Nel 1960, Pomilio così scriveva di se stesso: «Il 1953 fu per me l’anno cruciale. Ebbi preoccupazioni familiari, che mi temprarono, ma anche la fortuna di diventare intimo di Michele Prisco. Con lui, per interminabili serate, discutevo di questioni estetiche e di narrativa. E l’idea di poter contare su un vero lettore mi spinse di nuovo a tentare: la lirica dapprima (segno che ero ancora pieno di incertezze), e naturalmente a tempo perso.
Composi una raccolta, tuttora inedita. Una sera mi balenò uno spunto: l’immagine di un uccello rimasto chiuso in una cupola. In un primo momento non voleva essere più di una comparazione, l’inizio di una lirica; in un’ora di tensione febbrile mi s’arricchì di mille implicazioni e fu il punto di partenza di una trama. Scrissi il primo romanzo «L’uccello nella cupola», tra il 1° maggio e il 20 giugno 1953. L’anno dopo il libro ottenne uno dei premi Marzotto e raccolse molti elogi. Ma, tranne due o tre casi, fu guardato dall’esterno. Se ne riconoscevano i motivi poetici, ma di rado s’entrava in merito alla tematica. Il mio tentativo di fare del romanzo essenzialmente uno strumento di meditazione sull’uomo, la mia polemica implicita contro un tipo di narrativa moralmente agnostica e povera di interessi speculativi, urtava contro i clichès, nei quali in Italia sembravano essersi adagiati i gusti correnti. Tuttavia il libro finì per essere meditato e di ciò raccolsi i frutti al momento del secondo romanzo «Il testimone», scritto tra il 1954 e il 1955 e pubblicato nel 1956.
Il testimone mi nacque dalla suggestione d’un fatto di cronaca, dieci righe o poco più di una corrispondenza da Parigi e per un po’ fui incerto se documentarmi meglio o lasciar lavorare la fantasia. Prevalse quest’ultima soluzione, come prevalse il desiderio di dare più sul romanzesco, di scrivere cioè duecento pagine che si leggessero d’un fiato, senza però comportare rinunzie di fronte alle grandi domande che il tema poneva. S’è parlato, a proposito di questo libro, di varie fonti straniere. Se però si fosse tenuto conto della «Storia della Colonna infame» o meglio di quelle tre mirabili pagine introduttive dove il Manzoni parla delle passioni pervertitrici della volontà, come uniche responsabili dei «fatti atroci dell’uomo contro l’uomo», si sarebbero riconosciute le radici tipicamente italiane della mia storia parigina. Tuttavia l’opera fu apprezzata, il primo romanzo servì ad illuminare il secondo e viceversa, e si cominciò a parlare del mio come del mondo delle responsabilità. E non dico che la formula non sia giusta, purché si consideri che il tema che più mi tiene e che sta a fondamento del mio cristianesimo è quello della morte. È stato esso a dettarmi, non ne ho alcun dubbio, le più belle pagine, le prime settanta, per esempio, de «L’uccello nella cupola», le ultime settanta de «Il testimone», l’intero «Cimitero cinese», un racconto del
1957 e certi capitoli del mio ultimo lavoro «Il nuovo corso», un romanzo tra simbolo e realtà, un discorso portato sul tema della libertà, al quale è stato assegnato il premio Napoli 1959 e di cui sono in corso alcune traduzioni.
La mia poetica? È presto detto: credo nei personaggi, credo nei valori, credo al romanzo come ad uno scandaglio dell’uomo, credo che il narratore dia la misura di sé solo collocandosi al centro dell’animo dell’uomo. Le altre cose: stile compreso, sono strumenti, non fini.1
Fin qui Pomilio. Da tale presentazione di se stesso noi prendiamo le mosse, per andare oltre: per verificare fino a qual punto quelle indicazioni siano valide dopo ventidue anni; per soffermarci di più sui lavori, di cui parla brevemente l’autore; per analizzare la produzione successiva e tentare, infine, di tracciare un consuntivo dell’intera opera del narratore e della sua incidenza sulla letteratura contemporanea.
Il metodo da noi scelto, per l’indagine, è molto semplice: analisi di ogni opera (trama, forma, contenuti), per poi giungere ad un giudizio globale sulla validità, efficacia ed attualità del messaggio che il narratore intende sottolineare.
L’UCCELLO NELLA CUPOLA2
Un uomo sta morendo. Marta, la sua compagna, forse alla ricerca di eventuali giustificazioni per la propria coscienza, forse per un improvviso e inconscio bisogno di Dio, si reca in Chiesa per confessarsi. Non appare però convinta di essere in colpa. Anziché mostrare sincero pentimento, sembra cerchi conforto come vittima. Ha paura, addirittura, che il moribondo sopravviva. Non ha fatto nulla per tentare di salvarlo, ha evitato di prestare qualsiasi aiuto, perché, in fondo, desidera che egli muoia, perché non lo ama più, perché non l’ha mai amato, perché è un disgraziato, perché l’ha costretta ad uccidere il figlio che stava per nascere.
Don Giacomo, il confessore, incatenato ad una visione troppo rigida del dovere e ancora poco esperto dei profondi travagli delle anime, non riesce a comprendere la disperazione di Marta: si rifiuta di capirne le ragioni: sente soltanto che le sue colpe sono imperdonabili e la respinge, anziché aiutarla a superare le enormi difficoltà in cui si dibatte. «Voi avete fatto questo? E perché siete qui?» Marta cercava vagamente la redenzione: don Giacomo, non ritenedola capace, l’ha praticamente abbandonata al suo destino, tradendo la sua missione sacerdotale.
Di qui due esistenze tormentate. Marta, convinta ormai che si pretenda troppo da lei, che sia inutile ogni sforzo, si affida al suo istinto e alla sua fragilità, nella ricerca di qualcosa che dia un senso alla sua vita e la riscatti da umiliazioni e sconfitte subite. Crede di trovare la salvezza nell’amore di un uomo, al quale dedica tutte le energie, i sogni e in cui ripone tutte le speranze di creatura delusa. Anche questo amore si risolve ben presto in fallimento ed è la fine.
Don Giacomo, che fin dall’inizio della vicenda aveva avvertito il peso di una enorme responsabilità, è perseguitato dal rimorso di essere stato la causa della perdizione di Marta. Aveva tentato più volte di riparare in seguito, ma con l’identico risultato. La sua intransigenza aveva finito per allontanare sempre più Marta da ogni possibilità di redenzione: come l’uccello, che tenta invano di lanciarsi verso la luce e verso il sole, irrangiungibili al di là della cupola.
La trama, come si vede, è semplice, come in tutti i romanzi di Pomilio. Ciò che conta in lui è una grande capacità di indagine di stati d’animo complessi e difficili. Come conta la limpidezza dello stile, la proprietà di linguaggio, la ricchezza del vocabolario, la organicità del periodare, che indubbiamente pongono Pomilio tra i classici della letteratura.
A titolo di verifica di ciò che Pomilio diceva ventidue anni or sono di se stesso, dobbiamo dire che risulta rispettato l’assunto del romanzo come strumento di meditazione sull’uomo.
E i valori? Anch’essi sono fortemente presenti nella sua opera: l’importanza della coscienza nell’agire umano: l’amore, la comprensione e la tolleranza per le miserie dei nostri simili; l’esigenza della grazia come contrappeso alle debolezze e ai difetti degli uomini. Coscienza, amore, grazia: i tre poli, intorno a cui dovrebbe ruotare il destino di ciascuno, spesso segnato, però, dal peso di qualche realtà misteriosa e dolorosa, che solo la fede può dare la forza di accettare senza ribellione. Questa realtà, umana e religiosa insieme, Pomilio sottopone alla nostra riflessione per il tramite di un fanciullo paralitico, al quale Don Giacomo, un giorno, raccontando l’episodio biblico di Abramo, a cui sarebbe stato chiesto da Dio il sacrificio del figlio Isacco, giustificò la presunta crudeltà di Dio con l’esistenza di una prova di ubbidienza. «Solo per questo? – reagisce il bambino. Solo per questo ha voluto che Abramo soffrisse tanto? E può Dio chiederci tanto per prova? … Oh! non mi piace la vostra storia, non mi piace».
Il mistero del dolore, difficile interrogativo del mondo cristiano, viene affrontato, così, da Pomilio, in un episodio apparentemente insignificante, conpo che magistrali pennellate: un fanciullo che paga di persona non si sa perché: un’indiretta implorazione, un po’ amara, quasi ironica di giustizia: una rassegnazione sofferta a certi inspiegabili voleri della Provvidenza, che, comunque, il fanciullo non osa condannare. «E il pianto, finora trattenuto, traboccò ormai liberamente».
Quest’ultimo episodio ci offre l’occasione per mettere in risalto, pur se breve- mente, la poesia che circola in tante pagine de «L’uccello nella cupola». Le frequenti e belle similitudini, che spezzano il ragionare serrato i continui ripiegamenti delle anime sulle proprie gelose intimità: il pathos, la sofferenza, l’anelito verso il bene che, comunque, accompagna l’intera esistenza dei prota- gonisti, sono altrettante espressioni poetiche, che dimostrano l’intensa parteci-
dell’autore alle ansie delle creature della sua fantasia.
IL TESTIMONE3
Romanzo altamente drammatico. Una madre, Jeanne, incarcerata perché involontariamente coinvolta in un fatto criminoso, resta forzatamente lontana, per qualche giorno, dal suo piccolo, che rimane, perciò, abbandonato a se stesso. Il padre del piccolo, amante della donna, responsabile del fatto criminoso accennato, s’era potuto prender cura di lui soltanto per poche ore, perché ucciso, poco dopo, da un’auto, mentre tentava di sfuggire alla polizia. Soltanto a seguito della confessione di Jeanne sulle responsabilità del suo amante, il commissario Duclair acconsente che il piccolo venga condotto alla madre. Il bambino, allo stremo delle forze, non è più capace di succhiare il latte. La madre, non riuscendo, nonostante ogni tentativo, a costringere il figlio a succhiare, in un eccesso di delirio e di follia, lo strangola.
Anche in questo romanzo domina il problema del male, del peccato e della morte. A differenza, però, de «L’uccello nella cupola», dove si avverte anche la potente presenza del desiderio di riscatto, di redenzione, di fede profonda in certi valori, ne «Il testimone» non c’è posto per una quasi fatale, ostinata disperazione. Mentre, tuttavia, la donna è riscattata, in qualche misura, dal suo amore per Charles e, nonostante tutto, per il bambino e dalla stessa sua improvvisa follia, per il commissario Duclair non c’è scampo: «Annaspò follemente, con nell’animo un bisogno divorante di pietà e il senso di una miseria, che non era più solo della donna o di lui, o di essi due soltanto, ma di quanto, vivo o morto, lo circondava. Come sempre succede quando la cupa irrazionalità della vita ci si scopre nella sua interezza e nulla ci aiuta a sperare nell’esistenza d’una realtà meno assurda o quanto meno nell’opera di un volere meno cieco. Cercò di raffigurarsi una dimensione diversa, nella quale tutto quello che era accaduto potesse annullarsi e quel che la donna stava soffrendo venir consolato e quel che lui aveva fatto perdonato. Ma non ne fu capace…».
E i valori, in cui l’autore crede, dove sono andati a finire? Per contrasto essi emergono con più forza, appunto perché sottintesi, dal nudo dramma dei protagonisti: il bisogno continuo, nonostante tutto, di scavare nelle proprie responsabilità, il richiamo ad una superiore giustizia.
IL NUOVO CORSO4
«La Voce della verità», l’unico giornale autorizzato dall’unico partito al potere, un bel giorno proclama l’inizio d’un nuovo corso: l’inizio, cioè, della libertà. L’annuncio provoca le reazioni più complesse e varie: dal dubbio alla fede, dalla diffidenza all’ottimismo, dalla gioia alla delusione, all’attesa, rappresentate dall’autore con grande perizia e, cosa nuova in Pomilio, possiamo dire, con benevola ironia, che ci ricorda il Manzoni. A mano a mano, però, che la vicenda avanza, il sorriso sparisce e ricompare il dramma, forse più amaro che nelle altre opere. Il direttore del carcere che, all’annuncio del nuovo corso, aveva deciso spontaneamente di non dare esecuzione alla
condanna a morte di un recluso per ragioni politiche e che aveva profondamente gioito per aver dimostrato, così, a se stesso di sapere agire secondo coscienza, all’arrivo di un telegramma delle autorità, con il quale si chiedono assicurazioni sull’avvenuta esecuzione del condannato, trova quasi naturale, senza alcuna lotta interiore, il ritorno al rispetto della legge e si precipita a dare esecuzione alla sentenza, per timore di essere accusato di scarso senso di responsabilità.
IL CIMITERO CINESE5
Un italiano incontra una ragazza tedesca in Belgio. Fanno insieme una gita di fine settimana in Francia. Nasce una profonda simpatia, reciproca, forse l’amore. Le circostanze, però, non consentono che esso venga confidato serenamente e liberamente. La ragazza è tormentata dal ricordo dei tanti morti causati dalla guerra, per colpa dei suoi compatrioti. In quella zona di Francia c’erano, infatti, i resti di molti bunker, un cimitero di guerra francese, uno cinese. L’italiano, che avverte l’amarezza della ragazza, preferisce rispettare i suoi stati d’animo e non forzare la mano. Un bacio solo, alla fine, suggella una corrispondenza desiderata e sofferta.
Un quadro, una pennellata di sentimenti delicati e dolcissimi che, nel ricordo e nella cornice di tanti disastri, ci obbligano a riflettere come soltanto l’amore riesca a vincere la morte. Essa, presente in maniera drammatica ne «L’uccello nella cupola» e tragica ne «Il testimone» cede il posto ad uno stato d’animo di mestizia, di rassegnazione e, più che altro, al desiderio di vincere la morte stessa, con la vita e con l’amore. «E così compatto era il silenzio e così arioso e sereno nella sua purezza domenicale, da rendermi ad un tratto inverosimile il pensiero della morte o qualsiasi altro sentimento connesso a quest’idea. E tale stato d’animo mi si accentuò quando fummo alle spalle del tabernacolo, sul crinale dell’altura: di li si scorgeva il mare, o meglio, il confine tra cielo e mare assomigliante a una linea tra luce e luce: verso sud la natura digradava sfumando entro un velo lustro di caligine: sicché lassù, tra il biancore dei tulipani, si aveva come l’impressione d’essere sospesi tra due cieli: e che compassione o tristezza o smarrimento dovessero per forza lasciare il posto a una sorta di consolata e alleviata mestizia».
LA COMPROMISSIONE6
Il protagonista, Marco, professore di lettere in un liceo di provincia, alla fine della vicenda si scopre «incapace sia di rifiuti che di certezze». È il succo morale del romanzo… Un uomo si illude di credere in qualche cosa, ma sostanzialmente non crede in niente, come a mano a mano evidenzia egli stesso, raccontando, in prima persona, una parte della sua vita. Si illude di credere, perché con facilità passa da una posizione ideale ad un’altra, senza convinzione, né per la verità che lascia, né per quella che insegue e che gli sfugge sempre. Una serie indefinita di compromessi da parte di una coscienza fiacca, incapace di scelte valide e durature, disfatta e delusa, chiusa nel proprio egoismo e nella propria aridità: così di fronte ai problemi politici, come a quelli sentimentali, religiosi, esistenziali. Non esistono ideali, valori; non esiste l’amore, Dio , il lavoro, l’umanità, la stessa soddisfazione delle esigenze naturali e vitali. Tutto è frammentario, provvisorio, occasionale; tutto passa senza lasciare un segno, una traccia, se non la consapevolezza di una universale inutilità. Non un rimpianto sincero, non un rimorso, non una aspirazione, non un atto d’amore e di abnegazione, spontaneo e senza riserve. Tutto all’insegna di un’accettazione rassegnata, anzi passiva, del destino che preme, d’una insoddisfazione sempre presente, d’una povertà di sentimenti, dello spirito di contraddizione, che impediscono al protagonista di pervenire con gioia ad una qualsiasi conquista.
IL CANE SULL’ETNA7
Raccolta di cinque racconti: Il cane sull’Etna – Il vicino – Il Nemico – Il commissario – La sentinella. Il contenuto, in generale, è sintetizzato nel sottotitolo «Frammenti di una enciclopedia del dissesto». Trattasi, infatti, di testi incentrati sulla solitudine, sulla paura, sullo smarrimento, sulla nevrosi, sulle frustrazioni dell’uomo, «avventizio dell’esistenza», «soggetto, per una specie di ironia, alle aporie del destino Carlo Bo sul «Corriere della Sera» scrisse: «Alcune delle pagine più ferme che siano state scritte negli ultimi quindici anni, ci rendono il Pomilio più autentico, quello che sa saldare la voce inquieta del nostro tempo a un racconto che ha la certezza dell’ordine classico».
Il narratore, nell’introduzione del libro, non esclude che la singolarità dei personaggi possa essere attribuita, dagli altri naturalmente, a delle esigenze sperimentali. In tale cornice i racconti si presentano come pezzi di un virtuosismo linguistico e descrittivo e come sottile scavo psicologico.
Giovanni Salucci
(*) Il saggio Mario Pomilio narratore di Giovanni Salucci, per ragioni tecniche, è stato diviso in due. La seconda parte verrà pubblicata nel prossimo numero. Lo studio, nel suo insieme, è di estremo interesse, perché scritto quando ancora non era stata pubblicata l’ultima opera di Pomilio, che ha per oggetto alcuni momenti della vita del Manzoni (a cui tra l’altro è stato assegnato il premio Strega), fa un raffronto tra Pomilio e Manzoni. E il rapporto acquista maggior valore, perché alla critica allora la cosa era quasi del tutto sfuggita.
1 Da «Ritratti su misura» a cura di Elio Filippo Accrocca – Sodalizio del Libro, Venezia 1960.
2 Ed. Bompiani – Milano 1954 (Premio Marzotto).
3 Ed. Massimo – Milano 1956 (Premio Napoli).
4 Ed. Bompiani – Milano 1959 (Premio Napoli).
5 Ed. Rizzoli – Milano 1969 (già Ed. Guanda – Parma 1958).
6 Ed. Vallecchi – Firenze 1965 (Premio Campiello).
7 Ed. Rusconi – Milano 1977 (scritto tra il 1967-68. Premio Roma Città Eterna).
Da “Spiragli”, Anno I, N. 1, 1989, pagg. 29-36