La mia vita col Re Farouk 

Lunedì 15 gennaio 1990 è stata ospite della trasmissione televisiva di Canale 5 «Maurizio Costanzo Show» la Principessa Irma Capece Minutolo, famosa nella sua qualità di cantante lirica e per la sua relazione con il Re Farouk d’Egitto, che riempì, a suo tempo, le cronache di tutto il mondo. 

Nella trasmissione la Minutolo, oltre a parlare di una sua prossima tournèe di concerti in tutta Italia, si è soffermata sulla sua autobiografia dal titolo: La mia vita col Re Farouk, recentemente scritta con la collaborazione del poeta e scrittore Giovanni Salucci, per la cui opera la stessa ha avuto parole di grande stima e ammirazione. Ha ricordato di aver molto apprezzato la prima volta Salucci, per aver letto un suo bel romanzo di amore, La lampada rossa, edito dalla E.I.L.E.S. (Edizioni Italiane di Letteratura e Scienze) di Roma. Dopo la lettura del romanzo, la Minutolo ha voluto conoscere l’autore e l’ha pregato di aiutarla a scrivere la sua autobiografia. 

Incuriositi, siamo riusciti a procurarci in anteprima il testo di questa autobiografia, non ancora edita e per la quale sarebbero in corso contatti con un editore arabo, proprietario anche di una vasta rete di periodici e con un editore francese. Abbiamo letto il dattiloscritto nel timore, a dir la verità, di trovarci di fronte ad una storia piccante o addirittura scandalosa, come la vicenda in passato fu presentata dai mezzi di comunicazione di massa. Con enorme sorpresa, invece, ci siamo trovati di fronte ad una bellissima ed esemplare storia d’amore: quella di una ragazza sedicenne, che si innamora di un Re in esilio, di venti anni più grande di lei, e che lo segue per nove anni (fino alla morte di lui) con estrema dedizione e fedeltà, senza interessi di alcun genere, se non quello dell’amore e dell’abnegazione. 

Una ragazza che, dopo la prematura scomparsa del protagonista, si ritrova, per una serie di complesse vicende, sola, senza sostegno, alle prese con una dura lotta per l’esistenza, con un fardello pesante che, a quell’epoca, suonò soltanto disapprovazione e condanna. 

Senza risentimenti e senza rancore, ma con un ricordo denso di contenuti fortemente ideali, la Irma Capece Minutolo ha saputo trovare, nella musica e nel canto, una nobile ragione di vita. Al di là, però, della bella storia d’amore e dei tanti episodi curiosi e interessanti, abbiamo scoperto, nel libro, anche motivi di notevolissimo valore storico, come nell’incontro con Papa Giovanni XXIII (nel quale emerge la rivoluzionaria visione di questo grande Papa su alcuni contenuti dci suo pontificato e del ruolo della Chiesa tra gli uomini) e come nelle considerazioni sulla morte di Farouk, le quali non escludono l’ipotesi di un assassinio politico, In difformità alla versione ufficiale, che parlava di morte naturale per emorragia cerebrale. A questo riguardo è doveroso precisare che la Irma Capece Minutolo intende dissociarsi (lo dice chiaramente nel libro) dagli interrogativi e dai sospetti che Giovanni Salucci fa sorgere con la sua attenta ricerca e di cui lo stesso si assume la personale ed esclusiva responsabilità. Ancora una volta la Minutolo, con tale comportamento, dimostra di avere vissuto la sua particolare storia con serietà estrema, rifuggendo sempre dalla tentazione di dare ogni occasione agli altri, di chiasso, di scandalo e di strumentalizzazione della propria vita privata. 

Con la pubblicazione di alcuni brani, dietro l’autorizzazione degli autori Irma Capece Minutolo e Giovanni Salucci. intendiamo offrire ai nostri lettori, In anteprima, un documento di grande valore umano e storico degno di essere additato all’attenzione generale. 

LA FUGA DA NAPOLI 

La macchina che si allontanava da Napoli segnava il termine di un’altra fase della mia vita. La fanciullezza era veramente finita. Nelle due ore di macchina, da Napoli a Roma, gli occhi dell’anima rividero, come in una pellicola, il periodo passato fino allora e intravedevo quello avvenire. 

Ero felice di andare incontro al mio destino, ma il distacco reale da tutto il mio mondo abituale non fu indolore. Nell’istante preciso in cui presumevo che avrei soltanto sorriso, mi assalì una grande malinconia, mi calai nell’anima di papà. di mamma, dei miei familiari e vi vidi sconforto, tanta rassegnazione. Mamma sapeva, papà intuiva, gli altri osservavano lo svolgersi degli eventi. 

Nessuno di loro, comunque, mi aveva lasciato con la gioia della certezza, per me, di una vita migliore, lo stessa, pur nella consapevolezza del coronamento del mio amore, cominciai a chiedermi se ero stata giusta, generosa: se avevo compiuto tutto il mio dovere di figlia e di sorella o se non, piuttosto, avessi seguito semplicemente l’impulso del mio egoismo e della mia spregiudicatezza. 

Avevo abbandonato tutto per inseguire un mio sogno sincero e mi ritrovavo sola, abbandonata, a mia volta, nel momento più delicato del mio cammino, in cui avrei avuto tanto bisogno della solidarietà e del calore affettuoso dei miei cari. 

Il conforto di una macchina di lusso acuì, anziché attutire. la mia sensazione di abbandono. 

Non era colpa di nessuno. Avevo fatto le mie scelte. semmai, contro il volere e il parere di tutti. 

Era solo mia la colpa, se c’era una colpa nelle scelte, di cui in quelle ore avvertii la pesante responsabilità. A mano a mano che mi allontanavano da Napoli, si ingigantiva in me l’amarezza della privazione di innumerevoli ricordi, di cui, mentre sparivo, assaporavo. come forse non avevo mai fatto prima. la dolcezza. 

Ricordi che, forse, non si sarebbero ripetuti e di cui non avevo apprezzato, al momento giusto, il grande valore. Non avevo avuto il tempo di gustare la felicità che viene spesso dalle piccole cose e già ne era vivo il rimpianto. 

Le circostanze degli ultimi mesi erano state così insolite per me, tanto da cancellare, con violenza, la fanciullezza, già prima che fosse matura. 

Una conquista, una sconfitta, una condanna? Non lo sapevo ancora. 

Io andavo incontro al mio destino con malinconia, ma anche con tanta fede. Chiedevo perdono, nell’intimo, a coloro ai quali avevo fatto involontariamente del male e pregavo il cielo che non sfogasse il suo eventuale rancore su una creatura che, tutto sommato, aveva il solo torto di amare. 

Purtroppo, quando gli amori da rispettare sono tanti, è difficile indovinare a quale di essi spetti la precedenza. 

Io l’avevo data, per inclinazione spontanea, senza calcoli, a quello più gravido di incognite e di pericoli. […] 

Alla fine di gennaio del 1958 tornammo a Grottaferrata dal lungo giro in Europa. 

Mancavano pochi mesi al compimento del mio diciottesimo anno di età. Aspettavo quella data con una certa ansia. ma non sapevo neppure io perché. Percepivo che doveva succedere qualcosa, ma che cosa con precisione mi sfuggiva. Avevo sentito dire che avrei raggiunto la maggiore età. Forse per la legge egiziana era così. Non lo so. Ma in Italia, allora, la maggiore età si raggiungeva al 21° anno. Eppure spesso quella data veniva indicata come una tappa importante della mia vita. Si insisteva tanto su quel particolare. che finii anch’io per convincermi, più per far piacere agli altri che a me stessa, che doveva essere per forza così. Prima di quella data, comunque, accadde un fatto che ha lasciato un segno nella mia vita. 

Ero seduta in un angolo appartato del giardino della villa, sotto l’ombra di una magnolia. Avevo voglia di stare sola. Ero presa da un momento di mestizia, di cui non sapevo rendermi conto. Spesso ero assalita, il più delle volte all’improvviso, da momenti di malinconia. Forse per un bisogno di fare. di tanto in tanto, nelle pause di una vita molto movimentata, il bilancio della mia esistenza. Avvertivo in essa, pur nella spensieratezza dell’età, dei vuoti, che mi spingevano a meditare, a riflettere sul mio passato, sul mio presente e sul mio futuro. 

Spesso non ero soddisfatta di me stessa. Vedevo nella mia vita ampie zone d’ombra, che nulla riusciva a dissipare, cercavo di allontanarle, tuffandomi maggiormente nelle distrazioni che il ménage con Farouk mi offriva. Ma, anziché allontanarle, la ricerca affannosa di diversivi, le ingigantiva, facendomi piombare in stati di scoraggiamento, di prostrazione, quasi di disperazione, dai quali mi riavevo con fatica. 

Quel giorno, sotto l’ombra di quella magnolia, stavo vivendo uno di quei momenti sconsolati, quando fui riportata ad una realtà completamente diversa da un’apparizione, che mi sembrò miracolosa, tanto la vissi intensamente e con uno slancio improvviso dell’anima, che mi fece ritrovare quasi le ragioni valide di una esistenza, che troppo spesso ormai avvertivo, dentro di me, come inutile, nonostante i bagliori e i colori di avvenimenti apparentemente ricchi di colpi di scena e di emozioni. 

Un bambino bellissimo, che poteva avere cinque o sei anni, spuntato come per incanto da dietro una siepe, stava correndo verso di me, mentre gridava «mamma, mamma, mamma». 

Non ebbi neppure il tempo di domandarmi cosa stesse succedendo, che già il bambino mi era saltato al collo, continuava a chiamarmi «mamma», mi baciava e mi carezzava con violenza. Sembrava che avesse ritrovato un tesoro perduto e che fosse convinto di non trovare più. 

Dopo avere sfogato la sua violenza con le carezze e con i baci, rimase aggrappato a me, deciso a non lasciarmi più. 

– «Mamma mia, mamma bella, perché sei stata lontana tanto tempo? Io ti aspettavo e tu non venivi mai, perché? Adesso non devi lasciarmi più. Me lo prometti?» 
– «Sì. te lo prometto, non ti lascerò più, bello mio. Ti voglio tanto bene. sai?» 
– «Vieni a giocare con me a nascondino?» 
– «Sì. mi piace tanto. Chiudi gli occhi contro quell’albero e conta fino a 10. Io mi nascondo e tu vieni a cercarmi». 
– «Non te ne andare però. No, no – ci ripensò -. Non voglio giocare a nascondino. Tienimi per mano. Passeggiamo insieme». 

Ero enormemente commossa. Le effusioni così forti e sincere di Fuad (si chiamava così il figlio più piccolo di Farouk, avuto dalla seconda moglie Narriman Sadek) mi avevano colpito profondamente. 

Pur nella rapidità delle sequenze dell’incontro inaspettato. in un attimo mi immedesimai tanto nel ruolo della vera madre, che riuscii a vivere le emozioni con la stessa intensità e la stessa purezza. 

Mi sentii sua madre e lo sentii mio figlio. Volli, senza mentire e senza dire la verità, vivere quei momenti, nell’illusione di una verità che non esisteva. Mi augurai, per un momento, che quella illusione diventasse realtà. Desiderai ardentemente di essere, per miracolo, sua madre e che Fuad fosse mio figlio. […] 

La fine di Farouk: morte naturale o assassinio politico? 

Per quanto mi riguarda, non ho alcunché da aggiungere alle dichiarazioni da me rilasciate al giornalista Alberto Libonati e pubblicate su «Gente» del 21 luglio 1975 e di cui ho già parlato nel capitolo Ciò che è stato scritto e detto sulla morte di Farouk. 

Consento, però, che Giovanni Salucci si soffermi su alcuni interrogativi e alcuni eventuali moventi, di cui si assume la totale ed esclusiva responsabilità, alla quale io sono completamente estranea. 

«Non intendo con queste mie parole accusare qualcuno. Pongo solo quesiti che, a suo tempo, né la Irma Capece Minutolo, né altri furono capaci o vollero porsi e che, invece, avrebbero dovuto, ognuno in relazione al ruolo svolto e alle rispettive competenze, sia in Egitto che fuori dell’Egitto». 

Tutto, solo per il rispetto che ognuno avrebbe dovuto avere per la verità e per la giustizia. 

Chi può, avrebbe il dovere, oggi, anche se a distanza di anni, di rispondere a questi quesiti. 

Egualmente, chi ne disponesse, avrebbe il dovere di fornire ogni elemento utile a chiarire i dubbi che da più parti sono stati avanzati sulla morte di Farouk e sui quali anche la Irma Capece Minutolo, ha, volontariamente o involontariamente, contribuito a far cadere il silenzio. 

A lei per prima faccio notare che con troppa sicurezza fece, a suo tempo, certe affermazioni, senza avere elementi inconfutabili dalla sua parte, se non il desiderio di evitare che si speculasse sulla morte di Farouk, come s’era speculato spesso sulla sua vita; di evitare che di nuovo Farouk diventasse motivo di chiasso e non di ricerca seria della verità; di evitare, ancora, che si offendesse il suo ricordo con la soddisfazione di curiosità morbose e con il piacere di sollevare problemi scandalistici, utili soltanto agli speculatori. 

In quel momento – posso capire – il suo stato d’animo le suggerì di buttare acqua sul fuoco, per non assistere al risveglio del veleno della maldicenza, della ingenerosità e della cattiveria. 

Ma, in seguito, passato quello stato d’animo dettato dall’amore, non era più logico che le capitasse di rivolgere a sé stessa qualche domanda, che allora, non era stata capace di rivolgersi? Non avendo dalla sua parte elementi inconfutabili di prova, per scartare con assoluta certezza l’ipotesi di un delitto, non le è mai sembrato di avere commesso dei torti verso Farouk per avere omesso di considerare, anche soltanto a titolo di ipotesi, la eventualità di un delitto? Non ha mai pensato che, Farouk per primo, avrebbe potuto disapprovare il suo comportamento, anche se in buona fede, per desiderare che si facesse piena luce su tutto, anche su semplici ipotesi? Si è mai chiesto di aver fatto o meno tutto il proprio dovere, cercando di soffocare sul nascere tanto categoricamente qualsiasi dubbio? 

Anche se tutto le lasciava supporre che non vi fossero motivi per pensare ad ambienti interessati a sopprimere l’ex Re, non avrebbe, almeno, potuto supporre che certe macchinazioni possono anche essere provocate (come spesso è accaduto per personalità molto in vista) da fanatismo, irrazionalità, gesto, cioè, inconsulto? 

Ammesso che motivazioni serie per l’assassinio di Farouk non esistessero, perché escludere che potessero esservene di riflesso: come strumentalizzazione, tanto per dirne una, di quell’assassinio proprio contro persone e ambienti che non avevano alcuna motivazione per perpetrarlo? 

Certi delitti, si sa, restano impuniti soltanto perché l’apparente assenza di moventi impedisce di percorrere il cammino giusto per arrivare ai colpevoli. Sarebbe doveroso, pertanto, che, in ogni caso, specie per le persone in vista, nulla venisse tralasciato per la individuazione di eventuali moventi delittuosi. 

Perché non considerare, ad esempio, il timore, da parte dei governanti egiziani dell’epoca, che la spartizione e la distribuzione, al popolo, delle proprietà e delle ricchezze della Corona, potesse suscitare la reazione e la ribellione dell’ex Re, che, attraverso suoi emissari segreti, avrebbe potuto rappresentare un ostacolo alle riforme? 

Tale ostacolo non sarebbe potuto diventare elemento sufficiente a giustificare una sua eliminazione? 

Ammesso pure che non si fosse trattato di ostacolo vero e proprio, non avrebbe potuto dar fastidio, ai governanti egiziani, la sola eventuale critica severa e condanna dell’operato, a cose fatte, delle autorità egiziane, da parte di Farouk? 

È proprio da escludere che potesse esistere gente interessata a venire in possesso di eventuali ricchezze di Farouk, per caso sfuggite alla requisizione delle autorità, dopo la sua destituzione e la sua condanna all’esilio? 

Le disavventure della guerra con Israele non avrebbero potuto risvegliare, nel popolo e in una parte dei governanti, nostalgie monarchiche pericolose per i fautori della rivoluzione? 

Non potevano esserci potenze straniere desiderose di ristabilire il precedente «status quo», anche per la salvaguardia di grandissimi interessi che la rivoluzione aveva messo in pericolo? Dinanzi a questo timore, non potevano i governanti ritenere più oppotuno sbarazzarsene, per evitare qualsiasi tentazione nostalgica? 

La stessa lotta, senza esclusione di colpi, tra mondo arabo e mondo ebraico, non sarebbe bastata a creare un terreno favorevole a tutte le insidie, a tutte le ipotesi e a tutti gli intrighi? 

La soppressione di Farouk non sarebbe potuta scaturire anche da un semplice calcolo sbagliato? 

Né era – mi pare – da scartare totalmente l’idea che, in una vita sentimentale movimentata, come quella di Farouk, potessero sorgere ragioni di risentimento, di rancore e di vendetta sia in campo maschile che femminile. 

E il suo mondo degli affari, non avrebbe potuto offrire l’occasione di incomprensioni, di delusioni, di prospettive non gradite, tali da spingere a soluzioni radicali e definitive? 

I moventi, dunque, potevano essere tanti, da non far escludere a priori, come capitò ad Irma Capece Minuttolo, le ipotesi di un assassinio politico. Senza lasciarsi prendere la mano dai sentimenti, la stessa avrebbe dovuto far funzionare di più il freddo e realistico raziocinio e non influenzare alcuno con le sue convinzioni, indubbiamente molto attendibili e autorevoli per l’esterno, dal momento che conosceva intimamente la vita, le confidenze di Farouk. Avrebbe potuto offrire, mentre non offrì, qualche spunto perché si esperissero approfondite indagini. Lei per prima scagionò tutti e insistette perché non si facesse nulla. Proprio lei che doveva essere una delle maggiori interessate acché non si escludesse alcuna ipotesi e non si lasciasse alcunché di intentato per fare piena luce sull’intera vicenda. […] 

– «Non voglio neppure sentirlo. Non farti prendere dalle fantasie anche tu. È morto di emorragia cerebrale e basta. Argomento chiuso. Se i familiari sono convinti di questo, perché non dovrei esserlo io? No. Non voglio neppure sentirlo. A suo tempo i Governi italiano e egiziano hanno fatto certamente il loro dovere». 
– «Non accuseremo nessuno. Porremo soltanto degli interrogativi». 
– «No. Non voglio». 

Si era quasi seccata che io avessi osato tanto. Non ho mai capito quella presa di posizione così dura. Forse ha avuto paura di poter andare incontro a dei guai. avventurandosi in un ginepraio pericoloso. Forse si ribellava al solo pensiero che Farouk fosse stato assassinato. perché la sentiva come una realtà enormemente ingiusta. 

Non è escluso, però, che abbia influito anche un altro fatto: più di una persona pare che, in quell’epoca, l’abbia dissuasa a parlarne, dicendole che si sarebbe potuta cacciare nei pasticci: che i governi italiano ed egiziano avevano fatto tutto ciò che c’era da fare: che era tempo perso recriminare sull’accaduto, che niente e nessuno avrebbe ormai potuto modificare. 

È stato proprio questo particolare che mi ha indotto ad insistere perché consentisse che certi interrogativi venissero posti. Tanto io li avrei posti egualmente, magari al di fuori del libro, giudicando ancora più severamente i suoi scrupoli e le sue paure. Così ha accettato, che io ne parlassi, assumendomene tutta la responsabilità. 

Dopo che Irma Capece Minutolo ha letto queste mie considerazioni, ha esclamato: 

«Io confermo che Farouk è morto di morte naturale. Comunque, ammesso che potessero essere formulati interrogativi, perché dovevo essere io a porli? Perché non lo hanno fatto coloro che erano tenuti più di me? Cioè le sorelle, la madre, le ex mogli, i parenti?». 
«Io – ho aggiunto e concluso – ti inviterei a riflettere. So che hai letto il servizio della giornalista Carla Pilolli, pubblicato su «Il Messaggero» del 24-12-1989, a proposito di un incontro avuto a Parigi con Fuad, figlio del re Farouk. Hai notato che lo stesso figlio ha affermato che il padre «è morto in una trattoria romana, in una maniera niente affatto chiara». Se anche il figlio ha dei dubbi, perché non dovrebbero averne gli altri»? 

Irma Capece Minutolo ha annuito, senza rispondere, ma è rimasta molto pensierosa. 

I. Capece Minutolo G. Salucci 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 47-54.




 Lettera aperta al Ministro della Funzione Pubblica  Giustizia amministrativa e burocrazia statale 

Signor Ministro, mi rivolgo a Lei, con la certezza che vorrà dedicare appena qualche minuto a poche mie considerazioni sulla DECISIONE del CONSIGLIO DI STATO n. 659 del 26-6-1990. 

Nella stessa legge, tra l’altro: “A norma… della Legge 29-2-1980 n. 33, al Personale degli Enti .disciolti… assegnati ai Ruoli Speciali… presso ciascun Ministero… era garantita, prima del definitivo inquadramento nei Ruoli Speciali suddetti, una salvaguardia transitoria delle posizioni acquisite presso l’Ente di appartenenza… L’Art. 5 della Legge 10 luglio 1984 n. 301… deve essere interpretato nel senso di applicabilità retroattiva alla data di inquadramento nei Ruoli Speciali (Promozione alla qualifica di Dirigente Superiore), anche in assenza del relativo posto di ruolo nella tabella organica, mediante la istituzione di un posto in soprannumero (nel Ruolo Speciale), cui corrisponde la soppressione del posto nella qualifica di provenienza (Primo Dirigente) … “. 

Molti Ministeri (ad esempio: quello del Tesoro – Ragioneria Generale dello Stato – quello delle Finanze – quello del Commercio con l’estero) hanno già dato esecuzione a tale Decisione del Consiglio di Stato (altri sono in procinto di farlo), per tutti i dipendenti in possesso dei requisiti richiesti. 

Alcuni Ministeri (Sanità – Beni Culturali), per mancanza di serenità e di coraggio nell’assunzione delle proprie responsabilità, non sono stati capaci di prendere analoga, autonoma iniziativa, e hanno sottoposto il quesito al conforto di codesto Dipartimento, che, nella persona del Dirigente Generale, Direttore del Servizio V. Dr. Longhi in risposta ai quesiti stessi, sostiene con forza la infondatezza giuridica della Decisione del Consiglio di Stato, per concludere: “Si è quindi dell’avviso che alle richieste dei Dirigenti … debba essere opposto un assoluto diniego, anche a rischio di provocare un altro contenzioso…”. Come per dire: “Il Consiglio di Stato non è legittimato ad occuparsi di Giustizia Amministrativa e a prendere, di conseguenza, certe decisioni o, per lo meno, poiché ha sbagliato nel prenderle, io non ne tengo conto, a costo di obbligare i dipendenti a ricorrere all’infinito, dal momento che non terrei, naturalmente, conto neanche di una eventuale, ulteriore decisione favorevole. Potrei tenerne conto soltanto quando il Consiglio di Stato si decidesse a tradurre,nel suo provvedimento, il mio punto di vista. In altri termini: o il Consiglio di Stato fa come dico io o ritengo solo me, e non altri, il depositario del Consigliodi Stato”. 

Anche se paradossalmente, sembra che il Direttore del Servizio V abbia ra-gionato e ragioni così. 

Signor Ministro, mi rivolgo a Lei con fiducia, incoraggiato dalle tante iniziative da Lei intraprese per l’ammodernamento dell’apparato statale. Lei insiste molto sul rispetto dovuto al cittadino e sul concetto che l’Amministrazione Pubblica ha come suo primo dovere quello di servire il cittadino. 

Il Direttore del Servizio V dimostra, invece, sul suo ruolo di servitore dello Stato, una concezione molto diversa, se non ritiene di fare il bene del cittadino(nel caso in specifico: del dipendente della Pubblica Amministrazione) neppure quando il supremo Organo della Giustizia Amministrativa sentenzia a suo favore. Evidentemente giudica il suo ufficio non uno strumento di servizio (nonostante il nome lo farebbe supporre – Servizio V), ma un feudo personale, un potere da gestire, più o meno capricciosamente, in nome del cosiddetto “interesse pubblico”, anche se perseguito facendo il danno e l’ingiustizia del cittadino, contravvenendo ad un diritto a lui riconosciuto, anche formalmente, da un Organo a ciò preposto dalle leggi dello Stato. 

Che direbbe questo zelante Capo Servizio se, la mattina, recandosi in Uffi-cio, trovasse i suoi dipendenti decisi a non rispettare le norme, neppure quelle dettate da lui, ovviamente discutibili come tutte le cose umane? Egli si è comportato allo stesso modo. Penserebbe mai di conferire un encomio solenne ai suoi dipendenti, come certamente ritiene di meritare per sé, per il suo lodevole servizio reso allo Stato? O non penserebbe, piuttosto, che l’uno comportamento (quello dei dipendenti indisciplinati) e l’altro (quello suo, di Capo Servizio)sanno di anarchia? Evidentemente egli è convinto, se la logica vale sempre, di fare l’interesse pubblico con l’anarchia. Non si potrebbe mettere in discussione,con questa logica, anche il suo stipendio, che qualcuno potrebbe ritenere, in qualche misura, usurpato, se pensa di impiegare utilmente il suo tempo nel trasgredire, in senso lato, le leggi? 

Il Direttore del Servizio V, tra l’altro, non solo ritiene che possa coincidere l’interesse pubblico con il danno del cittadino, ma, incurante anche del danno che un contenzioso sistematico può arrecare alla Pubblica Amministrazione, la incoraggia a resistere ad oltranza alle “pretese” del proprio dipendente, anche se il Consiglio di Stato ha riconosciuto che quelle “pretese” sono un suo diritto. 

Se neppure la Decisione di un Organo Giurisdizionale ha valore, scompare,per il cittadino, la certezza del diritto, in nome dell’arbitrio di un Capo Servizio,che ritiene diritto solo il suo convincimento e che, sconvolgendo l’ordine giurisdizionale esistente, presume di assommare nella propria persona tutti i poteri,con buona pace di Montesquieu, i cui criteri sembravano ancora validi. 

Non è dissimile, lo stato d’animo che porta a questa conclusione, da quello dei componenti dell’armata, cosiddetta, di Brancaleone. Ogni Dirigente statale,nel caso nostro al di fuori di ogni regola e di ogni norma, può tranquillamente,come i componenti di quell’armata, decidere come più gli aggrada, quando si sveglia la mattina, in base ai suoi discutibili umori di giornata. 

Ciò, purtroppo, avviene non soltanto dinanzi ad una Decisione del Consiglio di Stato, ma, più spesso dinanzi a tutte quelle provvidenze che vari Ministeri (non tutti per fortuna), gestiscono, non animati da spirito di giustizia, ma di parte, per cui alcuni cittadini o persone giuridiche risultano lautamente favoriti, altri sistematicamente esclusi da certe provvidenze, che potrebbero, meglio,essere destinate a rotazione, quando i mezzi non consentono di raggiungere tutti contemporaneamente. 

Mi scusi, Signor Ministro, questo sfogo, ma la Società (sia essa fatta da cittadini, da dipendenti statali o da altre categorie), per andare avanti bene, ha bi-sogno, credo, di persone responsabili, non dominate da passioni ingenerose, di cui ci si possa fidare di più. 

Fino a qualche tempo fa, almeno, il Dipartimento per la Funzione Pubblica, nella sua azione di consulenza legale, si è sempre schierato dalla parte del cittadino, quando non era di danno alla collettività. Diventa assurda e ingiusta, quando, come nel caso specifico, presume di fornire indirizzi giusti, in contrasto con le decisioni dei Competenti Organi di uno Stato di Diritto come il nostro. 

Tale azione non può non essere avvertita come frutto di arroganza e di disprezzo della giustizia. Si possono anche discutere le decisioni degli Organi 

Giurisdizionali, ma non essere disattese. Sarebbe come se la Corte Costituzionale dichiarasse incostituzionale una norma o altri Organi dello stato, non condividendo, si sentissero autorizzati a non tenerne conto. Sarebbe lecito e giusto? Agli Organi dello Stato ciò non è consentito. Perché è consentito ad un Capo Servizio? 

Non sarebbe stato più opportuno che, almeno, il parere su una Decisione del Consiglio di Stato fosse scaturito da un esame collegiale, date le sue implicanze? Come la mette, poi, questo Capo Servizio con quei Ministeri che hanno già applicato la Decisione del Consiglio di Stato? Non avrebbe dovuto tener conto anche di questo un funzionario attento e scrupoloso? 

Affinché chiunque legga questa lettera (al di fuori di Lei, Signor Ministro, che non ha bisogno del chiarimento) comprenda che la citata Decisione del Consiglio di Stato non voleva creare dei privilegi (come sostiene il Capo Servizio) per gli appartenenti al ruolo Speciale rispetto a quelli del Ruolo Ordinario, ma ristabilire, per essi, la giustizia, faccio notare che la confluenza (del Personale di tanti Enti disciolti contemporaneamente) in un unico Ruolo Speciale, presso i singoli Ministeri, ha comportato grandi disparità di trattamento, nel senso che alcuni, figuranti al primo posto nella posizione giuridica dell’Ente di provenienza, si sono ritrovati all’ultimo posto nel ruolo Speciale e viceversa, anche quelli che avevano maturato il diritto alla promozione e potevano ricoprire posti già disponibili nell’Organico dell’Ente di provenienza e non assegnati per la soppressione dell’Ente stesso? 

Il “nostro” Capo Servizio non ha saputo o voluto comprendere queste cose, all’origine della Decisione del Consiglio di Stato, come non ha saputo o voluto comprendere che l’unica via per ristabilire la giustizia non poteva essere che quella del soprannumero, visto che il Ruolo Speciale era viziato, come si è visto, in partenza. 

Se come prevedeva la legge, il Ruolo Speciale fosse confluito subito nel ruolo Ordinario, si sarebbe fatto un torto a quelli del Ruolo Ordinario, per lo stesso motivo valido per i provenienti da Enti soppressi. Ecco perché la confluenza nel Ruolo Ordinario ha incontrato molte resistenze ed è avvenuto dopo otto anni e non in termini di parità. 

Potremmo discutere a lungo, con punti di vista diversi, sul contenuto, le motivazioni pro e contro. le difficoltà di un provvedimento, ma solo a titolo accademico, perché nessuno, neppure il Capo del Servizio V del dipartimento della Funzione Pubblica ha il diritto di opporsi alla applicazione di una Sentenza di un Organo giurisdizionale al suo ultimo livello. 

Mi auguro, Signor Ministro. che Lei (impegnato ad eliminare dai comportamenti della Pubblica Amministrazione tante storture) trovi il modo di rendere responsabile, a tutti i fini, il Funzionario che emana i provvedimenti, anche per l’eventuale risarcimento dei danni. 

Troppo comodo contrapporsi ad una decisione definitiva di un Organo giurisdizionale quando al Funzionario-trasgressore non costa nulla, mentre costa molto alle altre parti in causa, compreso lo Stato. Un contenzioso ingiustificato e diffuso costa di più allo Stato, della promozione, sì o no, di quindici, venti Funzionari. Neppure questo valeva considerare per il premuroso Capo Servizio? 

Le sembra, Signor Ministro, che sia il più adatto a ricoprire un incarico così elevato, chi è più abile ad alimentare i conflitti che ad appianarli, non certo per migliorare il clima della Pubblica Amministrazione, nell’interesse di tutti? 

Signor Ministro, grato per la pazienza dimostrata. Si abbia la mia stima e il mio rispetto. 

Giovanni Salucci 

P.S. – Forse non è male sottolineare ancora, per il Signor Ministro, la farraginosa e assurda procedura ancora vigente per la tutela dei diritti amministrativi: un dipendente della Pubblica Amministrazione a cui è stata negata l’applicazione di una sentenza del Consiglio di Stato, deve, per chiedere che gli venga applicata, ricorrere al T.A.R e cominciare daccapo, in un circolo vizioso “forse” infinito. 
Come può funzionare bene la macchina statale, se questi sono i suoi ingranaggi? Il Ministro per la Funzione Pubblica non può fare proprio nulla per rimediare a certe storture?

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 21-25.




F. Monaco, Ma perché scrivono? (La lingua italiana devastata), Roma, E.I.L.E.S., 1987, pagg. 105.

 L’autore F. Monaco, giornalista, titolare anche di un’agenzia di stampa (Italia Notizie), con sede in Roma, è di quegli scrittori che possiamo definire, per molti -scomodo… 

Senza peli sulla lingua, e con coraggio, da 20 anni circa, sottopone al vaglio della sua critica pungente gli argomenti più disparati, tutti, però, riconducibili al filo conduttore di un costume sociale disinvolto e dai valori discutibili. Basta scrivere il solo titolo di alcuni suoi libri per rendercene conto: La buonanima dello Stivale, Il circo degli inconcludenti, Dizionario della mala repubblica, etc. 

Con il nuovo lavoro, Ma perché scrivono, è sotto accusa e sotto tiro la leggerezza con cui viene usata la lingua italiana a tutti i livelli e in tutti i settori, senza rispetto alcuno per la grammatica, la sintassi e il buon senso. Dall’indice si capisce che l’Autore non risparmia nessuno. C’è da dire che nulla è lasciato all’anonimato e che ogni citazione porta il nome e il cognome dei responsabili. 

È motivo, perciò, anche di notevole curiosità, perché compaiono tanti insospettabili che mai, prima d’ora, avevamo immaginato colpevoli di sviste negligenze o ignoranza in tema di lingua italiana. 

Il libro prende le mosse dall’art. 21 della Costituzione che sancisce: -Tutti hanno il diritto di manifestare il proprio pensiero con le parole, con lo scritto e ogni altro mezzo d’espressione… L’autore non contesta, ma commenta con ironia: -Però fra le tante, madornali amnesie dei Costituenti c’è stata anche quella relativa a un fondamentale dovere di chi scrive: il dovere di rispettare chi legge. E rispettare chi legge significa non propinargli corbellerie in maniera oltre tutto, pedestre… 

Da tali espressioni si può arguire facilmente che il libro, oltre ad essere caratterizzato da un’analisi pungente di certi andazzi, contiene anche elementi che lo rendono oltremodo spassoso e piacevole alla lettura: lo stesso stile brillante e incisivo di tutte le altre opere del nostro Autore. 

G. Salucci

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pag. 60




Congresso Sindacato Nazionale Scrittori

 Il mio intervento sarà di natura eminentemente pratica. 

Il nostro è un Sindacato come si sa “sui generis”, diverso certamente da tutti gli altri. Negli altri sindacati ci sono ruoli ben definiti delle parti in causa, e linearità del contenuto e della materia del contendere: il datore di lavoro, il lavoratore dipendente, l’interesse preciso e generale da difendere, l’arma dello sciopero come strumento di pressione e di persuasione. 

Nel nostro sindacato, invece, i ruoli delle parti in causa sono poco circoscritti, più indeterminati: o per lo meno non così strettamente collegati tra loro e molto più complessi: perché il datore di lavoro quasi non esiste, confuso spesso con la stessa struttura della società. prevalentemente nelle sue parti più carenti; il lavoratore quasi mai è un lavoratore dipendente: la materia del contendere è così multiforme e sfuggente che investe le più clamorose contraddizioni della stessa organizzazione dello Stato e della società: il lavoratore non ha quasi mai la possibilità di usare l’arma dello sciopero come elemento di pressione e di persuasione. Da qui discende l’enorme difficoltà di trovare la via giusta da seguire nelle lotte e nelle rivendicazioni. Bando perciò alle facili critiche ed alle inevitabili insoddisfazioni e invito alla ricerca responsabile e serena dei mezzi adatti e soprattutto ad una maggiore intesa e ad una maggiore solidarietà tra noi, senza di che, io penso, ogni sforzo potrebbe risultare vano. 

Esistono due posizioni sulla fisionomia del Sindacato: 
Avrebbero ragione i primi, se esistessero Organismi diversi dal Sindacato, capaci veramente di difendere gli interessi particolari. Avrebbero ragione i secondi, se tali Organismi non esistessero o dimostrassero di essere incapaci di difendere gli interessi particolari. Siccome non esistono tali Organismi capaci, io sono con quelli della seconda posizione, i quali ritengono che l’azione del Sindacato non dovrebbe escludere nulla che possa giovare agli iscritti. Del resto, ormai, in ogni Sindacato non è più così netta la distinzione tra interessi generali e particolari o individuali. Il suo impegno maggiore dovrebbe senza dubbio essere per le piattaforme rivendicative di carattere generale, ma dovrebbe esistere anche per le istanze di carattere particolare. Tra l’altro, per gli iscritti, spesso alcuni problemi particolari sono più importanti o importanti nella stessa misura di quelli generali. (Un trasferimento: una migliore utilizzazione del lavoratore sul posto di lavoro; una pressione, perché una certa pratica legata al suo rapporto di lavoro venga sollecitata, evasa, ecc. ecc.). 

Non intendo qui riferirmi all’opera svolta dai vari “patronati”, di derivazione sindacale, che si occupano di tutti i problemi degli iscritti in quanto cittadini, anche al di fuori della loro qualità di “lavoratori” (Tale attività può esulare da quella del Sindacato). Ma non può essere esclusa quella, nel nostro caso, che investe i problemi relativi alla persona nella sua qualità di “scrittore” e non di semplice cittadino. 

La riforma, ad esempio, delle nonne del diritto di autore (problema di carattere generale) è importantissima, ma potrebbe avere poco senso per quell’autore, che non avesse risolto prima, a monte, il suo problema legato alla edizione del libro, alla sua distribuzione, alla sua pubblicizzazione, e alla sua vendita. Perciò il Sindacato non può restare estraneo a problemi apparentemente di carattere particolare, ma in realtà di carattere generale, perché investono gli interessi di tutti. 

Cosa può fare il Sindacato per affrontare questi problemi? Poiché il lavoratore-scrittore non ha, e lo abbiamo detto, come i lavoratori dipendenti, l’arma dello sciopero, bisogna trovare altre forme incisive di pressione. E qui scendo nel concreto. 

Il Sindacato deve sviluppare la sua opera di penetrazione in tutte le direzioni. Ed io penso ci sia da fare molto in questo senso. Molti ambienti, statali, parastatali, pubblici, in genere economici e non economici, hanno spazi notevoli di espansione per il Sindacato Scrittori, nell’interesse dei suoi iscritti. Mi spiego con un solo esempio che può valere, però, di indicazione per tantissimi esempi dello stesso genere. Il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali esplica molte attività direttamente connesse alla nostra qualità di scrittori: 

– stampa molte riviste, anche se di contenuto specializzato, con la collaborazione, per gli articoli, di esperti anche esterni; 

– acquista libri, direttamente dagli autori o dagli editori, per la distribuzione gratuita a biblioteche private di ogni genere (di sindacati, di scuole, di parrocchie, di organizzazioni culturali, di istituti di pena, ecc); 

– acquista libri, per la distribuzione gratuita alle biblioteche non statali aperte al pubblico; 

– acquista libri (anche se per il tramite delle stesse biblioteche) per le Biblioteche statali; 

– finanzia le Edizioni Nazionali; 

– eroga premi di cultura agli autori; 

– sottoscrive abbonamenti per riviste da destinare a persone giuridiche, in ambito nazionale ed internazionale; 

– acquista libri da destinare ad Istituti culturali esteri, nell’ambito degli scambi internazionali previsti dai trattati bilaterali di natura culturale; 

– concede premi a riviste di elevato valore culturale; 

– concede contributi per Convegni di natura culturale; 

– concede premi per la esportazione del libro italiano all’estero; 

– concede mutui agevolati all’editoria libraria (praticamente senza interessi); 

– assegna, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, diplomi e medaglie al merito culturale. 

Tutte queste attività sono gestite da Commissioni, formate da funzionari interni, da esperti esterni, con la partecipazione dei Sindacati di categoria. A me risulta che. in molte di queste Commissioni, è presente l’Associazione Italiana Editori. Non so se sia egualmente presente il nostro Sindacato Nazionale Scrittori, 

nell’interesse ovviamente della cultura e dei propri iscritti. Se non è presente, e laddove non è presente, è necessario premere, a tutti i livelli, perché faccia parte anch’esso di tali Commissioni. Ciò vale per il Ministero dei Beni Culturali, come per tanti altri Ministeri e Enti Pubblici. Certamente il nostro Sindacato è presente in tanti Organismi, come ad esempio, nella Commissione che assegna i premi di cultura presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Deve cercare di essere presente dappertutto. Tante attività non si conoscono. Sono certo che molti di noi non conoscono quelle attività, o almeno non tutte, che ho nominato per il Ministero per i Beni Culturali, come la maggior parte non conosce attività similari svolte da tanti Organismi Pubblici, a livello nazionale e locale (Presidenza del Consiglio, Ministeri, Enti Pubblici, Istituti Culturali, Enti locali. ecc.). 

Tutti questi organismi possono essere anche interessati a non avere troppe voci esterne nel loro seno e spontaneamente potrebbero preferire anche il silenzio sulla possibilità della presenza dei Sindacati delle categorie interessate. Tale atteggiamento è comprensibile, perché la presenza dei Sindacati limita il potere discrezionale, che può diventare arbitrario, della Pubblica Amministrazione. Sono i Sindacati esclusi che devono prendere l’iniziativa, sia per conoscere in maniera capillare le attività culturali svolte a tutti i livelli ed in ogni zona, sia per ottenere la loro partecipazione responsabile alle scelte culturali. 

Io suggerirei che, sia a livello nazionale che locale (regione, provincia, comune) vengano istituite, nell’ambito sindacale, commissioni permanenti (formate da iscritti che rivestano cariche sindacali, come da iscritti esperti o inseriti nei vari ambienti esterni) che studino il problema della partecipazione del Sindacato ai vari Organismi esterni e propongano agli Organi Sindacali responsabili le soluzioni da adottare di volta in volta. 

Tali commissioni permanenti potrebbero occuparsi anche dello studio e delle proposte di soluzione anche di tutti gli altri problemi che interessano gli scrittori (il rapporto con le Case editrici per la pubblicazione dei libri, la distribuzione del libro. la vendita del libro, il rapporto con le librerie, l’opera di pubblicizzazione del libro stesso, ecc.). 

Sono note a tutti le difficoltà che incontra la soluzione di questi problemi. Le case editrici, la distribuzione, la vendita, la pubblicizzazione del libro rappresentano altrettanti ostacoli spesso insormontabili, che vanificano ogni nostro sforzo. Le leggi del mercato e del profitto mortificano spesso le nostre aspettative e ci trasformano in semplici oggetti di sfruttamento. quando va bene. Perché spesso, neppure dopo che siamo stati sfruttati, riusciamo ad avere la gioia di qualche successo, perché gli altri hanno deciso così: gli editori, i distributori, i venditori. Tutti, tranne noi, fanno il bello e il cattivo tempo: stampano i libri che vogliono, distribuiscono i libri che vogliono, vendono i libri che vogliono. in base a criteri discutibili, discriminanti, che di tutto tengono conto, tranne, nella maggioranza dei casi, del contenuto valido del libro. Siamo, nella politica del libro e della cultura, ai primordi dello sviluppo civile e storico, alla fase, direi, ancora di servitù della gleba, di feudalesimo il più retrivo. E non abbiamo la possibilità di reagire come gli altri lavoratori, al nostro, diciamo così, datore di lavoro, in senso ironico quasi e improprio, rappresentato, per noi, dall’editore, dal distIibutore, dal venditore. 

Dobbiamo perciò rassegnarci al ruolo di vittime, senza possibilità di scampo? Io dico di no. 

Ogni situazione, anche la più grave con l’in1pegno e la buona volontà, può trovare una via d’uscita. 

Non potrebbe il Sindacato tentare di fare delle convenzioni, degli accordi, per i propri iscritti, con gli editori, con i distributori, con i venditori? E al limite, se ogni tentativo risultasse vano, non potrebbe il Sindacato affiancandosi a strutture solide già esistenti, ipotizzare la creazione di una propria casa editrice, di una propria rete di distribuzione, di proprie librerie, almeno nelle grandi città, con la partecipazione finanziaria e operativa dei propri iscritti? Indubbiamente sono problemi di enormi proporzioni che vanno esaminati a fondo, senza ingenuità, con senso di equilibrio e di realismo. Ma devono essere affrontati, pena il fallimento di tutta l’opera del Sindacato, che risulterebbe, diversamente, sterile. Senza dubbio, prima di arrivare a proprie strutture industriali, produttive, commerciali, bisogna tentarle tutte: nelle tesi preparatorie del precedente Congresso, si insisteva sulla iniziativa di cooperative di secondo grado. 

Non ricordo bene come fossero strutturate, ma mi pare rientrassero nello spirito di ciò che sto dicendo io. 

Nelle tesi si accennava anche ad un’altra idea interessante sull’intervento della mano pubblica nel settore dell’editoria, fino alla conseguenza più globale: alla istituzione di un Ente pubblico che gestisca in proprio l’attività culturale e, in senso stretto, quella concernente il libro nel suo iter completo: pubblicazione. distIibuzione, vendita, pubblicizzazione e promozione. Un Ente Pubblico, naturalmente, dove sia prevalente la presenza delle categorie interessate, compreso il nostro Sindacato. 

Solo una struttura pubblica di questo genere potrebbe fare da contrappeso all’attuale prepotere del monopolio privato, a favore proprio di quegli autori che l’attuale sistema emargina o distrugge completamente. Si è fatto qualcosa in questa direzione? 

Tutto è molto difficile, ma bisogna tentare tutto. 

Si è fatto qualcosa sul contenuto di altre tesi dello stesso Congresso: Ristrutturazione ed efficienza dell’ENAP – abolizione della legge Bacchelli per interventi più radicali e definitivi – presenza degli autori nello staff dirigenziale delle case editrici – rapporti con gli altri Sindacati – attività vertenziale in difesa del contratto dell’autore in seno all’OLAF-SIAE percentuale del diritto d’autore degli scrittori decedudi da oltre un cinquantennio a favore degli scrittori viventi – penetrazione dell’oggetto libro nei supermercati e nei negozi di altro genere, ecc. 

Un’altra cosa io ritengo molto importante: è una questione un po’ delicata, che va esaminata con attenzione, ma potrebbe anch’essa dare i suoi frutti. Sviluppare una maggiore conoscenza reciproca tra gli iscritti. A questo punto gli scopi di un sindacato si fondono con quelli di una Associazione e si integrano. 

Rispettando la libertà di ciascuno. potrebbero essere messi a disposizione degli iscritti quei dati che i soci ritenessero di far conoscere spontaneamente, sulla posizione, che essi occupano nella società (case Editrici, Ministeri, Organismi pubblici e privati, nazionali e locali), perché tutti possano sapere, possano scambiarsi le esperienze, possano fornire quelle notizie e quelle conoscenze utili agli altri, in un clima di fraterna, serena, mutua solidarietà, senza pretese assurde. 

Sarebbe un male, ad esempio, che tutti conoscessimo l’intera opera dei colleghi scrittori, per dare una mano quando è possibile, per fare, anche se in piccolo, opera di propaganda quando capita l’occasione? Sarebbe un male, se il Sindacato potesse rivolgersi con fiducia a quelli di noi inseriti nelle strutture pubbliche e private e che potrebbero facilitare la partecipazione del Sindacato alle Commissioni di cui parlavo prima? Sarebbe un male, se la conoscenza della nostra posizione sociale potesse rappresentare un punto di riferimento, per il 

Sindacato e per gli iscritti, per la conoscenza di quelle iniziative culturali esistenti ai vari livelli e che spesso ignoriamo, per la utilizzazione, almeno, delle provvidenze esistenti che non conosciamo, per una più facile presa di contatto con tutti quegli Organismi pubblici e privati che interessano la nostra attività di scrittori? 

Io non ritengo che sia un male. Sono anche convinto che ciascuno di noi utilizzerebbe con discrezione e senso della misura ogni possibilità di solidarietà umana. Ma anche se non fosse. chi impedirebbe a ciascuno di noi di dire con sincerità e senza risentimento al collega troppo pressante: “abbi pazienza, stai esagerando”? 

Io sono convinto che gli aspetti positivi di questa iniziativa siano più numerosi di quelli negativi e che ogni azione umana comporti sempre qualche rischio, al quale, se vogliamo agire, non possiamo sottrarci. 

Forse sto abusando della vostra pazienza. Vorrei terminare con due parole soltanto sulla organizzazione del Sindacato. Data la molteplicità e la complessità dei compiti che il Sindacato è chiamato a svolgere, se non vuole fare solo opera di vuota accademia. deve rafforzare, è la mia impressione, le sue strutture a livello centrale e periferico. 

Ritengo che il Sindacato debba disporre di maggiori mezzi finanziari: che le persone investite di certe cariche, richiedenti notevole disponibilità siano adeguatamente retribuite. Non so cosa accada attualmente in proposito: che la rivista Produzione e Cultura venga potenziata per periodicità e contenuti, con la inclusione anche di una rubrica destinata alla divulgazione dell’opera degli scrittori soci; che vengano istituite commissioni permanenti. come detto prima. per l’approfondimento pratico dei problemi e per la indicazione delle soluzioni opportune; che a livello di segreteria nazionale. regionale e provinciale. funzioni un centro di raccolta di dati e notizie che interessano gli scrittori; di dati e notizie che riguardino l’opera degli iscritti; una specie di anagrafe generale di tutto ciò che può interessare; che in ogni struttura pubblica e privata, dove lavora qualche iscritto, venga nominato un rappresentante del Sindacato, che faccia da tratto di unione, da organo di tutela degli interessi degli scrittori soci che lavorino nello stesso ambiente e di tutela di quelli che non lavorino negli stessi ambienti, ma che potrebbero partecipare alle iniziative culturali promosse dalle stesse strutture. 

Se non insistiamo di più sui problemi concreti come questi e su altri ancora che potrebbero venir fuori, rischiamo di fare opera, come detto innanzi, di inutile accademia. 

Giovanni Salucci

*. In vista del Congresso del Sindacato Nazionale Scrittori, si stanno tenendo in tutta Italia riunioni e assemblee. Riteniamo mollo utile. per le sue indicazioni concrete, l’intervento effettuato dal pro] Giovarmi Salucci alla riunione tenuta presso la sezione del Lazio il 15-2-1991.
1) alcuni ritengono che esso debba limitarsi al sindacalismo puro; alla difesa, cioè, degli interessi generali degli iscritti, per demandare ad Organismi diversi dal Sindacato, a specifiche associazioni, il compito di occuparsi di interessi particolari, individuali; 
2) alcuni invece ritengono che il Sindacato debba preoccuparsi sia della difesa degli interessi generali che di quella degli interessi particolari e individuali. 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 45-51




L’amara eloquenza del silenzio dello scrittore 

 Da «Il Manifesto» del 26-9-2005 riprendiamo una lettera di Nello Sàito, che ci sembra significativa della condizione dell’ editoria italiana e dello scrittore in genere. 

Cari Amici, 

non sono morto. Ma non è colpa mia se mi è stato assegnato nel 1970 il Premio Viareggio. 

Non è colpa mia se, dopo il Premio Viareggio i miei romanzi sono stati rifiutati da tutti gli editori italiani, con l’eccezione di un piccolissimo, sconosciuto editore siciliano che poi non ha voluto distribuirlo minimamente. Silenzio. 

Utopia anarchica? Può essere, dato che mio padre e mia madre sono siciliani. O perché nei romanzi era descritto il sogno di un Risorgimento siciliano che si poteva avverare riprendendo la tradizione del glorioso separatismo siciliano. 

Altro che Bossi per attuarlo! 

Ci voleva un Savonarola siciliano per una vera rivoluzione del Sud contro il Nord. Altro che ponte sullo Stretto! 

La Sicilia doveva utopicamente allontanarsi dal continente, non avvicinarsi, congiungersi. Doveva e può divenire la Sicilia del Mediterraneo con le sole sue forze. E così la finta lotta contro la mafia; è vero il contrario, semmai la mafia doveva aiutare a creare l’indipendenza, la singolarità, la diversità geniale della Sicilia, vale a dire si trattava di chiamare dall’ America e dal mondo i mafiosi a unirsi per aiutare il Risorgimento siciliano. 

Invece, da sempre si è tentato di crocifiggere, uccidere quella singolarità che non aveva nulla a che fare con il continente. 

Si è preferito inchiodarla a uno stereotipo, come per esempio i romanzi di Camilleri, di indicibile volgarità, perché questo faceva comodo alla volontà colonizzatrice del Nord, alla sua inesausta volontà di dominio. 

La Cassa del Mezzogiorno? Cos’è? La povertà innalzata a mito, così la violenza cantata, scritta, musicata del Sud siciliano in un quadro stravecchio, sempre lo stesso, soffocato da polizia, esercito, vessazioni di ogni tipo, tasse sull’intelligenza, esproprio di ogni bene, donne comprese, declassate a meretrici del cinema. 

La Sicilia? Volutamente ignorata per secoli, quando non mitizzata per violenza, mafia, povertà, bruttura. Perfino la sua origine culturale venne negata. 

L’intelligenza, la cultura, invece che dalle meravigliose colonie greche non più nominate, venne fatta iniziare più tardi, né scrittori, né architettura, né società e costumi ma piuttosto dai menestrelli di corte di Re Federico, poveretti. Addio Grecia. E i siciliani che erano stati dèi, cioè greci, fenici forse anche ebrei e soprattutto arabi, furono declassati a poveri extracomunitari cui si doveva solo elemosina e disprezzo. 

L’intelligenza è come la mondezza, si diceva in Sicilia. Ora è negata. Anche se giuristi e uomini di pregio hanno invaso il Nord donando il loro sangue, cioè la loro intelligenza che non aveva più patria. Lasciando solo la schiuma degli assassini e degli stupratori che non erano quasi mai i siciliani ma i loro oppressori. Così la Sicilia è stata lacerata, crocifissa Ci romanzi di Camilleri) e mitizzata come i Sassi di Matera di cui Togliatti, appena vistili, disse: che vergogna! Invece di distruggerli e ricostruire case nuove, decenti, umane sono stati mitizzati. 

In Sicilia invece si distrugge solo il bello, vale a dire, il barocco, le chiese, il 

paesaggio, l’idea della bellezza e dell’intelligenza (e l’intelligenza come la musica non ha bisogno di traduzione); importante è distruggere quello che poteva e ancora potrebbe essere, come ho detto, il giardino del Mediterraneo, la Mecca della nuova civiltà che al Nord sta morendo o è già morta. 

Perciò, mi ripeto: siciliani di tutto il mondo, tornate a casa; mafiosi di tutto il mondo, il vostro lavoro è qui, venite a ricostruire, a difendere la Sicilia che i coloni del Nord stanno da secoli uccidendo. 

Mafiosi, unitevi, accorrete, ne avete la forza, l’intelligenza; non soccombete ancora all’inganno che da sempre dura contro di voi. Reagite! 

Nello Sàito 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 23-24.




Un cammino di cultura 

Buon pomeriggio a tutti, prima di tutto ringrazio Jean Paul de Nola per l’ospitalitàsempre affettuosa e signorile in questa che è una casa della cultura e non solo una bellissima magione privata. 

È davvero importante dare merito, e soprattutto festeggiare una rivista, “Spiragli”, che si deve ad un intellettuale o, come meglio direbbe, e giustamente ci ha ricordato in uno dei primi articoli Titone, un uomo di cultura qual è Salvatore Vecchio che, intanto, salutiamo con un applauso, in quanto è l’animatore di questa impresa, perché di impresa trattasi. Vedete, una rivista che ha solcato 20 anni e che oggi è approdata da 4, 5 numeri nelle sapienti mani dell’editore Renzo Mazzone, punto di riferimento della cultura siciliana e non solo, che è qui con noi e che saluto come maestro di molti di noi, per l’affetto da un lato, ma soprattutto per la competenza, la cultura e la qualità della sua azione culturale e per avere preso nelle proprie cure questa prestigiosa rivista. 

Ma l’impronta marsalese, l’impronta siciliana di “Spiragli” è appunto, tutta del suo direttore, senza nulla togliere, come vedremo, agli autori. Diciamocelo francamente, una rivista è di cultura, di letteratura e, soprattutto, di chi la fa, di chi la fa con amore, con passione, con determinazione, con libertà Questa rivista, come leggeva prima il prof. De Nola, che tra l’altro è un collaboratore (io ho appena letto in questi giorni un bellissimo suo ulteriore contributo a Paul Bourget che egli ha pubblicato proprio su “Spiragli”), è nata all’insegna di questi valori, all’insegna, appunto, della libertà. 

Su questa rivista hanno avuto ospitalità tanti uomini di cultura: poeti, non solo italiani, narratori, saggisti. Ma, soprattutto, questa rivista nasce in una zona certamente complessa della nostra Sicilia che è Marsala (per quanto Marsala sia una bellissima città che io amo molto, anche per ragioni familiari e non solo perché è una bella città, essa, diciamolo francamente, pur avendo avuto specialmente negli ultimi anni una ripresa di attività culturale, non c’è dubbio che fino ad una ventina di anni fa, quando nasceva la rivista, era una zona abbastanza terminale della vita culturale siciliana e nazionale. Ad esempio, la galleria del Carmine ha in questi anni prodotto alcune importanti mostre che sono a vanto di questa città ma soprattutto, grazie a “Spiragli”, è diventata anche una città che ha irradiato la vita letteraria e culturale nel più ampio ambito siciliano, nazionale e internazionale. 

Intanto, il nostro prof. e amico Salvatore Vecchio, autore che ha esordito nel 1963 con la raccolta di poesie Primo Albore, presente in varie antologie, è autore di un libro di narrativa, Le lettere di Maria Clara Neves, pubblicato dalla Herbita nel 1984, di saggi molto importanti e soprattutto autore di saggi corposi e di una letteratura siciliana. Penso ai saggi su Cardarelli, Pirandello e Ionesco, a La terra del Sole, penso al numero unico che ha curato e anche ai tanti contributi dedicati a Romano Cammarata, artista, scrittore, poeta e anche alto dirigente della Pubblica Istruzione italiana. 

Quest’impresa nasce proprio all’insegna della libertà il primo numero dell’ ‘89, del gennaio-marzo ‘89, lo ha detto il prof. De Nola, nasce con quelle parole che abbiamo già sentito e con queste altre che vorrei leggervi, perché è il manifesto di fondazione di “Spiragli” e per vedere e verificare insieme, se in questi anni ha tenuto fede, secondo me assolutamente, a questo programma: 

In un periodo in cui tutto sembra correre verso uno sfascio senza alternative, e la materialità è dilagante, si sente il bisogno di ripristinare quei sani valori di una volta che davano fiducia nella vita e la facevano amare. 

Nostra convinzione, e di quanti la pensano come noi, è che se l’uomo guardasse un po’più dentro di sé certamente ritroverebbe tante di quelle risorse positive, che ora sembrano del tutto assopite, e necessarie per cambiare in meglio lo stato in cui si trova. 

Consapevoli che bisogna adoperarsi, oggi più che mai, per perseguire il bene, non rimane che rimboccarci le maniche per recuperare il senso vero della vita: la famiglia, l’micizia, il rispetto del prossimo… 

Questo è l’intento che anima i promotori e i sostenitori della Rivista, e per questo intento guardano fiduciosi alla letteratura, alle arti, alla scienza, alla scuola, ai problemi che li circondano, sicuri della loro importanza formativa e costruttiva insieme. 

Vedete, questo è un programma di ampio respiro, un programma che già dai primi numeri vedeva l’attenzione di intellettuali di grande livello, di scrittori, di critici: penso a Barberi Squarotti, a Mario Pomilio, a Francesco Spina, all’amico comune Francesco Grisi, un amico che resta per me e per molti di noi un punto di riferimento assolutamente non eludibile. Tutti questi andavano ad indicare nei primi numeri una sorta appunto di spiraglio. Infatti il titolo è lo spiraglio, direi, quasi la fessura che si apre verso la conoscenza, quella necessità di guardare oltre, attraverso una sorta di fenditura, attraverso una sorta di apripista. 

Quando recentemente (qui ho tanti colleghi e amici che ringrazio), parlavo di fondare una rivista in una classe di terza superiore, dicevo: – Ragazzi, voi non capite a volte cosa significa potere stralciare una tela e potere aprire una tela. A volte si dice: – E chi non sa fare una cosa del genere? Chiunque è in grado di dare uno strappo a una tela! Però il concetto è ben diverso! Il concetto significa “aprire oltre la tela “, “andare oltre la tela”, “guardare oltre”; comunque sia, il segno può piacere, può non piacere, è un problema estetico; concettualmente, l’idea è quello di andare oltre, e lo spiraglio è questo: vedere di aprire delle possibilità. E queste possibilità su che cosa si muovono, su cosa si misurano, su cosa si materializzano? Nella letteratura. Una letteratura che non è soltanto “narcisismo”, perché noi abbiamo l’idea – molti di noi, diciamo la verità – abbiamo l’idea della letteratura come narcisismo, come forma di autorappresentazione, di autoaffermazione, come se la letteratura fosse un bel vestito, una bella occasione, un bel modo per rappresentarci insieme, per stare insieme. Probabilmente la letteratura è anche questo, per carità mondanità ma certo è l’ultima cosa rispetto a quello che è il testo, rispetto a ciò che è la vera e propria funzione e direi anzi, per certi versi, missione fondamentale della scrittura. Da quando esiste la scrittura, cioè da quando l’uomo comunica attraverso i graffiti, che forma di scrittura sono, come lo sono i geroglifici, trasmette. 

Che cosa è un graffito? Cosa sono, ad esempio, i graffiti dell’Addaura? 

Sono forme di trasmissione, non solo il segno in quanto tale, sono forme in quanto tali. Naturalmente poi si codifica in linguaggio, e poi nella storia della civiltà Tuttavia “trasmissione” significa anche avere responsabilità di ciò che si trasmette; e questo è stato il senso della rivista in questi anni: è stato il senso della rivista con le difficoltà che soltanto chi fa riviste può saperlo. Soltanto chi stampa libri e chi ha quotidianamente a che fare, come Renzo Mazzone, ed anch’io (ormai da tanti anni, non quanto i suoi, ma insomma anch’io da tanti anni), ci portiamo dietro, da un lato, come compito, ma anche come, per certi versi, segno da esplicare ulteriormente nel segno della diffusione e della presenza, ma soprattutto, della identificazione della cultura. 

E allora cosa ha pubblicato “Spiragli”, cosa ha fatto in questi anni? Innanzitutto ha eletto, a mio avviso, alcuni punti di riferimento. Li ha eletti e, nel tempo, ne troviamo echi. Uno di questi punti di riferimento è a mio avviso, anche perché ho visto quasi tutti i numeri della rivista, Virgilio Titone. 

Non solo come grande storico e non solo perché se ne occupò sin dal primo numero, se non ricordo male, Calogero Messina, che fu un collaboratore attento della rivista, ma perché attraverso Virgilio Titone si è impresso, direi, anche nella desolata per certi versi provincia siciliana che è quella del trapanese (desolata lo era, anche secondo l’accezione di cui parla in un saggio molto attento e profondo Vecchio su Gentile, a proposito del tramonto o meno della cultura siciliana), il segno di una rinascenza. Tutto questo con Titone 

è stato il segno di una rinascenza. Una rinascenza che si basava soprattutto su una storia rivista, meditata e indagata secondo una categoria di ordine oggettivo e non soltanto soggettivo, pur essendo il nostro Titone, per chi lo ha conosciuto, come me e come molti di noi, un uomo di una difficoltà caratteriale senza pari. Io mi porto la fama di essere un poco spigoloso, e me la porto dietro con piacere, ma, diciamo, Titone era una delle persone non spigolose, era uno specchio aguzzo. Tuttavia chi ha avuto il segno e il senso della sua amicizia, e soprattutto della lettura dei suoi testi, capiva e ha capito che la libertà di Titone era paradigmatica al suo essere uomo integralmente calato in una realtà di crisi da un lato che egli ha violentemente, in termini anche di pubblicistica, attaccato alla radice; penso a Titone ricordato sulla rivista per la direzione delle sue riviste, una delle quali provocatoria anche nel titolo, intitolata “Quaderni reazionari”. 

Titone era un vecchio liberale, conservatore, amico di Croce. C’è un bellissimo testo, devo dire, che rievoca una mancata visita al grande filosofo, e questo è anche paradigmatica di un certo modo di fare cultura, narrata nelle pagine di “Spiragli”; è un lungo saggio, molto bello, che narra appunto questa mancata visita di Titone, allora già maestro del nostro Ateneo, e Koenigsberger, di origine tedesca, che diverrà un grande storico e studioso, autore anche di saggi pubblicati su “Spiragli”, un amico, un maestro, un vate, diciamo così un altro punto di riferimento della rivista. 

Titone un giorno al giovane amico studioso dice di volergli fare conoscere Croce. Siamo nel 1947 e i due si avventurano per treno in un viaggio troppo periglioso per quegli anni. A Napoli per un contrattempo non riescono ad incontrare Croce. Anzi, Titone nel timore di voler sollecitare con la visita una recensione, dice all’amico di andare lui. Così nessuno dei due vi andrà e dopo tre giorni fanno ritorno a Palermo. Questo per dire chi era Titone. 

Ma non solo. Su Titone c’è recentemente, credo nell’ultimo numero, un articolo che ne riprende, invece, la religiosità Titone era un uomo particolare nella sua religiosità assolutamente cosciente di una tradizione. Perché la coscienza della tradizione? Titone intanto era e lo diceva, lo dichiarava apertamente, un uomo che si muoveva secondo regole anche di tipo familiare, nel senso che diceva: “io sono nato in questa religione”, “sono nato nel cattolicesimo”, “mia madre mi ha insegnato queste cose e io vivo la mia religione secondo schemi che sono quelli della tradizione”. Tant’èvero che, come altri intellettuali italiani, come tanti uomini di cultura, aderì al Manifesto che fu firmato dalla grande scrittrice Cristina Campo e da Elemire Zolla sul latino, sulla liturgia tradizionale, perché Titone sosteneva che la Chiesa si secolarizzava con la lingua volgare e che il deposito della tradizione non poteva che stare nella difesa del latino. Naturalmente questo lo faceva da reazionario, da reazionario a suo modo, non secondo i criteri odierni; reazionario nel senso di reazione allo status quo, all’andazzo delle cose, alla dimensione, diciamo così del quotidiano, soprattutto alla sciatteria che già nei tempi si prospettava, non certo come la catastrofe odierna, ma aveva buoni indizi e buone aperture rispetto alla questione che stiamo quotidianamente vivendo. 

Altro punto di riferimento della rivista è stato, non solo perché si è pubblicato un saggio e non solo perché Pomilio, in una sua lettera al direttore, rispose dicendo che “le intenzioni iniziali sono chiare”, a proposito del primo numero. Pomilio, grande scrittore e uomo di straordinaria importanza, insieme a quell’altro amico, Michele Prisco, sono state coscienze di altissima levatura, esattamente sulla stessa linea di Mario Luzi, come coscienze anche inquiete del cattolicesimo italiano, attente da un lato ai segni del tempo, dall’altro alle risorse fondamentali dell’ identità e della fede. Il Quinto evangelio è una delle sue opere di fondo. Pomilio è un autore che va riletto, e la rivista ha proposto un articolo ampio con tutta una serie di elementi e soprattutto di critiche ai vari suoi testi. 

Pure un riferimento è certamente Ungaretti, citato spesso e soprattutto analizzato a fondo, e poi Pirandello; non solo per Pirandello, per l’amore e l’attenzione vigile del nostro direttore Salvatore Vecchio che è autore di saggi specifici, anche più di uno sulla rivista, ma per questo senso della Sicilia che indica la rivista da un lato come segno di contraddizione, dall’altro segno di una forte consapevolezza. 

La lettura di Pirandello proposta dalla rivista non è una lettura stereotipata, non è la solita lettura di Pirandello; e l’assurdo di Ionesco diventa nei testi di Vecchio il trait d’nion tra due colossi della letteratura europea, Pirandello e Ionesco. Ma soprattutto Pirandello resta autore europeo e non solo siciliano. 

Guai al sicilianismo dei confini, come se il mondo finisse a Reggio Calabria e lo stretto di Messina fosse il confine del mondo! Questa è una stupidaggine; quando si esaminano le letterature regionali, esse vanno certamente identificate con i loro presupposti, con il loro humus profondo, ma vanno identificate in una cornice sempre più ampia, mai limitata alle strettoie, né geografiche né linguistiche, né tantomeno legate al folklore vero e proprio. Infatti Pirandello resta europeo e resta un grande personaggio della storia letteraria europea e mondiale proprio per questa ragione, perché supera i territori. 

Mi piace sottolineare proprio, a proposito delle letture e riletture che fa “Spiragli”, l’altro personaggio che è stato assolutamente quasi ormai ignorato che è Nello Sàto, l’anarchico, diciamo, individualista da un lato e utopista Nello Sàito, a cui Vecchio e la rivista hanno molto insistito negli anni, pubblicando anche delle lettere, dei resoconti, e pubblicando un’attenta ricognizione sulle opere e poi una memoria. Bellissimo articolo che ho riletto fino a ieri sera, quello in morte di Sàito che indubbiamente ci ricorda un altro scrittore, geniale a suo verso, nato a Roma ma siciliano nella essenza più ampia, che è un altro autore da riscoprire, che la rivista ci invita a scoprire. Anche quello è un segno; la rivista non può soltanto, diciamo così parlare dei grandi e mettere solo temi e autori consueti. Bene, “Spiragli” ha avuto e ha questo compito di indicare altri, anche attraverso le tante recensioni di altrettanti autori, che qui sono presenti e che poi saluterò che indubbiamente entrano nella cornice generale di questo movimento che èmovimento anche delle lettere in Sicilia e non solo. 

Ma poi c’è il tema dell’umanesimo siciliano, non solo inteso filologicamente e storicamente, altro attento saggio, ampio saggio, a firma di Salvatore Vecchio, ma direi “umanesimo siciliano” inteso come metafora di alternativa rispetto all’ovvio e, in fondo, quell’”umanesimo siciliano” fra il ‘400 e il ‘500 diventa la misura di una possibile ripresa anche in Sicilia che certamente nel ‘900 ha avuto esponenti di grande rilievo. Su questo non c’è dubbio. La stranezza nostra, ma per molti versi anche la nostra originalità consiste proprio in questo: da un lato indubbiamente una certa marginalità geografica e anche culturale (che cosa sono i grandi centri della cultura, cosa le riviste, cosa significa fare arrivare le nostre cose fuori), ma dall’altro lato anche la difficoltà. 

Prendete, per esempio, un centro che, a mio avviso, diventa emblematico di questa contraddizione e che si chiama Bagheria, un centro emblematico di corruzione e di distruzione sfrenata del territorio. Un centro, una città bellissima, ma se andate a visitare Villa Palagonia, trovate uno scempio, ridotta a spettacolo indecente, una cosa orrenda. Eppure Bagheria ci ha dato personaggi che si chiamano Renato Guttuso, Ignazio Buttitta, Giuseppe Tornatore, ma che si chiamano pure poeti minori, come Castrense Civello (autore anche di Renzo Mazzone che pubblicò un libro su Gioacchino Guttuso Fasulo), Giardina, e poi i fotografi Scianna e Pintacuda e tanti altri. Questo lo dico perché in fondo Bagheria è la sintesi di quella che è la Sicilia, è la sintesi anche del nostro cammino, cammino irto, difficile, complesso, soprattutto alla ricerca di quell’”umanesimo siciliano” a cui prima si faceva riferimento. E sono i temi che poi affrontano intellettuali nostri. Penso ad Elio Giunta che scrive in uno degli ultimi editoriali e poi anche in articoli delle questioni riguardanti la letteratura in Sicilia e da un lato di quell’anticonformismo che si va cercando, che si va predicando anche in nome di anti che poi diventano soltanto bla bla. 

Penso agli articoli sulla giustizia, agli ultimi che sono stati proposti da un altro grande studioso, poeta, intellettuale e giurista che è stato Antonino Cremona, un vanto per la rivista “Spiragli”, perché Antonino Cremona è stato anche un testimone della vita culturale siciliana del secondo dopoguerra. Ma poi ancora ci sono i temi su cultura e ostracismo, i temi riguardanti i giovani e la famiglia, la giustizia, la natura, e l’atteggiamento, la predisposizione, direi, che la rivista ha sempre avuto nei confronti dei temi artistici, in particolare analizzando autori, come Sironi, Milluzzo, Antonello da Messina, Marcucci, Romano Cammarata a cui, come si diceva, la rivista ha dedicato un intero numero. E ancora temi filosofici. Pensiamo da un lato al 

saggio su Rousseau, fra democrazia e totalitarismo di Anna Vania Stallone, gli articoli della Cacioppo su Cartesio e Spinoza e ancora quelli riguardanti naturalmente la letteratura, le stroncature, i profili e i saggi legati a Gentile, sui quali spendiamo una parola in più. 

I saggi pubblicati sulla rivista in numeri passati suggeriscono riflessioni su Gentile. Da un lato, c’è naturalmente l’attenta analisi di Vecchio e, dall’altro, c’è un articolo a corredo, se non ricordo male, in quel numero stesso, di Stallone, “Restituiamo a Gentile la sua dignità”. Qual è l’analisi di Vecchio? Certamente Gentile è un gigante, un gigante della cultura, un gigante della filosofia (si può essere d’accordo, non d’accordo, questo fa parte del gioco della vita) ma, non c’è dubbio che il velo di silenzio su Gentile è solo del provincialismo culturale. Insomma, si può parlare di tutto ed è come dire che si vuole omettere, per chi marxista non è, Marx dalla storia della filosofia. È proprio una stupidaggine; è come omettere una parte (giusta o sbagliata che sia) della storia del pensiero. Gentile, quindi, è non solo un grande filosofo, ma anche un attento osservatore delle cose. È tuttavia la tesi sul tramonto della cultura, a cui prima ci si riferiva, una tesi che Vecchio, coraggiosamente direi, anche nel momento storico in cui scrive l’articolo, contesta guardando i segni. Ecco, parlavamo un po’ prima di Bagheria come metafora, Bagheria, come naturalmente può essere Marsala, può essere quello che volete voi, in ogni caso, la metafora della Sicilia letteraria. 

Come mai in tanta depressione, come mai al tramonto può sorgere una nuova alba? Come mai sorgono poi nel ‘900 figure che si chiamano Pirandello o Brancati? Come mai, in tanta depressione rispetto a quell’analisi? Beh, una chiave di lettura che ci accomuna è appunto la riscoperta dei valori da un lato e la perenne attualità della letteratura e della scrittura letteraria e poetica dall’altro. Questi sono dati incontrovertibili, perché se vogliamo fare, come facciamo adesso, un bilancio di “Spiragli”, è anche un bilancio della cultura siciliana, per molti versi della cultura siciliana dal dopoguerra ad oggi, ma direi anche del ‘900, di quello che è stata la cultura siciliana del ‘900. 

Allora è un bilancio naturalmente critico, eppure un bilancio che porta a vedere con attenzione ciò che è stato e a vedere anche con una certa speranza, quella speranza editoriale a cui avevamo fatto riferimento non solo sui valori, ma sull’individualità. Più che un fatto sociale, io direi, la letteratura siciliana è sempre stata ed è comunque un fatto di individualità come dovrebbe del resto essere sempre la scrittura, non è stato mai un movimento organizzato, movimenti o gruppi. 

Pigliamo il caso del futurismo in Sicilia. Qui c’è la prof.ssa Rampolla che ha scritto tra l’altro tanti saggi, 

recensioni, anche molto importanti su “Spiragli” e che ha scritto un libro su Federico De Maria, il quale entra in contatto con Marinetti, con l’idea rivoluzionaria della letteratura, e conia il termine avvenirismo. Ma sarà Marinetti, che era un genio straordinario dell’invenzione, a fondare il futurismo. Ciò che non era riuscito a De Maria, riuscì a Marinetti. Ebbene, De Maria, senza la deformazione ideologica di un Vittorini o di un Brancati, ci dà la misura di cosa è stata ed è la cultura siciliana del ‘900. 

Anche questa rivista non ha carattere ideologico; ha un suo programma preciso a cui ha tenuto perfettamente fede; essa non è di parte, ma aperta, come deve essere la letteratura, la cultura, aperta al dibattito, al confronto. Questo non vuol dire che è una rivista sincretista, è una rivista che ha un’identità che pone l’identità in parallelo con altre realtà e con altre culture, come dimostra la collaborazione con poeti e con intellettuali di altri Paesi che si è manifestata negli anni. In questi ultimi anni, anche grazie a Renzo Mazzone, devo dire, per i poeti e gli scrittori brasiliani, ma prima va citata, a merito della rivista, la corrispondenza e la collaborazione con autori di diverse nazionalità tra cui quella con l’italianista spagnola Ángeles Arce, con lo scrittore Avelino Hernandez, poeta, narratore e autore di libri per ragazzi che poi è diventato anche un punto di riferimento. Ma nelle pagine di “Spiragli” trovate tanti di questi contributi. 

Possiamo naturalmente parlare di quelli che sono i “Problemi e discussioni”, un titolo delle rubriche ferme della rivista. Certo, problemi e discussioni la rivista ne ha posti molti, innanzitutto sulla praticabilità della letteratura. Il problema della praticabilità della letteratura in Sicilia è stato affrontato da “Spiragli” con la determinazione che si deve ad una palestra di libertà e poi anche dai vari collaboratori o coloro che sono stati. Qui vedo il giudice Osnato che saluto, un ottimo e importante poeta, accolto nella rivista anche con recensioni, così come Anna Maria Adragna, il nostro amico Cangemi, la prof.ssa Rampolla, lo stesso nostro padrone di casa. Tuttavia l’ampia gamma di collaboratori deve riferirsi anche al territorio nazionale, soprattutto a Donato Accodo, che è stato per molti anni il tramite della rivista con la E.I.L.E.S, anche lui un critico e un saggista di vaglia e poi alla corrispondenza di tanti autori nazionali e internazionali. 

Io, qui, concludendo, ritengo che veramente di “Spiragli” bisogna avere la collezione completa. “Spiragli” è una rivista che si scrive, appunto nella rinascenza possibile della cultura siciliana, possibile ma concreta, testimoniata quotidianamente; se poi sia complessiva o meno, non è Camilleri che la determina. Lo dico con molta franchezza e con molta onestà intellettuale, non è Camilleri che la determina; con tutto ciò per carità gli diamo tutti i benefici d’inventario, gli diamo anche opere a volte buone e accolte, anche se, diciamo, non proprio identificabili come opere letterarie. Tuttavia, comunque, una presenza, ma non è quello il punto evidentemente. Certo, Sciascia lo è stato; Sciascia, contestato da Messina in un articolo, come lo contestava Titone. Eppure ritengo che la coscienza che è stato Sciascia ancora oggi è punto di riferimento, punto di riferimento di libertà individuale, anche di contraddizione; sapersi contraddire e saper rivedere le proprie opinioni, le proprie idee, soprattutto camminare nel sentiero della libertà è sempre, comunque, un’operazione complessa, difficoltosa, e Sciascia è stato anche lui un testimone straordinario di questa ascesa verso la verità una verità laica per il Nostro, tuttavia una verità che poi la letteratura, la poesia, la stessa filosofia ovviamente in primis debbono condurre come obiettivo di fondo, come conoscenza fondante. 

In tutto questo la rivista assume un suo profilo e il bilancio che è già stato fatto 10 anni fa (io ho trovato anche la noticina di 10 anni fa), stavolta lo facciamo insieme a voi. Devo dire anche con un pubblico scelto di scrittori, poeti, narratori che sono qui presenti, davanti al quale il piacere e l’onore che mi ha dato stasera di discutere con voi mi dà anche il senso di una libertà. Salvatore Vecchio e io siamo amici, abbiamo un buonrapporto, ma non abbiamo avuto mai in questi venti anni straordinari rapporti; ci siamo visti, ci siamo incontrati in varie occasioni, devo dire che lui mi ha invitato sempre a scrivere; io, per la verità per la mia proverbiale pigrizia, ho dato poco o niente, per la verità niente. Però i rapporti sono stati sempre costanti; c’è un punto di riferimento: si sa, si sapeva che veniva e arrivava la rivista, arrivava cioè un punto di riferimento che ancora oggi resta utile alla conoscenza di quella cultura siciliana e non solo alle discussioni, ai temi e ai problemi che la cultura siciliana pone. Quindi a Vecchio, a tutti i suoi collaboratori, a tutti gli amici che hanno seguito e seguono e, direi anche, a Renzo Mazzone, un ringraziamento della comunità palermitana, ma anche il ringraziamento sincero di chi vi parla. La comunità palermitana variegata, difficile, complessa di scrittori, poeti, narratori e tutto quello che volete, saggisti e che, però, è riuscita negli anni ad avere anche una dignità, e questo confronto è presente nella rivista con tanti autori e noi ringraziamo per l’ospitalità che è stata sempre data a tutti noi palermitani e non come capitale dell’Isola ma come centro vivo, ancora vivo della cultura e soprattutto della speranza che la Sicilia incarna. 

È quell’umanesimo, concludendo, a cui si faceva riferimento, l’umanesimo della ricerca e della speranza; quell’umanesimo che si fonda su valori perenni e che tuttavia si confronta, dialoga con il mondo, ma soprattutto dialoga interiormente. Avrebbe detto il nostro Piero Scanziani, un viaggio entronautico dentro la letteratura che poi è un viaggio entronautico entro tutta la vita. In fondo la letteratura non è soltanto uno svago, non è un hobby; chi dice che la letteratura è un hobby non è né scrittore né letterato, è una persona che scrive su fogli di carta. La letteratura è tutto rispetto al fatto che la vita si muove attraverso la scrittura, non è un fatto episodico, non è un hobby della domenica. In questo senso “Spiragli”, nel suo titolo, nella sua storia e nelle complessità delle sue pagine, ci rappresenta e ci rappresenterà ancora per tanti anni. Grazie. 

Tommaso Romano

Da “Spiragli”, anno XXII n.1, 2010, pagg. 8-16.




FRAMMENTI

 “L’arte è l’altra cosa dalla natura, altra cosa dalla vita, anche se dalla natura viene e alla vita fa riferimento.” 

“Le opere sono testimonianza di stupore innoverabile, esempio di una perennità che non tramonta alle sirene false del divenire. Quasi un richiamo concreto ai valori forti e autorevoli dell’essere che si materializzano in umile e sapiente umanità, in lucente richiamo spirituale alla non transitorietà dell’avventura che ogni uomo compie innanzi al tempo.” 

(da Non bruciate le carte, Catania, Prova d’autore, 2009) 

da “Spiragli”, 2010, n. 1 – Antologia 




Otto nuovi saggi di poesia cinese in una pregevole versione italiana 

 Il quaderno n. XX / 2008 di «Spiragli» ha presentato otto giovanissimi poeti cinesi, appartenenti all’ area di Pechino (Lin Ceng, Lai Pi, Mu Yun), Hunan (Chen Xiao, Peng Kan, Liao Wenjun), Huber (Chen Hai Bo) e Zhejang (Li Hui). Si tratta di testi che, quasi all’unisono inneggiano alla vita come bene supremo delle aspirazioni umane, e rivolgono lo sguardo alla natura come possibile scenario di una contemplazione salvifica delle problematiche esistenziali. È una poesia fluida e di ampio respiro che ci fa scoprire nuovi paesaggi scritturali nel panorama della poesia a livello internazionale, oltre a farci comprendere che talune tensioni interiori del genere umano hanno elementi comuni, a prescindere dalle latitudini e dalle situazioni sociali e politiche in cui si manifestano. Una poesia che si orienta verso una ricerca tematica e la sperimentazione di forme e linguaggi nuovi, dando spunti ad eventuali dibattiti sul ruolo dell’ «io» poetico, sul rapporto tra poesia ed esperienza umana, tra forme di espressione autoctone e quelle provenienti dal nostro Occidente. 

Certamente possiamo cogliere il concetto vero e proprio del dettato poetico, perché, se la traduzione può essere, come si suol dire, tradimento, dobbiamo rilevare che i testi integrali dei giovani poeti giungono a noi attraverso l’esperta versione dal cinese all’italiano di Veronica Ciolli e da un secondo registro di adattamento poetico effettuato da Patricia Lolli e Renzo Mazzone. E se dopo tali magistrali interventi gli esiti sono questi, dobbiamo senz’altro annotare che ci troviamo dinanzi ad una poesia matura, che scandaglia con mestiere le questioni del vissuto, e si propone al dialogo umano inserito nella sempre più incalzante globalizzazione da tentare anche a livello culturale. 

Un elemento che lega i testi degli otto giovani poeti segnalati dall’Università Normale della capitale cinese, è «la speranza» sgorgante dalle ariose metafore contenute nei testi, una speranza che non viene manifestata a seguito di risentimenti verso la politica (quale poteva essere la poesia degli anni Ottanta di Bei Dao, di Shu Ting o di Gu Chenh, tanto per fare qualche nome), ma una speranza di vita intima migliore, un’aspirazione in forma poetica verso forme di vita più armoniche e consustanziali. 

Abbiamo inoltre notato che, fra i riferimenti agli elementi della natura, se c’è un motivo che predomina, questo è il motivo «equoreo», dal momento che nei vari testi spiccano numerosi richiami all’elemento marino o sintagmi come fiume, torrente, lago, mare, luoghi che sembrano riflettere le singole scene di un panorama paesaggistico teso ad indagare la sensibilità degli autori, ma che in astratto rappresentano taluni luoghi dell’anima entro cui si dibattono tutte le contraddizioni e le solite dualità dell’ esistenza. 

Di sicuro una poesia molto più aperta rispetto al periodo di fine Novecento, in cui la poesia, pur risultando ancora oscura (in cinese veniva definita menglong shi), lasciava intendere la ricerca di una nuova espressione come strumento di approccio e di conoscenza del reale. E tale conoscenza si è sempre più sviluppata probabilmente grazie anche all’influenza del simbolismo e dell’immaginismo occidentale, sino a ritrovare fusi insieme nei testi la razionalità, l’ intuizione e l’originalità del gesto poetico. 

Nicola Romano 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 57.




La Chiesa della Madonna dell’Alto di Marsala 

Fu padre Nicolò Palazzotto, dei conventuali, a fare edificare la Chiesa della Madonna dell’Alto in un luogo distante tre miglia dalla città di Marsala, come si legge in un atto del notaio M. Antonio Zizzo del 22 maggio 10 indiz. 1537: «Motus et reductus ac inspiratus Spiritu Sancto. decrevit Domino concedente, extra civitatem relicto conventu, in eremo habitare et commorari». A questa chiesa i coniugi Grignano donarono delle terre incolte con alcune latomie e grotte contigue, in contrada Colombaio. 

I padri conventuali abitarono in questo luogo di solitudine fino all’anno 1609, quando l’abbandonarono, come è riportato dal Pirri: «Sanctae Mariae de Alto duo milia passuum ab urbe, incoeptum 1535 et perfectum 1537 divitiis loannis Grignano nobilis Marsalensis anno 1609 pro derelicto habuerunt Fratres isti, et cum proventibus eius in illud Sancti Francisci commigrarunt. » 

Nel maggio del 1787 la chiesa fu rifatta sotto il guardiano M.o Gaspare Artale, ed ivi i padri vi ripristinarono il soggiorno nei mesi estivi, conducendovi i giovani chierici dedicati allo studio. Quando tutti i beni ecclesiastici passarono allo Stato, questa chiesa divenne bene demaniale e più tardi passò nelle mani dei privati. 

Da qui il processo di degrado che gradualmente trasformerà la Chiesa della Madonna dell’Alto in un rudere adibito ad ovile. Certamente difficile immaginare l’antico splendore di questa costruzione originaria. quali lo splendido arco a sesto acuto decorato con motivi platereschi tipici dell’architettura siciliana del ‘500. 

La cupola ancora esistente e la copertura della navata a volte estradossata sono, invece. chiari richiami al gusto arabo-normanno. Inimmaginabile il resto della costruzione, completamente crollato, forse il convento adiacente alla Chiesa. 

La Chiesa della Madonna dell’Alto costituisce un tipico esempio dell’incuria degli uomini poco sensibili al recupero del proprio passato e di tutto ciò che è a questo annesso. Rispettare, conservare, impedire il degrado urbano e ambientale è sintomo di cultura, e una città ricca di storia come Marsala non può ignorare il proprio passato, se vuole continuare a crescere e a migliorarsi. 

Ciò per evitare che la nostra memoria storica venga cancellata, e che diventi un semplice ricordo legato alle vecchie fotografie in bianco e nero, destinate a sbiadirsi con il tempo. 

Da sempre terra ricchissima di opere d’arte e di tradizioni lasciate in eredità dai popoli succedutesi al suo dominio, la Sicilia conosce oggi un momento particolarmente propizio per la conservazione e la rivalutazione del suo territorio: Marsala, certamente, con le sue bellezze storico-ambientali, può costituire, se opportunamente rivalutata, una componente fontamentale del processo di ‘ricostruzione’ del patrimonio storico-artistico siciliano. 

Già molto è stato fatto in questo senso negli ultimi anni con accurate operazioni di restauro che hanno fatto rinascere edifici monumentali quali il complesso del Convento del Carmine, la Chiesa della Madonna della Cava, l’Oratorio di S. Pietro, ora annessavi la biblioteca comunale, e così di seguito: luoghi che, un tempo dimenticati, sono divenuti sede di interessanti iniziative culturali, quali mostre e dibattiti, che non solo hanno accresciuto il livello culturale dei cittadini, ma anche la loro coscienza civica. 

Essere orgogliosi di appartenere ad una città significa, anche, potere espletare in essa tutte quelle attività culturali che, in mancanza di opportune sedi, sarebbe difficile realizzare e Marsala possiede certamente un patrimonio storico-culturale che, se pur in parte rivalutato, necessita ancora di maggiore attenzione per essere completamente riportato all’antico splendore. 

Esistono, nel centro storico di Marsala, delle chiese che sono state dimenticate, come la Chiesa dell’Itriella, tipico esempio dell’architettura quattro-cinquecentesca in Sicilia. Oppure la Chiesa di S. Maria della Grotta che. da molti anni in restauro, attende ancora di riacquistare la sua notevole importanza storica, che rivaluterebbe anche un luogo della città da tutti abbandonato. E si potrebbe andare avanti così, in un interminabile elenco di beni architettonici, che attendono di essere restaurati prima che il tempo ne cancelli ogni traccia. 

Ci si auspica che, nel futuro, ci sia una maggiore attenzione al recupero dei beni culturali e che tutto quello che sinora è stato fatto non rimanga un fenomeno isolato di un’amministrazione comunale che si è mostrata sensibile alla salvaguardia della propria memoria storica. 

Eleonora Romano

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 37-39.




Stefano Bissi, Lu munnu ca firria (Il mondo che gira), Agrigento, s.d.

Nell’accostarmi a questo autentico poemetto mi sovviene il nome di quel Cielo d’Alcamo che per primo in seno alla Scuola Siciliana usò il volgare per esaltare la natura e la vita rude della sua gente. Parafrasando il Carducci potrei asserire che 

Stefano Bissi, seguace della lingua siciliana delle più autentiche voci, è e resta “di Sicilia il vate o la stagion più dura”, 

Con il linguaggio più schietto e coerente all’autentico dialetto della terra delle zagare, il poeta di Siculiana inizia il suo “poema di fede” vindice e nume, poeta e uomo, nel quale traccia il cammino di una nuova, vigorosa e necessaria strada verso la rigenerazione dei costumi, pur attraverso l’analisi di “ogni aspetto del nostro vivere civile di ogni giorno”: esaltazione della conquista della scienza che rende più gioiosa la quotidianità. dunque. e al contempo denuncia del degrado globale sovrastarci. 

Un poema. o una pregevole raccolta, questa del Bissi, nella quale il poeta recupera fondamentalmente il valore della disciplina formale e del rigore che deve riguardare la scrittura poetica in dialetto. 

Infatti egli, trattando con sapienza misurata gli endecasillabi e la rima, scrive la maggior parte dei suoi componimenti nella struttura del sonetto e dell’ottava. Ciò significa che il Bissi vuole affermare una precisa idea di poesia, ed è quella legata alla disciplina del verso e della parola nonché della musicalità tutta affidata al ritmo vincolante della metrica classica. 

Il poeta inoltre trae ispirazione dai ricordi, dalla memoria e dalle immagini in un “flash beack” che lo fa in pari tempo interprete e cantore della gente semplice, che è poi la gente del popolo. di ieri magari. Se quella del Bissi, dunque, non è ovviamente poesia popolare, è certamente poesia apertissima ai sentimenti del popolo e il suo mondo ruota sempre attorno ai valori essenziali della vita: l’amore, la famiglia, l’amicizia, il lavoro, i mestieri, la fatica: ma la vera protagonista delle liriche è una soltanto, la Sicilia. 

Sicilianità forte, dunque, di cui è espressione questo volume dal titolo Lu munnu ca firria, dove ai motivi tradizionali della ispirazione del nostro autore si accompagnano più diversamente motivi sociali incentrati sulla condizione umana nel nostro presente. 

Un libro con la bellezza della parlata agrigentina piegato all’armonia della creatività del poeta. E ancora: la profonda saggezza umana di cui è forte la poesia del Bissi. e il mondo degli uomini incontrati nella semplicità del vivere quotidiano. 

Bissi vi canta liberamente il mondo ricco dei propri sentimenti e della propria malinconia, e si rivela un filosofo dell’esistenza prima che un cantore della vita forte di quella saggezza che hanno spesso i poeti. 

Trovo che la produzione poetica di Stefano Bissi sia ormai molto consistente e che le prove della sua validità letteraria siano state abbondantemente date. Segnalo anch’io, perciò, i risultati importanti di questo Autore completo che spero “incontrare” ancora. 

Lina Riccobene

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 46-47.