in favore di tradizioni di cooperazione politica e militare e di obbedienza al principe locale. 

Nel 1128, durante una crisi dinastica nelle Fiandre, i membri della nobiltà e molte grandi città formarono leghe per gestire la crisi ed eleggere il nuovo conte delle Fiandre. Fino a quel momento le leghe non erano assemblee rappresentative (anche se alcuni storici le hanno considerate veri e propri pre-parlamenti) e non ci sono prove che la massima quod omnes tangit venisse applicata. Ma tali eventi costituivano in sé una collaborazione tra la nobiltà e le città ed evitarono che le Fiandre si spezzettassero in una serie di città-stato indipendenti come accadde in 

Italia settentrionale. Ciò è più sorprendente se si considera che le città principali, Bruges, Ghent e Ypres, si comportavano in buona misura come se fossero città-stato, dominavano e sfruttavano le campagne e i villaggi circostanti come un contado italiano. A partire dalla fine del XII e per tutto il XIII sec. i conti furono spinti a cooperare regolarmente con le assemblee dei loro Stati per potersi difendere dai re di Francia che cercavano di ristabilire il loro dominio nel Paese. 

In questo caso, come spesso accadeva nei rapporti tra i principi e le loro assemblee rappresentative, il corso degli eventi e l’equilibrio finale dei poteri non furono determinati soltanto dalla storia interna del Paese in questione, ma anche dall’intervento esterno. La storia dei principi e dei parlamenti non si svolge quasi mai in un sistema chiuso. 

Questo vale anche per i parlamenti delle isole. La storia della Magna Carta forse sarebbe stata diversa se la rivolta dei baroni contro re Giovanni , nel 1215, non fosse stata sostenuta dalla Francia. Nello stesso tempo, e ciò evidenzia in maniera cruciale lo spirito di comunità che c’era nel Paese, i diritti e i privilegi che i baroni estorsero al re, specialmente il processo davanti ai propri pari secondo la legge. sarebbero valsi per tutti gli uomini liberi della nazione. Alla morte di Giovanni, il governo di reggenza per conto del figlio minore riemanò la legge altre tre volte. Anche se le tre versioni differivano in alcuni dettagli, le copie furono inviate a tutti i tribunali delle contee, quindi coinvolsero deliberatamente la comunità di tutto il regno. 

Fu questo il modo in cui la Magna Carta finì per essere interpretata. I parlamenti successivi insistettero per promulgarla ancora. La reputazione del parlamento e della Magna Carta, entrambi considerati a salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini inglesi, si rinforzavano l’un l’altro, e si svilupparono insieme fino a formare la tipica simbiosi dell’idea di governo di diritto, dei diritti e privilegi dei sudditi e della rappresentanza dell’intera comunità. 

Ci volle tempo perché venissero stabilite in Inghilterra adunanze regolari del 

Parlamento e lo stesso valeva per le altre assemblee rappresentative sul Continente. Inevitabilmente esse si svilupparono in tempi diversi, dal XIII al XV sec. Vi erano i tre stati classici: clero, nobiltà e popolo; ma vi era anche il principato d’Olanda in cui le assemblee erano di solito limitate alla nobiltà e alle sei città maggiori (sebbene a volte venivano convocate anche le città più piccole) e non aperte al clero. In Polonia solo la nobiltà veniva considerata come rappresentativa della comunità. Le città venivano lasciate fuori dalla Sejm, la dieta di tutto il regno, anche se dominavano l’assemblea provinciale della Prussia Reale. In Svezia, al contrario, il clero era costituito non solo dai prelati ma anche dal clero locale, e c’era persino uno stato dei contadini. Molto dipendeva dallo sviluppo degli stati come gruppi o raggruppamenti auto-consapevoli all’interno dello Stato stesso, come la divisione tra notabili (ricos hombres) e bassa nobiltà (hijosdalgo) nelle Cortes di Aragona. 

C’erano assemblee rappresentative dappertutto al di fuori delle città-stato, a parte alcune comunità contadine nelle valli alpine e le paludi della costa settentrionale della Frigia, nel mare del Nord, che conservavano antiche tradizioni di riunioni degli uomini liberi. 

Le assemblee rappresentative non erano mai democratiche. Solo in Inghilterra c’era qualcosa di simile alle elezioni dei membri effettivi del Parlamento e nessuno immaginava che queste elezioni fossero democratiche. La democrazia era apprezzata da alcuni umanisti. Ma, al di fuori di alcune città-stato italiane e svizzere e delle poche comunità contadine indipendenti, la democrazia era disprezzata ed evitata. La rappresentanza era presente negli ordini ecclesiastici e nelle monarchie. Certamente aveva il compito di coinvolgere le comunità nella vita politica, ma mai nessuno pensava che dovesse cambiare la struttura sociale della comunità. Era rivoluzionaria nel senso aristotelico che dava l’opportunità di una vita felice difendendo le libertà, i privilegi particolari di corporazioni e gruppi, all’interno della comunità. Doveva preservare la comunità dal governo arbitrario del principe. Ma la rappresentanza non era intesa come uguaglianza o uguali diritti. La forma esatta delle assemblee e i loro rapporti col principe dipendevano dalla struttura sociale delle comunità che rappresentavano. Questi rapporti, a loro volta, erano spesso influenzati dalle alleanze e dall’intervento delle comunità limitrofe. Una volta stabilite, le assemblee tendevano ad assumere una forma istituzionale. Come tali, cominciarono a sviluppare una loro vita propria con certe forme tradizionali talora rigide, e ciò accadeva persino quando le condizioni socio-politiche originarie erano cambiate. Se la comparsa delle assemblee rappresentative dipese dall’esistenza di un certo senso della comunità, le assemblee aumentarono questo sentire. 

I principi avevano un atteggiamento ambivalente verso le loro assemblee. Le consideravano utili per assicurarsi il sostegno della comunità, l’osservanza delle leggi e in misura ancora maggiore, per la concessione di denaro sotto forma di tasse. Nel 1282 i Siciliani rovesciarono il loro re della casa francese di Anjou (Vespri Siciliani) e si rivolsero al re d’Aragona perché prendesse la corona e li aiutasse a mantenere la loro indipendenza. Pietro III d’Aragona, pur reclamando la corona di Sicilia per diritto ereditario, convocò molti parlamenti in Sicilia per farsi confermare re. Questi parlamenti evitarono che il regno si spezzettasse in una miriade di città-stato, come nell’Italia settentrionale, e così ottennero da re Pietro un certo numero di privilegi, in cambio di somme di denaro per finanziare la guerra con la casa di Anjou che si trovava ancora a Napoli. Non sorprende che Pietro d’Angiò abbia convocato anche un’assemblea nel suo principato di Catalogna allo scopo di ottenere supporto finanziario per la sua politica in Sicilia. 

Eppure i principi erano ben consapevoli del pericolo costituito dalle assemblee che potevano diventare potenziali rivali dell’autorità. Sia essi che i loro avvocati erano sempre molto suscettibili a questo argomento. Se la massima romana del quod omnes tangit era ormai generalmente accettata, lo era anche quella del diritto romano che considerava il principe come legibus solutus, al di sopra della legge. Secondo alcuni giuristi, questo principio era rinforzato dal detto del Codice Giustinianeo: quod principi placuit leges habet vigorem, poiché piace al principe ha forza di legge. Cosa realmente significassero queste massime romane era un argomento di costante dibattito e di sottili e colte argomentazioni da parte di magistrati civili e canonici. Più comunemente, si sosteneva che solo il principe aveva il diritto di formulare le leggi che poi l’ assemblea rappresentativa aveva il dovere di confermare. 

Ma cosa accadeva alle leggi che risultavano dalla presentazione di lamentele? Questa presentazione era una delle funzioni riconosciute alle assemblee. I principi erano ansiosi di non perdere il proprio diritto di accettare o rifiutare i suggerimenti delle assemblee. Talora, specie, quando si trattava di una disputa dinastica, le assemblee si riunivano di loro iniziativa. Ma i principi scoraggiavano simili azioni indipendenti e insistevano che solo essi avevano il diritto di convocare, prorogare o sciogliere il parlamento. Ma i parlamenti e le assemblee rappresentative non erano uguali ad un consiglio regale. In assenza di una vera e propria amministrazione civile, i parlamenti tornavano utili alla politica proprio perché rappresentavano interessi, informazioni e autorità indipendenti da quelli del principe e del consiglio che lui nominava. Essi costituivano un’opportunità di dialogo politico per la comunità. 

CONCILIARISMO – L’ambiguità fondamentale di questo equilibrio dei poteri tardo-medievali, divenne evidente nella prima metà del XV sec. nella storia dei grandi consigli ecclesiastici e del loro confronto con la monarchia papale. Non era un confronto intenzionale. I leader dell ‘Europa cristiana, sia religiosi che laici, decisero di porre fine allo scisma papale (1378). Un concilio a Pisa (1408-’09), convocato da un gruppo di cardinali, fu rigettato da entrambi i papi e finì per aggiungere un terzo papa ai due in lotta. Il concilio successivo a Costanza (1414-1418) fu convocato su iniziativa del Sacro Romano Imperatore e vi parteciparono un certo numero di re e principi europei o i loro rappresentanti, oltre una sfilza impressionante di prelati e teologi. Allora i papi e gli antipapi furono deposti con successo e ne fu eletto uno nuovo, Martino V, che fu accettato da tutti. Questo è molto simile all’operato delle assemblee rappresentative locali, come quello delle Fiandre, che aveva deposto un principe indegno e ne aveva eletto uno nuovo. Adesso, col Concilio di Costanza ciò era avvenuto su scala più vasta. Frequentato o, perlomeno, seguito avidamente dal fior fiore degli intellettuali europei, il concilio produsse naturalmente una giustificazione teorica alle sue decisioni. Essa si trova nel famoso decreto Haec Sancta (6 aprile 1415), dove si afferma che il concilio derivava la sua autorità direttamente da Cristo e questa autorità era superiore a quella del papa, il successore di San Pietro e vicario di Cristo. I padri della Chiesa erano attenti a reclamare tale autorità solo per le questioni di fede, ma come si potevano distinguere tali questioni da quelle organizzative e politiche? Il concilio procedette a riorganizzare la Chiesa e ad eleggere un nuovo capo. 

Questi erano i problemi fondamentali sulla natura dell’ autorità che i teologi avevano dibattuto per secoli in senso astratto. Erano problemi essenzialmente analoghi a quelli dell’autorità del principe e dell’assemblea rappresentativa. Il confronto divenne più aperto nel corso del concilio successivo, a Basilea (1431-1449). Naturalmente gli scontri ora si svilupparono per il tentativo del papa Eugenio IV di sciogliere il concilio, mentre quest’ultimo replicava che solo lo stesso concilio poteva decretare il proprio scioglimento o la propria proroga. Si finì per formulare un decreto ancora più innovativo dellHaec Sancta, in cui si stabiliva che il concilio aveva semplicemente un’autorità superiore a quella del papa. 

La posizione conciliare fu discussa soprattutto nelle università, in special modo nella facoltà di teologia di Parigi. Alla fine i teologi non poterono opporsi al potere del papa di usare le diverse potenze temporali l’una contro l’altra. Inoltre, egli aveva il vantaggio, nella propaganda spirituale, di avere concluso da poco un accordo apparentemente riuscito con la Chiesa greca ortodossa (1437). Già a metà del XV sec., il papato era riuscito ad emergere come monarchia autocratica dal confronto con i principi della rappresentanza dei conciliaristi. Nessuno poteva prevedere che il papato diventasse ora vulnerabile, non solo a causa dei riformatori della Chiesa – tutti concordavano nella necessità di riforme – ma anche nella ricerca da parte dei principi di indipendenza ecclesiastica e di controllo sulle loro chiese. 

A riflettere sul dibattito del XV sec., l’aspetto sorprendente non è la partita persa dal movimento conciliarista. Gli interessi dei protagonisti erano troppo diversi. Le mere dimensioni dell’ operazione conciliare e l’enorme territorio sul quale doveva essere coordinata, erano troppo persino per i più accaniti sostenitori. Così Nicola di Cusa, una delle menti più brillanti di quell’epoca, abbandonò i conciliaristi e si schierò dalla parte del papato. La vera sorpresa invece è quanto in avanti fossero riusciti a spingersi i conciliaristi. Era un segno della vitalità dell’idea di unità dei Cristiani, un segno analogo a quello comunitario che sarebbe stato essenziale per la nascita della rappresentanza nei singoli Stati europei. 

Allora l’idea di rappresentanza fu sconfitta assieme all ‘ idea di conciliarismo? La storia non è così logica né così simmetrica. La nozione di un concilio sopravvisse come idea, come aspirazione, come un mezzo per guarire i mali del tempo. Era ancora un’idea forte nella prima generazione della Riforma, e rimase tale da ambo le parti del dibattito riforrnista. Ma poi la connessione tra concilio e rappresentanza svanì sempre più sullo sfondo, cedendo alle sempre maggiori certezze dei dogmi di entrambi gli schieramenti. Al Concilio di Trento (1545 – 1564) pochi erano interessati alla rappresentanza, tranne che per la necessità dei Protestanti di far udire la propria voce e dei Cattolici di negarla. 

STATI COMPOSITI E STATI GENERALI 

I concili ecclesiastici del XV sec. furono dei grandiosi, ma inefficaci, tentativi di creare un’istituzione rappresentativa composita. L’idea stessa, comunque, era tutt’altro che morta, né i Concili di Basilea e di Costanza furono i soli esempi. Le assemblee rappresentative composite furono la conseguenza logica della comparsa di monarchie composite o multiple. Nel tardo Medioevo, queste monarchie erano diventate la forma più importante di organizzazione politica in Europa. Più era potente la monarchia – e il potere era l’obiettivo internazionale nella maggior parte delle monarchie – meno probabile era che fosse uniforme. 

Le parti costitutive di una monarchia multipla, nella maggioranza dei casi, si univano insieme per volere comune, come nel caso della Sicilia o d’Aragona, o più spesso per eredità dinastica o di matrimonio, come la maggior parte dei domini della Casa d’Austria, o nel caso dell’Inghilterra e della Scozia con la successione di Giacomo VI e I nel 1603. 

In tutti questi casi il principe giurava di osservare le leggi e i privilegi preesistenti del suo nuovo Stato. Nel XV sec. queste leggi e questi privilegi di solito comprendevano un’assemblea rappresentativa che considerava suo dovere difendere i propri interessi e quelli dei suoi membri. Nei pochi casi in cui una monarchia acquisiva uno Stato o una provincia per conquista, si riteneva ci fosse il diritto di abrogare tutte le leggi e i privilegi preesistenti. In pratica, comunque, i poteri della monarchia erano limitati dalla necessità di riconciliare a sé almeno una parte dell’élite del nuovo territorio. Machiavelli consigliava al suo principe o di distruggere la nuova provincia, o di risiedervi lui stesso (e dispensare generoso patronato ai nativi), oppure lasciarla vivere secondo le proprie leggi. Persino quando gli abitanti di una provincia, che passava da una mano all’altra, non venivano consultati sul cambiamento, ci si aspettava che queste leggi venissero osservate. Nel 1482 Maria di Borgogna fu costretta dai suoi Stati Generali a firmare il Trattato di Arras e cedere l’Artois e la Franche-Comté alla 

Francia, come dote per la figlia neonata che avrebbe sposato il delfino. Al futuro sposo (che nel caso specifico non sposò mai la principessa Margaret) fu chiesto «di tenere in particolare considerazione le contee di Artoi s e Borgogna e i poveri abitanti che troverete essere i migliori e più leali sudditi» . 

In questo modo i principi potenti, abili o semplicemente fortunati , potevano aggiungere alloro regno provincia su provincia, e Stato su Stato, ognuno con le sue leggi e le sue istituzioni ben consolidate. Per ottenere una maggiore coesione dei suoi domini, il principe spesso trovava utile convocare insieme tutti i membri delle assemblee rappresentative. Non poteva dare per scontato che tutte le province sostenessero la sua politica, specialmente la guerra che per il principe era essenziale. Così nel 1485 le terre della Prussia Reale, una provincia di lingua tedesca che sin dal 1466 viveva felicemente sotto il regno di Polonia, rifiutarono di sostenere la guerra con i Turchi Ottomani. Essi affermavano persino che, secondo i loro privilegi, il re di Polonia era obbligato a proteggerli dall’aggressione, ma non il contrario. 

La monarchia francese aveva già fatto esperienze simili nel XV sec. Alcune delle province francesi non avevano alcun interesse nella guerra contro l’Inghilterra e preferivano tenere per sé le proprie risorse. I re francesi allora convocarono molte assemblee in tutto il Paese, les états généraux, solo raramente e non sempre con grande successo. Inoltre c’era il pericolo che gli Stati Generali, un’assemblea composita per un regno grande e complesso, potessero diventare molto potenti e cominciare ad usurpare l’autorità reale. Ciò accadde in Francia anche quando re Giovanni II fu fatto prigioniero dagli Inglesi nella battaglia di Poitiers (1356). Gli Stati Generali approvarono l’imposizione di tasse per poter continuare la guerra e per pagare l’enorme riscatto per liberare il re. Nello stesso tempo cercarono di riformare il governo centrale la cui incompetenza aveva portato alla disfatta militare. Ma gli Stati Generali per un Paese così esteso e vario come la Francia si rivelarono troppo impacciati, e il nuovo energico re Carlo V preferì regnare facendone a meno. La monarchia francese era l’unica, a parte alcuni principati italiani, che era riuscita a mettere su un’amministrazione tributaria che funzionasse nella maggior parte del Paese. Sin dal tempo di Carlo V, esso aveva acquisito la reputazione di dominium regale, un regime che poteva imporre liberamente tassazioni importanti. Al contrario, in un dominium politicum et regale la monarchia non aveva tale diritto. La linea di demarcazione tra i due tipi di regime non era sempre così netta, ma gli esperti del tempo indicavano chiaramente che tale differenza esisteva e anche da quale lato si poneva la Francia. 

Forse la situazione si può meglio riassumere con l’aneddoto di un ambasciatore veneziano, che Francesco I era solito ripetere. Egli diceva che l’imperatore Massimiliano gli aveva riferito che lui, l’imperatore, era il re dei re, perché nessuno eseguiva i suoi ordini; Ferdinando il Cattolico era il re degli uomini, perché gli uomini gli obbedivano solo quando decidevano di farlo; ma Francesco, re di Francia, era il re delle bestie, perché tutti gli obbedivano sempre. 

Questa battuta era ovviamente un’ esagerazione. Lo storico ha ben ragione di chiedersi, però, perché Francesco lo raccontasse così spesso. Il giudice Fortescue, a cui si deve la pal1icolare formulazione della definizione dei due diversi tipi di regime nel XV sec., non si inventò certo l’idea. L’aggettivo «politico » derivava dalla Politica di Aristotele ed era usato di frequente sul continente per indicare un regime limitato o misto. 

Se i governanti delle monarchie multiple nutrivano sentimenti ambivalenti verso le assemblee rappresentative multiple, così era anche per le proprietà delle singole province. Quelle degli Asburgo d’Austria, nell’Europa centrale, erano spesso riluttanti a mandare i loro deputati al di fuori dei propri confini. I Boemi, per esempio, si rifiutavano di andare in Austria. I privilegi che i governanti avevano giurato di mantenere erano sempre i privilegi locali di quella particolare provincia. Non si mettevano da parte tali privilegi con leggerezza, per paura di perderli del tutto. Se si riteneva necessario farlo, si pretendevano altri privilegi maggiori. Se negli incontri degli Stati Generali le province più piccole in genere seguivano le indicazioni di quelle più grandi, per esempio, nella concessione di tasse, tutti opponevano strenua resistenza verso qualsiasi mozione di voto di maggioranza, specialmente in questioni finanziarie. 

Questa è un’altra ragione per cui, con pochissime eccezioni, gli Stati Generali funzionavano solo in territori contigui. Una striscia di mare tra due territori sotto la stessa corona, costituiva un serio ostacolo. Ma anche in questi casi, le storie di Inghilterra e Irlanda, di Svezia e Finlandia e di Aragona e Sardegna dimostrano che il mare non era una barriera assoluta. Questi esempi, però, erano relativamente rari e la ragione principale era che i membri degli 

Stati Generali, ancor più di quelli delle unità singole, insistevano nel restringere i poteri dei deputati e pretendevano che sulle questioni importanti essi si consultassero con coloro che li avevano mandati. C’erano buone ragioni per tutto ciò. I borgomastri, i sindaci e i segretari comunali trovavano naturalmente più facile far valere il loro coraggio all’interno della propria comunità, rispetto a quando si trovavano a viaggiare come deputati e ad affrontare i grandi signori del consiglio reale o persino lo stesso re o il suo reggente. Respingere le richieste dell’autorità era più facile se si poteva affermare di non avere il potere di decidere personalmente. Al contrario, era più facile per il governo intimidire i singoli deputati che dover affrontare l’intero consiglio di una grande città. Nonostante ciò, non era sempre chiaro chi rappresentassero i deputati. Le assemblee provinciali o le città parlamentari e le corporazioni ecclesiastiche? Né era sempre chiaro il ruolo dei notabili nelle assemblee, specialmente se essi facevano parte anche del consiglio del re. La storia degli Stati Generali non può quindi essere separata nettamente dalla storia delle assemblee delle province costituenti di una monarchia multipla. Gli uomini non cedono volentieri il potere che esercitano o che pensano di dovere esercitare. Se l’ideale di dominium politicum et regale era cooperare per il bene della comunità, ci potevano essere idee molto diverse riguardo a chi e che cosa fosse la comunità. 

Ci potevano anche essere svariate e appassionate idee riguardo a cosa fosse il bene, aristotelico o meno. E se queste differenze conducevano a conflitti aperti, come spesso accadeva, era inevitabile che gli Stati vicini fossero coinvolti in tali conflitti. Lo storico, dunque, osserva certe tendenze e certe regolarità in queste storie. Ma le contingenze influenzavano sempre il risultato. Ciò che lo storico non può fare è predire l’esito di queste storie, né per l’Europa né per i singoli Stati. 

Una storia comparata ed esaustiva degli Stati Generali sarebbe quindi equiparabile alla storia politica dell’Europa moderna. Anche se fosse possibile scriverla – e finora non esiste – non ci fornirebbe una legge generale dei rapporti storici tra monarchia e parlamento. Per questa ragione ho scelto un formato diverso: quello di descrivere in modo approfondito  i rapporti fra la monarchia e gli Stati Generali dei Paesi Bassi in un periodo di duecento anni. La ragione di questa scelta è la storia infinitamente varia di questo rapporto. Ci troviamo davanti a un’organizzazione politica multipla all’interno di uno Stato multiplo, aperto sia alle idee che all’ intervento esterno. Il leone per una volta è riuscito ad alienare tutti i leopardi dal suo comando. Metà di loro scelsero di ritornare a lui, per svariate ragioni, non ultima quella della paura di pecore con denti di cane. L’altra metà dei leopardi scelse di non ritornare sotto il comando del leone perché scelse di non nascondere le proprie macchie. Tutti scelsero di tenere le pecore, con o senza i denti, all’oscuro. Il Riccardo Il di Shakespeare riassume quest’atteggiamento quando caratterizza la stranezza della ribellione di Bolingbroke: 

Ho avuto modo di osservare io stesso, 
e con me anche Bagot, Green e Bushy, 
com’ ei riesca a corteggiare il popolo, 
e penetrare in fondo ai loro cuori 
con umili ed affabili maniere; 
e prodigarsi a loro in grandi gesti 
corteggiando quei poveri artigiani 
con l’arte del sorriso. 

RICCARDO Il (I, 4) 

(Trad. italiana di Bruna P Scimonelli) 

Helmut Koenigsberger

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 5-17.

 




L’isola di Leonte: viaggiatori elisabettiani in Sicilia 

 E poi c’è quest’isola, che ha un effetto magico 
su tutti quelli che vi mettono piede 
Nazareni o credenti. 
Di fronte agli stessi problemi diventiamo tutti siqillyani . 

Tariq Ali, Un Sultano a Palermo, 2005. 

La tradizione tipicamente anglosassone del grand tour, col quale i giovani rampolli delle famiglie aristocratiche e della borghesia istruita completavano la loro educazione, si afferma in Inghilterra a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. Ma in realtà si tratta di una consuetudine che nasce già al tempo di Elisabetta I, dettata inizialmente dalla necessità di creare una classe di abili diplomatici che rappresentassero l’Inghilterra presso le corti straniere. Tappe obbligate di questo percorso educativo-turistico erano Venezia, Firenze, Roma e Napoli. Apparentemente la Sicilia era esclusa da questo circuito, almeno fino all’età risorgimentale, sia per la ‘distanza materiale che per la carenza di infrastrutture di trasporto e ricettive. Una terra, dunque, conosciuta dagli elisabettiani solo come astratta e remota entità geografica, avvolta nei soporiferi vapori delle memorie classiche, e, come afferma Gentile, «sequestrata, a causa del mare e della scarsezza dei commerci, da ogni relazione col resto del mondo»1? 

Così non sembra, se solo consideriamo che già nella tardo-duecentesca carta di Ebstorf, una delle più singolari rappresentazioni geografiche, l’Isola è raffigurata a forma di cuore del mondo, se Shakespeare la sceglie come sfondo del suo Winter s Tale, e Milton pone la sede dell’Inferno del Paradise Lost nell’Etna. Gli Inglesi, fin dal Rinascimento, furono tra i visitatori più assidui, seppure talora occasionali, dell’Isola, e dei loro viaggi sono rimasti diari, taccuini privati, scritti scientifici e corrispondenze intime, un vastissimo repertorio di documenti che attestano la centralità della Sicilia come «cuore pulsante» del Mediterraneo, battuto e vitale crocicchio nel circuito dei pellegrinaggi e di quel Grand Tour, che già comincia a ad affermarsi come fondamentale esperienza formativa del gentleman inglese. 

Quale era l’immagine delle Sicilia e quali le informazioni su cui gli scrittori delle età elisabettiana e giacomiana (XVI-XVII sec.) potevano contare? Per lo più si tratta di diari e taccuini di viaggio scritti da pellegrini e diplomatici che facevano scalo nell’isola durante i viaggi in Terrasanta. 

La descrittiva irrazionalità dei compilatori delle cosmografie del ‘ 500 e del ‘600 ne facevano una terra mitica, percorsa da miniere aurifere e caverne sulfuree, battuta da mandrie di cavalli bradi, dominata in modo sproporzionato dalla gigantesca montagna fiammeggiante dell’Etna che sputava vapori e lapilli per spazi immensi. 

E tuttavia, proprio in virtù di tali curiose divagazioni, o loro malgrado, la Sicilia entrò in quel periodo nei codici formativi dei giovani d’alto lignaggio che dall’Inghilterra stuoli di familiari e di precettori guidavano alla scoperta del mondo. Le loro peregrinazioni si incrociavano con i transiti per l’Isola dei pellegrini che da Occidente si recavano in Terrasanta e con gli scali nei suoi porti delle navi dirette a Malta. 

È l’Etna, più d’ogni altro luogo dell’isola, che accende la fantasia e scatena l’immaginazione dei poeti e degli scrittori inglesi del Rinascimento. Scrivendo del vulcano, nel 1599, GeorgeAbbot afferma: «Questo è il luogo dove Empedocle si gettò perché lo si credesse un dio. Qui è dove Virgilio creò Enea. Dove i poeti dicono essere la fucina di Vulcano; dove i Ciclopi forgiavano i tuoni di Giove; e infine, qui è dove alcuni dei nostri maggiori papisti non hanno tema di immaginare possa trovarsi il purgatorio2.» 

In una tarda traduzione italiana degli scritti del leggendario John Mandeville, si legge: «Item in questa isola è il monte Ethna el quale sempre arde & chi amase Mongibello e Vulcano oue ardeno dui fochi e gettano di verse fiamme de diuersi cholori. Et per la mutazione de queste fiamme sanno le gente del paese quando sera carestia e bona de rata fredo e caldo humido secco: e uniuersalmente conoscano a che modo se governa il tempo de Italia. E questo Vulcano sono XXV miglia; e dicese che questa bocca e de lo inferno3.» 

Mandeville fu un cavaliere inglese del XIV secolo, viaggiatore e protagonista di straordinarie avventure dal 1322 al 1356 nel Mediterraneo, in Turchia, in Persia, in Egitto e in India. In passato si riteneva fosse realmente esistito, invece pare si tratti di un personaggio immaginario inventato dal medico francese Jean de Bourgogne che gli attribuì un apocrifo Voyage d’outre mar. In realtà questo testo, apparso tra il 1357 e il 1371, risulta essere una compilazione da varie fonti che godette di ampia fortuna e fu tradotta in varie lingue, tra cui latino, inglese, italiano e tedesco. Come, del resto, tutte quante le peripezie e i viaggi di questo fantasioso cavaliere inglese, anche la descrizione della Sicilia è quasi certamente frutto di pura immaginazione o almeno di notizie ricavate da fonti in buona misura inattendibili. (Tra le altre notizie curiose, Mandeville riporta che nell’isola esisteva una specie di serpenti usati dagli abitanti per vedere se i loro figli erano legittimi o meno: se il serpente li mordeva significava che erano stati concepiti fuori dal matrimonio). 

Uno dei più antichi Travel Books inglesi a parlare della Sicilia è il diario di Sir Richard Torkington, gentiluomo del Sussex, che intraprese come tanti suoi compatrioti, un viaggio in Terrasanta all’inizio del Cinquecento. L’isola per lui non rappresentò che una breve tappa di transito durante il viaggio di ritorno, nel marzo del 1518, quando passando allargo della costa catanese, assistette a una terribile eruzione dell’ Etna, dalla cui sommità «usciva fuoco che scorreva giù come un’inondazione d’acqua sulla città e bruciava molte case e anche navi che si trovavano nel porto e metteva in grande pericolo la città»4. Che, riferisce Sir Torkington, fu salvata dall’eruzione grazie al sacro velo di S. Agata. 

Nell’immaginario collettivo degli elisabettiani e ancor più dei Puritani nel secolo successivo, l’Etna era una gigantesca montagna fiammeggiante, e nella visione classico-rinascimentale costituiva la dimora mitologica del dio Vulcano e una vera e propria porta dell’inferno. 

Lo stesso Shakespeare cita l’Etna come sede dell’inferno sia in The Merry Wives (III, 5, 131) che nel Titus Andronicus (III, 1, 241). 

Anche John Milton, che pur avendo viaggiato molto in Italia non visitò mai la Sicilia, in uno dei passi più belli del Paradise Lost, utilizza il mito di Tifeo tratto dalle Metamorfosi ovidiane per spiegare il volo di Satana e quando descrive l’inferno si rifà alle descrizioni dell’Etna dei viaggiatori inglesi dell’epoca. Tifeo, gigante mostruoso, figlio di Gea, sconfitto da Giove, venne schiacciato da questi sotto la Sicilia. Qui sotto vomita fuoco attraverso il monte Etna che gli grava sul volto, tenta di scuotere la terra per liberarsi e fa traballare montagne e città che gli sono sopra. Così anche Satana si ritrova volando ad atterrare su di un «lago di fuoco liquefatto, / e di tale colore appariva; come quando la violenza / del vento sotterraneo solleva una collina / strappata dal Peloro, o dal fianco squarciato / dell’Etna che rintrona, le viscere sempre nutrite / di combustibile e pronte a concepire fuoco / sublimato di furia minerale, porgono aiuto ai venti / e lasciano un fondale abbruciacchiato, ravvolto / di fumo e di fetore.» 

Anche George Sandys, traduttore di Ovidio, poeta e colonizzatore inglese, si rifà al mito di Tifeo per spiegare l’origine del vulcano: «Tifone è un vento caldo e impetuoso che soffia non solo sulla terra ma anche nelle sue viscere e attraversando le caverne sotterranee con moto violento infiamma i materiali sulfurei e bituminosi di cui la Sicilia abbonda.» 

Sandys intraprese nel 1610 un viaggio verso la Terrasanta e sulla strada del ritorno ebbe modo di visitare anche la Sicilia. Nel suo racconto troviamo una delle prime attestazioni sulla Sicilia che la «Travel Literature» dell’età moderna ci abbia trasmesse. Sono brevi descrizioni intercalate da citazioni classiche – dall’Eneide, da Silio Italico, da Lucano – dei sei giorni che Sandys trascorse nell’isola. Nell’insieme, è ancora una volta una Sicilia ambigua, dove il fascino della mitologia si lega alla bellezza del paesaggio e alla fertilità del suolo: «Viti, canne da zucchero, miele, zafferano e frutti di ogni tipo si producono gelsi per nutrire i bachi da seta da cui traggono un gran ricavo; cave di porfirio e serpentina. Sorgenti calde, fiumi e laghi pieni di pesce: tra questi ve n’è uno chiamato Lago di Goridano, un tempo l’ombelico della Sicilia, poiché si trova al centro dell’isola; ma più antico ancora è Pergusa, famoso per il leggendario ratto di Proserpina.» 

Una immagine della Sicilia ambivalente, insomma: da un lato essa è una specie di nuovo Eden, in cui i raccolti sono abbondanti e numerosi e dove i frutti della terra crescono spontanei; dall’altro è un luogo quasi sovrannaturale, pieno di insidie, dominato dai vulcani, abitato dai Ciclopi, scosso da terremoti e battuto dai forti venti che attraversano lo stretto. 

Uno dei viaggiatori inglesi più singolari è il barbiere-chirurgo William Davies, di confessione luterana, che venne catturato nel 1598 dalle galere del Granduca di Toscana mentre si trovava a bordo di una nave inglese allargo delle coste tunisine. Davies in quel periodo fu in Sicilia e più volte visitò Palermo (At this citie I have beene very often in the time of my slavery) che descrive popolosa e fiorente di commerci. Fu anche a Trapani: «in which towne there is a monastery, wherein they affirme that the Pillar of Salt that Lots Wife was tumed unto comming out of Sodome is». 

E a proposito dell’Etna scrive: «Questa alta montagna che incombe sulla città si chiama Mongibello, e sta nella parte orientale dell’isola, la sua cima brucia perennemente notte e giorno, e a causa della ferocia del fuoco ha consumato molti villaggi. La ragione di questo fuoco è una pietra sulfurea che essendo posta in alto, come tutti possono immaginare, viene accesa dal calore del sole.» 

Naturalmente non sempre i racconti di viaggio sono frutto di testimonianze reali, come nel caso di Davies. In qualche caso il viaggio era limitato alla biblioteca cittadina, dove consultando autori latini e francesi si faceva opera di trascrizione o di raccolta di materiali diversi che andavano dai racconti mitologici a traduzioni, spesso molto personali, in inglese di autori classici come Virgilio e Omero, Ovidio e Lucrezio. 

Tra le città più citate dai viaggiatori inglesi tra ‘ 500 e ‘ 600 ci sono quelle della costa orientale: Catania, Messina, Siracusa, che si trovavano sulla rotta per l’Asia Minore e la Terrasanta. 

Sandys approdò a Siracusa il 25 giugno del 1612 veleggiando da Malta, e vi sostò una giornata ma non fa cenno delle attrattive della città; il giorno dopo, rimessosi in viaggio, fu a Catania, di cui si limita a dire: «a city more ancient than beautiful». Anche qui trova poco che sia meritevole di attenzione, se non l’Università e la campagna fertile, mentre trova modesto il commercio e scarsa la presenza dei nobili. A proposito di Messina, parla invece di una città al culmine della prosperità: i messinesi, scrive, vivevano in all abundance and delicacy, having more then enoughlood and Iruites of all kinds. Trovò nell’aspetto delle case e nella ricchezza delle carrozze durante il passeggio serale (the men on horseback and the women in large carrosses) una condizione di benessere che testimoniava lo splendore della città. 

Sir Thomas Hoby, diplomatico e letterato inglese che esercitò a Parigi la carica di ambasciatore della regina Elisabetta, fu in Italia due volte: la prima, a vent’anni, nel 1550, in cui oltre a visitare Roma e Napoli si spinse fino in Sicilia; la seconda volta, nel 1554-55 si fermò solo nelle regioni settentrionali. Egli delle città sic’iliane non sempre dice cose lusinghiere: spesso, anzi, l’ antico splendore è in contrasto con la desolazione presente. 

«Questa città [Catania] giace sulla riva del mare ai piedi del Mongibello. […] È stata una città famosa nel passato ma oggi c’è poco da vedere, tranne le rovine di un vecchio acquedotto.» E poi: «Questa [Siracusa] è la città famosa di tutti gli scrittori, sia greci che latini, che era reputata una delle principali città della Grecia. […] Il nome rimane ancora, ma la bellezza e la maestà che le appartenevano sono del tutto decadute9.» 

Sir Torkington descrive invece l’opulenza di Messina. «Questa Messina, in Sicilia, è una bella città e ben cinta da mura, con molte belle torri e diversi castelli, il più bel porto per i naviganti che io abbia mai visto, c’è anche abbondanza di ogni genere di cose necessarie agli uomini, eccetto le stoffe, che costano molto care, perciò gli inglesi le portano lì per mare dall’Inghilterra, è un viaggio molto lungo10.» 

Interessante è anche la descrizione della Sicilia fatta da William Lithgow (1582?-1645?) viaggiatore scozzese e fervente anticattolico, dalla vita avventurosa. Lithgow visitò l’isola nell’estate del 1614, durante un viaggio in Europa, Asia Minore, Africa e fu proprio nei mari della Sicilia che operò la cattura della ciurma di una nave pirata turca. Vi tornò nell’autunno dello stesso anno ma fu costretto a fuggire per avere ucciso in duello due giovani baroni. 

Lithgow è uno dei primi a soffermarsi, oltre che sulla descrizione delle città, sul carattere degli abitanti. «I Siciliani sono per la maggior parte oratori esperti, ché gli Apulei li definiscono uomini dalle tre lingue. Inoltre sono pieni di frasi argute e gradevoli nel raccontare, eppure fra di loro essi sono pieni di invidia (la gentilezza che vi dicevo è rivolta agli stranieri), sospettosi e pericolosi nella conversazione, inclini alla rabbia e alle offese e pronti a vendicarsi di ogni torto subito: ma devo confessare, più generosi degli italiani, che uccidono i loro nemici di notte, perché essi si affrontano in duello e lo fanno da uomini, senza pratiche fraudolente11.» 

In molti casi questi resoconti riferiscono di testimonianze e letture precedenti, senza che l’autore abbia mai messo piede nei luoghi di cui parla. Di Palermo, che mai visitò, George Sandys afferma che fosse piena di begli edifici e frequentata da studenti, notizia questa che non trova conferma documentata poiché al tempo l’Università non esisteva ancora. Allo stesso modo, pur non avendo avuto alcun contatto con gli abitanti delle zone montane, scrisse che essi erano «così inospitali verso gli stranieri che tra di essi non si può viaggiare via terra senza una robusta guardia; derubano e uccidono chiunque riescano ad acciuffare facilmente»12. 

I siciliani descritti da Sandys sono incolti, superstiziosi, brutali, gelosi, vendicativi e soprattutto pigri., tanto da vendere la canna da zucchero ai Veneziani per poi ricomprare, col ricavato, lo zucchero raffinato13. 

Nella sua Cosmographie del 1652, in cui la Sicilia occupa un intero capitolo, Peter Heylyn afferma: «Il terreno è incredibilmente fertile di vino, olio, miele minerali di oro, argento e allume assieme ad abbondanza di sale e zucchero; quest’ultimo bene gli indigeni lo vendono in canne ai veneziani e lo ricomprano da loro dopo che è stato raffinato, lasciando così che gli stranieri intaschino la maggior parte dei loro guadagni; così generalmente fanno con tutte le altre mercanzie, che permettono di esportare piuttosto che prendersi da sé il disturbo di commerciare all’estero con nazioni straniere14.» 

Ma riconosce ai Siciliani creatività e genio: «Sono stati famosi finora per molte notevoli invenzioni, Aristotele attribuisce loro l’arte dell’ oratoria, e le prime egloghe pastorali, Plinio degli orologi (o meglio le clessidre) e Plutarco delle macchine militari15.» 

Lithgow aggiunge che mai durante la sua permanenza nell’isola vide qualche siciliano to begge bread or seeke almes, tanta è l’abbondanza della terra, e aggiunge che essi sono generally wonderfull kind to strangers. 

Questo è il quadro della Sicilia come appariva agli occhi degli inglesi al tempo di Elisabetta I e del suo successore Giacomo I. Una terra ambivalente e piena di metafore, fertile luogo dell’abbondanza, ma al contempo pericolosa e infida. Così la racconta Shakespeare: «Leonte, re di Sicilia, nutre una ingiustificata gelosia nei confronti della moglie Ermione, sospettando che abbia una relazione clandestina col suo amico Polissene, re di Boemia. Ossessionato dalla gelosia, insiste nel credere nella colpevolezza della moglie anche quando l’oracolo di Apollo ne dichiara l’innocenza. Nella sua follia, la fa processare e ne ordina la morte assieme a Perdita, la bimba data alla luce da Ermione in carcere e che egli ritiene figlia illegittima di Polissene. Ma Antigono, incaricato di uccidere la bambina, la salva abbandonandola sulle coste della Boemia. Sedici anni dopo, la principessa Perdita, che è stata allevata da un pastore, si innamora di Florixel, figlio di Polissene, e con lui fugge in Sicilia, dove avviene la riconciliazione tra i due giovani e i loro genitori, e dove anche Ermione, creduta morta, ricompare sana e salva.» 

Questa è la trama di The Winter’s Tale, uno degli ultimi drammi di Shakespeare, ambientato per tre atti in Sicilia. Nella fonte originale dell’opera, il romanzo pastorale di Robert Greene intitolato Pandosto, l’azione principale era ambientata in Boemia e quella secondaria in Sicilia. Shakespeare inverte rapporto e sceglie la Sicilia per fare da sfondo ad uno dei suoi romances più ambigui, in cui si mescolano mitologia, dramma pastorale, magia, follia, ritrovamenti di figli perduti e riconciliazione. Questo forse perché ha bisogno di un luogo ambiguo e senza tempo, dai contorni vaghi, in cui prevale l’elemento magico, per dar voce alla follia di Leonte da un lato e alla possibilità della riconciliazione tra genitori e figli dall’altro, quasi a smentire il motivo centrale dei grandi drammi precedenti come Amleto e Otello, nei quali non esiste rimedio al male compiuto. 

Nel Racconto d’inverno, nonostante la presenza del Male, dettato dalla follia umana, si intravede per l’umanità un recupero dell’innocenza perduta. Per ciò Shakespeare si rivolge a una terra suggestiva, piena di connotazioni simboliche, metafora composita e isola mitica di giganti e di dei, di vulcani e terremoti dove egli, al pari di molti contemporanei, riteneva che una fiaba a lieto fine fosse possibile nonostante tutto. 

P. Bruna Scimonelli 

 

BIBLIOGRAFIA 
M. Capuzzo, Milton e la Sicilia, Libreria Dante, Palermo, 1987. 
M. Marrapodi, L’Odissea di Pericles: saggi e discorsi dagli elisabettiani a D. H. Lawrence. Bulzoni, Roma, 1999. 
NOTE 
1 G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, Sansoni, Firenze, 1963, p.S. 
2 George Abbat, A Briefe Description of the whole Worlde, London, 1599. «This is the place whether Empedocles Ihrewe himselfe, Ihal he might be repuled a God. This is it, whereof Virgil dolh make his tract called Aenea, which the Poels did reporl to be Ihe shop of Vu/can: where the Cyclops did frame the thunderbolts for Jupiter: and to conclude, this is it which some of OLtr grosse Papistes haue notfeared to imagine to be Ihe p/ace of purgatorie.» 
3 Ioanne de Mandavilla, nel quale si contengono di molte cose marauigliose, Venezia 1567. 
4 R. Torkington, Ye Oldest Diarie of Englysshe Travell: being the hitherto unpublished narrative of the pilgrimage of Sir Richard Torkington to Jerusalem in 1517. «Cam owt fyer ronning downe like as it ad be a flode of watyr into the Citye and brent many howses and also shippes Ihat war in the havyn and put the city in grett juberte.» 
5 J. Milton, Paradise Last, I, 229 – 235 (edizione curata da R. Sanesi, John Milton, Paradiso Perduto, Arnoldo Mondadori, Milano, 1984). 
… Lake with liquidflre, 
And such appeared in hue; as when the force 
Of subterranean wind transports a Hill 
Tomfrom Pelorus, or Ihe shattered side 
Of thundring Aetna, whose combustible 
Andfeweld entrails thence conceiving Fire 
Sublim ‘d with Mineral fury, aid the Winds, 
And leave a singed bottom all involv’d 
With stench and smoak. 
6 George Sandys, A relation of ajourney begun An. Dom. 1610. Fovre Bookes. Containing a description of the Turkish Empire, of Aegypt, of the Holy Land, of the Remote parts of Italy and Ilands adionying, London, 1615. «Typhon physically is a hot and impetuous wind, not onely aboue but vnder the Earth, which rushing through her hollow cavernes, with violent motion injlames the sulphurous and bituminous matter wherewith Sicilia aboundeth. 
7 George Sandys, cit. «Vines, sugar canes, hony, saffron, and fruites of all kindes it producete: mulberry trer::s to nourish their silke-wormes, whereofthey make a great income: quarries of porphyre, and serpentine. Hot bathes, riuers, and lakes replenished with fish: amongst which there is one called Lago de Goridan; formerly lhe nauell of Sicilia, for that in the midst of the Iland; but more anciently Pergus, famous for the fabulous rape of Proserpina.» 
(8) William Davies, A true Relation of the Trauailes and most miserable Captiuitie of William Dauies, Barber-Surgeon of London vnder the Duke of Florence, London, 1614. E a proposito dell’Etna scrive: «This high Mountayne that hangs ouer the Citie is called Mungebella, and standeth in the East part of the Island the top of it burning continually both night and day, and by reason of the fierceness of the fire hath consumed many Uillages. The reason of this fire is a Brimstone, or a Sulphure Mine, which being high, is, as all men imagine, set afire by the heathe of the Sunne.». 
9 Thomas Hoby, The travels and life of Sir Thomas Hoby, Kt, of Bisham Abbey, Written by Himself. 1547-1564, «This towne [Catania] is placed upon the seea side at the rootes of Mongibello. […]hath bine a famous citie in times past, but now there is little to be seene abowt it, except the ruines of an old aqueduct.» […]«This [Siracusa] is the towne so famous in ali writers both greeke and latin, which hath bine esteemed one the principallest cities of all Greece. […] The name of it doth stili remaine, but the bewtee and majstee of it is cleane decayed.» 
10 R. Torkington, cit. «This Missena, in Cecyll, ys a fayer Cite and well wallyd wt many fayer lowers and Divse caste Il, the fayerst havyn for Shippers that ev I saw, ther ys also plente of ali maner of thyngs that ys necessari for man except clothe, that ys very Dere ther, ifor englyssh men brynge it thedyr by watyr owt of and a Enlong [England], it ys a grett long wey.» 
11 William Lithgow (1582?-1645?), The Totall Discourse of the Rare Aduentures and painefull Peregrinations of long nineteene Yeares Trauayles, from Scotland, to the most Famous Kingdomes in Europe, Asia and Africa, London 1632. «The Sicilians for the most part are bred orators, which made the Apulians tearme them men of three tongues. Besides they are full of witty sentences, and pleasant in their raconteurs, yet among themselves, they are full of enuy (meaning their former kindness was unto strangers) suspicious and dangerous in conversation, being lightly giuen to anger and oifences, and ready to take revenge of any iniury committed: But indeed 1 must confesse, more genùously than the Italians, who murder their enemies in the night, for they appeale other to single combat, and that manfully without fraudolent practices.» 
12 George Sandys, cit. «so inhospitable to strangers that betweene them both there (was) no travelling by land without a strong guard, who rob and murder whomsoever they can conveniently lay hold on.» 
13 George Sandys, cit. A people greedy of honour, yet giuen to ease and delight; talkatiue, meddlesome, dissentious, iealdus and reuengeful. So supinely idle that they sell their sugar as extracted cane to the Venetians; and buy what they spend of them againe, when they haue refined it.» 
14 Peter Heylyn, Cosmographie. In foure Bookes etc., Londra, 1652. «The soyl is incredibly fruitfull in Wine, Oyl, Honey, Minerals of Gold, Silver and AlIom, together with plenty of Salt and Sugar; which last commodity the Natives sell in the Canes unto the Venetians and buy it again of them when it is refined, and thereby letting strangers go away with lhe best part of their gains; as they generally do in all other Merchandize, which they permit to be exported, raher then putting themselves to the trouble of Trafficking abroad in Foren Nations.» 
15 Peter Heylyn, op. cit. «They have been famous heretofore for many notable iniventions, Aristotle ascribing to them the art of Oratory, and first making of Pastorall Eclogues, Plinie of Clocks (or rather Hourglasses) and Plutarch of Military Engines … »

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 13 – 19.




AD UN AMICO 

 A volte cammino a fatica 
negli ardui percorsi dell’ esistenza 
sono bui e pieni di pericoli che sento 
brancolare, 
avverto ululati di anjme inquiete, 
e striduli lamenti, 
avverto simboli, una volta significanti , 
ormai consumati 
dall’usura epocale, e immagini 
ben confezionate dal crudele presente 
il mio sentire si incupisce 
e gela il fluido delle scarne vene 
mi adagio allora su irti muri 
e a stento continuo il folle 
cammino; dove sono diretta? chi potrà 
offrirmi passaggio 
verso i limpidi e tersi cieli di Venere? 
chi mai oserà 
sfiorare la mia mano 
con placida carezza che avvolge 
e rigenera? qual mai presenza mi darà 
la definizione di insieme? 
Sei tu AM1CO e compagno a condividere 
con me la lotta contro 
lancinanti incubi e pressanti incertezze 
in questa dimensione 
non fantastica ma paradossalmente vera, 
tu porti con te 
l’arma coraggio, tu trovi sempre 
erba medica per le mie ferite 
e mi doni nuova salvezza, 
rendi tutto questo 
vivibile e mi dai la forza di compiere 
sempre l’ultimo passo vespertino 
prima del consueto riposo umano 
grazie per essere con me, 
in questo viaggio altalenante 
qui, ora e per sempre. 

Daniela Scimeca

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 46.




 Linea di ricerca nell’opera di E. Giunta 

L’itinerario artistico ed intellettuale di Elio Giunta poeta, ma anche critico letterario, autore di teatro e soprattutto uomo-poeta calato nel tempo esistenziale, traccia un immaginario che vuole rappresentare la dimensione di un altrove spaziale e temporale all’interno del quale vengono mirabilmente conservati intatti i legami con la storia e il presente. 

Il tratto comune dell’opera complessiva del poeta è dato dal suo porsi, anzi dal suo essere-in-situazione nella concretezza dell’esistenza, per usare un’immagine cara a Sartre. Tale tratto emerge con chiarezza e precisione dalla lettura di Recuperi Possibili1. Riprendendo la prefazione di Mario Luzi, il quale sottolinea con grande efficacia l’angoscia dell’interrogazione delle cose e della concretezza esistenziale, si vede, infatti, come il poeta volge la sua attenzione analitica sia verso il privato che verso il sociale con salda posizione morale e civile. 

Basta leggere, in tal senso, le poesie «Sferracavallo» e «Vi sono deserti», per meglio comprendere l’essere-in-situazionedi Elio Giunta e il suo portato linguistico, che ne traduce perfettamente la dinamica, pur registrandovisi la presenza attiva, ma ricreata, della memoria leopardiana del «borgo» e dello spirito del sofferto travaglio sofocleo. 

Il Filottete2, infatti, è un’opera teatrale di chiara derivazione (forse sarebbe meglio dire rivisitazione) sofoclea che testimonia ancora dell’attenzione di Giunta all’attualità dell’esistenza-politica. L’opera consuma, infatti, il dramma eterno tra la nobiltà d’animo, rappresentata da Neottolemo, e la bassezza di Ulisse, il dramma cioé tra etica e politica, tra morale e ragione di Stato. 

Il Filottete è forse l’opera che meglio interpreta la temporalità storica (nonostante l’archetipo metafisico del testo originale) la tematica del presente. Una tematica attualissima (si pensi all’attestazione del mondo contemporaneo, dopo l’evolversi del mondo geopolitico e delle scienze genetiche e non, su un nuovo ripensamento dei problemi dell’etica e dei suoi rapporti con la politica) e contestuale al conflitto perenne e permanente appunto tra etica e politica. Si tratta, comunque, in Elio Giunta, di un «attuale» raccordato al passato e propedeutico al futuro. Un futuro, però. che nel suo variabile ed eterno processo di «giostra» ed intreccio di eventi (il cosiddetto tempo-vita-storia) sfugge, sebbene per ragioni sempre diverse. sia all’uomo di ieri (il greco) sia all’uomo di oggi. Sfugge al greco, uomo di ieri, in quanto divino, sacro, impenetrabile per i mortali e persino per gli stessi dei, se si pensa che l’«ordine universale» era sottoposto e governato dall’ineluttabile invisibile ananke, la necessità del fato greco e dell’ordine immutabile delle cose; sfugge, il futuro. all’uomo del nostro tempo, perché il tempo, non più divino e fascinoso, è diventato laico e secolarizzato, quello del disincanto, dove il sacro e l’ineluttabile ha ceduto il posto alla causalità e all’aleatorio della contingenza altrettanto imprevedibile e non manipolabile come «il fato greco», i cui effetti, però, non sono meno angoscianti e paranoici di quelli dell’età greca. 

Se «Sferracavallo» era la testimonianza più certa dell’esser-ci del presente e della terra di Elio Giunta, «Palermo» e «la febbraio 1986», due delle poesie che fanno il nuovo libro di Giunta3, sono la prova più evidente ed incontestabile di questa testimonianza umana dell’autore alla concretezza dell’esistenzialità che si fa lavoro poetico ed artistico prodotto con essenzialità linguistica. In Elio Giunta l’essenzialità linguistica. infatti, è un portato strutturale di tutta la sua scrittura poetica, la quale risulta, contemporaneamente, intrecciata sia all’uso di certe figure retoriche che ad una «certa» ironia. L’emozione è infatti controllata e dominata dal distacco di una ironia che analizza, riflette, si fa spazio vuoto nell’affascinante figura retorica della «sospensione» o si concretizza in una saporita salacità o in un originale riadattamento semantico mai scenico. 

I temi di Elio Giunta non finiscono e non si esauriscono mai, infatti, nel paesaggistico, non ingabbiano la poesia dello scavo e della costruzione artistica tra le maglie della crosta superficiale della facile e gratuita retorica, perché la qualità poetica attraversa, connota e struttura, generalmente, tutti i testi dell’autore. 

Luigi Sciacca 

l. E. Giunta, Recuperi possibili, Forlì, Forum/Quinta generazione, 1983. 

2. Filottete, Palermo, Vittorietti ed.. 1978.

3. E. Giunta, Bivacco immaginario, Forlì, Forum/Quinta Generazione, 1989.

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 31-32.




 Rino Giacone, Il bestiario comparato, Ed. Ct Sera, 1989, pagg. 64, s.p. 

Questo volume, in edizione di pregio, pubblicato in occasione del 35° anniversario della fondazione del periodico «Catania Sera», con illustrazioni di Luigi Patinucci, segue un filone – quello della satira – che ha illustri predecessori. Ma non è meno illustre il poeta-critico-letterario e scrittore catanese Rino Giacone, collaboratore del quotidiano «La Sicilia», per la parte culturale e del settimanale «Catania Sera», edito da Giuseppe Massa. 

L’argomento di questi epigrammi riguarda gli animali, che godono di una lunga tradizione letteraria, da Esopo a Marziale, a Giovenale e, perfino, a Catullo. Ma c’è anche l’epigramma greco, che ha una varietà maggiore rispetto a quello latino e si adatta, come queste poesie di Giacone, a tutte le occasioni e le circostanze della vita. È un epigramma realistico e prezioso che, oltre per un singolare carattere di concretezza, per la varietà di tono, che comprende la battuta, la riflessione rapida e profonda, è gradito in un momento in cui si punta alla satira e al realismo per svecchiare la tradizione. 

La prefazione è di Emanuele Mandarà, il quale scrive, fra l’altro, che «gli esemplari di tale zoo ideale, impersonano, è ovvio, altrettanti prototipi di fauna politica e sociale, periferica o di centro, della nostra contemporaneità». E lo stesso Giacone, nella premessa, sostiene che «chi credesse di riconoscersi in una delle bestie descritte non se la prenda: la somiglianza tra uomini e bestie è naturale e quasi scientifica». Ed ora un paio di epigrammi, tanto per avere l’idea di questo Bestiario comparato di Giacone: «La pasta col nero di seppia / dalle mie parti è un piatto prelibato / …Solo quel tal poeta / grafomane incallito / usa l’inchiostro di seppia / per scrivere il poema infinito» (La seppia). «Quando comincia a gracchiare / (e lo fa tutte l’ore) / non c’è nessuno che la può fermare. / Gracchia di tutto / dalla politica alla geologia / e con più che evidente competenza / anche d’ecologia. / S’interessa in sostanza d’ogni cosa / come fa l’ape sulla rosa». 

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pag. 55.