Quando l’ironia è la dimensione dell’anima 

Giorgia Stecher, Quale Nobel Bettina (Premessa di D. Bellezza), Il Vertice libri 

editrice, Palermo, 1986, pagg. 79. 

La colloquialità volutamente disadorna di Giorgia Stecher sembra nascere da impressioni casuali, il tono quasi di canzonatura nella scioltezza rapida del ritmo poetico, ma bastano pochi versi a darci il senso di un rigore mentale che ha le sue radici in una forma mentis delle più severe. 

Nulla di epidermico dunque in questo diario intimo che, forse proprio a causa della sua impietosa asciuttezza, scava fino alle radici dell’essere, sommuove emozioni memorie sentimentali che il piglio dissacrante non rende meno vivi e autentici. 

Il monologo della Stecher si dipana con una limpidezza e un nitore d’immagini quasi provocatori (una sorta d’intrepida sfida) che, a dispetto di chi non saprebbe mai approdarvi senza scadere nella più deprimente banalità, ci restituisce all’essenzialità crudele del vivere un giorno via l’altro, a una realtà spoglia di qualsiasi infingimento, dolente delle sue piaghe, specchio fedele della nostra esistenzialità difficile e amara a cui la Stecher presta sembianze ora desolate ora suadenti, nella suggestione di una narrazione fluida e serrata. Ma può accadere che la scorrevolezza del discorso si frantumi inaspettatamente con un secco e folgorante paradigma di parole, le più semplici all’apparenza, ed eccoci alla resa dei conti, squallide marionette che nessun filo regge e a cui nessuno suggerirà le battute. 

Senza parere dunque il poeta smantella le ragioni spesso risibili e meschine che si celano dietro ogni atto, ogni scelta, ogni umana piccola scelleratezza e lo fa con la forza irresistibile di un’ironia scintillante e nervosa, a cui il verso asciutto e scarno dà una quasi insostenibile evidenza. Sempre più di rado capita, in questa società fracassona e carnevalesca e con l’occhio sempre attento al botteghino, di trovarsi di fronte a una scrittura totalmente e sdegnosamente priva di allettamenti lessicali e di falsi scintillii, spietata nella sua disarmante nudità e perciò stesso carica di molteplici sensi, simile quindi a un gioiello raro che spicchi in una vetrina vuota. Una poesia insolita dunque che nel ritmo veloce e incalzante dà la misura di un itinerario mentale in cui i pensieri convergono nella loro schietta complessità dettando cifre, segni, suoni. C’è in questo straordinario tessuto narrativo (qui si raccontano i volti, i gesti, le voci, le strade, i muri, i corpi) un uso sapientissimo del verbo, mentre ben di rado la Stecher indulge all’aggettivo, quasi rifiutandovisi, con un effetto d’incredibile purezza linguistica al cui interno nulla vi è di superfluo, di lustro, di ozioso, neppure un sospetto di barocchismo poetico, neppure l’ombra di una coloritura romantica, nessuna concessione alla «bella immagine». Una poesia quindi che pur non ricorrendo ad alcun trucco intellettualistico e anzi proprio a causa della sua linearità lascia intravedere un complesso mondo di struggenti emozioni, di pensieri, di idee, di dolore. E lungo i percorsi di questa affascinante trama il poeta altro non è che un giocoliere elegante e raffinato che i fili del discorso recupera da remote distanze snodandoli e riannodandoli secondo geometrie sottili e ariose. La sua passionalità risentita, già trattenuta nella misura del verso: «Posso arrivare ad odiarti / se all’improvviso irrompi / nella mia solitudine… », si stempera nell’ironia (che, lo si è già detto, è il connotato di maggiore spicco della Stecher), in un’ironia di una qualità non sempre facile a definirsi, più vicina, spesso, a un’irrisione scanzonata o a una disperazione allegra (o allegria disperata?) piuttosto che a distaccata malinconia. 

C’è una sorta d’impetuosità nella cadenza spesso precipitosa del racconto poetico che procede – appunto – a perdifiato, adagiandosi a tratti in una musicalità dolcissima e commossa. Si legga, ad esempio, la splendida poesia dedicata alla madre, dal finale insospettatamente drammatico: «C’erano i maribù / nei miei giorni d’infanzia / voli bassi d’aigrette / e uccelli del paradiso favolosi», in cui sembrano aleggiare in una trasparenza d’acquario figure d’incantevole levità. Ma moltissime altre ve ne sarebbero da citare, nelle quali certe lampeggianti immagini ti colgono di sorpresa lasciandoti in uno stupore che è quasi stordimento: «mentre seduto in poltrona / guardi i cari parenti / cogli occhi tondi di chi / la mente tiene a parcheggio / in altri spiazzi». Qui la scelta tutt’altro che casuale di termini di uso spicciolo squarcia i veli dell’innocuità, mettendo a nudo scenari sotterranei, situazioni esistenziali note a chiunque, ma valle a dire in poesia anziché in un discorsetto volgare tra amici, senza trovarti intrappolato in forme e modi sciatti, insulsi e implausibili, specie se – appunto – non si ricorre ai rimedi ingegnosi del manipolatore di parole che crede di sistemare tutto con qualche bell’aggettivo ridondante messo al punto giusto. 

Ebbene la Stecher, con la sua «semplicità» svagata tanto da apparire casuale, illumina di bagliori incandescenti certi dettagli minimi. isolandoli in un cerchio di fiamma, con effetti a dir poco sorprendenti. Quanti altri poeti contemporanei, più o meno noti per le loro fumose acrobazie mentali, riuscirebbero a dare. magari in una sola immagine, in uno scorcio rapido, il senso dell’incombente crudeltà sottesa ad ogni evento o fatto insignificante, ad ogni più informe apparenza? 

Le poesie della Stecher, spoglie e deserte come un’alba fredda, riaccendono memorie, ridestano rimpianti e nostalgie e – strano, no? – c’inchiodano a un presente tanto più minaccioso quanto meno ne scorgiamo le insidie nel suo grigiore compatto e rassicurante. La crudeltà dunque, ci suggerisce il poeta, è nelle cose che ci guardano ferme mentre dentro di noi tutto crolla in schianti silenziosi. ma la vita continua, si capisce. anche se può accaderci di perdere qualche appuntamento: «Cosicché guardo gli altri / procedere spediti / e che bella mostra fanno / che grato tintinnio / tra il metallo cromato / nell’allegra foschia / del polverone!» 

Totale quindi è il suo disinganno di fronte al dissolversi di tutte le speranze, ma c’è come un sorriso di amaro divertimento sospeso tra rigo e rigo, quasi nulla avesse veramente importanza tranne il semplice fatto di vivere (o sopravvivere) tra mestizie e furori, disfatte e rivalse. 

Si vorrebbe aggiungere. a conclusione di queste note, che la singolarità e l’originalità di questa scrittura si trova persino nella scelta del titolo. Quale Nobel Bettina, che sottintende un lungo discorso e che si attanaglia mirabilmente, col suo sarcasmo gentile e desolato, allo stile di tutta la raccolta. 

Isabella Scalfaro 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 52-54.




 QUESTO VOLTO DI TIGRE 

O Dio, sapendo che ci sono cento 
e più bilioni di galassie in giro 
ed in ognuna 
più di cento miliardi d’altre stelle, 
come non aver fede? Ed io potrei 
spiegare un universo come questo 
fantastico, che con i suoi misteri, 
il suo linguaggio 
ed il suo modo d’essere 
va al di là dell’immaginazione? 
lo so 
che nessuno risponde al mio chiamare 
e niente 
indica che il mio grido è stato udito. 
Cerchiamo di pensare: 
nell’universo noi saremmo soli? 
Perché non c’è risposta? 
Siamo forse un errore nel progetto? 
Siamo nel gioco, o siamo di riserva 
per qualcosa più in là, 
chissà se un giorno?… 
Tu non interferisci in questa angoscia? 
O ne approfitti e stai 
a ridere di noi? Non meritiamo 
misericordia? Siamo irrimediabili 
e perduti nel tempo, nella luce, 
nell’ ombra, nelle tenebre, l’ignoto? 
Dimmi, se vero esisti, perché questa 
tua maschera di tigre non si svela 
nell’infinito dei tuoi anni-luce? 
Tu forse hai fruito 
di questo nostro dubbio secolare. 
Forse il mistero di quest’universo 
o il suo miracolo 
sarà il nostro castigo, e noi saremmo 
venuti qui dal cielo per goderci 
il privilegio di svelarlo un dì? 
Con tutto, io so che ancora 
noi non siamo nemmeno all’albeggiare 
del Paradiso in terra … 

Joao Baptista Sayeg 

«L.B .» n. 45, 2007

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 47.




 LA VITA NON È SOGNO 

Guardai il cielo quella notte e vidi 
il passato, cadevano le luci 
fredde di stelle, 
che io non so se esistano davvero 
ovvero se lì ci sia un futuro. 
È assurdo immaginare; ma per loro 
il futuro ero io, nella grandezza 
dell’universo, 
io ch’ero riuscito a intravedere 
nella distanza il tempo e la certezza 
d’una esistenza fisica/reale: 
la vita 
non può essere sogno (forse il sogno esiste?), 
tutto è reale, pure se infinito 
mistero del creato e le sue stelle … 

Joao Baptista Sayeg 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 51




VULCANO

Trasparenze smeraldine 
scendono 
in vulcano capriccioso 
risvegliano 
fumi condensati 
sapori antichi 
rapiscono 
lancette corrose 
sensi 
umano oblio 
investono 
presenze incontrollate 
universi surreali. 
Rievocano favori 
tra pareti 
di smania vissuta 
edere 
bambole incantate 
valli profumate. 

Elena Saviano

(da Trasparellze slI/eraLdille. Thule. Palermo. 2001)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 44.




VILLA INCANTATA 

La penombra 
ascolta 
sussurri di foglie stinte 
narrare 
il verde degli anni 
incamminare 
viali alberati 
all’aroma 
di glicini e roseti 
intiepidire 
spoglie animali 
nell’ abbraccio eterno 
zittire 
lo strinire di cicale 
all’ ascolto del poeta. 
La parola 
miscela 
canicola e arsura 
il Gattopardo 
riposa stanchezze scrittori e 
trachettili fatati 
addolciscono 
tele umane 
balli di gnomi 
koboldi e farfalle 
gestiscono segreti. 
La notte si sveglia 
al passare dei palesi 
Raniero, Lucio 
e Papilio 
nel cerchio di Ippocrate 
sottendono conoscenze 
sottratte all’ Ade 
cosparse come cipria 
sulla pochezza del mondo. 

Lucio Piccolo ((da Apis, Pungitopo, Marina di Patti, 2005)




IL SILENZIO DEGLI ASSENTI 

 L’edera silente 
invade orme 
cadute 
sopra carcasse d’alberi. 
Echeggia un canto. 
Compunto disumano 
in coro uguale. 
Crepaccio 
calpestato a fatica 
strada perduta 
battuta da passi impietriti 
di anime umane. 

Elena Saviano (da Un cielo che non c’è. Federico, Palermo. 2000)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 44.




BORGATA

BORGATA 

Vecchie e novelle viti 
accompagnano 
la strada antica, 
forti umili ulivi 
abbracciano il vento 
nascondono filari di palme, 
paesaggi orientali, 
casolari e bagghi. 
Odore di cespugli non ancora arsi 
di terra secca, 
pomodori messi ad asciugare, 
profumi di un tempo che mi vide 
bambina, scrigno di antiche memorie. 

Maria Pia Sammartano

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 38. 




Echi biblici in Leopardi 

 La Bibbia esercitò sempre una notevole suggestione sull’animo di Giacomo Leopardi; tale suggestione fu certo dovuta al fascino, tutto romantico, suscitato nell’animo del poeta dalla poesia primitiva. Il mito romantico della popolarità dell’arte non poteva non trovare rispondenza nel Leopardi fin dagli anni della sua fanciullezza. «Mi dicono, scriverà più tardi, che io fanciullino di tre o quattro anni stava sempre dietro a questa o a quella persona perché mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io in poco maggiore età era innamorato dei racconti e del meraviglioso che si percepisce con l’udito e con la lettura»1. Da questo gusto del meraviglioso derivò la sua consuetudine con la Bibbia che, più di tutte le grandi opere dell’antichità, stimolava la sua fantasia, colpiva la sua immaginazione di precoce poeta. «Gli episodi della storia sacra nutrivano, accanto all’anima pia, quella fantasiosa del fanciullo e trasformavano il mondo in un altare adatto ai riti dell’immaginazione»2. 

Nello Zibaldone3 il Leopardi insiste nel dire che negli anni della sua fanciullezza ebbe grande predilezione per l’immaginoso, per Omero e per la Bibbia che, «essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della verità•. Il fascino della Bibbia, precisa il poeta, sta nella sua capacità di conciliare «l’immaginazione orientale e l’immaginazione antichissima». Tra l’altro c’è da tenere presente anche il fatto che la Bibbia era il testo su cui i figli del conte Monaldo facevano le loro prime esercitazioni letterarie e il conte amava le Sacre Scritture al punto da avere dedicato ad esse un importante settore della sua biblioteca. Nella produzione leopardiana, specie in quella dell’adolescenza, ricorre frequente l’ispirazione biblica, non tanto per profondità di sentire religioso, quanto per la convinzione che «la religione nostra ha moltissimo di quello che somigliando all’illusione è ottimo alla poesia». Il gran numero di canti giovanili ispirati alla Bibbia denota, oltre che un’intima attitudine alla poesia, anche una profonda congenialità tra il pessimismo biblico e quello del giovane poeta già provato dalle prime delusioni. 

Nel 1809 il Leopardi undicenne compone una prosa in latino, Adami creatio4 dove rivela, oltre ad una notevole e sorprendente, per quell’età, capacità di scrivere in latino, una fervida fantasia dominata dalla visione biblica di un Dio giusto e terribile: c’è l’eco di bibliche punizioni, la coscienza dolorosa della fragilità dell’uomo troppo debole di fronte alla grandezza terribile di Dio. 

Anche nel Balaamo5, dove viene ripreso il racconto biblico dell’asina parlante, il gusto, classico ed illuministico insieme, della chiarità degli squarci paesistici si accompagna alla compiacenza che il poeta sente nel rappresentare la natura così come pensava che fosse nei tempi primordiali della storia umana. 

Ne Il Diluvio Universale6 viene rappresentato il diluvio con colori cupi: la coscienza della fragilità dell’uomo è incupita dal sentimento di colpe antiche che debbono essere espiate. 

Ci sono notizie di altri scritti, andati perduti o comunque ancora sconosciuti, ispirati sempre alla Bibbia, come il poemetto Paradiso Perduto e il canto L’incendio di Sodoma, oltre alle prose Il Lamento di Agar su Israele, La sconfitta di Sennacherib, La morte di Jezabel. 

L’Inno ai Patriarchi, che ha la struttura dell’antico inno greco nel quale si raccontavano le vicende degli eroi e degli dei, è una galleria di patriarchi dell’Antico Testamento: Adamo che per primo contemplò «il giorno e le purpuree faci delle rotanti sfere e la novella prole dei campi»; Noè che salvò «dall’etra infesta e dal mugghiante equoreo flutto l’iniquo germe»; Abramo giusto e forte, padre dei pii; tutti rappresentanti di un’età in cui fu «amica un tempo al sangue nostro e dilettosa e cara questa misera piaggia ed aurea corse questa caduca età». Lo stupore di Adamo, la suggestione favolosa dei paesaggi biblici, la pietà di Abramo obbediente sempre alle leggi del Signore sono le immagini più felici, dettate dalla nostalgia dei tempi aurorali della storia dell’uomo: «la verginità aspra del paesaggio e delle forze naturali, vista attraverso gli occhi del primo uomo, ha il fascino di una sbigottita barbarie»7. Questo è il tema di più vera poesia che scaturisce dalla nostalgia del mondo primitivo che l’uomo non aveva ancora contaminato con la sua presenza. 

La suggestione esercitata dalla Bibbia è dovuta alla sua antichità: «L’antico è un principalissimo ingrediente delle sublimi sensazioni, siano materiali, come una prospettiva, una veduta romantica etc. etc. o solamente spirituali e interiori. Perché ciò? Per la tendenza dell’uomo all’infinito. L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato dove l’anima si perde»8. Il mondo biblico è bello anche perché è un mondo passato: «Il passato, a ricordarsene, è più bello del presente, come il futuro a immaginarlo. Perché? Perché il solo presente ha la sua vera forma nella concezione umana; è la sola immagine del vero; e tutto il vero è brutto»9.

Il pessimismo biblico – il Leopardi incominciò a leggere la Bibbia nei primissimi anni dell’adolescenza e pervenne presto ad un’ampia preparazione biblico-cristiana – fu congeniale al poeta e divenne, anche allo stato inconscio, parte integrante della sua personalità; per questo i libri dell’Antico Testamento più spesso richeggiati sono l’Ecclesiaste e il Libro di Giobbe. Nel Canto Nottumo soprattutto ricorrono i concetti biblici della vanità del tutto e dell’irrimediabile destino di dolore dell’uomo. Il pastore si chiede il perché dell’adoperarsi continuo degli uomini sulla terra, dell’eterno girare degli astri nel cielo e conclude dicendo di non sapere indovinare alcun uso, alcun frutto di tanto movimento; tutte le cose nascono e periscono, rinascono e svaniscono. Anche la Bibbia a questo interrogativo aveva dato la stessa risposta: «Generatio praeterit et generatio advenit; terra autem in aetemum stat. Oritur sol et occidit et ad locum suum revertitur; ibique renascens gyrat per meridiem etflectitur ad aquilonem. 

Lustrans universa in circuitu pergitur spiritus et in circulos suos revertitur. Omnia flumina intrant in mare, et mare non redundat; ad lacum unde exeuntflumina revertuntur ut iterum fluant»10. La risposta è identica: la ragione umana non sa spiegare niente: le conclusioni del Canto Notturno sono le stesse della Bibbia11; la battuta finale del Canto Notturno è quella di Giobbe che il Leopardi12 diceva esplicitamente di aver fatto sua. 

Ma il sentimento biblico della vanità in Leopardi assume un significato diverso perché viene filtrato attraverso !’ideologia materialistica e le conclusioni scettiche del pensiero settecentesco, mentre nella Bibbia questo sentimento nasce dal paragone tra il transeunte e l’eterno, tra il contingente e Dio. E poi mentre Giobbe conclude dicendo che «militia est vita hominis super terram», il Leopardi, non credente, si ferma alla constatazione che è funesto a chi nasce il dì natale. 

Così i motivi più importanti per i quali la Bibbia ebbe tanta influenza sul Leopardi sono: l’educazione religiosa familiare fondata proprio sul Vecchio Testamento; le moltissime esercitazioni condotte su quel libro fin dagli anni della fanciullezza; !’incontro tra il pessimismo biblico e quello del poeta; la suggestione dell’antico e dei tempi aurorali della storia umana. 

Il pessimismo presente nel pensiero illuminista e del quale, per fare un solo esempio, il Poema sul disastro di Lisbona di Voltaire, che il Leopardi certamente lesse, è una delle espressioni più significative, si arricchisce nel Leopardi di implicazioni bibliche; si realizza così una salda, anche se non appariscente. fusione tra conclusioni illuministico-settecentesche ed echi del Vecchio Testamento: le affermazioni illuministiche si colorano di suggestioni antiche. Il pessimismo del Vecchio Testamento dà al dolore del Leopardi dimensioni più ampie, risonanze più profonde e più antiche, colori più cupi; il dolore del poeta si spoglia delle situazioni contingenti e particolari, si proietta in una sfera atemporale e si assolutizza. Gli elementi filosofici di ascendenza illuministica. la sensibilità romantica del recanatese nelle sue diverse implicazioni, le vicende autobiografiche, tutto acquista un sapore di antichità. di ieraticità e, dunque, di universalità. 

Giacomo Sammartano 

(1) Leopardi, Zib. 28 luglio 182l. 

(2. M.Corti, “La Stampa”, 4 novembre 1971. 

(3) Leopardi, Zib. 11 maggio 1821; 28 luglio 1821; 28 settembre 1823. 

(4) Pubblicata su “La Stampa” di Torino del 4 novembre 1971. 

(5) Pubblicato su “La Stampa” di Torino del 21 ottobre 1971.

(6) Pubblicato su “La Stampa” di Torino del 21 ottobre 1971. 

(7) Giannessi, Letteratura Italiana. I maggiori, Milano. Marzorati II. p. 1049. 

(8) Leopardi, Zib. l agosto 1821. 

(9) Leopardi. Zib. 18 agosto 1821.

(10) Ecclesiaste III. 10. 11. 

(11-12) Leopardi, Zib. 1, 400. 

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 27-30.




NEI MARI DELLA STORIA 

 Nei mari della storia muore la balena 
col piccolo come pochi nomi in grembo. 
In un nembo nel cielo, 
qui, sobborgo, crescono 
non riusciti aborti: 
nasini che colano di muco 
mischiato ad una ciotola e a un sorriso. 
Per loro un bruco che sta sotto terra 
brucia i polmoni e porta su diamanti. 
I petali staccati uno per uno 
non saranno nemmeno frutta informe 
dentro barattoli suggellati a fiocchi 
spalmati su pane da secoli raffermo 
ammorbidito da uno strano odore. 
Cambiare canale mille volte 
so ch’è triste quando la visione 
è un visone addosso a due realtà. 
Meglio essere convinto 
che la Signora Fine 
aspetterà chi viene sorridendo 
chi ha tolto dal fuoco le castagne 
senza assaggiarne una. 

Antonio Sammaritano

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 39.




MARIO POMILIO  NARRATORE

Nel 1960, Pomilio così scriveva di se stesso: «Il 1953 fu per me l’anno cruciale. Ebbi preoccupazioni familiari, che mi temprarono, ma anche la fortuna di diventare intimo di Michele Prisco. Con lui, per interminabili serate, discutevo di questioni estetiche e di narrativa. E l’idea di poter contare su un vero lettore mi spinse di nuovo a tentare: la lirica dapprima (segno che ero ancora pieno di incertezze), e naturalmente a tempo perso. 

Composi una raccolta, tuttora inedita. Una sera mi balenò uno spunto: l’immagine di un uccello rimasto chiuso in una cupola. In un primo momento non voleva essere più di una comparazione, l’inizio di una lirica; in un’ora di tensione febbrile mi s’arricchì di mille implicazioni e fu il punto di partenza di una trama. Scrissi il primo romanzo «L’uccello nella cupola», tra il 1° maggio e il 20 giugno 1953. L’anno dopo il libro ottenne uno dei premi Marzotto e raccolse molti elogi. Ma, tranne due o tre casi, fu guardato dall’esterno. Se ne riconoscevano i motivi poetici, ma di rado s’entrava in merito alla tematica. Il mio tentativo di fare del romanzo essenzialmente uno strumento di meditazione sull’uomo, la mia polemica implicita contro un tipo di narrativa moralmente agnostica e povera di interessi speculativi, urtava contro i clichès, nei quali in Italia sembravano essersi adagiati i gusti correnti. Tuttavia il libro finì per essere meditato e di ciò raccolsi i frutti al momento del secondo romanzo «Il testimone», scritto tra il 1954 e il 1955 e pubblicato nel 1956. 

Il testimone mi nacque dalla suggestione d’un fatto di cronaca, dieci righe o poco più di una corrispondenza da Parigi e per un po’ fui incerto se documentarmi meglio o lasciar lavorare la fantasia. Prevalse quest’ultima soluzione, come prevalse il desiderio di dare più sul romanzesco, di scrivere cioè duecento pagine che si leggessero d’un fiato, senza però comportare rinunzie di fronte alle grandi domande che il tema poneva. S’è parlato, a proposito di questo libro, di varie fonti straniere. Se però si fosse tenuto conto della «Storia della Colonna infame» o meglio di quelle tre mirabili pagine introduttive dove il Manzoni parla delle passioni pervertitrici della volontà, come uniche responsabili dei «fatti atroci dell’uomo contro l’uomo», si sarebbero riconosciute le radici tipicamente italiane della mia storia parigina. Tuttavia l’opera fu apprezzata, il primo romanzo servì ad illuminare il secondo e viceversa, e si cominciò a parlare del mio come del mondo delle responsabilità. E non dico che la formula non sia giusta, purché si consideri che il tema che più mi tiene e che sta a fondamento del mio cristianesimo è quello della morte. È stato esso a dettarmi, non ne ho alcun dubbio, le più belle pagine, le prime settanta, per esempio, de «L’uccello nella cupola», le ultime settanta de «Il testimone», l’intero «Cimitero cinese», un racconto del 

1957 e certi capitoli del mio ultimo lavoro «Il nuovo corso», un romanzo tra simbolo e realtà, un discorso portato sul tema della libertà, al quale è stato assegnato il premio Napoli 1959 e di cui sono in corso alcune traduzioni. 

La mia poetica? È presto detto: credo nei personaggi, credo nei valori, credo al romanzo come ad uno scandaglio dell’uomo, credo che il narratore dia la misura di sé solo collocandosi al centro dell’animo dell’uomo. Le altre cose: stile compreso, sono strumenti, non fini.1 

Fin qui Pomilio. Da tale presentazione di se stesso noi prendiamo le mosse, per andare oltre: per verificare fino a qual punto quelle indicazioni siano valide dopo ventidue anni; per soffermarci di più sui lavori, di cui parla brevemente l’autore; per analizzare la produzione successiva e tentare, infine, di tracciare un consuntivo dell’intera opera del narratore e della sua incidenza sulla letteratura contemporanea. 

Il metodo da noi scelto, per l’indagine, è molto semplice: analisi di ogni opera (trama, forma, contenuti), per poi giungere ad un giudizio globale sulla validità, efficacia ed attualità del messaggio che il narratore intende sottolineare. 

L’UCCELLO NELLA CUPOLA2 

Un uomo sta morendo. Marta, la sua compagna, forse alla ricerca di eventuali giustificazioni per la propria coscienza, forse per un improvviso e inconscio bisogno di Dio, si reca in Chiesa per confessarsi. Non appare però convinta di essere in colpa. Anziché mostrare sincero pentimento, sembra cerchi conforto come vittima. Ha paura, addirittura, che il moribondo sopravviva. Non ha fatto nulla per tentare di salvarlo, ha evitato di prestare qualsiasi aiuto, perché, in fondo, desidera che egli muoia, perché non lo ama più, perché non l’ha mai amato, perché è un disgraziato, perché l’ha costretta ad uccidere il figlio che stava per nascere. 

Don Giacomo, il confessore, incatenato ad una visione troppo rigida del dovere e ancora poco esperto dei profondi travagli delle anime, non riesce a comprendere la disperazione di Marta: si rifiuta di capirne le ragioni: sente soltanto che le sue colpe sono imperdonabili e la respinge, anziché aiutarla a superare le enormi difficoltà in cui si dibatte. «Voi avete fatto questo? E perché siete qui?» Marta cercava vagamente la redenzione: don Giacomo, non ritenedola capace, l’ha praticamente abbandonata al suo destino, tradendo la sua missione sacerdotale. 

Di qui due esistenze tormentate. Marta, convinta ormai che si pretenda troppo da lei, che sia inutile ogni sforzo, si affida al suo istinto e alla sua fragilità, nella ricerca di qualcosa che dia un senso alla sua vita e la riscatti da umiliazioni e sconfitte subite. Crede di trovare la salvezza nell’amore di un uomo, al quale dedica tutte le energie, i sogni e in cui ripone tutte le speranze di creatura delusa. Anche questo amore si risolve ben presto in fallimento ed è la fine. 

Don Giacomo, che fin dall’inizio della vicenda aveva avvertito il peso di una enorme responsabilità, è perseguitato dal rimorso di essere stato la causa della perdizione di Marta. Aveva tentato più volte di riparare in seguito, ma con l’identico risultato. La sua intransigenza aveva finito per allontanare sempre più Marta da ogni possibilità di redenzione: come l’uccello, che tenta invano di lanciarsi verso la luce e verso il sole, irrangiungibili al di là della cupola. 

La trama, come si vede, è semplice, come in tutti i romanzi di Pomilio. Ciò che conta in lui è una grande capacità di indagine di stati d’animo complessi e difficili. Come conta la limpidezza dello stile, la proprietà di linguaggio, la ricchezza del vocabolario, la organicità del periodare, che indubbiamente pongono Pomilio tra i classici della letteratura. 

A titolo di verifica di ciò che Pomilio diceva ventidue anni or sono di se stesso, dobbiamo dire che risulta rispettato l’assunto del romanzo come strumento di meditazione sull’uomo. 

E i valori? Anch’essi sono fortemente presenti nella sua opera: l’importanza della coscienza nell’agire umano: l’amore, la comprensione e la tolleranza per le miserie dei nostri simili; l’esigenza della grazia come contrappeso alle debolezze e ai difetti degli uomini. Coscienza, amore, grazia: i tre poli, intorno a cui dovrebbe ruotare il destino di ciascuno, spesso segnato, però, dal peso di qualche realtà misteriosa e dolorosa, che solo la fede può dare la forza di accettare senza ribellione. Questa realtà, umana e religiosa insieme, Pomilio sottopone alla nostra riflessione per il tramite di un fanciullo paralitico, al quale Don Giacomo, un giorno, raccontando l’episodio biblico di Abramo, a cui sarebbe stato chiesto da Dio il sacrificio del figlio Isacco, giustificò la presunta crudeltà di Dio con l’esistenza di una prova di ubbidienza. «Solo per questo? – reagisce il bambino. Solo per questo ha voluto che Abramo soffrisse tanto? E può Dio chiederci tanto per prova? … Oh! non mi piace la vostra storia, non mi piace». 

Il mistero del dolore, difficile interrogativo del mondo cristiano, viene affrontato, così, da Pomilio, in un episodio apparentemente insignificante, conpo che magistrali pennellate: un fanciullo che paga di persona non si sa perché: un’indiretta implorazione, un po’ amara, quasi ironica di giustizia: una rassegnazione sofferta a certi inspiegabili voleri della Provvidenza, che, comunque, il fanciullo non osa condannare. «E il pianto, finora trattenuto, traboccò ormai liberamente». 

Quest’ultimo episodio ci offre l’occasione per mettere in risalto, pur se breve- mente, la poesia che circola in tante pagine de «L’uccello nella cupola». Le frequenti e belle similitudini, che spezzano il ragionare serrato i continui ripiegamenti delle anime sulle proprie gelose intimità: il pathos, la sofferenza, l’anelito verso il bene che, comunque, accompagna l’intera esistenza dei prota- gonisti, sono altrettante espressioni poetiche, che dimostrano l’intensa parteci- 

dell’autore alle ansie delle creature della sua fantasia. 

IL TESTIMONE3 

Romanzo altamente drammatico. Una madre, Jeanne, incarcerata perché involontariamente coinvolta in un fatto criminoso, resta forzatamente lontana, per qualche giorno, dal suo piccolo, che rimane, perciò, abbandonato a se stesso. Il padre del piccolo, amante della donna, responsabile del fatto criminoso accennato, s’era potuto prender cura di lui soltanto per poche ore, perché ucciso, poco dopo, da un’auto, mentre tentava di sfuggire alla polizia. Soltanto a seguito della confessione di Jeanne sulle responsabilità del suo amante, il commissario Duclair acconsente che il piccolo venga condotto alla madre. Il bambino, allo stremo delle forze, non è più capace di succhiare il latte. La madre, non riuscendo, nonostante ogni tentativo, a costringere il figlio a succhiare, in un eccesso di delirio e di follia, lo strangola. 

Anche in questo romanzo domina il problema del male, del peccato e della morte. A differenza, però, de «L’uccello nella cupola», dove si avverte anche la potente presenza del desiderio di riscatto, di redenzione, di fede profonda in certi valori, ne «Il testimone» non c’è posto per una quasi fatale, ostinata disperazione. Mentre, tuttavia, la donna è riscattata, in qualche misura, dal suo amore per Charles e, nonostante tutto, per il bambino e dalla stessa sua improvvisa follia, per il commissario Duclair non c’è scampo: «Annaspò follemente, con nell’animo un bisogno divorante di pietà e il senso di una miseria, che non era più solo della donna o di lui, o di essi due soltanto, ma di quanto, vivo o morto, lo circondava. Come sempre succede quando la cupa irrazionalità della vita ci si scopre nella sua interezza e nulla ci aiuta a sperare nell’esistenza d’una realtà meno assurda o quanto meno nell’opera di un volere meno cieco. Cercò di raffigurarsi una dimensione diversa, nella quale tutto quello che era accaduto potesse annullarsi e quel che la donna stava soffrendo venir consolato e quel che lui aveva fatto perdonato. Ma non ne fu capace…». 

E i valori, in cui l’autore crede, dove sono andati a finire? Per contrasto essi emergono con più forza, appunto perché sottintesi, dal nudo dramma dei protagonisti: il bisogno continuo, nonostante tutto, di scavare nelle proprie responsabilità, il richiamo ad una superiore giustizia. 

IL NUOVO CORSO4 

«La Voce della verità», l’unico giornale autorizzato dall’unico partito al potere, un bel giorno proclama l’inizio d’un nuovo corso: l’inizio, cioè, della libertà. L’annuncio provoca le reazioni più complesse e varie: dal dubbio alla fede, dalla diffidenza all’ottimismo, dalla gioia alla delusione, all’attesa, rappresentate dall’autore con grande perizia e, cosa nuova in Pomilio, possiamo dire, con benevola ironia, che ci ricorda il Manzoni. A mano a mano, però, che la vicenda avanza, il sorriso sparisce e ricompare il dramma, forse più amaro che nelle altre opere. Il direttore del carcere che, all’annuncio del nuovo corso, aveva deciso spontaneamente di non dare esecuzione alla 

condanna a morte di un recluso per ragioni politiche e che aveva profondamente gioito per aver dimostrato, così, a se stesso di sapere agire secondo coscienza, all’arrivo di un telegramma delle autorità, con il quale si chiedono assicurazioni sull’avvenuta esecuzione del condannato, trova quasi naturale, senza alcuna lotta interiore, il ritorno al rispetto della legge e si precipita a dare esecuzione alla sentenza, per timore di essere accusato di scarso senso di responsabilità. 

IL CIMITERO CINESE5 

Un italiano incontra una ragazza tedesca in Belgio. Fanno insieme una gita di fine settimana in Francia. Nasce una profonda simpatia, reciproca, forse l’amore. Le circostanze, però, non consentono che esso venga confidato serenamente e liberamente. La ragazza è tormentata dal ricordo dei tanti morti causati dalla guerra, per colpa dei suoi compatrioti. In quella zona di Francia c’erano, infatti, i resti di molti bunker, un cimitero di guerra francese, uno cinese. L’italiano, che avverte l’amarezza della ragazza, preferisce rispettare i suoi stati d’animo e non forzare la mano. Un bacio solo, alla fine, suggella una corrispondenza desiderata e sofferta. 

Un quadro, una pennellata di sentimenti delicati e dolcissimi che, nel ricordo e nella cornice di tanti disastri, ci obbligano a riflettere come soltanto l’amore riesca a vincere la morte. Essa, presente in maniera drammatica ne «L’uccello nella cupola» e tragica ne «Il testimone» cede il posto ad uno stato d’animo di mestizia, di rassegnazione e, più che altro, al desiderio di vincere la morte stessa, con la vita e con l’amore. «E così compatto era il silenzio e così arioso e sereno nella sua purezza domenicale, da rendermi ad un tratto inverosimile il pensiero della morte o qualsiasi altro sentimento connesso a quest’idea. E tale stato d’animo mi si accentuò quando fummo alle spalle del tabernacolo, sul crinale dell’altura: di li si scorgeva il mare, o meglio, il confine tra cielo e mare assomigliante a una linea tra luce e luce: verso sud la natura digradava sfumando entro un velo lustro di caligine: sicché lassù, tra il biancore dei tulipani, si aveva come l’impressione d’essere sospesi tra due cieli: e che compassione o tristezza o smarrimento dovessero per forza lasciare il posto a una sorta di consolata e alleviata mestizia». 

LA COMPROMISSIONE6 

Il protagonista, Marco, professore di lettere in un liceo di provincia, alla fine della vicenda si scopre «incapace sia di rifiuti che di certezze». È il succo morale del romanzo… Un uomo si illude di credere in qualche cosa, ma sostanzialmente non crede in niente, come a mano a mano evidenzia egli stesso, raccontando, in prima persona, una parte della sua vita. Si illude di credere, perché con facilità passa da una posizione ideale ad un’altra, senza convinzione, né per la verità che lascia, né per quella che insegue e che gli sfugge sempre. Una serie indefinita di compromessi da parte di una coscienza fiacca, incapace di scelte valide e durature, disfatta e delusa, chiusa nel proprio egoismo e nella propria aridità: così di fronte ai problemi politici, come a quelli sentimentali, religiosi, esistenziali. Non esistono ideali, valori; non esiste l’amore, Dio , il lavoro, l’umanità, la stessa soddisfazione delle esigenze naturali e vitali. Tutto è frammentario, provvisorio, occasionale; tutto passa senza lasciare un segno, una traccia, se non la consapevolezza di una universale inutilità. Non un rimpianto sincero, non un rimorso, non una aspirazione, non un atto d’amore e di abnegazione, spontaneo e senza riserve. Tutto all’insegna di un’accettazione rassegnata, anzi passiva, del destino che preme, d’una insoddisfazione sempre presente, d’una povertà di sentimenti, dello spirito di contraddizione, che impediscono al protagonista di pervenire con gioia ad una qualsiasi conquista. 

IL CANE SULL’ETNA7 

Raccolta di cinque racconti: Il cane sull’Etna Il vicino Il Nemico – Il commissario La sentinella. Il contenuto, in generale, è sintetizzato nel sottotitolo «Frammenti di una enciclopedia del dissesto». Trattasi, infatti, di testi incentrati sulla solitudine, sulla paura, sullo smarrimento, sulla nevrosi, sulle frustrazioni dell’uomo, «avventizio dell’esistenza», «soggetto, per una specie di ironia, alle aporie del destino Carlo Bo sul «Corriere della Sera» scrisse: «Alcune delle pagine più ferme che siano state scritte negli ultimi quindici anni, ci rendono il Pomilio più autentico, quello che sa saldare la voce inquieta del nostro tempo a un racconto che ha la certezza dell’ordine classico». 

Il narratore, nell’introduzione del libro, non esclude che la singolarità dei personaggi possa essere attribuita, dagli altri naturalmente, a delle esigenze sperimentali. In tale cornice i racconti si presentano come pezzi di un virtuosismo linguistico e descrittivo e come sottile scavo psicologico. 

Giovanni Salucci 

(*) Il saggio Mario Pomilio narratore di Giovanni Salucci, per ragioni tecniche, è stato diviso in due. La seconda parte verrà pubblicata nel prossimo numero. Lo studio, nel suo insieme, è di estremo interesse, perché scritto quando ancora non era stata pubblicata l’ultima opera di Pomilio, che ha per oggetto alcuni momenti della vita del Manzoni (a cui tra l’altro è stato assegnato il premio Strega), fa un raffronto tra Pomilio e Manzoni. E il rapporto acquista maggior valore, perché alla critica allora la cosa era quasi del tutto sfuggita. 

1 Da «Ritratti su misura» a cura di Elio Filippo Accrocca – Sodalizio del Libro, Venezia 1960. 

2 Ed. Bompiani – Milano 1954 (Premio Marzotto). 

3 Ed. Massimo – Milano 1956 (Premio Napoli). 

4 Ed. Bompiani – Milano 1959 (Premio Napoli). 

5 Ed. Rizzoli – Milano 1969 (già Ed. Guanda – Parma 1958). 

6 Ed. Vallecchi – Firenze 1965 (Premio Campiello).

7 Ed. Rusconi – Milano 1977 (scritto tra il 1967-68. Premio Roma Città Eterna).

Da “Spiragli”, Anno I, N. 1, 1989, pagg. 29-36