Il prof. Rizza del Liceo «Mazzantini » di Torino ha scritto un libro, in collaborazione con Augusto Del Noce, Una possibile letteratura alternativa della cultura di Torino (1985), in cui trae delle conclusioni con il seguente allarme interrogativo: «Torino è morta? Torino non ha più speranza, come è accaduto ad alcuni dei suoi vecchi maestri ?». Il prof. Rizza risponde: «Forse no, se Torino ricorderà e farà tesoro delle parole che S. Agostino rivolgeva, in un’epoca altrettanto angosciosa, ai Romani che piangevano sulla loro città distrutta, sulla fine del loro mondo antico».
Il testo di S. Agostino è il seguente.
«Forse Roma non andrà in rovina, forse Roma è stata soltanto flagellata, non uccisa; forse è stata soltanto castigata, non distrutta. Forse non andrà in rovina, se non rovineranno i Romani. I Romani infatti non andranno in rovina se loderanno Dio; andranno in rovina se bestemmieranno Dio. Poiché che cosa è Roma, se non i Romani?». E, applicandolo a Torino, il prof. Rizza dice: «Forse forse Torino non andrà in rovina se non andranno in rovina i Torinesi; perché che cosa è Torino, se non i Torinesi?».
Roma poi non morì come si vede. E non morì non solo perché divenne la sede indefettibile del “maggior Piero”, ma anche perché intorno alla sua idea – che è un’idea di Dio – si strinsero a volta a volta i suoi Santi, i suoi Martiri, i suoi Uomini migliori. Anche Torino è un’idea di Dio, che entrò in orbita appena di recente, quando divenne sede del primo Risorgimento in funzione dell’unità d’Italia, e da stella potrebbe diventare un sole, come sede del secondo Risorgimento in funzione dell’unità europea: dall’URSS al Commonwealth Britannico alla Quarta Sponda africana.
Ora io sono qui per dare il mio contributo, il quale si chiama Savonarola. Non un Savonarola da strapazzo, s’intende; e neppure soltanto il grande Savonarola emerso dalle classiche biografie del napoletano Pasquale Villari, del bavarese Giuseppe Schnitzer, del fiorentino Roberto Ridolfi, con la magistrale integrazione critico-biografica del palermitano Mario Ferrara; e neppure ancora il Savonarola che si svela dalla sua Opera Omnia che possediamo ormai in splendida Edizione Nazionale critica di 25 volumi, grazie ai Laici di Firenze, capeggiati da Giovanni Papini e da Giorgio La Pira.
Il mio Savonarola è in sopra più quello cioè letteralmente scoperto da coloro che nel complesso chiamerò la Scuola di Torino. Una Scuola senza edificio, di soli peripatetici, con una tradizione però secolare alle spalle, che risale ai tempi stessi del Savonarola, come ho illustrato in mio recente articolo Savonarola nella tradizione dei Domenicani di Piemonte e Liguria, in “Palestra del Clero”, Rovigo, agosto 1985, nn. 15/16. La quale Scuola presenta, ovviamente come tutti, il Savonarola nato in questo mondo a Ferrara, e per il cielo a Firenze, tra i bagliori del martirio; ma presenta, in più il Savonarola che va trovando, oggi, pienezza storica qui a Torino: in questa Torino il cui fondamento remoto è il culto del toro Apis degli antichi Egizi, e il cui orizzonte prossimo è l’inizio del Terzo Millennio cristiano.
Tale Millennio inizierà con il solenne giubileo già indetto da papa Giovanni Paolo II con l’Enciclica sullo Spirito Santo Dominum et vivificantem, e avrà come preludio il V Centenario della morte di Girolamo Savonarola e dei suoi due Compagni Martiri, addì 23 maggio 1998. L’attesa è grande per entrambi gli eventi che la Provvidenza sembra avere così abbinati.
Questa Scuola di Torino ha avuto un precursore e un maestro. Il precursore è il prof. Paolo Luotto di Villafranca d’Asti (1855), il maestro p. Pera dei Domenicani di Torino, nato a Pietrasanta (1889).
Paolo Luotto, professore di lettere e filosofia nei licei classici, scrisse un grosso volume il cui titolo dice tutto: Il vero Savonarola e il Savonarola di L. Pastor (1887). Tracciò il solco e gettò la prima semente. Morì a soli 42 anni, pianto dai suoi colleghi, specialmente dal fraterno amico Salvemini, vero eroe della causa per la quale diede la vita per l’enorme dispendio di energie profuso oltre gli impegni di scuola e di famiglia.
P. Pera può essere definito l’Aristotele della Scuola peripatetica savonaroliana di Torino. Apprezzato personalmente da papa Paolo VI Montini, p. Pera è passato alla storia con un suo modesto studio sull’identità di Dionigi il Mistico e Dionigi Aeropagita la quale significherebbe il nodo tra la patristica greca e quella latina e la vera chiave della sintesi di San Tommaso d’Aquino che la Chiesa ha eletto a suo Dottore ufficiale.
Portando a maturazione le idee del Luotto, p. Pera diede una dimostrazione magistrale pubblicando il carteggio intercorso tra papa Alessandro VI Borgia e Savonarola, commentandolo con “postille”, come egli volle chiamarle, ma che in verità sono squarci teologici, giuridici e storici di incomparabile sapienza. Il suo lavoro comparve in una magnifica edizione curata dall’Accademia d’Oropa nel 1950, con la cornice di validi collaboratori quali il presidente del sodalizio dr.Venanzio Sella, il prof. Serafino Dezani dell’Università di Torino, mons. Luigi Quaglia, promotore di Giustizia nell’arcidiocesi torinese, lo stesso cardinale Fossati, arcivescovo che volle tenere a battesimo tale impresa con una pubblica lettera che figura in appendice del volume.
Le idee “nuove” che la Scuola di Torino ha portato avanti a raggiera, durante e dopo la morte di p. Pera, sono almeno 7, come i sette doni dello Spirito Santo. Le riassumiamo per sommi capi.
Alcune prove sono le seguenti. A metà agosto 1496, dopo la verifica promossa dal breve del 16 ottobre 1495, papa Alessandro VI offriva a Savonarola la porpora di cardinale. Non si offre la porpora a un eretico, a un disobbediente, a uno scomunicato.
Alessandro VI protestò apertamente presso il Cardinale di Perugia, quando venne pubblicata la scomunica contro il suo consenso: «omnino praeter mentem suam». Quando Savonarola viene arrestato dagli Arrabbiati di Firenze, che s’erano impadroniti del potere con un colpo di Stato, Alessandro VI ordina ripetutamente che Savonarola gli venisse consegnato a Roma. Minaccia persino l’interdetto a Firenze. Il che vuol dire che Savonarola valeva più di Firenze, che pur da secoli era guelfa e banca del Vaticano.
Morto Savonarola, Alessandro VI si lamentò presso il nuovo Generale dei domenicani di essere stato ingannato; e in un concistoro dichiarò che avrebbe volentieri iscritto fra Girolamo nell’albo dei Santi. Tutto questo è contestato, per ultimo, da Ridolfi; ma la Scuola di Torino ha risposto per le rime (G. A. Scaltriti, Papa Alessandro VI Borgia, in “Palestra del Clero”, Rovigo, 1984, nn. 13/14).
Non deve sfuggire l’enorme importanza culturale dei rilevati rapporti tomisti, eckhartiani, savonaroliani,
per il pensiero del mondo occidentale contemporaneo e per l’attuale incidenza, rilevata anche da scrittori asiatici, sull’Oriente induistico e buddistico, nonché sull’Islam dei grandi mistici di Allah – “il solo Grande” – e dei determinanti commentatori di Aristotele, da Al Kindi ad Averroé «che il gran comento feo».
In conseguenza la Scuola di Torino si è caratterizzata nel promuovere la causa di glorificazione di Savonarola e Compagni Martiri, come coronamento delle speranze accese dal Vaticano II, sostenendo altresì che da sola tale causa varrebbe più di un Concilio. In ogni caso, sarebbe l’indispensabile premessa per il nuovo Concilio, specialmente se lo si volesse tenere o a Mosca o a Tokyo o in Brasile.
Al tempo di Savonarola era viva la disputa tra “principato” (o stato tiranno, dato anche come buon tiranno) e “governo civile” (o stato popolare, quasi che lo stato popolare, così detto, coincidesse con la civiltà; categorie che storicamente, quindi non identicamente, corrispondono alle nostre di Stato dittatoriale e di Stato democratico a suffragio universale. Peraltro, come Savonarola non è un precursore della riforma protestante, così non è un antesignano dei diritti dell’uomo, secondo la rivoluzione francese o del primato della classe operaia, secondo il marx-leninismo.
È d’obbligo il riferimento del messaggio socio-politico-economico di Savonarola all’Apostolato dei Laici quale indicato dal Vaticano II, e alla tradizione mazziniana per quello che di meglio il grande Genovese vedeva nel cattolicesimo del Frate; e alla disputa tra monarchia e repubblica che Savonarola dirime saggiamente nel primo Trattato del Reggimento della città di Firenze, sulla trama del De regimine Principuum dell’Aquinate, indirizzato alla Regina di Cipro il cui titolo, guarda caso, era vantato dai Savoia, ai quali va il merito indiscutibile dell’unitàd’Italia, come avvertì l’Eroe dei Due Mondi.
C’è un testo, tratto dal Trionfo della Croce di Savonarola, che per l’alta teologia cristocentrica è chiave di tutta la Storia che segretamente anima popoli e nazioni.
«La congiunzione dell’umana natura nella persona divina è maggiore cosa che non l’unione dell’intelletto a Dio come oggetto. Perciò dopo l’incarnazione di Cristo, gli uomini cominciarono a emergere in modo più evidente e ad aspirare sempre più intensamente alla vera felicità» (Lib. III, cap.VII).
Questo pensiero, sviluppandosi storicamente, storicizza quanto è dato di leggere nel Commento all’Etica a Nicomaco di San Tommaso, che p. Pera amava rileggere tra le righe di Savonarola. L’uomo ha un fine proprio naturale che si realizza pienamente nell’ordine civile che l’uomo deve raggiungere con scienza civile e arte civile, per usare i termini di San Tommaso, ossia con la politica la quale è scienza principalissima e, tra tutte, la più architettonica (Lib. I, cap. 2).
La Buona Novella di Cristo dischiude il Regno dei cieli dando potestà all’uomo di divenire simile a Dio; però affinchél’uomo sia perfetto, come persona eterna, come uomo storico, come polis o come societas, secondo che si prenda il modello-atomo dei Greci o quello cosmico dei Romani.
Sull’onda della Storia che con l’umanesimo e la rinascenza riesumava e già rilanciava tali istanze, il profeta Savonarola afferma che «lo Stato popolare è migliore d’ogni altro in Italia, massimamente se Cristo è suo capo». Perché ne consegue la libertà per tutti che vale piùdell’oro e dell’argento; la dignità cui ogni uomo, degno del nome ha diritto di essere signore nella propria città ricco del proprio lavoro, sufficiente per mantenere la propria famiglia, per coltivare le scienze e le arti, per godersi in campagna la dolce comunione dell’amicizia con gli amici del cuore.
Questo è scritto in tutte lettere, con coerenza non inferiore al rigore di Machiavelli, nel Reggimento di Firenze, che Savonarola scrive (o abbozza) per invito della Signoria, reputando tale invito non contrario al suo ufficio sacerdotale e consonante alla carità verso la Patria (Proemio al Trattato III, cap. 2).
Savonarola rifiuta come calunnia l’accusa di volere mettere al bando i nobili per favorire la plebe. Savonarola vuole che ognuno sia vero cristiano o almeno schietto uomo naturale e che, per il bene di tutti, chi più sa e chi più può deve servire il bene di tutti onde la libertà non sia un privi1egio, ma il bene di tutti e di ciascuno (“Scritti apologetici”, in Opera Omnia, pag. 244, lin. 15 ss).
Nulla di utopico. Il modello civile suggerito da Savonarola venne attuato con scienza propria dai Fiorentini nel 1494, durò un decennio, finché tornò a prevalere il Principato dei Medici. Ma nel 1527, quelli che erano stati i giovani di Savonarola, ora fattisi adulti, insorsero e restaurarono lo stato popolare, nella precisa linea indicata da colui che Santa Caterina de’ Ricci, fiorentina di quella generazione, chiamava l’”invitto Martire”. Soltanto la coalizione di tutti i potenti d’Europa, stretti attorno all’imperatore Carlo V d’Asburgo, e per il tradimento di papa Clemente VI de’ Medici, la Repubblica fu soffocata nel memorabile assedio del 1530, in cui emerse la gloria di Francesco Ferrucci.
Tutta la critica storica concorda nel riconoscere che con la fine della libertà di Firenze si spegneva la libertà d’Italia. Perciò si spiega come i patrioti più d’avanguardia del Risorgimento guardassero all’assedio di Firenze per riviverne le gesta e ravvivare nel popolo d’Italia le mai spente speranze di una resurrezione: sono i sullodati d’Azeglio e Mazzini, poi Garibaldi che definisce Savonarola «uno dei grandi benefattori dell’umanità», Niccolò Tommaseo, Pasquale Villari, Gino Capponi, il p. Curci, fondatore de “La Civiltà cattolica”.
Quando la moderna Torino cominciò ad espandersi oltre il “pian del ferro”, ossia la ferrovia Torino-Milano che cingeva la città il Consiglio comunale diede al primo viale che così si disegnava, il nome di Francesco Ferrucci, Condottiero. Firenze ha dato il nome di Francesco Ferrucci al Lungarno; Torino gli ha fatto dono del Pian del Ferro.
Nulla di utopico, soprattutto dalla più alta visuale della fede, quella a cui il profeta continuamente orienta gli atti umani. Quella fede che vince il mondo e arde nel cuore di chi si è fatto semplice come Dio e libero da ogni male.
Il capitolo ottavo del Vangelo secondo San Giovanni riassume ad altissimo livello la teologia della storia che il profeta intende con questa Parola del Divino Maestro: «Voi morirete nei vostri peccati se non credete che Io sono» (8, 25). E Savonarola ha ben capito quanto subito dopo Gesù afferma: «La Verità vi farà liberi». Poiché la Verità è Lui, Via e Vita.
Qui, o Torinesi, «si parrà la vostra nobilitate». L’ottavo giorno della creazione è in atto tra le scene di cartone del tempo che passa. Questa è l’ultima lezione di Savonarola e che la Scuola di Torino tramanda: l’operosa attesa di Gesù che torna sulle nubi del cielo «per fare nuove tutte le cose» (Apoc. 21, 5).
p. Giacinto Arturo Scaltriti o.p.
1. Paolo Luotto fu il primo che mise in evidenza come papa Alessandro VI Borgia legittimasse, una volta per tutte, la posizione giuridica di Savonarola, con il breve del 16 ottobre 1495. Con questo breve il Papa accettava le ragioni che Savonarola gli aveva esposte in una lunga lettera del 19 settembre antecedente, e deponeva un piano di verifiche, al quale Savonarola si sottomise umilmente, e che al fine diedero piena ragione al Frate.
2. Dal carteggio e dai documenti collaterali raccolti e commentati da padre Pera, risultano con chiarezza due verità capitali: a) Savonarola non ha mai disobbedito al Papa e ai suoi Superiori, perché aveva il diritto e anche il dovere di sospendere l’esecuzione degli ordini ricevuti – il che è diverso dal disobbedire – specialmente in forza dell’epicheia che San Tommaso – citato alla lettera da Savonarola – definisce «la norma superiore degli atti umani». Quindi non è una scappatoia o un cavillo, ma la controfirma della solennità del diritto. b) La scomunica di Savonarola è un falso, e un falso in atto pubblico, stilato da un falsario di professione, per conto di una banda di criminali capeggiati da Cesare Borgia. Papa Alessandro VI, che era il padre carnale di Cesare, divenne del tutto succube di costui e lo seguì in tutti i suoi misfatti (Pastor, citato nel lavoro d’Oropa).
3. Ancora merito di Paolo Luotto, seguito in profondità da p. Pera, è l’avere rilevato come Alessandro VI, nonostante tutto, fosse costantemente guidato da una certa attenzione verso Savonarola, apprezzandone l’intelligenza, sospettandone la santità subendone il carisma profetico. 4. Con tutto ciò la Scuola di Torino non ha voluto minimamente mutare o anche solo mitigare il severo giudizio che la Storia ha proferito circa il pontificato di papa Alessandro VI Borgia. Anzi, la Scuola di Torino ha messo dolorosamente in evidenza altre colpe, le più gravi dal punto di vista pastorale, che il Pastor volutamente ignora o su cui astutamente sorvola, venendo meno alla conclamata oggettività scientifica; e cioè ben tre divorzi concessi indebitamente da Alessandro VI per puri motivi politici e di potere: a sua figlia Lucrezia Borgia, al re di
Francia Luigi XII di Valois, al re di Boemia e d’Ungheria Ladislao; e l’assassinio di Alfonso d’Aragona, erede al trono di Napoli, non essendo possibile un quarto divorzio, del principe stesso ancora da Lucrezia Borgia (G. A. Scaltriti, Luci e ombre del Quattrocento, Editore Fiory, Napoli, 1983, capp. VII, VIII, IX, X).
5. La Scuola di Torino ha scoperto e messo in evidenza il nesso che esiste tra Maestro Eckhart e Savonarola. Entrambi pervenuti nella linea autentica di San Tommaso d’Aquino e tutti e tre quali veri discepoli di San Domenico che non parlava se non «o con Dio o di Dio»: il famoso Dio di Eckhart, il solo esistente, nella speculazione apofantica; e il non meno famoso Dio di Savonarola, il solo esistente nell’azione teopatica. Il tutto scientificamente provato, con testi alla mano, autenticati, per così dire, da testi identici di Santa Caterina da Siena, loro sorella in bianco e nero, la quale si inserisce storicamente tra i due, come l’altra anima di colui che Essa chiamava con incomparabile dizione «il dolce Spagnolo nostro», vale a dire il “suo” San Domenico di Spagna.
6. La Scuola savonaroliana di Torino ha pure messo in evidenza come Savonarola sia il termine d’arrivo di quella che può ben definirsi la pre-riforma cattolica, rimasta poi bloccata e infine dimenticata, per due motivi precipui: a) L’improvviso cataclisma del protestantesimo – non improvviso per Savonarola, – e l’altrettanto rapido dilagare del neo-paganesimo. La Chiesa si trovò in salita e dovette cambiare marcia. Però da allora in poi, si parlò soltanto più di controriforma, fino al Vaticano II. b) I1 soffocamento, con il martirio, della fastidiosa voce del profeta Savonarola, sicché quanto egli andava predicando, affinché si compisse nella Chiesa, fu realizzato da Lutero, con mille ragioni, ma con un solo torto, quello cioè di mettersi fuori della Chiesa.
7. Il Profeta, nel senso cattolico del termine, ha il compito di richiamare concretamente al fine ultimo della salvezza universale gli atti degli uomini, vale a dire la Storia, di cui pertanto il Profeta ha coscienza migliore che qualunque altro. P. Pera ha messo particolarmente in evidenza questo punto da cui deriva l’intuizione profetica dello Stato popolare. La Scuola di Torino ha sottolineato tale aspetto, preceduta in questo da Massimo d’Azeglio, nel suo Niccolòde’Lapi, tanto ammirato da Giuseppe Mazzini.
Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 27-32.