PICCOLO-BUFALINO, due scrittori esaminati dai critici Tedesco e Zago

Natale Tedesco Lucio Piccolo, Marina di Patti Ed. Pungitopo.

Nunzio Zago

 Gesualdo Bufalino, Marina di Patti, Ed. Pungitopo. Molto interessante, nel panorama editoriale italiano contemporaneo, ci appare l’iniziativa della casa editrice «Pungitopo» di Marina di Patti (Me). Ci riferiamo ai tascabili di colore blu, intitolati «La figura e l’opera» che presentano, di volta in volta, narratori e poeti siciliani del Novecento, inquadrati in uno studio critico da parte di valenti studiosi ed accademici illustri. La pubblicazione dei tascabili ha cadenza trimestrale e, fino ad ora, sono stati dedicati, tra gli ultimi mesi del 1986 ed il 1987, a Pirandello, Sciascia, Piccolo e Bufalino. In questa sede vogliamo occuparci degli ultimi due che, fra l’altro, sono i più recenti. Di Piccolo si occupa Natale Tedesco. dell’Università di Palermo, con un lavoro scrupoloso e di indubbio valore scientifico, dove viene messo insieme un puzzle singolare e prezioso. Nella parte specificatamente critica ne delinea l’itinerario artistico, sottolineando la sostanziale incomprensione, nei riguardi della sua poesia, da parte degli addetti ai lavori, ancora legati al neorealismo. Non fu apprezzato molto, all’epoca, il taglio astratto delle liriche del poeta di Capo d’Orlando, malgrado l’avallo e l’appoggio di Eugenio Montale. Tedesco fa passare in secondo piano l’invenzione barocca di Piccolo, per sottolinearne l’interrogazione esistenziale riguardo al sentimento del dolore della vita. Azzarda anche l’ipotesi delle influenze che può aver esercitato su di lui da parte del secentista siculo-spagnolo Simone Rao. Afferma che l’invenzione barocca è soprattutto letteraria, facendo notare i vocaboli di uso antico e di ascendenza spagnola che s’inseriscono nella tradizione del simbolismo occidentale europeo. Viene anche sottolineata la floralogia del mondo provinciale messinese, che s’intravede anche in Quasimodo, in Cattafi, in Cardile, in Joppolo e, più tardi, nei D’Arrigo e nei Consolo. «La voce di Piccolo, senza perdere la sua estranea e cosmopolitica esotericità» scrive Tedesco «ne guadagna altresì una più domestica, nativa e primigenia. Insomma la ‘provincia’ messinese non è stata una dispersione per Piccolo, ma un acquisto duraturo». Dopo aver esaminato cronologicamente la bio-bibliografia di Piccolo, Tedesco si sofferma sul volume «La seta», edito da Scheiwiller nel 1984, che raccoglie 32 poesie inedite, dove il poeta si muove in «una sorta di naturalismo interiorizzato tra realtà e sogno, tra luce ed ombre». Segue una scelta antologica, molto accurata, fra cui due brani in prosa, apparsi nei numeri 3 e 4 della rivista «Galleria» del 1979. Il volume dedicato a Bufalino è curato da Nunzio Zago, dell’Università di Catania, anch’egli nativo di Comiso, come il narratore, che ha al suo attivo un interessante studio su Tomasi di Lampedusa, pubblicato dalle edizioni Sellerio, qualche anno fa. La vita e il pensiero di Bufalino vengono tracciati con acutezza,mentre vengono messe in evidenza le tappe principali della sua affermazione, avvenuta in tempi relativamente recenti, ma che lo fa considerare tra le personalità più rimarchevoli della nostra epoca. Si tratta di un’intervista ideale, seguita da una sapida antologia, nella quale, in un suggestivo identikit, viene ricostruito il ritratto interiore dello scrittore. Zago ha consultato tutte le fonti, giungendo a focalizzare i vari nuclei attorno ai quali si dipana la vicenda esistenziale di Bufalino in una biografia che, gettando un occhio indiscreto, quasi in chiave psicanalitica, riesce a darci una misura dello scrittore, in un contesto ritrattistico e narrativo. L’analisi risulta estremamente lucida, mentre è molto originale nel suo svolgimento. L’esperienza artistica dello scrittore viene ripercorsa con discrezione e partecipazione mentre, oltre alla guida per la comprensione dei testi, il lavoro si configura come un importante contributo critico, denso di concetti. Forte di una sonda critica, antropologica e letteraria, lo studioso ci porta a considerare come lo snodarsi dell’attività di Bufalino abbia origine e motivazione in una improrogabile e incessante vocazione alla comunicazione letteraria, come luogo privilegiato dell’esprimersi. Pregio di questo volume è l’aver inquadrato l’esperienza artistica dello scrittore in continua interazione con le ragioni più profonde della sua autobiografia, sublimate e trasferite nella pagina scritta da una mente fra le più sofferte e le più creative del nostro tempo.

Emanuele Schembari

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 65-67.




Nicola Lo Bianco, Rapsodia del centro storico, Borgonuovosud, Palermo, 1989, pagg. 56.

Prima raccolta di versi di Nicola Lo Bianco, insegnante di materie letterarie al Liceo Classico di Termini Imerese, con varie esperienze in campo teatrale e con varie opere messe in scena. Si tratta di eventi non collegati a fatti usuali e letterari dietro ai quali c’è la Palermo dello Zen, dei baraccati, dei transessuali, la mancanza di contatti umani e la dispersione dilagante del dramma dell’uomo contemporaneo. Rappresenta un tragitto commovente, vissuto, nei cui versi è trasferita la tensione tipica della poesia dialettale. ?Lo Bianco individua una sua precisa identità, sia umana che letteraria, innescandola nelle matrici di una cultura popolare capace di necessarie acquisizioni e di scrollamenti». Questo è quanto scrive il critico Francesco Carbone, del Centro Studi Ricerca e Documentazione «Godranopoli?. Infatti viene sottolineata, in questa poesia, dura, narrativa, dall’andamento poematico, l’attualità dei motivi sensibilmente tesi ad interpretare la tragedia spirituale dell’uomo di oggi, travolto da un’egoistica rabbia e distrutto dalle contraddizioni e dallo scontro fra la società dei consumi e l’individuo, a livello problematico. Il poeta, in questa sua prima opera, dimostra una personale visione delle cose, apparendo come il disilluso personaggio che può interpretare la quotidianità contemporanea.

E. Schembari

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pag. 64.




Mario Mazzantini, Attraversare i binari, Edizioni Rari Nantes, Roma, 1989, pagg. 120. 

 Poesia insolita (come è, da sempre, la poesia ad alto livello) quella del toscano, ma residente a Roma, Mario Mazzantini. Si tratta di un atto di pura creatività dove emergono le contraddizioni di un mondo oscillante fra il reale e l’immaginario, carico di incognite e di stupori, ma sempre controllato dall’intelligenza. 

Si sottolineano la labilità dei ricordi e la temporaneità dei giudizi, in un’enigmatica ambivalenza, che rappresenta una metafisica senza memoria, senza passato e senza futuro. 

Giacinto Spagnoletti, nella prefazione, accenna allo zavattini di Parliamo tanto di me o I Poveri sono matti che gli ricorda il candore di certa poesia di Mazzantini. 

Noi siamo stati colpiti, più che dalla satira di questi versi, dalla serena drammaticità. Il linguaggio, infatti, ha la stessa semplicità strutturale di quello di Kafka ed il verso viene trascinato sul filo del provvisorio, dentro il confine del probabile. Ma Mazzantini (che ha la particolarità di sistemare i titoli di ogni poesia alla fine e non all’inizio) sorride su un fondo amaro, come se fosse consapevole dell’inutilità di qualunque sforzo. 

E. Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 64-65.




Angelo Scandurra, Vivere la parola (Pref. di C. Muscetta), Bonanno Editore, Catania, 1989, pagg. 140. 

 Angelo Scandurra, bibliotecario presso il comune di Valverde, poeta, editore, saggista, ha avuto una serie di esperienze in campo artistico e letterario ed ora ha pubblicato un originale libro di interviste. 

Al suo attivo ci sono, infatti, due libri di versi (Proposta per incorniciare il vuoto, 1979 e Fuori delle mura, 1983), un saggio storico (Valverde un comune dalla leggenda alla storia, 1977) e un testo teatrale (Evoluzioni di una metamoryosi, 1978); ha fondato il «Gruppo Teatro Nuovo di Valverde» e la rivista letteraria «Il girasole»; 

ha dato vita a «Il Girasole Edizioni», dove ha pubblicato opere di saggistica, di poesia e di narrativa, gli ultimi dei quali di Luigi Compagnone e di Luca Canali. 

Questa sua ultima opera, Vivere la parola, è strutturata in una serie di interviste, effettuate fra il 1981 e il 1987, rivolte ad alcuni fra i maggiori personaggi della nostra epoca. Si tratta di un tentativo di portare avanti un discorso nuovo che, all’informazione rapida ed essenziale, associ una documentazione dei fatti, inquadrati in una problematica storica, tale da suggerire spunti per una personale rimeditazione degli argomenti trattati. Il dialogo si trasforma, quindi, in contenitore di sogni, dove, alcune fra le persone più rappresentative e note del nostro tempo, traggono le conclusioni sulla propria vita, sul proprio lavoro ma, soprattutto, sull’eterno contrasto fra i due aspetti della stessa medaglia: la vita e la morte. 

Vengono così intervistati poeti come Léopold Senghor, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Dario Bellezza, Nelo Risi, Emilio Isgrò: scrittori come Cesare Zavattini, Fortunato Pasqualino, Leonardo Sciascia, Enzo Siciliano, Antonio Aniante, Eduardo De Filippo, Giorgio Saviane, Luca Canali, Giuseppe Bonaviri: registi cinematografici come Michelangelo Antonioni e i fratelli Taviani: registi teatrali come Giorgio Strehler, Orazio Costa, Tino Schirinzi: attori come Valeria Moriconi, Glauco Mauri, i fratelli Maggio, Salvo Randone, Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi; cantanti come Giuseppe Di Stefano e Maria Carta, cantautori come Gino Paoli ed Enzo Iannacci e uno scienziato come Norberto Bobbio. 

In Vivere la parola il gioco della scrittura unifica tutto. La raffinatezza tecnico-stilistico-strutturale delle domande penetra nei personaggi, cercando di comprenderli e di giustificarli dall’interno. Ed ognuno riesce ad essere autenticamente se stesso (cosa abbastanza difficile per persone che, in ogni caso, interpretano un ruolo, nella vita). 

Molto originale la prefazione di Carlo Muscetta, in forma d’intervista, il quale afferma, fra l’altro: «Il genere dell’intervista non è nuovo, ma non a caso oggi ha una particolare fortuna dovuta alla prevalenza della cultura orale. Ovviamente in televisione siamo abituati alla banalizzazione di questo genere… Tu come intervistatore» scrive, rivolto a Scandurra, naturalmente, «hai una problematica fondamentalmente esistenziale, per cui consideri importante la risposta quale che sia l’attività culturale, la minore o maggiore rappresentatività storico-sociale dell’intervistato… La tua amorosa provocazione ha una ‘ingenuità’ specchiante, da cui l’animo dell’intervistato viene fuori nella sua autenticità o nella sua artificiosità. Perciò queste interviste hanno tutte un valore ‘storico’, che non potrà essere trascurato da chiunque abbia curiosità di conoscere più a fondo questi protagonisti della nostra vita culturale». 

Emanuele Schembari 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 65-66.




Serena La Scola. Un dolore oltre lo specchio

Un viaggio nei labirinti dell’inconscio, un richiamo alle dimensioni immaginarie del sogno, uno sguardo al dolore e alle malinconie di una artista. Non sempre le parole riescono a comunicare stati d’animo; spesso occorre un lessico parallelo dove segni, colori, luci, ombre, volti, sono note di uno spartito più complesso. Le barriere dello spirito cedono, anche per pochi istanti, e visioni enigmatiche affiorano da sentieri nascosti per creare un cosmo pittorico misterioso e affascinante. 

Per Serena La Scola, dipingere è una urgenza inspiegabile, una continua ricerca della propria essenza, un eterno immaginare dove le angosce di una coscienza lacerata si trasfigurano in donne provenienti da universi lontani. L’artista racconta percezioni emotive proiettate oltre il contingente, traccia spazi irreali e interpreta lo smarrimento dell’io in figure immobili, imperturbabili. E nell’intima coesione tra contenuto e forma, emozione ed espressione, sensazione e figurazione, dà sostanza visibile a pensieri e ricordi, nella tensione simultanea di mano, cuore e mente. E lo fa con maestria su tela, su legno e su ceramica. 

Come automatismi dettati da sconosciute risonanze poetiche, le donne di Serena La Scola, messaggere elusive e inafferrabili, emergono magicamente da condizioni metafisiche e atemporali, dove materia, luce e colore diventano elegie di un sapiente alchimista. Euridice, Penelope, Persefone, Ester, Ottavia, Lucia … scaturiscono da memorie mitologiche, esoteriche e sacre, secondo dialetti che interiori, proiettate in orizzonti infiniti. 

Euridice vive di sospensioni nostalgiche, incantata in un oblio onirico. Il dipinto è un inno al colore e si perde nell’annuncio di una luminosità che non annulla i tratti di una presenza-concreta. Se Euridice sogna in un incanto di luce dorata, Penelope tesse la sua tela e pensa al suo amore lontano. Il capo leggermente inclinato, gli occhi socchiusi evocano il sapore dei ricordi in un universo quasi insondabile. L’azzurro modula le profondità del mare, brilla nel manto pittorico e si trasforma in materia fluida e pulsante. 

Complesse atmosfere segniche-gestuali descrivono il mondo delle eroine bibliche, visioni interiori evocate in luoghi pittorici percorsi da un’ agitazione estrema. 

L’artista studia la matericità del colore, ne afferma le innumerevoli potenzialità espressi ve concentrando l’attenzione sull’energia interna delle tinte. Giuditta è la proiezione di un animo inquieto, di una forza trattenuta ma pronta ad esplodere in pennellate e rivoli rossi che precipitano verso il basso. Le tonalità giallo-arancio vivono dei loro accenti più profondi in contrasto con strutture nere indipendenti, che come lame squarciano la tela. Ester ci fissa da uno sfondo popolato di gesti allargati e respiri immensi. Uno spazio frammentato in cui le ombre divengono elementi dominanti, e il blu esprime un’inedita tensione formale nella percezione di un colore drammatico. 

L’artista dipinge poesie come echi materializzati di una coscienza percepita come espressione di un sentimento poetico. Ci conduce negli spazi siderali del mito e del sacro, ma ci immerge anche In un buio labirinto, olio su tela, 2008 nei recessi più nascosti della psiche. Solitudini non confessate prendono forma negli specchi «melanconici» di Ottavia, Lucia, Melanconia. Le prigioni dell’io sono evocazioni di silenzi strazianti. Ottavia dissolve suggestioni struggenti nei ricordi di un amore appena perduto. Come un viandante solitario, identifica una visione tormentata, in un sintetismo di cromie viola, nella sagoma del corpo come proiezioni notturne dei propri conflitti. In una simbiosi diretta tra intuizione e realizzazione, Serena La Scola, avvinta dai continui naufragi dell’essere, sa dare linfa vitale alle espressioni simultanee del suo labirinto emotivo, tradotto in scelte estetiche precise e dense di poesia. 

Silvia Scarpulla

 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 52-53.




 L’arte di Serena La Scola dall’informale alla forma(*)

Solitudine, tormento, ma anche luce e speranza investono il diario pittorico di Serena La Scola. Una forza espressiva e un carattere misterioso sono i segni di un’urgenza comunicativa che obbedisce a sollecitazioni profonde. L’ inquieta visione dell’uomo e del mondo inducono l’ artista a intraprendere i sentieri dell’informale e del ritorno alla forma. La ricerca dell’ identità, la riflessione e la contemplazione di spazi interiori si traducono in immagini provenienti da mondi sconosciuti materializzatisi sulla tela. 

II suo racconto non è di facile interpretazione. La prima produzione è debitrice di soluzioni provenienti dallo studio di Kandiskij, di Klein, dell ‘ espressionismo astratto, approfondite dalla conoscenza delle dottrine alchemiche e mistico-filosofiche. Sfumature infinite, e simboli arcani fanno percepire in segreto una perenne conflittualità. Tonalità aggressive ed esasperate rivelano una capacità introspettiva affidata a violenti colpi di spatola e di pennello. Cromie intense e atmosfere surreali esprimono una energia percorsa da un sottile onirismo evocativo che si espande oltre lo spazio fisico della tela. 

Opere come L’abbraccio di Selene, Il sonno di Artemide, o Immersione, percorse dalla forte intersezione di zone di colore contrastanti, lievitano in luci trasfigurate, sebbene il legame con la realtà sia espresso dal segno rivelatore di sensazioni, ricordi, dolori. Spesso tale segno è immerso in profondità subacquee come Nilo Bianco, nei rossi di Mabulag, o nelle zone oscure de Lalbero, unite a un profondo sentimento religioso. Fermentazione n. 1 e Fermentazione n. 2, o Axis Mundi sono paesaggi interiori dilatati in un continuum senza confini. Sono visioni astratte che racchiudono una nostalgia ed uno stato individuale tra emozione ed espressione. Le opere in genere, intrise di macchie e di segni graffianti, si svelano in un lessico poco comprensibile, ma sicuramente sensuale e affascinante. 

Serena La Scola fa emergere la voce dell’ anima attraverso una libertà formale che si esprime in un abbandono dello spirito. La pittura diventa realtà parallela in cui rifugiarsi e i colori si fanno strumenti di comunicazione in grado di sostituire qualsiasi verbo. 

Sebbene con l’adesione a poetiche informai i abbia raggiunto una propria maturità stilistica, avverte l’urgenza di mettersi in discussione. Sente il bisogno di rinnovare il proprio linguaggio muovendo da una necessità interiore. 

I dipinti a carattere religioso vivono di intense pulsioni cromatiche tra il dilatarsi delle masse e l’impulsività del gesto: la Pietà e l’Albero descrivono lo strazio, la desolazione di un’umanità dimenticata da Dio. Il linguaggio di simboli attinti dall’universo alchemico della qàbbala, illumina e oscura, proiettando se stessa in una scrittura ermetica, in cui atmosfere laceranti aumentano un’implicita solitudine non confessata ma rivelata da tonalità buie e gesti sofferti. 

Serena La Scola conferisce un senso di assoluto, attraverso un ritmo fatto di scatti, pause, divagazioni. Così In altro luogo, Oltre ogni tempo e L’amor che move sono il canto di un’anima, sentimento lirico che tende all’infinito. Dal 2004 l’itinerario creati vo dell’artista prosegue il suo viaggio nell’intimo dell’essere, apre lo scrigno segreto delle sue emozioni e svela una nuova carica, creando inediti luoghi pittorici, specie quando si concentra sull’universo femminile: donne come Ottavia e Lucia sono figure di un universo emarginato, ricoperto da cupe atmosfere. 

Numerosi volti sembrano provenire da lontananze misteriose e gli occhi scrutatori, come animati da uno spirito profetico, cercano oltre il limite fisico della tela o del foglio. L’occhio, strumento della vista, ma allo stesso tempo simbolo di capacità spirituale, è il legame con la realtà umana. I ritratti sono spesso icone malinconiche chiuse tra invisibili pareti di solitudine e di smarrimento. Sono figure eteree, la cui bellezza immersa nel silenzio è come sospesa in una dimensione onirica, tra tormento ed estasi. 

L’artista adesso libera l’azione pittorica, e si inoltra nelle sfere intime dell’anima, da cui emergono presenze che si frappongono fra il momento dell’ispirazione e la trasposizione in immagini. Essa, attraverso i viaggi nell’astratto e il ritorno alla forma, racchiude la propria condizione esistenziale in una sintesi di esperienza creativa ed umana. Scrive la sua storia per mezzo di una pittura che sa rinnovarsi nel tempo, divenendo metafora della propria esistenza. Notevole la sua sensibilità creativa nel design di manifesti artistici. 

Serena La Scola, presente nel panorama artistico da vent’anni, ha partecipato ad importanti rassegne d’arte. Nel 1999 si è aggiudicata il primo premio di pittura della Galleria Civica di Monreale. 

Sue opere sono esposte in permanenza alla Biennale d’Arte Sacra contemporanea di San Gabriele – Teramo. 

Silvia Scarpulla 

(*)ROSARIA SERENA LA SCOLA, pittrice e ceramista, nata a Palermo nel 1954, diplomata in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, insegna Arte e Immagine nelle scuole medie statali. Artista apprezzata dalla critica, tiene corsi di aggiornamento in pittura e ceramica e partecipa, come docente, a corsi di perfezionamento in Arte per la liturgia, a cura della Fondazione Stauròs Italiana, San Gabriele (Teramo).

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 42-43.




M. Caruso, L’ascensore di Cartesio, Mazara del Vallo,1996, pagg. 78.

Questo secondo romanzo, L’ascensore di Cartesio, rivela la tendenza dell’Autore ad approfondire l’indagine filosofica volta anche qui alla ricerca affannosa della verità. 

In questa ricerca il lettore talvolta è disorientato e non riesce a distinguere la realtà vera da quella virtuale.È, per fortuna, uno sbandamento momentaneo e serve, anzi, da stimolo alla verità; è uno sbandamento che rivela l’ansia eterna dell’uomo verso quella verità che è solo capace di fugare ogni dubbio e ogni incertezza. 

Ma la via che conduce ad essa è difficile: «Avevo avuto la presunzione di uscire dal dubbio e conquistare la verità con le mie sole forze. Ero sprofondato nell’inganno». Cosi fa dire l’Autore al protagonista, dimostrando ancora una volta che, nonostante il progresso della scienza, i dubbi permangono e l’uomo può solamente tentare di pervenire alla conquista della verità. 

Spesso, però, in questa ricerca rimane deluso ed insieme illuso: «Ricordo il tepore di un letto, l’odore delle piume del mio cuscino e… un profumo di maiale arrosto. Chissà chi lo stesse cucinando!» 

Ricompare il dubbio, ma è proprio questo dubbio che mette in moto quel meccanismo che ci induce a far di tutto per risolverlo. 

Antonella Scardino

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 41-43.




M. Caruso, Il balcone del professor Agostino Vicoplato, Mazara del Vallo, 1995, pagg. 111.

Il balcone del professor Agostino Vicoplato colpisce il lettore soprattutto per l’attualità della tematica affrontata, in quanto tutti, come Agostino Vicoplato, potremmo essere « vittime delle circostanze ». 

Molto valido il messaggio. Il libro vuole indurre a non lasciarci influenzare dai pregiudizi, a non giudicare il prossimo dai “si dice”, ma andare al di là delle apparenze per tentare di conoscere la verità. E anche se essa è triste ed amara, non è compito nostro giudicare o emarginare con un « non è dei nostri», come avviene a scapito del protagonista di questo romanzo. Nostro dovere è approfondire, scavare nell’animo per tentare di capire le motivazioni dell’agire. 

Un messaggio, a nostro parere, carico di ottimismo, perché, nonostante tutto, nonostante le disavventure, di cui si può essere vittime, affiora sempre la speranza che prima o poi spunterà il sole, riempirà tutto il balcone e Agostino potrà finalmente essere riconosciuto per quello che è e come noi vogliamo sia l’uomo. 

Antonella Scardino

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pag. 41.




Savonarola e la Scuola di Torino 

Il prof. Rizza del Liceo «Mazzantini » di Torino ha scritto un libro, in collaborazione con Augusto Del Noce, Una possibile letteratura alternativa della cultura di Torino (1985), in cui trae delle conclusioni con il seguente allarme interrogativo: «Torino è morta? Torino non ha più speranza, come è accaduto ad alcuni dei suoi vecchi maestri ?». Il prof. Rizza risponde: «Forse no, se Torino ricorderà e farà tesoro delle parole che S. Agostino rivolgeva, in un’epoca altrettanto angosciosa, ai Romani che piangevano sulla loro città distrutta, sulla fine del loro mondo antico». 

Il testo di S. Agostino è il seguente. 

«Forse Roma non andrà in rovina, forse Roma è stata soltanto flagellata, non uccisa; forse è stata soltanto castigata, non distrutta. Forse non andrà in rovina, se non rovineranno i Romani. I Romani infatti non andranno in rovina se loderanno Dio; andranno in rovina se bestemmieranno Dio. Poiché che cosa è Roma, se non i Romani?». E, applicandolo a Torino, il prof. Rizza dice: «Forse forse Torino non andrà in rovina se non andranno in rovina i Torinesi; perché che cosa è Torino, se non i Torinesi?». 

Roma poi non morì come si vede. E non morì non solo perché divenne la sede indefettibile del “maggior Piero”, ma anche perché intorno alla sua idea – che è un’idea di Dio – si strinsero a volta a volta i suoi Santi, i suoi Martiri, i suoi Uomini migliori. Anche Torino è un’idea di Dio, che entrò in orbita appena di recente, quando divenne sede del primo Risorgimento in funzione dell’unità d’Italia, e da stella potrebbe diventare un sole, come sede del secondo Risorgimento in funzione dell’unità europea: dall’URSS al Commonwealth Britannico alla Quarta Sponda africana. 

Ora io sono qui per dare il mio contributo, il quale si chiama Savonarola. Non un Savonarola da strapazzo, s’intende; e neppure soltanto il grande Savonarola emerso dalle classiche biografie del napoletano Pasquale Villari, del bavarese Giuseppe Schnitzer, del fiorentino Roberto Ridolfi, con la magistrale integrazione critico-biografica del palermitano Mario Ferrara; e neppure ancora il Savonarola che si svela dalla sua Opera Omnia che possediamo ormai in splendida Edizione Nazionale critica di 25 volumi, grazie ai Laici di Firenze, capeggiati da Giovanni Papini e da Giorgio La Pira. 

Il mio Savonarola è in sopra più quello cioè letteralmente scoperto da coloro che nel complesso chiamerò la Scuola di Torino. Una Scuola senza edificio, di soli peripatetici, con una tradizione però secolare alle spalle, che risale ai tempi stessi del Savonarola, come ho illustrato in mio recente articolo Savonarola nella tradizione dei Domenicani di Piemonte e Liguria, in “Palestra del Clero”, Rovigo, agosto 1985, nn. 15/16. La quale Scuola presenta, ovviamente come tutti, il Savonarola nato in questo mondo a Ferrara, e per il cielo a Firenze, tra i bagliori del martirio; ma presenta, in più il Savonarola che va trovando, oggi, pienezza storica qui a Torino: in questa Torino il cui fondamento remoto è il culto del toro Apis degli antichi Egizi, e il cui orizzonte prossimo è l’inizio del Terzo Millennio cristiano. 

Tale Millennio inizierà con il solenne giubileo già indetto da papa Giovanni Paolo II con l’Enciclica sullo Spirito Santo Dominum et vivificantem, e avrà come preludio il V Centenario della morte di Girolamo Savonarola e dei suoi due Compagni Martiri, addì 23 maggio 1998. L’attesa è grande per entrambi gli eventi che la Provvidenza sembra avere così abbinati. 

Questa Scuola di Torino ha avuto un precursore e un maestro. Il precursore è il prof. Paolo Luotto di Villafranca d’Asti (1855), il maestro p. Pera dei Domenicani di Torino, nato a Pietrasanta (1889). 

Paolo Luotto, professore di lettere e filosofia nei licei classici, scrisse un grosso volume il cui titolo dice tutto: Il vero Savonarola e il Savonarola di L. Pastor (1887). Tracciò il solco e gettò la prima semente. Morì a soli 42 anni, pianto dai suoi colleghi, specialmente dal fraterno amico Salvemini, vero eroe della causa per la quale diede la vita per l’enorme dispendio di energie profuso oltre gli impegni di scuola e di famiglia. 

P. Pera può essere definito l’Aristotele della Scuola peripatetica savonaroliana di Torino. Apprezzato personalmente da papa Paolo VI Montini, p. Pera è passato alla storia con un suo modesto studio sull’identità di Dionigi il Mistico e Dionigi Aeropagita la quale significherebbe il nodo tra la patristica greca e quella latina e la vera chiave della sintesi di San Tommaso d’Aquino che la Chiesa ha eletto a suo Dottore ufficiale. 

Portando a maturazione le idee del Luotto, p. Pera diede una dimostrazione magistrale pubblicando il carteggio intercorso tra papa Alessandro VI Borgia e Savonarola, commentandolo con “postille”, come egli volle chiamarle, ma che in verità sono squarci teologici, giuridici e storici di incomparabile sapienza. Il suo lavoro comparve in una magnifica edizione curata dall’Accademia d’Oropa nel 1950, con la cornice di validi collaboratori quali il presidente del sodalizio dr.Venanzio Sella, il prof. Serafino Dezani dell’Università di Torino, mons. Luigi Quaglia, promotore di Giustizia nell’arcidiocesi torinese, lo stesso cardinale Fossati, arcivescovo che volle tenere a battesimo tale impresa con una pubblica lettera che figura in appendice del volume. 

Le idee “nuove” che la Scuola di Torino ha portato avanti a raggiera, durante e dopo la morte di p. Pera, sono almeno 7, come i sette doni dello Spirito Santo. Le riassumiamo per sommi capi. 

Alcune prove sono le seguenti. A metà agosto 1496, dopo la verifica promossa dal breve del 16 ottobre 1495, papa Alessandro VI offriva a Savonarola la porpora di cardinale. Non si offre la porpora a un eretico, a un disobbediente, a uno scomunicato. 

Alessandro VI protestò apertamente presso il Cardinale di Perugia, quando venne pubblicata la scomunica contro il suo consenso: «omnino praeter mentem suam». Quando Savonarola viene arrestato dagli Arrabbiati di Firenze, che s’erano impadroniti del potere con un colpo di Stato, Alessandro VI ordina ripetutamente che Savonarola gli venisse consegnato a Roma. Minaccia persino l’interdetto a Firenze. Il che vuol dire che Savonarola valeva più di Firenze, che pur da secoli era guelfa e banca del Vaticano. 

Morto Savonarola, Alessandro VI si lamentò presso il nuovo Generale dei domenicani di essere stato ingannato; e in un concistoro dichiarò che avrebbe volentieri iscritto fra Girolamo nell’albo dei Santi. Tutto questo è contestato, per ultimo, da Ridolfi; ma la Scuola di Torino ha risposto per le rime (G. A. Scaltriti, Papa Alessandro VI Borgia, in “Palestra del Clero”, Rovigo, 1984, nn. 13/14). 

Non deve sfuggire l’enorme importanza culturale dei rilevati rapporti tomisti, eckhartiani, savonaroliani, 

per il pensiero del mondo occidentale contemporaneo e per l’attuale incidenza, rilevata anche da scrittori asiatici, sull’Oriente induistico e buddistico, nonché sull’Islam dei grandi mistici di Allah – “il solo Grande” – e dei determinanti commentatori di Aristotele, da Al Kindi ad Averroé «che il gran comento feo». 

In conseguenza la Scuola di Torino si è caratterizzata nel promuovere la causa di glorificazione di Savonarola e Compagni Martiri, come coronamento delle speranze accese dal Vaticano II, sostenendo altresì che da sola tale causa varrebbe più di un Concilio. In ogni caso, sarebbe l’indispensabile premessa per il nuovo Concilio, specialmente se lo si volesse tenere o a Mosca o a Tokyo o in Brasile. 

Al tempo di Savonarola era viva la disputa tra “principato” (o stato tiranno, dato anche come buon tiranno) e “governo civile” (o stato popolare, quasi che lo stato popolare, così detto, coincidesse con la civiltà; categorie che storicamente, quindi non identicamente, corrispondono alle nostre di Stato dittatoriale e di Stato democratico a suffragio universale. Peraltro, come Savonarola non è un precursore della riforma protestante, così non è un antesignano dei diritti dell’uomo, secondo la rivoluzione francese o del primato della classe operaia, secondo il marx-leninismo. 

È d’obbligo il riferimento del messaggio socio-politico-economico di Savonarola all’Apostolato dei Laici quale indicato dal Vaticano II, e alla tradizione mazziniana per quello che di meglio il grande Genovese vedeva nel cattolicesimo del Frate; e alla disputa tra monarchia e repubblica che Savonarola dirime saggiamente nel primo Trattato del Reggimento della città di Firenze, sulla trama del De regimine Principuum dell’Aquinate, indirizzato alla Regina di Cipro il cui titolo, guarda caso, era vantato dai Savoia, ai quali va il merito indiscutibile dell’unitàd’Italia, come avvertì l’Eroe dei Due Mondi. 

C’è un testo, tratto dal Trionfo della Croce di Savonarola, che per l’alta teologia cristocentrica è chiave di tutta la Storia che segretamente anima popoli e nazioni. 

«La congiunzione dell’umana natura nella persona divina è maggiore cosa che non l’unione dell’intelletto a Dio come oggetto. Perciò dopo l’incarnazione di Cristo, gli uomini cominciarono a emergere in modo più evidente e ad aspirare sempre più intensamente alla vera felicità» (Lib. III, cap.VII). 

Questo pensiero, sviluppandosi storicamente, storicizza quanto è dato di leggere nel Commento all’Etica a Nicomaco di San Tommaso, che p. Pera amava rileggere tra le righe di Savonarola. L’uomo ha un fine proprio naturale che si realizza pienamente nell’ordine civile che l’uomo deve raggiungere con scienza civile e arte civile, per usare i termini di San Tommaso, ossia con la politica la quale è scienza principalissima e, tra tutte, la più architettonica (Lib. I, cap. 2). 

La Buona Novella di Cristo dischiude il Regno dei cieli dando potestà all’uomo di divenire simile a Dio; però affinchél’uomo sia perfetto, come persona eterna, come uomo storico, come polis o come societas, secondo che si prenda il modello-atomo dei Greci o quello cosmico dei Romani. 

Sull’onda della Storia che con l’umanesimo e la rinascenza riesumava e già rilanciava tali istanze, il profeta Savonarola afferma che «lo Stato popolare è migliore d’ogni altro in Italia, massimamente se Cristo è suo capo». Perché ne consegue la libertà per tutti che vale piùdell’oro e dell’argento; la dignità cui ogni uomo, degno del nome ha diritto di essere signore nella propria città ricco del proprio lavoro, sufficiente per mantenere la propria famiglia, per coltivare le scienze e le arti, per godersi in campagna la dolce comunione dell’amicizia con gli amici del cuore. 

Questo è scritto in tutte lettere, con coerenza non inferiore al rigore di Machiavelli, nel Reggimento di Firenze, che Savonarola scrive (o abbozza) per invito della Signoria, reputando tale invito non contrario al suo ufficio sacerdotale e consonante alla carità verso la Patria (Proemio al Trattato III, cap. 2). 

Savonarola rifiuta come calunnia l’accusa di volere mettere al bando i nobili per favorire la plebe. Savonarola vuole che ognuno sia vero cristiano o almeno schietto uomo naturale e che, per il bene di tutti, chi più sa e chi più può deve servire il bene di tutti onde la libertà non sia un privi1egio, ma il bene di tutti e di ciascuno (“Scritti apologetici”, in Opera Omnia, pag. 244, lin. 15 ss). 

Nulla di utopico. Il modello civile suggerito da Savonarola venne attuato con scienza propria dai Fiorentini nel 1494, durò un decennio, finché tornò a prevalere il Principato dei Medici. Ma nel 1527, quelli che erano stati i giovani di Savonarola, ora fattisi adulti, insorsero e restaurarono lo stato popolare, nella precisa linea indicata da colui che Santa Caterina de’ Ricci, fiorentina di quella generazione, chiamava l’”invitto Martire”. Soltanto la coalizione di tutti i potenti d’Europa, stretti attorno all’imperatore Carlo V d’Asburgo, e per il tradimento di papa Clemente VI de’ Medici, la Repubblica fu soffocata nel memorabile assedio del 1530, in cui emerse la gloria di Francesco Ferrucci. 

Tutta la critica storica concorda nel riconoscere che con la fine della libertà di Firenze si spegneva la libertà d’Italia. Perciò si spiega come i patrioti più d’avanguardia del Risorgimento guardassero all’assedio di Firenze per riviverne le gesta e ravvivare nel popolo d’Italia le mai spente speranze di una resurrezione: sono i sullodati d’Azeglio e Mazzini, poi Garibaldi che definisce Savonarola «uno dei grandi benefattori dell’umanità», Niccolò Tommaseo, Pasquale Villari, Gino Capponi, il p. Curci, fondatore de “La Civiltà cattolica”. 

Quando la moderna Torino cominciò ad espandersi oltre il “pian del ferro”, ossia la ferrovia Torino-Milano che cingeva la città il Consiglio comunale diede al primo viale che così si disegnava, il nome di Francesco Ferrucci, Condottiero. Firenze ha dato il nome di Francesco Ferrucci al Lungarno; Torino gli ha fatto dono del Pian del Ferro. 

Nulla di utopico, soprattutto dalla più alta visuale della fede, quella a cui il profeta continuamente orienta gli atti umani. Quella fede che vince il mondo e arde nel cuore di chi si è fatto semplice come Dio e libero da ogni male. 

Il capitolo ottavo del Vangelo secondo San Giovanni riassume ad altissimo livello la teologia della storia che il profeta intende con questa Parola del Divino Maestro: «Voi morirete nei vostri peccati se non credete che Io sono» (8, 25). E Savonarola ha ben capito quanto subito dopo Gesù afferma: «La Verità vi farà liberi». Poiché la Verità è Lui, Via e Vita. 

Qui, o Torinesi, «si parrà la vostra nobilitate». L’ottavo giorno della creazione è in atto tra le scene di cartone del tempo che passa. Questa è l’ultima lezione di Savonarola e che la Scuola di Torino tramanda: l’operosa attesa di Gesù che torna sulle nubi del cielo «per fare nuove tutte le cose» (Apoc. 21, 5). 

p. Giacinto Arturo Scaltriti o.p. 

1. Paolo Luotto fu il primo che mise in evidenza come papa Alessandro VI Borgia legittimasse, una volta per tutte, la posizione giuridica di Savonarola, con il breve del 16 ottobre 1495. Con questo breve il Papa accettava le ragioni che Savonarola gli aveva esposte in una lunga lettera del 19 settembre antecedente, e deponeva un piano di verifiche, al quale Savonarola si sottomise umilmente, e che al fine diedero piena ragione al Frate. 
2. Dal carteggio e dai documenti collaterali raccolti e commentati da padre Pera, risultano con chiarezza due verità capitali: a) Savonarola non ha mai disobbedito al Papa e ai suoi Superiori, perché aveva il diritto e anche il dovere di sospendere l’esecuzione degli ordini ricevuti – il che è diverso dal disobbedire – specialmente in forza dell’epicheia che San Tommaso – citato alla lettera da Savonarola – definisce «la norma superiore degli atti umani». Quindi non è una scappatoia o un cavillo, ma la controfirma della solennità del diritto. b) La scomunica di Savonarola è un falso, e un falso in atto pubblico, stilato da un falsario di professione, per conto di una banda di criminali capeggiati da Cesare Borgia. Papa Alessandro VI, che era il padre carnale di Cesare, divenne del tutto succube di costui e lo seguì in tutti i suoi misfatti (Pastor, citato nel lavoro d’Oropa). 
3. Ancora merito di Paolo Luotto, seguito in profondità da p. Pera, è l’avere rilevato come Alessandro VI, nonostante tutto, fosse costantemente guidato da una certa attenzione verso Savonarola, apprezzandone l’intelligenza, sospettandone la santità subendone il carisma profetico. 4. Con tutto ciò la Scuola di Torino non ha voluto minimamente mutare o anche solo mitigare il severo giudizio che la Storia ha proferito circa il pontificato di papa Alessandro VI Borgia. Anzi, la Scuola di Torino ha messo dolorosamente in evidenza altre colpe, le più gravi dal punto di vista pastorale, che il Pastor volutamente ignora o su cui astutamente sorvola, venendo meno alla conclamata oggettività scientifica; e cioè ben tre divorzi concessi indebitamente da Alessandro VI per puri motivi politici e di potere: a sua figlia Lucrezia Borgia, al re di
Francia Luigi XII di Valois, al re di Boemia e d’Ungheria Ladislao; e l’assassinio di Alfonso d’Aragona, erede al trono di Napoli, non essendo possibile un quarto divorzio, del principe stesso ancora da Lucrezia Borgia (G. A. Scaltriti, Luci e ombre del Quattrocento, Editore Fiory, Napoli, 1983, capp. VII, VIII, IX, X). 
5. La Scuola di Torino ha scoperto e messo in evidenza il nesso che esiste tra Maestro Eckhart e Savonarola. Entrambi pervenuti nella linea autentica di San Tommaso d’Aquino e tutti e tre quali veri discepoli di San Domenico che non parlava se non «o con Dio o di Dio»: il famoso Dio di Eckhart, il solo esistente, nella speculazione apofantica; e il non meno famoso Dio di Savonarola, il solo esistente nell’azione teopatica. Il tutto scientificamente provato, con testi alla mano, autenticati, per così dire, da testi identici di Santa Caterina da Siena, loro sorella in bianco e nero, la quale si inserisce storicamente tra i due, come l’altra anima di colui che Essa chiamava con incomparabile dizione «il dolce Spagnolo nostro», vale a dire il “suo” San Domenico di Spagna. 
6. La Scuola savonaroliana di Torino ha pure messo in evidenza come Savonarola sia il termine d’arrivo di quella che può ben definirsi la pre-riforma cattolica, rimasta poi bloccata e infine dimenticata, per due motivi precipui: a) L’improvviso cataclisma del protestantesimo – non improvviso per Savonarola, – e l’altrettanto rapido dilagare del neo-paganesimo. La Chiesa si trovò in salita e dovette cambiare marcia. Però da allora in poi, si parlò soltanto più di controriforma, fino al Vaticano II. b) I1 soffocamento, con il martirio, della fastidiosa voce del profeta Savonarola, sicché quanto egli andava predicando, affinché si compisse nella Chiesa, fu realizzato da Lutero, con mille ragioni, ma con un solo torto, quello cioè di mettersi fuori della Chiesa. 
7. Il Profeta, nel senso cattolico del termine, ha il compito di richiamare concretamente al fine ultimo della salvezza universale gli atti degli uomini, vale a dire la Storia, di cui pertanto il Profeta ha coscienza migliore che qualunque altro. P. Pera ha messo particolarmente in evidenza questo punto da cui deriva l’intuizione profetica dello Stato popolare. La Scuola di Torino ha sottolineato tale aspetto, preceduta in questo da Massimo d’Azeglio, nel suo Niccolòde’Lapi, tanto ammirato da Giuseppe Mazzini. 

 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 27-32.




Riflessione sull’essere, sulla morte e sulla vita di p. Giacinto M. Scaltriti o. p.

Riflessione sull’essere, sulla morte e sulla vita

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 11-16.