Significato di Dante nella società contemporanea 

 Da più parti si sostiene, e la verifica lo dimostrerebbe, che in un momento di profonda crisi sociale, morale, politica, dal messaggio e dalla forza della cultura è ipotizzabile la ricomposizione dell’immagine di una Nazione che va seriamente disintegrandosi nell’intera sua struttura istituzionale, economica, progettuale. «É, quindi, dal dibattito’ culturale che scaturisce l’immagine nuova di un Paese, perché’ il nuovo tessuto culturale e morale imprigiona le responsabilità personali che ciascuno deve assumersi- (A. Bonito Oliva). 

In questa visione, costante di ogni momento storico controverso, il recupero e l’attualità del significato di un grande, il più grande poeta italiano, Dante Alighieri, riemerge prepotente e si collega oggi, come ieri, quale paradigma di ogni stagione, buona per la sua valenza universale. Distaccato con la forza della poesia dalle passioni e dalle miserie della vita, l’ideale di umanità, di giustizia si eleva a compendiare l’umanità intera (in senso cosmico e globale), analizzando gli errori imputabili al potere temporale e a quello, spirituale, divenendo nel suo “viaggio” trascendente, profeta di una sicura redenzione dell’umanità perduta. 

Tenendo conto che la scrittura, e la poesia in particolare, per Dante va intesa secondo i quattro sensi: letterale, allegorico, morale e aJ1,Q.logico, (quest’ultimo considerato come il “sovrasenso”), determinante diviene un ulteriore significato, quello per il quale Dante si identifica in ~anto uomo, con il disordine sociale e politico, la “selva” nel Medioevo, Tangentopoli oggi; tende come anelito all’ordine e al benessere della giustizia (Mani Pulite nell’ottica odierna) “il colle illuminato”. A questo si pone come impedimento la democrazia bloccata (“la lonza”), il potere inquisito (“il leone”), il Clero corrotto (“la lupa”). Per il conseguimento del cambiamento sociale e morale occorre la scelta di un Governo-guida rinnovato (Virgilio) e quello dell’amore (Beatrice). Così soltanto, in analogia con i temi del grande poema, anche oggi l’umanità perduta potrà riacquistare la dignità smarrita, acquetare l’odio e il sangue delle guerre uscendo dall’Inferno e, pentendosi dei suoi errori e misfatti (Purgatorio), aspirare alla libertà in piena democrazia, nella giustizia e nella pace sociale, nel benessere e nella felicità (Paradiso). 

Nella Firenze della seconda metà del Duecento l’aristocrazia di sangue aveva ceduto il passo all’aristocrazia del denaro. Ma già la poesia del Dolce stil Novo, di cui Dante sarà alfiere, rispecchia un ambiente dove il mito del blasone è tramontato. Il cor gentile del poeta non è tale per lignaggio, ma per doti morali, che prescindono la nascita. Anche in questa concezione la modernità di Dante appare in tutta la sua lucidità. Contro le fazioni che generano violenza, scissioni, tendenze separatistiche, Dante accoglie la strada dell’esilio. Gli schemi rigidi contrapposti nella battaglia politica tra Papa Bonifacio VIII e Dante, che vuole ben distinti i poteri, con autonomia propria, sembrano non comprendere le grandi trasformazioni politiche che si stanno compiendo in Europa, la nascita delle unità nazionali, il tramonto dell’impero “sacro e romano”. Dal dissidio ideologico e dallo sdegno per la corruzione di molti ambienti del potere, nasce il giudizio di condanna che coinvolge lo stesso Bonifacio VIll. 

Nel corso della Commedia il modificarsi e l’arricchirsi del concetto morale, politico e religioso nell’invenzione del poema con il suo grandioso assunto dottrinale, trascendendo i propositi e la materia lirica, si espande in una sfera universale e simbolica. Il nodo di esperienze autobiografiche, che ripropone il tema del sentimento come condizione privilegiata, riassorbe nella coscienza tutti i temi e gli aspetti di una crisi che agitavano la civiltà del tempo. 

Il poema riassume in una sintesi suprema tutta la problematica della civiltà del Medioevo, dove è facile rispecchiare anche le motivazioni metaforiche della stessa problematica che investe il mondo moderno. Dante avverte dolorosamente la frattura tra il sistema e la realtà effettuale del suo tempo, proponendo la necessità e la possibilità di una sintesi intellettuale, che si proponga come mezzo di giudizio severo e guida sicura per una umanità che non può più esprimersi nell’ambito di una astrazione concettuale, ma che deve disporsi a tutte le applicazioni e compromissioni, sul terreno della realtà, ma con un’attenzione sempre più forte ed esclusiva verso i problemi etici e civili. 

L’orizzonte vastissimo della Commedia spazia e accoglie una complessità e molteplicità di temi concreti e attuali e tende a riassumere su un piano di universalità tutta l’esperienza morale ed esistenziale del poeta. La prospettiva dei fatti e dei personaggi, nella metafora solenne che è insita nell’invenzione del viaggio oltremondano, è proiettata su uno sfondo di eternità, come già vide Hegel. 

La lucida coscienza di una crisi che investe tutti gli aspetti della società confina in quell’ordine morale che tra cultura e fede deve rendere l’uomo degno di contemplare la luce di Dio, con un processo di purificazione che configura l’arduo cammino dell’umanità, sorretta dalla dottrina filosofica. 

Il vigore e l’intensità della fantasia di Dante, che traduce in termini sensibili e corposi anche i dati più filosofiCi ed astratti della sua esperienza, intervengono a imprimere poeticità ad ogni minimo particolare, in seno, ma anche oltre la trama compositiva o la struttura a monte del Poema. In questo senso la contemporaneità di Dante, la si potrebbe scorgere non solo nell’eccezionalità del suo messaggio metaforico, concettuale e tematico (quello che appartiene all’uomo di sempre), ma anche nella peculiare struttura letteraria, che non a caso riappare come puntello e modello del libro più sconvolgente e innovativo dell’era moderna, quell’ Ulysses di Joyce, che in quanto spartiacque tra la letteratura moderna e tutta quella del passato, proprio a Dante, si sente di pagare il tributo più alto. 

Il viaggio odisseico di Bloom appartiene, pure nella struttura, certo più a Dante che allo stesso Omero, che ne costituisce il referente immediato. Il peregrinare dell’Ulisse moderno tra le strade di Dublino presenta moltissime analogie, non solo strutturali, con la molteplicità di incontri che Dante effettua nel suo viaggio, ma anche la tecnica innovativa ioyceana del monologo interiore certamente appartiene allo smarrimento poetico che Dante accoglie e inquadra nella vastità e varietà di esperienze che lo coinvolgono come uomo e come poeta, investendo tutti gli aspetti della realtà dai più umili ai più alti, dai più semplici ai più complessi. 

Ancora oggi ogni lettore ritrova facilmente nella propria memoria gli aspetti vari, la casistica e la tipologia della vita umana in senso universale e, come tale, sempre attuale, perennemente contemporaneo, Dante risulta referente e faro di ogni epoca, per l’universalità della sua poesia, ma anche per l’enciclopedismo esistenziale che la sua opera contiene e come tale vive del suo presente, ingloba il suo passato e proietta il suo futuro. Non c’è esperienza intellettuale, morale, sociale, religiosa, filosofica, sentimentale, che non ci allinea in parallelo a Dante. che nel suo pensiero e nella sua poesia ha compendiato lo scibile umano e in ogni occasione ci può fornire l’analogia giusta. la citazione idonea, la similitudine efficace. Quella di Dante è l’ultima, magnanima voce dell’universalismo medievale che ancora si alza ai nostri giorni. 

Che l’ardua dialettica fra la concezione universalistica e l’insoppremibile 

necessità di dirottare verso le soluzioni dei gravi problemi attuali e sociali sia importante, nonché che la suprema dignità della responsabilità personale sia problema di fondo degli anni di Dante come degli anni di ciascuno di noi, sono le condizioni di crescita da porre di continuo, sotto le più diverse forme espressive e comunque da finalizzare ad un approfondimento dello spirito socio-culturale d’ogni uomo e d’ogni cittadino. 

L’ideale uomo che nasce dalle pagine dantesche è colui che vive con pienezza, non rifugge da alcun dovere – spirituale, morale, pratico – che la vita gli impone, affronta fermamente ogni responsabilità, anche la più rischiosa: e tuttavia non pensa mai solo a se stesso; sa che il suo .pensiero e la sua azione sono la particella d’un ordine universale. Da questo punto di vista ci si chiariscono anche il pensiero e l’azione propriamente politici di Dante. Nessun poeta è più fiorentino e più municipale di lui; da Firenze e dai suoi contemporanei trae la maggiore parte dei suoi personaggi; a Firenze vanno costantemente il suo nostalgico amore e la sua cruda rampogna. Farebbe così anche per l’Italia attuale. Ne sono certa. Eppure nessun egoismo municipale alimenta l’amore e lo sdegno: egli rimprovera Firenze peccatrice nella sua vita interna; più ancora la rimprovera quando la vede recalcitrare a lasciar sommergere la sua libertà e fisionomia comunale nell’ordine imperiale. Vissuto nella piena maturità del Comune, nel sorgere delle Signorie, cioè in un’età d’intransigenti particolarismi, si può dire che Dante non abbia occhi per quel che di fecondamente positivo pur era in quei particolarismi; giunge sino a sprezzare le nuove classi sociali borghesi, la gente intesa “ai subiti guadagni”, che del Comune erano il nerbo. 

Firenze? L’Italia di oggi? Uno Stato? Cosa cambia?, mi chiedo. Dante farebbe così anche per l’Italia attuale. L’Italia, ogni Stato del mondo, deve affrontare la propria responsabilità, in piena libertà: ma insieme sentirsi parte d’un tutto: e la meta ultima d’ogni particolare politica non può essere che il bene universale: “NOS CUI MUNDUS EST PATRIA, VELUT PISCIBUS EQUOR”, dice nel De Vulgari eloquentia. 

Eppure, è dalla continua lettura della Commedia che il lettore, a mio avviso, trae un’espressione apparentemente in sé contraddittoria: quella d’un mondo spirituale e fisico sterminatamente vario e complesso, e insieme quella d’una salda e quasi lineare ed elementare unità. Il lettore, infatti, scende nel buio seno della terra, risale all’aperto su una montagna alta e aperta alla luce, sola nell’oceano sconfinato, penetra corporeamente nella densa e pur non corporea luce del Paradiso; dovunque ci sono bufere, fetide piogge, brulicar di serpenti, guizzare di fiamme parlanti; livide paludi, paesaggi solari; ma anche visioni del vasto cielo stellato, valli fiorite, musicali foreste, infinite feste di luci: mille aperture sui più vari orizzonti, nelle comparizioni dei personaggi e degli eventi. 

E tutto ciò è racchiuso entro una struttura semplicissima: una voragine che scende verso il centro della terra, una montagna che nell’altro emisfero sale verso l’alto; nove cieli che girano veloci intorno al tutto; un decimo cielo immobile, che tutto racchiude. 

Così per la nostra società contemporanea. Non c’è moto della sua anima e dell’intelligenza umana, nel male e nel bene, che Dante non rappresenti: l’ebbrezza della passione di Francesca e la sozzura della meretrice Tàide (metafora della morte per dedizione come dei cittadini consacrati all’onestà e alla correttezza, nonché al sacrificio della propria vita, e metafora della perfidia umana e dell’ingordigia dei nostri politici capaci da soli, pur di divenire i favoriti, di distruggere lo stesso palazzo delle poltrone rosse da loro occupate); l’amor di 

patria e il doloroso peso della responsabilità fermamente assunto da Farinata e la grandezza fosca e colpevole di Bonifacio VIII (metafora di chi contribuisce, in questa società, attivamente, alle vittorie quotidiane sui sorprusi degli stessi cittadini indirizzati a scelte poco corrette e un po’ mafiose (si può scrivere questa parola?), a costo di esser condannati come eretici d’una giustizia solo agognata, e la metafora della grandezza dell’esercizio della giustizia: la Clericis Laicos (bolla del 18 Nov.1302) proibiva al clero di versare a qualsiasi autorità laica denaro a titolo di tasse e sovvenzioni (e le tangenti di oggi, dove le mettiamo?); gli occhi lucenti di lacrime di Beatrice e la sconcia cennamella di Barbariccia (metafora della purezza, la prima, e dell’ambiguità diabolica di chi suona apparentemente note dolcissime e si gonfia, invece, come otre per finire quindi nella quinta bolgia del cerchio ottavo dell’Inferno, e dell’inferno dei miserabili, ascrivo); e ancora, la tracotanza violenta e disperata di Capaneo e di Vanni Fucci e la fragilità di Pia e Piccarda (metafora della sfIda al Dio, e agli dei, alla religione o al credo, dunque, e la metafora nella remissività strappata anche con violenza alla promessa di fedeltà agli ideali); il generoso ardore di conoscenza di Ulisse e l’aspettare neghittoso di Belacqua (metafora della prodezza e sagacità, contrapposta alla pigrizia, alla lentezza e all’essere infingardi di molti responsabili della cosa amministrativa); lo strazio paterno di Ugolino e la dolcezza del ricordo e della nostalgia di tanti amici evocati, specie nel Purgatorio (metafora di chi può, paternamente straziato, ispirare trentaseiesimi e più canti dell’Inferno e dell’inferno della quotidianità, come ogni padre che non sa quale avvenire garantire, oggi, ai propri figli, e la metafora di quanti, come noi, si proiettano nel passato, e nel ricordo di tempi più sereni, per sperare bene nel domani assai incerto): dunque, ansia di conquistare fama presso coloro che questo tempo chiameranno antico, e coscienza che il “mondan romore” non è altro che fiato di vento. Rappresentazione, allucinante per evidenza di particolari, delle mutazioni e trasmutazioni dei ladri e delle mutilazioni dei seminatori di discordie, e delucidazione dei più ardui e astratti veri scientifici, filosofici, teologici: il vUlanello che si batte l’anca disperato nel vedere il suo campo coperto di neve, e il volo dell’aquila romana, voluto da Dio. L’infinitamente piccolo e sfuggente e labile, quindi, e l’infinitamente grande ed eterno. 

Dante è poeta di ogni società. Nessun dubbio turba mai il poeta, che pure sa e rappresenta la fragilità del cuore, il pericoloso pencolare della superba intelligenza degli uomini verso l’errore. Esamina e giudica, inflessibile, piccoli e grandi; i singoli e tutto il suo tempo: Impero e Chiesa: e il lettore di oggi non si domanda mai se quel giudizio così reciso sia legittimo: non ha mai l’impressione che sia pretenzioso e fatuo e unilaterale: tanta è la saldezza della fede e delle convinzioni da cui deriva, che essa passa nel lettore, il quale avverte che a giudicare non è Dante: che egli è solo l’interprete sicuro d’una legge che deve potere essere indiscutibile anche per noi. Nessuno più razionale, quadrato, consequenziale di Dante. Ma la sua razionalità sbocca nel sentimento, e si fonde con esso. E una volta raggiunto – quali che siano stati i travagli sentimentali e intellettuali che l’hanno caratterizzata -, quello che conta è che diventi poesia. Annullato ogni dissidio, come in Dante, si plachi il nostro, sino ad annullarsi nella poesia, e ogni cosa si comporrà nella morale. Naturale e tipico è, infatti, lo sprezzo dei poeti di oggi e di sempre, per gli ignavi, per chi rifugge dall’assumersi delle responsabilità della piena vita, delle decisioni supreme, cioè dell’azione. 

Dante del Convivio e della Commedia ha pietà: di chi non ha amore per la scienza, e non solo quella teologica, ma anche quella fisica e naturale, e non solo lusso di erudizione e di sottigliezza, ma senza l’impegno morale, la scienza, pane degli angeli, non sarà mai gustata, e chi non ne gusta, resterà un misero e un infelice. 

In questa società scienza, morale e religione sono oggi, come la poesia, una sola cosa. E ancora: la salvezza spirituale s’identifica con la libertà individuale, cioè con la conquista di se stesso, con la capacità dell’animo a vincere le battaglie. Beatrice ha mosso Virgilio, ma è da lui preceduta nell’opera di elevazione e di sublimazione di sé e di tutti gli uomini che Dante canta nel suo poema. Il simbolo della stessa regione è un poeta; pensiero e sentimento non cozzano tra loro, ma costituiscono una salda unità: e la stessa poesia è concepita non come sogno, ma come una battaglia, con precisi obiettivi pratici di ammaestramento e ammonimento che Dante ha e, ancora oggi, cura di mettere in luce, ricordandoci che, nonostante il disordine delle passioni umane, c’è un ordine supremo e che ogni creatura, seppure per poteri diversi, giunge sempre ad un’unica riva e che la corda dell’arco divino porta ogni essere irresistibilmente al sito per lui decretato, che è la felicità e la perfezione; e se taluno dèvia, ciò è per colpa sua; perciò non ha fatto il suo dovere. Di qui la concezione dell’ordine dell’universo che giunge fino a Dante, esule immeritevole, colpito dall’ingiustizia, tradito dagli uomini per il suo amore per essi, e spettatore lucido e angosciato del male sempre caratterizzato dalla sua virile certezza di giustizia. 

Ma questa giustizia, a noi, da chi verrà? Dante si fa profeta della certezza che essa può e deve venire solo da Dio, che cielo e terra si salderanno. Noi lo speriamo davvero. E mi sento d’asserire che il primo e più alto messaggio del poema dantesco è forse proprio questa certezza. 

L’attualità di Dante ancora oggi diviene il referente più accreditato da parte della cultura nipponica, con le recenti dichiarazioni del più grande scrittore giapponese vivente, Kenzaburo Oe, che, vincendo il premio Mondello, ha sottolineato come dal nostro più grande poeta sia possibile realizzare un’esperienza eccezionale e unica, per la capacità di estrarre dal suo poema un’infinita catena di immagini e di metafore. Da ogni sua terzina, afferma Oe, è possibile ricavare più materia di un racconto. Da certe figure di angeli è possibile trarre immagini fortemente indipendenti, sia dalla parte di Dio, sia dalla parte di Lucifero. La profondissima nostalgia e la fortissima tensione accompagnano la stesura dei romanzi di OE, ed è da Dante che deriva la sua esaltante iniziazione alla letteratura europea. 

Un altro grandissimo autore contemporaneo, certo il più grande autore irlandese vivente, anche lui premiato con il Mondello, si è dichiarato innamorato di Dante, il cui itinerario attraversa in filigrana l’intera tessitura del suo capolavoro“Station Island”, per il modo in cui la Divina Commedia riesce a conciliare la sfera politica a quella trascendente. Per lo scrittore irlandese, Dante, diviene esempio senza eguali, tanto che da questo amore scaturtranno delle mirabili traduzioni, come quella celeberrima del Conte Ugolino, sull’insegnamento dei romantici inglesi e del modernismo di Thomas Eliot o Ezra Pound. 

Se immensa è l’influenza e la significazione del messaggio di Dante nella vita, nella politica, nella tematica, altrettanto sterminata appare, come mostrato con i due esempi succitati, quella sullo sviluppo e sulle componenti strettamente letterarie di tutto il Novecento. Come dire che la Commedia diviene madre di tutte le poetiche, passate, presenti e future. 

Lina Riccobene

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 29-36.




 La poesia di Matilde Contino * 

Matilde Contino, docente di lettere e traduttrice dal greco e dal francese, è anche una raffinata poetessa che per la prima volta accetta di veder presentate pubblicamente le sue opere. 

Le sue raccolte poetiche sono tre, ed hanno già riscosso un lusinghiero successo di critica; molte sue poesie, inoltre, sono state pubblicate in giornali e riviste e sono state tradotte in diverse lingue straniere. È da sottolineare, infatti, l’apertura internazionale dei suoi interessi culturali: Matilde Contino ha sempre partecipato a iniziative, incontri e manifestazioni legate soprattutto al mondo mediterraneo, e in questi ambiti è già molto conosciuta ed apprezzata. 

Il suo primo volume di liriche Symbiosis aveva già rivelato in lei notevoli qualità poetiche e la capacità di condensare anche in brevi composizioni una grande ricchezza di immagini, secondo la migliore tradizione dei lirici greci, dei quali l’Autrice – greca da parte di madre – ha saputo cogliere l’eredità. La sua è sempre una poesia limpida e meditativa, concisa e densa, in cui la passione interiore è filtrata attraverso il rigore formale derivante dalla profonda formazione classica. 

Molto ricca la gamma dei sentimenti rappresentati: la natura fa sempre da sfondo ed offre lo spunto per limpidi quadretti (secondo la migliore tradizione degli idilli, anche questi legati alla letteratura greca: non dimentichiamo che idillio significa, etimologicamente, quadretto, bozzetto, breve composizione lirica avente come sfondo la natura). In questi quadretti la materialità dell’immagine si stempera nel lirismo o offre all’espressione poetica sembianze ore di aerea levità, ora calde e terrene, in cui si manifestano sia l’attaccamento alla natura sia la tendenza a sublimarsi e a fondersi nella natura stessa, per cogliere in questa, come dice un verso, la perpetua cosmica armonia. 

Nella lirica “Il pianeta e il satellite”, l’immensità è resa con delicatezza, anzi perfino con grazia, nella raffigurazione della danza dei pianeti: «Il nord diventa sudi e i poli si invertonoI ma senza catastrofil i nostri pianeti si muovono/ danzano intorno all’altro/ in perpetua cosmica armonia>!; era difficile rappresentare con più levità una situazione da catastrofe cosmica che invece ispira immagini di armonia legate anche a quella “musica delle sfere” di cui parlava Platone. A Platone si richiama anche un critico straniero che ha parlato della poesia di Matilde Contino, Pascal Ghilewski, di cui vorrei riportare un giudizio sulla prima opera poetica: “La stessa Autrice e le sue poesie sono un cuore pensante, un’Anima che si identifica con l’Amore, un’espressione d’amore nel suo significato migliore, che raggiunge gli eterei orizzonti platonici, agognando l’ideale, la bellezza e il bene (…). Nella fluida simbiosi tra erotismo e ideale si genera questa poesia alle cui basi si trova un elemento fisico, una pietra angolare: il mare, il sole, il vento, il battello, le stelle, il frutto, la flora e la fauna, tutto in una fantastica e beata armonia, in una splendida unità di tutti questi elementi mediterranei, volta a un solo scopo: dar luogo all’amore”. 

A volte però la natura fa da insensibile sfondo a elementi di tristezza, di amarezza, di nostalgia. La malinconia è quasi una costante, ma è spesso abbinata a immagini delicate, sullo sfondo, come si è detto, di una natura impassibile e tuttavia bella, sempre oggetto di attenzione e di ammirazione: «Sui miei occhi erranti! a ricercar la luna/ sui profili scuri dei monti/ scendi malinconia/ mi avvolgi di un velo inestricabile/ bozzolo tu, baco io/ senza speranza/ di divenir faifallw. L’accostamento tra natura e sentimenti è particolarmente evidente nella lirica “Primo/Secondo”, dedicata ai giovani di Praga: «qui la pioggia precipita nel mio cervello/ e lava ogni pensiero>! e il tempo nero e le nuvole grigie corrispondono ai sentimenti dell’Autrice «grigio il mio cervello/ nero il cuore>!. La pioggia è anche, nella stessa lirica, «pioggia di schiavitù/ e di giovanile coraggio/ pioggia d’eroismo segreto/pioggia di sangue nero/pioggia di ultimatum/ e di guerre ingiuste>!: e la stessa ripetizione, incalzante come un ticchettio o come un crepitio di mitra, a cui infatti è paragonata la pioggia, rende in modo quasi onomatopeico l’effetto di parallelismo tra i due fenomeni , quello naturale e quello determinato dall’uomo. 

Qualche volta la tristezza e l’angoscia assumono toni di una passionalità che accentua lo strazio e la sofferenza: anche in questi casi la lirica diventa estremamente espressiva, ma sempre con una scelta di immagini e di termini che rivelano un accurato labor limae. 

La meditazione si fa gradualmente più intensa e la passione assume toni vibranti anche se sempre contenuti; si tratta, spesso, di una poesia d’amore, in cui la delicata sensibilità femminile si traduce in una densità metaforica particolarmente efficace. Amore e sentimento materno sono espressi, a volte, con una dolcezza particolare, come nella lirica “Ninna nanna”, altre volte con un traboccare di emozioni sempre però stemperate in immagini poetiche che le sublimano, richiamandosi anche al mito: la donna che ama, ad esempio, è paragonata ad una Nereide che circonda l’amato con fluide braccia, e anche il dramma di Paolo e Francesca, pure inquadrato nella tempesta e nella bufera, contiene attimi di delicatezza: «I nostri sguardi si fondono/ le dita si sfiorano/ per un breve attimo/ il lampo di un sorriso”. In quel lampo di sorriso, che non esiste nella rievocazione dantesca sta la dolcezza gentile con lui la poetessa rappresenta in pochi tratti la tragedia della coppia. 

Non mancano poesie di ispirazione civile, come quella già citata “Primo/Secondo” dedicata ai giovani di Praga, o “Appello alle donne” o “Foglie”, ispirata alle donne di Sarajevo e ai bambini e ai vecchi di Dubrovnik: la meditazione sul mondo d’oggi ha toni spesso drammatici, ma è pervasa da un profondo amore per l’umanità che si traduce in immagini ed espressioni di particolare forza. 

Il lirismo delicato ritorna nella terza raccolta Dove soffia il vento con una intensità poetica ancora più densa di risonanze. 

Le composizioni sono brevi ed incisive come Hai-Kai giapponesi dei quali hanno le stesse caratteristiche, quelle di condensare il grande nel minimo e di operare una trasposizione dal mondo materiale ad un’idea trascendente, fondendo l’immagine, sempre nitida e precisa, con la risonanza che questa ha nello spirito. In pochi e sicuri tocchi il rapporto tra uomo e natura si sublima ancora una volta in un lirismo delicato e vibrante, in cui le metafore si spogliano di ogni corposità per divenire spesso di una raffinata delicatezza, rivelando, come nelle opere precedenti, il gusto estetico dell’Autrice e la sua chiarezza e limpidezza di evidente impronta classica. È sempre presente, come nelle raccolte precedenti, una passionalità intensa ma contenuta, caratterizzata da un equilibrio anche 

questo di stampo classico. Alcune immagini ricorrenti – quelle dell’acqua, delle gocce, della pioggia, delle onde – accentuano la fluidità poetica dei versi e rivelano un’ispirazione legata a una natura sempre varia, come l’elemento liquido, simbolo di vita e di perenne mutevolezza, di perennità e di varietà nello stesso tempo. 

Analoga funzione ha il tema del vento, presente nel titolo: anche questa immagine accentua l’ariosità e la freschezza delle liriche, in cui non mancano però i momenti di tensione, cosi come il soffio leggero del vento può trasformarsi improvvisamente in vortice o bufera. Ma le rappresentazioni del mondo fisico sono inserite sempre in un’atmosfera quasi metafisica, in cui il contingente e l’eterno suscitano il perenne interrogativo senza risposta sul destino dell’uomo: «Nello spazio stellato/ come una mezza luna/ resterò in eterno/ freccia scoccata/ senza bersaglio/ in perenne parabolica/ traiettoria, puro desiderio/ quesito senza risposta/ tentativo senza esito”. 

Il tema dell’infinito e del mistero dell’esistenza umana, considerata come un viaggio verso l’ignoto, ritorna nella lirica “Scatola nera”, dove il viaggio nello spazio acquista una drammatica rilevanza con l’ossessionante e martellante ripetizione: «stiamo ancora percorrendo/ questo lungo ignoto viaggio/ verso l’autodistruzione/ verso l’autodistruzione/ verso l’autodistruzione…”. 

Altrove l’immersione nella natura raggiunge, come era già avvenuto nelle raccolte precedenti, tocchi di aerea levità: la donna si scioglie in «dolcezza, tenera come un filo d’erbai umido d{ rugiada, gli occhi dell’amato sono perle da berei con la vista del cuore, il vento insegue tra le foglie degli eucalipti la luna inafferrabile/ come il mio sognoll • 

È frequente anche l’immagine della librazione nell’aria, come «un acrobata/ sulfilo della vita; tutto questo traduce sempre la tensione spirituale, il desiderio di ascesa e l’ansia di chi cerca un appiglio e insegue un desiderio di certezza. Anche la musica del sirtàki, tanto amata dalla poetessa di origine greca, diventa fonte non solo di godimento, ma anche, attraverso la vivacità gioiosa del ritmo, fonte di elevazione e di spiritualizzazione: «Musica anch’io divengo/ volteggio nell’aria leggerai nota libera, ti aleggio intorno/ e comprendo il mondo intero”. 

Un’altra immagine frequente è quella del fruscio del vento che interrompe il silenzio, rendendolo subito dopo più intenso: ma il vento serve anche a spezzare un momento di incantata contemplazione. Come diceva un grande poeta francese, Paul Claudel, grande interprete della spiritualità orientale, nelle sue Cento frasi per ventagli, poesie nello stile degli HaiKai giapponesi, la poesia è come un tocco sull’acqua, destinato a suscitare immensi cerchi concentrici, è come la corda di uno strumento musicale che, vibrando, suscita una lunga risonanza, come una piccola pastiglia di incenso che sprigiona a lungo il profumo: ecco perché un piccolo tocco o una delicata immagine possono suscitare l’idea del mistero che aleggia intorno alle cose e destare nello spirito una lunga eco, come avviene appunto in queste liriche. 

Perfino elementi negativi come i rifiuti possono suscitare parallelismi con la vita e con i sentimenti umani. I rifiuti e le immondizie erano già entrati nella poesia con Baudelaire, che aveva espresso il fascino del negativo e le frisson galvanique, il brivido galvanico nato dal contrasto tra il ripugnante e lo spirituale; ma qui tutto è avvolto ancora in un’atmosfera di delicatezza a cui si accompagna, come sempre, un fondo di tristezza e di vuoto: «una buccia di banana/ un osso/ unafoglia seccai un pneumatico nero/ una bottiglia di plastica/ una lattina contorta/ un vuoto nell’anima/ un buco nel cuore”. 

Come nelle raccolte precedenti, è sempre presente anche un’altra fonte di ispirazione, quella legata ai temi della guerra e della violenza, In “Lager” e in “Lettera dal fronte”, il dolore è rappresentato soprattutto attraverso la sofferenza di madri, vecchi, e bambini: questi ultimi in particolare, con la tenerezza che ispirano e con l’immagine dell’innocenza ferita con «grandi, grandi occhi/ e piccoli, piccoli cuori” rendono ancora più drammatico e patetico questo tema. 

La lirica dedicata al padre, con l’immagine possente del vecchio leone, invitato a resistere contro tutto e contro tutti, o la lirica “Cintura nera” in cui il corpo traduce l’energia della natura e induce a poetici ed efficaci paragoni con le forze fisiche e naturali, hanno toni forti e decisi, diversi dalla delicatezza delle altre composizioni: si passa quindi, in questa raccolta, dall’aerea levità alla vibrante passionalità ed alla forza incisiva delle liriche ispirate a una passione civile; ma anche questa capacità di variare stile e linguaggio è segno di quella padronanza dei mezzi espressivi di cui l’Autrice ha sempre dato prova. 

Ida Rampolla

* Relazione della prof.ssa Ida Rampolla tenuta a Marsala il 30 Maggio 1998 presso l’ex Convento del Carmine per il Centro Internazionale di Cultura “Lilybaeum”.

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 28-32.




Mazzolari e Teilhard de Chardin 

 S. Ravera*, Profeti a confronto. Don Primo Mazzolari e Padre Pierre Teilhard de Chardin, Genova, Marietti, 1991. 

Quando il 5 aprile 1959, don Primo Mazzolari cadde colpito dal malore che da lì a una settimana doveva stroncarlo, sul suo scrittoio ingombro di carte fu trovato aperto e glossato Le phérwmène humain, il testo postumo di Teilhard de Chardin, appena uscito nell’edizione francese.1 

Nel 1971, per i tipi della Locusta, don Silvio Ravera pubblicava Due profili. In quest’opera il combattivo sacerdote ligure accomunava, in un’ardita biografia parallela, il parroco di Bozzolo e il gesuita francese. A distanza di vent’anni, questo lavoro appassionato e appassionante è tornato in libreria per le edizioni Marietti con il titolo Profeti a confronto. E certamente gli estimatori dei due grandi campioni dell’ubbidienza cristiana avranno di che rallegrarsi: don Ravera, con uno stile piano e comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”, non dà nulla per scontato e non scade mai nel banalmente agiografico. 

La parte riservata a Teilhard de Chardin pare un’agile introduzione al suo complesso pensiero scientifico. Scorrere queste pagine non prive di interessanti annotazioni biografiche è certamente utile per chi volesse cimentarsi con Le milieu divin, il già citato Phénomène humain e Le groupe zoologique humain. 

Non tutti saranno d’accordo con don Ravera quando vedranno S. Paolo nelle vesti di precursore intuitivo delle scoperte evoluzionistiche di Teilhard2. Pure, è proprio la parte che va da pagina 64 a pagina 70 che pare la più interessante. Qui don Ravera espone con disarmante sincerità e straordinario acume il proprio pensiero. Pensiero, da cui – come si è detto – si può dissentire, che segna però profondamente il lettore. 

Proprio parlando di Teilhard, don Ravera ha detto: .Prima di giudicare un individuo che parte da solide basi scientifiche, bisognerebbe avere almeno la sua preparazione-. Consapevoli di non avere la preparazione di don Ravera, ci asteniamo dall’analizzare oltre questa parte per passare al “pianeta Mazzolari”. 

Ravera, che da giovane sacerdote aveva conosciuto di persona don Mazzolari, tratteggia con mano esperta e delicata la vita inquieta e rigorosa del parroco di Bozzolo. Forse è proprio la tensione, il desiderio di esternare la forte personalità dell’amico che fa cadere don Ravera in alcuni errori di prospettiva. Addirittura in banali sviste; come quando attribuisce a Pio IX la frase riguardo all’ “uomo della provvidenza”. Per il papa che è morto cinque anni prima della nascita di Mussolini, sarebbe stato un bel caso di preveggenza. Tra l’altro, Pio XI – l’autore della frase incriminata – si è solo riferito a “un uomo che la provvidenza ci ha fatto incontrare”. Non è necessario essere molto addentro alle sottigliezze curiali per comprendere che tra le due espressioni c’è una profonda differenza. 

Ma, a parte sviste – attribuibili forse al solito printer’s devil -, anche il cenno alla perpetua ventiseienne che curava il nunzio Pacelli (futuro Pio XII) ci pare sfiorare l’allusione di dubbio gusto, certamente indegna di don Mazzolari e don Ravera. Forse, in occasione della nuova edizione, questo era un brano da cassare inesorabilmente. 

Anche riguardo ai dissapori con il cardinale Montin!, che tanto angustiarono don Mazzolari, don Ravera pare – contrariamente al suo carattere singolarmente reticente e allusivo. Dopo la prima pubblicazione di Due profili, molte penne si sono cimentate attorno a questo argomento, che, a distanza di anni, non pare ormai punto scabroso3. 

Monsignor Montini si sottoponeva al dovere di correggere coloro che erano affidati alle sue cure con una timida sincerità che poteva ben essere scambiata da un animo sensibile come quello di don Mazzolari per una “coriacea” freddezza4. 

Di don Milani si può pensare tutto e il contrario di tutto, ma non lo si può certo liquidare con la frase «…non sempre si mostrò equilibrato nella profetica denuncia dei mali della chiesa… Lo stesso Mazzolari… accenna (in una lettera inviatami nel febbraio del 1959 [a don Ravera, è ovvio]) ai limiti di questo sacerdote, per quanto riguarda appunto l’equilibrata valutazione delle situazioni.5 

Ma, tralasciando queste forzature umorali, quello che meno convince della fatica di don Ravera è l’ostinazione che vuole attribuire assoluto valore documentale a due romanzi di don Mazzolari: La pieve sull’argine e L’uomo di nessuno6. Tra le libertà ascrivibili a un autore c’è anche quella di inventare, in un contesto prettamente autobiografico, quello che ritiene più consono alla riuscita della sua opera. Se così non fosse si dovrebbe considerare don Mazzolari così immodesto da identificarsi totalmente in don Stefano Bolli (il sofferente protagonista dei due romanzi) che lui dipinge così “bello di fama e di sventura”7. 

Prendendo per vero tutto quanto è scritto nella Pieve sull’argine, si dovrebbe pensare che i genitori di don Mazzolari siano morti quando il sacerdote era in giovane età. Tra l’altro, nel romanzo non compare la madre premorta all’iniziarsi della vicenda. Nella verità storica la madre tanto amata di don Mazzolari sopravviverà al marito di alcuni anni, e spirerà nel 1948, poco prima che il Parroco di Bozzolo, ormai quasi sessantenne, iniziasse l’avventura di “Adesso”8. 

Addirittura, volendo seguire l’intenzione di attribuire estremo realismo alla Pieve sull’argine, si potrebbe pensare che un personaggio possa chiamarsi Berto a pago 135 e Cesco a pago 14()l91. Quindi, se l’elenco qui fatto è da attribuirsi all’assoluta libertà dell’autore, all’identica Ubertà creativa va ascritto l’intermezzo sentimentale tra don Stefano e Bellina. Almeno finché non si portano inconfondibili prove documentaU, cosa che don Ravera non fa. 

Vorremmo aggiungere a queste obiezioni anche un peccato di omissione. Don Ravera non accenna neppure all’intensa attività che don Mazzolari compì con coraggio e fermezza per la pacificazione degli animi, nell’immediato secondo dopoguerra. Anche le pagine di “Adesso”, “pupilla destra del suo occhio destro”, tanto per usare un’espressione di don Milani, furono impegnate per questo scopo10. E per questa meritevole opera non esitò ad avvalersi della penna appassionata dell’allora molto criticato Carlo Silvestri11. 

In fondo, questo è il don Mazzolari che preferiamo, l’uomo che aveva sofferto e che sapeva quello che gli storici caudatari dei vincitori amano ignorare, e cioè che “si è sporcato il fascismo e si è sporcata la resistenza: si sono sporcati i Tedeschi e si sono sporcati gli Americani, gli Inglesi. i Russi, i Francesi. Gli ‘immolati’ invece vestono di bianco, anche se la loro causa non è senza macchie”12. 

Gaetano Radice 

* Silvio Ravera (nato nel 1923 a Celle Ligure -SV-) expartigiano e sacerdote, è autore di diversi lavori letterari e scientifici, tra cui: Di là dal fiume, Mattutino, I due di Emmaus, Ruggine sulla vanga, Maria di Nazareth, ‘Che hobby, ragazzi”, Nelle tue mani, Dal fenomeno umano al fenomeno religioso, Dio si muove, Quale religione per il terzo millennio. Il suo primo libro, Di là dal fiume, che risale al 1956 e che narra la sua esperienza pastorale nella periferia industriale di Savona, “dove la molta miseria e le suggestioni politico-sociali (antireligiose) avevano larga presa”, è stato tradotto in francese e spagnolo. L’intensa attività pubblicistica non ha impedito a don Ravera di essere un apprezzato docente presso un prestigioso liceo savonese e in una scuola di ostetricia (dove insegnava oltre a Etica professionale anche Sociologia e Antropologia), uno sportivo praticante e un attivissimo donatore di sangue. Attualmente è parroco in un paese dell’entroterra ligure. 
l. Cfr. M. Maraviglia, Chiesa e storia in “Adesso”, Bologna, EDB, 1991, nota di pag. 39. Stranamente la studiosa fiorentina usa citare il libro di Tetlhard come Le fenomene humaine (sic). Da notare come l’episodio non fosse noto a don Ravera che, infatti, scrive: “Può sembrare strano che due uomini di tale statura […) non si siano conosciuti, almeno attraverso gli scritti”, Profeti a confronto, cit., pag. 12. 
2. In altre occasioni Ravera ha visto persino Cristo come anticipatore di Marx e Freud. Cfr. Dio si muove, Torino, Gribaudi ed., 1983, Pagg. 51-52. 
3. Cfr. L. Bedeschi, Obbedientissimo in Cristo… Lettere di don Primo Mazzolari al suo vescovo (1917-1959), Milano, Mondadori, 1974, pag. 252; A Bergamaschi, Presenza di Mazzolari, Bologna, EDB, 1986 (1969), n.155, pago 143; M. Maraviglia, op. cit., pag. 103. Sulle attestazioni di amicizia e stima di G. B. Montini nei confronti di don Mazzolati cfr. anche G. Colombo, Ricordando G. B. Montini arcivescovo e papa, Brescia. Istituto Paolo VI. Quaderno 8 (1989) e F. Molinati. La più bella avventura, Mezzo secolo di profezia, in “Jesus”, 6 (1984). 
4. Cfr. L. Bedeschi. op. cit., pag. 252 e A. Bergamaschi, op. cit., pag. 143. 
5. Certe perplessità sull’operato di don Milani don Mazzolari aveva avuto modo di esternarle già in un commento dal titolo “Una risposta che non persuade”. che accompagnava su “Adesso” uno scritto di un alunno di don Milani. Le iniziali C. M. nascondono con ogni verosimiglianza la paternità di don Mazzolari. Cfr. M. Maraviglia. op. cit. I dubbi riguardo all’istruzione come valore e mezzo di emancipazione morale sono forse dettati a don Mazzolari da tristi esperienze (cfr. P. Mazzolari. Quasi una vita. Lettere a Guido Astori, 1908-1958. Bologna, EDB. 1979, pago 79). L’episodio viene riportato quasi integralmente nel romanzo di don Mazzolari, La pieve sull’argine, Milano, I. P. L., 1952. 6. Ora, La pieve sull’argine e L’uomo di nessuno. Brescia, V. Gatti ed., 1966. Come si vede il primo romanzo fu scritto e pubblicato in un momento difficile per don Mazzolati, quando “Adesso” aveva subito una momentanea sospensione. L’uomo di nessuno fu pubblicato solo postumo. Evidentemente qualcosa non convinceva l’autore.
7. Indubbiamente non si può negare che Stefano Bolli sia una trasfigurazione di don Mazzolari. Tra l’altro con questo pseudonimo erano stati firmati diversi articoli su “Adesso”, e Bolli è il cognome da nubile della madre di don Mazzolari. Molto criticabile pare invece il voler imporre un’identificazione assoluta. 
8. Cfr. L. Bedeschi, L’ultima battaglia di don Mazzolari. “Adesso” 1949-1959, Brescia, Morcelliana, 1990, pag. 95. In una lettera datata Bozzolo, 20 dicembre 1948, don Mazzolari ringrazia don Bedeschi per un corsivo di condoglianze comparso sull'”Avvenire d’Italia”. Significative per l’affetto rispettoso paiono le parole: “Mamma Grazia era un dono troppo grande, un privilegio… Sit nomen Domini benedictum”. La signora Grazia Bolli, vedova Mazzolari, era spirata il 13 dicembre. “Adesso iniziò le pubblicazioni il 15 gennaio 1949. 
9. P. Mazzolari, La pieve sull’argine, op. cit. Si tratta di una svista, è ovvio. Una svista che è sopravvissuta ad almeno quattro edizioni e una ristampa. 
10. Cfr. Quando capiremo i morti finirà l’odio, in “Adesso”, I; ora anche in A. Bergamaschi, Presenza di Mazzolari, op. cit. 
11. È lecito pensare che l’articolo “Appuntamento agl’Italiani’, comparso sul primo numero di “Adesso” a firma di C. Silvestri fosse stato scritto, invece, da don Mazzolari. Cfr. Bedeschi, L’ultima battaglia di don Mazzolari, cit., pagg. 98 e 105. C. Silvestri (1882-1955), giornalista socialista, durante il ventennio fu antifascista indomito. Si riconciliò con Mussolini, ormai vinto, durante la Repubblica di Salò, per scopi puramente umanitari (alla sua attività si possono ascrivere numerosi salvataggi in extremis di noti antifascisti. L’ostracismo cadde però su di lui soprattutto a causa della sua appassionata e personale visione del delitto Matteotti. È interessante osservare come la critica storica più attenta si sia progressivamente accostata alle sue tesi. Cfr. le interviste contenute in “Storia Illustrata”, 336, novembre 1985. Inoltre, C. Silvestri, Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, Milano, Cavallotti, 1981; M. Matteotti, Quei vent’anni. Da1 fascismo all’Italia che cambia, Milano, Rusconi, 1985; F. Scalzo, Matteotti. L’altra verità, Roma, Savelli, 1985. 
12. Quando capiremo i morti finirà l’odio, in “Adesso”, cit.

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 61-65.




Luigi Tenco.  A venticinque anni dalla morte

“Signore e signori buona sera, diamo inizio alla seconda serata con una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito una valoroso rappresentante del mondo della canzone. Anche questa sera per presentare le canzoni è con me Renata Mauro. 

Allora, Renata, chi è il primo cantante di questa sera?”. Così, il ventotto gennaio di venticinque anni fa, il presentatore per antonomasia, Mike Bongiorno, posteggiava impudicamente nell’inconscio collettivo degli italiani la vita di Luigi Tenco, e il gesto disperato (o profetico?) che quella vita aveva concluso. 

La notte precedente, una pallottola calibro 7,65 br., uscita dalla canna di una Mauser PPK – la piccola, magnifica semiautomatica dei poliziotti tedeschi – aveva ruotato nel suo cranio purgandolo per sempre dai pensieri molesti. Questi i fatti: troppo noti per insistervi ancora. Sulla ridda di commenti a caldo e a freddo, sul corpo riportato dall’obitorio alla tragica camera per soddisfare i fotografi ansiosi di macabro sensazionalismo stendiamo un velo pietoso. C’è comunque da stupirsi che i numerosi poliziotti lì convenuti fossero così impegnati a esaudire le richieste dei giornalisti e discografici da non osservare che “il foro d’entrata era posto non ‘nella tempia’ ma dietro il mastoide destro, leggermente sopra il padiglione auricolare, e quello d’uscita nella regione frontale sinistra; una posizione anomala per un suicida, come asserisce più di un criminologo.” (Aldo Fegatelli, Luigi Tenco, Lato Side Editori, Roma 1982). 

A onta del cinismo mostrato nell’occasione e poi ampiamente ribadito dagli addetti ai lavori, le canzoni di Tenco restano una scoperta rigorosamente privata, un momento di crescita, a volte un’autentica rivelazione, per ogni generazione che si affaccia nel mondo della musica. 

Nonostante la fretta con cui le sinistre si impossessarono del cadavere per farlo applaudire al suono di Bella, ciao eppure è ben noto come avesse usato le sue mani (da musicista, ma non proprio diafane), con la feroce dignità che possono esibire solo i timidi che hanno troppa paura di avere paura, per difendere un giornalista di destra sopraffatto dal coraggio del numero -, per la gente semplice – gli infiniti samaritani che non hanno il tempo per lacerarsi il frac sulla “Gazzetta di Gerico” e “Il corriere di Gerusalemme”, magari perché impegnati a lenire le ferite inferte da chi ha preso troppo sul serio certe indignazioni – Tenco è rimasto come la figura dolente di un figliuol prodigo che ha speso a piene marti i numerosi talenti affidatigli: e che poi ha scelto di tornare al Padre, prima che i porci che aveva sfamato lo divorassero. 

Una tale considerazione agiografica pare quasi inspiegabile se rivolta a un pur bravo cantautore che ha prodotto solo alcune notevolissime canzoni d’amore e alcune (in genere mediocri) canzoni impegnate. Pure in questa visione frementemente affettuosa si inserisce la toccante canzone, Preghiera in gennaio, di Fabrizio De André; il quale sembra addirittura volgarizzare poeticamente (” … non c’è l’inferno / nel mondo del buon Dio”) le tesi esposte con rigore teologico da Hans Urs von Balthasar. 

Un fatto è comunque certo: Tenco resta austeramente fuori dal novero dei musici caduti lungo la strada del successo. I pur mitici, angosciati e angoscianti Jimy Hendrix e Janis Joplin paiono soprattutto vittime dei loro vizi e del distruttivo american way of life. Il tragico gesto che ha spento la vita del nostro cantautore sembra invece motivato dall’incommensurabile disperazione di bambino bocciato agli esami; ed è per questo che continua a suscitare compassione (nel senso etimologico del termine). Nel contempo non si riesce a non accomunare quella dolente figura con quelle ben più grandi di autentici poeti come André Chénier e Robert Brasillach, figure di giovani che si sono trovati tragicamente in contrasto con le idee correnti dei loro anni. 

Proprio perché il paragone con i due poeti francesi appare azzardato, è invalso anche l’uso di stabilire un parallelo, anche per le comuni origini piemontesi, tra il cantautore di Cassine (Alessandria) e Cesare Pavese. A noi pare più calzante invece confrontarlo con un altro grande scrittore piemontese: Beppe Fenoglio. Le affinità sono quasi sconvolgenti: i famigliari di Luigi Tenco commerciavano vini all’ingrosso, e presso una ditta di virti aveva trovato stabile impiego il “solitario di Alba”. Identico è il fallimento negli studi universitari dopo una brillantissima carriera liceale. E per frequentare l’università Fenoglio era sceso a Genova. la città che adottò bambino Tenco. “La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti….. si lamentava l’autore del Partigiano Johnny, e allo stesso lavoro di lima Tenco sottoponeva le sue canzoni; Ciao amore ciao, cantata quel tragico ventisette gennaio, ha avuto certamente tre versioni prima dell’ultimo rifacimento. Il tema di questa canzone, che narra l’abbandono dei campi per la tentacolare città, ha un’affinità straordinaria con l’unico soggetto cinematografico (mai realizzato e pubblicato postumo) di Beppe Fenoglio. Anche Tenco teneva nel cassetto una sceneggiatura e alcuni racconti. Ma, oltre a queste somiglianze esteriori, quello che accomuna veramente i due piemontesi ci sembra l’identico sentire morale, la stessa etica austera – da pastore valdese -,la stessa tensione partecipativa, quel desiderio pungente di essere presenti alle vicende storiche della loro patria; e poi quel sarcasmo amaro (che denuncia un autentico disagio fisico) contro il perbenismo, la boriosa atteggiata mezzasapienza. 

Anche alla luce di quanto appena detto, Luigi Tenco rimane ancora, con le sue contraddizioni e le sue utopie, un dramma irrisolto nel profondo delle nostre coscienze, una continua domanda a cui non è possibile (e neppure sarebbe onesto) opporre delle risposte prefabbricate. Una sola speranza: che sia il silenzio a cullarne la memoria, perché, come lui cantava, ” … nel mondo c’è già tanta gente / che parla, parla, parla sempre / che pretende di farsi sentire / e non ha niente da dire.” 

Gaetano Radice 

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 73-75.




Lovecraft 

 Le cronache di cent’anni fa non ci informano se, la notte del 20 agosto 1890, gli astronomi avessero notato qualche spaventoso fenomeno celeste. Comunque, le streghe superstiti dai roghi dei secoli precedenti dovevano essersi riunite in un frenetico sabba attorno alla casa n. 454 di Angel Street, a Providence, nello Stato di Rhode Island. Qui, infatti, stava per venire alla luce Howard Phillips Lovecraft, certamente il più grande evocatore di spettri e misteriose angosce. 

Una fotografia di un paio di anni dopo ce lo mostra nelle vesti, secondo le usanze del tempo, di una graziosa bambina. Nulla lascerebbe presagire che quel bimbo dai folti boccoli biondi1 sarebbe diventato un brutto adulto che, a causa della mascella fortemente prognata, sembrava la reincarnazione dei Borboni di Spagna così bene immortalati da Velazquez2, e il genitore incontrastato della moderna letteratura del terrore. 

Ma la sua vicenda umana e artistica merita certamente qualche cosa in più dei soliti brevi cenni che si riservano agli scrittori di “genere”. Lovecraft è altrimenti noto come “il solitario di Providence”; pure nella sua breve vita3 riuscì a produrre una sterminata corrispondenza. Con le sue centomila lettere. inviate un po’ in tutti gli Stati Uniti. lo si può considerare, fino a prova contraria. il più grande epistolografo di tutti i tempi: l’epistolario di Voltaire ammonta a soltanto ventimila lettere4. 

A proposito della sua autentica passione per i contatta epistolari, vale la pena di citare il commosso ricordo di un suo caro amico, Samuel Loveman: “Un semplice biglietto /… / poteva evocare / da parte di Lovecraftl risposte di quaranta o cinquantanta pagine fitte. Erano lettere davvero stupende: si facevano leggere di un fiato, rivelavano un’erudizione prodigiosa e una grande umanità”5. 

Proprio la sua grande erudizione e una totale incapacità di dedicarsi ad attività produttive hanno imposto l’immagine di un Lovecraft simile ai personaggi creati dalla sua fervida e stralunata fantasia6. Eppure egli sapeva anche godere delle piccole gioie che le sue misere finanze gli permettevano7. Se la golosità si può considerare una bizzarria, tra le tante di Lovecraft va annoverata anche la passione – che l’accomuna a Leopardi, un altro grande infelice della letteratura – per i gelati. Se la spietata e ciclica ristrutturazione urbanistica statunitense ha lasciato ancora in piedi la gelateria di Julia Maxwell, a Warren, su un muro della stessa gelateria ci deve essere ancora appeso l’attestato che afferma che Lovecraft aveva assaggiato in un tranquillo pomeriggio tutti i ventisei gusti disponibili8. 

Le concessioni politiche di Lovecraft erano per lo meno originali. Provava un’assoluta fedeltà per la vecchia Gran Bretagna, e biasimava con estrema energia la Rivoluzione Americana: “Quando James Ferdinand I Morton, nipote dell’autore di My Country ‘tis of Thee / ed io sostammo davanti alla tomba del soldato rivoluzionario che cadde per primo in quella memorabile e deplorevole circostanza / la battaglia di Lexington/, mi tolsi il cappello e chinai la testa. ‘Possano perire così tutti i nemici di Sua Maestà Re Giorgio Terzo’, gridai”9. 

A queste pulsioni nettamente reazionarie Lovecraft univa un non ben comprensibile interesse, del tutto accademico, per il New Deal. Per un periodo di sei o sette anni trattò questo argomento per lettera con Ernest A. Edkins, che così ci illumina: «Le congetture di Lovecraft prevedevano adeguati compensi per gentiluomini e studiosi indigenti, generose elargizioni alla classe contadina più povera, consistenti aiuti economici per coloro che desiderassero dedicarsi alle arti e alle scienze, un severo esame che verificasse chi potesse usufruire o meno del diritto di voto, e, infine, la graduale sostituzione dell’attuale “aristocrazia della ricchezza” con un'”aristocrazia dell’intelligenza”»10. 

È evidente che Lovecraft dava una grande importanza alla valorizzazione del ruolo degli intellettuali, e considerava positivamente un governo essenzialmente paternalistico, costituito da leader che appartenevano a un ceto destinato per nascita a comandare, da lui ritenuto “un’autentica dittatura dell’intelligenza anzicché del proletariato”11. 

Lovecraft, come chiaramente spiegano Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, “era un ‘materialista meccanicista’, refrattario ad ogni forma manifesta d’inclinazione verso la spiritualità, l’animismo, il sentimento religioso, e spiegava questo atteggiamento dicendo che, poiché il mondo è puro caos privo d’ordine, non è possibile postulare entità trascendenti ordinatrici dell’essere”12. 

Il Nostro – che aveva mille e una ragione per non amare il mondo in cui era costretto a vivere – sembra confermare un’affermazione di Mircea Eliade: «si indovina nella letteratura, ancor più che nelle altre arti, una rivolta contro il tempo storico, il desiderio di accedere ad altri ritmi temporali diversi da quello in cui si è costretti a vivere e lavorare»13. I mostri evocati da Lovecraft nelle sue opere sembrano quindi avere il compito di riordinare la realtà, o, meglio, di giustificare l’altrimenti inspiegabile disordine. Per de Turris e Fusco. “L’elemento costante della sua narrativa è la ricerca di punti fermi nell’instabilità del caos universale”14. 

Ha perciò ragione Giorgio Galli quando afferma che «Lovecraft ha capito che la storia della terra come frammento del cosmo è vecchia di decine di milioni di anni, che l’umanità è solo una delle forme di vita intellettiva che vi si sono sviluppate. Ma la sua percezione esistenziale di questo passato è pervasa di orrore»15. Ma non si può più seguire il brillante politologo milanese quando sentenzia: «La paura del diverso lo domina, così come lo domina la paura del diverso specifico che è la donna (il suo matrimonio fu ovviamente un fallimento: così egli stesso lo definisce)»16. Ma era essenzialmente la paura di se stesso che perseguitava il solitario di Providence. Lovecraft si percepiva infatti proprio come un diverso. Un’isola arcaica spuntata per caso nel gran mare della modernità, o, per rubare un’espressione a de Turris e Fusco, «un nucleo di materia ostinata che non si dissolve nell’acqua corrosiva del caos»17. 

Il fallimento del suo matrimonio fu dovuto soprattutto a insanabili problemi economici, come ci dice, con ‘fastidiosa’ abbondanza di particolari e ansia autogiustificativa, la sua stessa moglie18. Possiamo anzi pensare che la separazione non sia stata causata dal “terrore della donna relegata ad un ruolo subalterno e demoniaco”19, ma piuttosto dall’esatto contrario: Lovecraft non riusciva a concepire la mascolinizzazione della donna20. Non poteva farsi mantenere da sua moglie21. Aveva, insomma, una concessione del tutto romantica (piccolo borghese, se vogliamo) della femminilità e della famiglia. Chissà quali mostri avrebbe partorito la sua fantasia, se gli fosse stato concesso di vivere in questa nostra epoca post-femminista? 

Gaetano Radice 

1. Lovecraft «portò i capelli come una femminuccia fino a circa sei anni. Quando finalmente non volle più saperne e s’impuntò perché glieli tagliassero, sua madre lo portò da un barbiere, piangendo amaramente perché le forbici ‘crudeli’ l’avevano privata I sic I degli adorati boccoli». Sonia H. Davis, moglie divorziata di H.P.L., The Private Life of H.P. Lovecraft, manoscritto custodito alla John Hay Library della Bruwn University, Providence; ora, in traduzione italiana di Claudio De Nardi, in AA. VV., Vita Privata di H.P. LovecraJt, Trieste, Reverdito Ed.1987. 
2. «Howard attribuiva la sua attuale fisionomia I… I a due incidenti: il primo si riferiva ad una caduta con la bicicletta, allorché aveva quindici o sedici anni l . .. I, il secondo era dovuto al fatto che aveva trascorso moltissime notti a scrutare il cielo e le stelle con il suo telescopio». Ibid. 
3. Morì il 15 marzo 1937, a quarantasei anni, forse per un tumore intestinale. 
4. Fino a oggi l’Arkham House ha pubblicato cinque volumi di Selected Letters, e il professor S. T. Joshi ha curato un libretto di Uncollected Letters. 
5. Samuel Loveman, H.P. Lovecraft, ora in trad. it., op. cit. 
6. «Era / … / privo di ogni interesse nei confronti di cose come la solidità economica, il lavoro, la posizione sociale, quindi in netto contrasto con lo spirito puritano della Nuova Inghilterra». Gianfranco de Turria e Sebastiano Fusco, A posteriori, -Linus», luglio 1981. Cfr. anche di Fusco e de Turris il fondamentale Lovecraft, Firenze, la Nuova Italia, 1979. 
7. «Le sue entrate erano ridotte praticamente a zero ed era costretto a vivere con venti centesimi al giorno /si parla dei tardi anni venti/: anzicché impiegarli per mangiare, di solito li spendeva in francobolli». W. Paul Cook, H.P. Lovecraft: An Appreciation, trad. it. op. cit.; Cfr. anche la nota 20.
8. Donald Wandrei, Lovecraft in Providence, trad. it., op. cit. 
9. Samuel Loveman, op. cit. 
10. Ernest A. Edkins, Idiosyncrasies of H.P.L., Trad. it., op. cit. 
11. W. Paul Cook, op. cit. 
12. Gianfranco de Turris / Sebastiano Fusco, op. cit. 
13. Mircea Eliade, Mito e Realtà, Milano, Rusconi, 1978. 
14. Op. cit. 
15. Giorgio Galli, Le Coincidenze, Linus, aprile 1981. 
16. Ibid. 
17. Op. cit. 
18. Sonia H. Davis., op. cit. 
19. Giorgio Galli, op. cit. 
20. Circa i difficili rapporti di H.P.L. con la madre Susan, cfr. M. W. Vita Privata di H.P. Lovecraft, op. cit. passim; e G. de Turris c S. Fusco, Lovecraft. op. cit. 
21. «Non solo gli inviavo settimanalmente degli assegni, ma ogni volta che tornavo in città gli davo abbastanza denaro perché non dovesse rinunciare né ai pasti, né ad alcunché gli potesse servire» (Sonia H. Davis, op. cit.).

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 30-33




 L’uomo allo specchio

Marcello Veneziani, Processo all’Occidente, Sugarco Ed., Milano, 1990, pagg. 284 

Hegel scrisse, nella poco decifrabile Fenomenologia dello Spirito, che la Storia si era definitivamente arrestata nel 1806 a Jena. La vittoria delle armi napoleoniche sulle truppe prussiane, secondo il grande pensatore tedesco, aveva dato un irreversibile assetto al mondo. Pure nove anni dopo la battaglia di Waterloo rimetteva in movimento la Storia, smentendo l’affrettata profezia. 

Ora, quasi duecento anni dopo, un articolo pubblicato sul «National Interest» ha rimesso in auge l’idea che la Storia possa subire (anzi, che abbia già subito) un brusco, e questa volta definitivo, stop. Autore dell’articolo è Francis Fukuyama, già prestigioso ricercatore alla Rand Corporation, e adesso cervello pensante dell’amministrazione Bush. 

Naturalmente, il dottor Fukuyama non sostiene che tutti i conflitti sono scomparsi dalla faccia della terra: semplicemente osserva che con la caduta dei regimi dell’Est è sparita l’ultima antitesi ideologica «nell’ambito delle idee e delle coscienze» al liberalismo occidentale. 

A questa previsione si oppone il denso saggio di Marcello Veneziani che denuncia l’intima angoscia che gli suscita la prospettiva di assistere alla planetarizzazione dell’american way of life. E il verdetto a cui perviene il suo Processo all’Occidente è duro (e persino scontato): «…la società occidentale è caratterizzata da un gigantesco processo di alienazione. Alienazione come perdita della propria identità, alienazione come estraniazione dell’ambiente in cui vive e come degradazione dell!ecosistema in cui è inserito, alienazione come disintegrazione comunitaria e come spaesamento nel senso heideggeriano dell’espressione, alienazione come sfruttamento e dunque espropriazione del proprio lavoro, alienazione come mercificazione dell’uomo e in definitiva come riduzione dell’uomo da fine a mezzo». 

Per Veneziani «L’Occidente finisce di essere una terra, per divenire un tempo (la sottolineatura è dell’Autore, N.d.r.) senza confini spaziali, smisurato, consacrato solo al tempo e alle sue categorie: il processo, l’usura, l’obsolescenza, il potere temporale». Con Mircea Eliade, il giovane autore osserva che «l’uomo secolarizzato, si crede o si vuole ateo, areligioso, o almeno indifferente. Ma si sbaglia. Non è ancora riuscito ad abolire l’homo religiosus che è in lui: egli ha soppresso (se mai lo è stato) il christianus. / … / egli è rimasto ‘pagano’ senza saperlo». La perdita della comprensione dei valori religiosi «ha portato», come dice il compianto professor Del Noce nella prefazione, «alla conseguenza estrema il processo di alienazione. La scomparsa della religione con la reificazione dell’uomo. / … / l’eclissi della religione non ha prodotto la fine dell’alienazione, ma la sua estensione». La cacciata di Dio dal mondo ha dunque prodotto l’irruzione d’infiniti dèi gelosi. Secondo Veneziani: «Noi tributiamo sacrifici quotidiani di sangue ai nuovi dèi del Progresso, della Velocità, della Tecnica, del Godimento, della Vacanza, della Droga, degli Affari» (Le maiscuole sono dell’Autore, N.d.r.). Quindi, «l’Occidente», sostiene Veneziani, «vive nella dimensione ludica e angosciante di massa quel che Nietzsche visse nella dimensione tragica ed ebbra di una solitudine inelusa». 

La penna del giovane intellettuale pugliese non si limita a tratteggiare le cupe prospettive di un futuro/presente, ma delinea anche in un intenso capitolo lo strano fascino la sconfitta e i vinti esercitano, da Omero a Canetti, su alcuni tipi umani. L’ «insana» passione per la parte perdente non è solo l’inseguimento della «Giustizia, questa-, come scrisse Simone Weil, «eterna fuggitiva dal campo dei vincitori». È anche un modo per imprimere un moto ascendente alla realtà: «si fa la storia contraddicendola (la sottolineatura è ancora dell’Autore, N.d.r.) rimettendo in gioco ciò che pare acquisito, restituendo relatività e provvisorietà a ciò che pare definitivamente raggiunto e stabilito». 

Proprio in questo importante e intenso capitolo si contano alcune banali sviste: come attribuire a Epaminonda il sacrificio e la gloria delle Termopili, o armare il mitico Longino di una spada anziché di una lancia. Già che siamo in tema di errori: non si comprende perché Juan Donoso Cortés venga privato del legittimo accento acuto. L’errore risulta ancor più assurdo perché quando si tratta di Hernàn Cortés – il conquistatore dell’impero azteco, per intenderci – si ristabilisce l’esatta grafia. 

Ma, refusi a parte, quello che risulta meno convincente di tutto il documentato volume si palesa proprio quando Veneziani si decide a offrire delle alternative all’americanizzazione forzata. Le soluzioni (socialismo tri o multicolore, movimenti ambientalisti, reviviscenza dei localismi, ecc.) paiono proposte più per non sbarrare la porta alla speranza che per un’autentica convinzione. E, a confermarci che lo stesso Veneziani è ben consapevole di questo, possono bastarci alcune sue parole: «il risveglio delle etnie e delle appartenenze culturali-religiose non avviene con uno spontaneo rifiorire di sentimenti, pulsioni e valori originari, ma si presenta mediato culturalmente e in molti casi anche ideologicamente: così come, del resto, l’ecologismo non è tanto un’esplosione genuina, elementare, del bisogno di vivere secondo natura, ma esso stesso è il frutto di mediazioni e di sollecitazioni per analogia e per reazione, di tipo culturale, intellettuale e ideologico che nascono in seno della modernità». 

Concordiamo pienamente con Venezioni nel ritenere il «socialismo individualistico / .. ./ una contraddizione di termini», ma l’idea di «un socialismo spiritualistico e religioso» ci fa tornare alla mente le manie, non del tutto innocenti, dei sansimoniani Enfantin e Bazard. 

La parte che ci pare più coerente e costruttiva è quindi l’ultimo capitolo, interamente dedicato all’analisi dell’indubbio risveglio religioso degli ultimi anni. Veneziani pensa, anzi, che «ci sono fenomeni di persistenza (la sottolineatura è dell’Autore, N.d.r.) religiosa che non sono definibili sotto l’etichetta del risveglio perché in realtà non si sono mai assopiti». Si può quindi sperare di tornare da «una civiltà [che] si misura dalla capacità di attuare il dolore, agevolare il tempo, consentire l’autosufficiente solitudine e ritardare la morte [a] una civiltà alla luce del sacro [che] si misura dalla capacità di addomesticare la morte, il tempo, la solitudine e il dolore». 

Gaetano Radice

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 49-51.




 Il contro-dramma di Etty Hillesum 

Etty Hillesum, LETTERE 1942 – 1943 (trad. di C. Passanti), Milano, Adelphi, 1990. 

“Erano gli anni in cui in tutta l’Europa si rappresentava il dramma dello sterminio. Etty Hillesum era ebrea, e scrisse un contro-dramma.” Così scriveva felicemente nell’introduzione al Diario 1941 – 1943 di Etty Hillesum il professor Gaarlandt. E, adesso, con le Lettere 1942- 1943, un fondamentale nuovo atto è venuto ad aggiungersi al “contro-dramma”. 

Esther (Etty) Hillesum, nata a Middelburg il 15 gennaio del 1914, respirò fin dall’infanzia aria di alta cultura: suo padre era preside del Ginnasio Municipale di Deventer – ridente cittadina dell’Olanda orientale – e studioso di grande merito di lingue classiche. Il fratello maggiore di Etty, Mischa – bambino prodigio, che a sei anni suonava Beethoven in pubblico -, venne presto considerato come uno dei più promettenti pianisti d’Europa. Il più giovane dei fratelli Hillesum, Jaap, a diciasette anni aveva scoperto un nuovo tipo di vitamina, fatto questo che gli aprì l’accesso a tutti i laboratori di ricerca. 

Di tutta la famiglia, Etty appare la più eclettica, con interessi vari e addirittura tra loro discordanti. Brillante studentessa al liceo, con una forte propensione per gli studi letterari e filosofici, consegue regolarmente un’inutile laurea in giurisprudenza. Quando le truppe germaniche invadono l’Olanda, è alle prese con una seconda laurea in letterature e lingue slave. Ma non ha tralasciato, per questo, personali studi di psicologia, stimolata anche dalla relazione con lo “psicochirologo” Julius Spier1, e neppure nasconde l’aspirazione di potersi affermare come scrittrice. 

Davanti alle persecuzioni naziste che di giorno in giorno si fanno più feroci, per Etty si prospettano due alternative: o emigrare o nascondersi. Ambedue le soluzioni le sarebbero state possibili grazie ad amici influenti e fedeli. Ma lei sceglie ben altrimenti: come un Christus patiens, si consegna ai persecutori: e, allo scopo di essere d’aiuto ai suoi confratelli, si fa assegnare al campo di raccolta diWesterbork. 

E da questo campo, dove genti delle più varie estradizioni attendono il convoglio che le condurrà al loro tragico destino, escono le lettere che possiamo oggi leggere nella precisa traduzione di Chiara Passanti. 

Ed è proprio dalle parole scribacchiate in fretta nei luoghi e nei momenti più impensati e scomodi che emerge una figura di acuta pensatrice, con una forte e irrisolta propensione religiosa. Etty accetta di contemplare niccianamente l’abisso ma non di farsene inghiottire. O meglio, dal profondo dell’abisso in cui si è sprofondata riesce a contemplare vette immacolate di virtù ascetica. Riesce ancora a vedere “il sole brillare nelle pozzanghere melmose”: e arrecare sollievo agli altri con fantasiose storie attestanti una prossima liberazione. Rimane sino alla fine un “roseau pensant” capace di trovare nell’angoscia della partenza senza ritorno parole di conforto per i rimasti. Frasi piene di forza e addirittura banali, urbani ringraziamenti sono contenuti nel suo ultimo biglietto, gettato giù dal convoglio in partenza e fortunosamente pervenuto ai destinatari: “. . . apro la Bibbia e trovo questo: “Il Signore è il mio alto ricetto” /…/ Abbiamo lasciato il campo cantando /…/ Grazie per tutte le vostre buone cure”2. 

Eppure Etty non è stata esente dalla disperazione: “Ogni tanto mi viene voglia di preparare il mio zaino e di salire su uno di quei treni di deportati che vanno all’Est, ma una persona non deve cercare di rendersi la vita troppo facile”. E, tra l’altro, questa frase conferma la consapevolezza che Etty aveva del suo destino3. Ma da questa tentazione sapeva riemergere come “un ragno / che / lancia davanti a sé i fili principali”: Etty sapeva che “la strada principale della / sua / vita / era / tracciata per un lungo tratto davanti a / lei / e arriva / va / già in un altro mondo”. 

La riflessione (nota e banale, ma anche sostanzialmente vera) sulla considerazione che “la massa è un orribile mostro, i singoli fanno compassione” ci pare esemplificare la definitiva scelta di Etty. Infatti, costata in se stessa “che non esiste alcun nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro4. Questo amore del prossimo è come un ardore elementare che alimenta la vita5. Il prossimo in sé ha ben poco a che farci”. E nella stessa ottica va considerata un’altra sua espressione che sembra ricalcare certe dure formule evangeliche: “Sono sempre più convinta che l’amore per il prossimo, per qualsiasi creatura a somiglianza di Dio. debba stare più in alto dell’amore per i parenti”6. 

Ma questa intensa ricerca spirituale. e il desiderio di non sconvolgere i destinatari dei suoi scritti non attenuano le capacità di autentica scrittrice realista che sorregono la prosa della Hillesum. Certi stralci ci paiono degni persino del suo amato e studiato Dostoevskij. Come la vicenda di “quel ragazzo impaurito /che/ improvvisamente gli era toccato partire, aveva perso la testa ed era scappato. I suoi fratelli di razza erano stati costretti, a dargli la caccia”. O la descrizione indimenticabile di quella madre che, avendo perduto il figlioletto neonato. si offre come nutrice per il convoglio in partenza. 

E a Etty non sfuggono neppure le assurdità di quella condizione: come gli artisti di fama che ritardano la loro partenza con frenetici spettacoli davanti alle autorità del campo. Una frase captata per caso le basta per illuminare una situazione o un tipo psicologico: “Una voce dietro di me: ‘una volta avevamo un comandante che ci spediva a calci in Polonia, questo lo fa a sorrisi”. E non ci nasconde neppure le angosciose crudeltà che puòperpretare una vaga speranza di salvezza: “Come è possibile che l’ospedale lasci partire delle persone quasi morte?” – aveva chiesto il padre di Etty a un infermiere, e la risposta di quest’ultimo è raggelante e, nel contempo, logica e giustificabile: “L’ospedale consegna un cadavere per trattenere un vivo”. 

Dalla lettura di questo scarno libro non emerge, come nel caso di altri volumi epistolari, la sensazione di avere violato la privacy dell’autore; si ha piuttosto la netta impressione che una voce persa nel tempo, ma ancora vitale e valida, sia venuta a informarci, a incitarci, da tanto e tale dolore, addirittura a confortarci. 

E per questo dobbiamo ancora dare a Etty e a tanti come lei una risposta. Certamente non abbiamo compiuto questo suo proposito: “se non sapremo offrire al mondo impoverito / … / nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non basterà / .. ./ nuove conoscenze dovranno portare chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena / … / e forse / … / la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti”. 

Gaetano Radice

l. Per “psicochirologia” si intcnde lo studio e la classificazione delle linee della mano. È lecito pensare che le uniche notizie su Spier reperibili in italiano siano quelle contenute nell’introduzione al Diario 1941 – 1943 di Etty Hillesum. Milano, Adelphi. 1985. Alla stessa opera si rimanda chi volesse ulteriori ragguagli su Etty e la sua famiglia.
2. Etty Hillesum morirà a Auschwitz il 30 novembre 1943. Anche i suoi genitori, e Mischa, periranno nello stesso campo. Jaap morirà durante il ritorno in Olanda. 
3. Consapevolezza che mancava ad altri deportati; per esempio, a Primo Levi. Cfr. Se questo è un uomo. Torino, Einaudi. 
4. “Superare Simone Weil” è un appunto trovato fra le carte di Ignazio Silone (Cfr. Darina Silone, Storia di un manoscritto, in Ignazio Silone, Severina, Milano, Mondadori). Un paragone tra le due pcnsatrici è certamente azzardato. Ma se lo scopo della vita è di non “mancare / la propria / morte” (Simone Weil, Ecrits de Londres et demières lettres, Gallimard. Collection Espoir, Paris, 1957), allora la sua vita l’ha certamente realizzata di più Etty Hillesum.E quale 
fonte d’ispirazione avrebbe costituito per lo scrittore abruzzese la vicenda spirituale c umana di Etty? 
5. “Nonostante la mia età, a dispetto dei miei mali, sento fortissimo il bisogno d’amare e di essere amato”, aveva scritto Giovanni Papini – evidente l’affinità di pensiero eon Etty Hillesum – negli infelicissimi suoi ultimi anni. 
6. “Perché sono venuto a separare l’uomo dal padre, la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera; e l’uomo avrà per nemici proprio quelli di casa sua” Mt, X, 35-36.

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 52-55




F. A. Giunta, Il posto delle pietre, Pescara, 1996.

Francesco Alberto Giunta ci avvince con un recentissimo romanzo, Il posto delle pietre, edizioni Tracce. Pescara, agosto 1996. Emblematica nella sua corposa nudità la copertina. olio su tela di umberto Verdirosi: nudità della pietra e dell’uomo sullo sfondo di un universo infinito. 

Già conoscevamo Giunta per i suoi precedenti romanzi: Viaggiando sulla strada (1985); Notizie da via Daniele (1988); A Lipari un giorno. Avvenne (1994) e per il volume di racconti Il respiro dell’uomo (1992). Colti e raffinati i suoi versi raccolti in Le parole sono cose (1984); Verso i Tatra (1985); Ballate e canzoni no (1988). 

-Se vuoi. lettore. leggere cose coerenti. .. connesse logicamente, che abbiano un principio, un mezzo, una fine … cercale dove vuoi, ma non qui, ammonisce l’Autore con le parole di Miguel Unamuno. 

E chi si accinge alla lettura de Il posto delle pietre deve accogliere in sé lo spirito del mistero, dell’avventura, la disponibilità dell’uomo al fremito degli eventi. l’accettazione della vita col suo volto mutevole fatto di luci e di ombre, di multiformi implicazioni psicologiche in una ricerca senza fine. Perché le strade del mondo sono infinite, e noi qui assistiamo a un intrigo multietnico. corale, costituito da un grumo di lingue, tradizioni, culture e soprattutto sentimenti feriti. 

Un soffuso dolore sembra essere il comune denominatore di creature destinate a vivere e a lottare per vivere; dolore ora esplicitamente confessato, a volte adombrato, persino taciuto. Un dolore che solo l’amore. o meglio la ricerca più o meno illusoria dell’amore può mitigare, rendere accettabile a livello della stirpe dell’uomo. 

Casimiro, Ornar. Hans-Felipe, Evaristo, Karin, sono sfaccettature di una umanità tormentata, nel cui baricentro palpita Chiara, la moglie, con la sua ansiosa attesa, i suoi dubbi, cedimenti e remore borghesi. 

Un filo invisibile lega l’onnipresente Chiara allo spettro di Karin, che alla fine prenderà voce nel romanzo solo per dire: io sono Karin, e attestante in tal modo la sua reale presenza. 

Il sottile giuoco dei sensi rende complici i quattro uomini tanto diversi fra loro, eppure tutti impegnati nel giuoco più alto della vita. E se HansFelipe infine scomparirà, determinando forse con la sua scomparsa la rottura dell’equilibrio fra Karin e Casimiro, non per questo resterà vivo nella mente proprio per quel suo incessante e doloroso pellegrinaggio alla ricerca della moglie perduta, viaggio parallelo a quello della dolce Chiara. 

Non s’intende svelare maggiormente la trama che si srotola fra colpi di scena e che deve essere colta con sospesa pazienza fra le pagine e i risvolti di un libro, che del mistero fa il suo punto di forza. Mistero che da una semplice avventura di viaggio si amplia al mistero della coppia, ai suggestivi richiami di un sesso per l’altro sesso, orfismo della passione amorosa, ai sotterranei segreti di popoli e civiltà, di religioni e folklore. 

E i paesaggi si diversificano come gli uomini, la vegetazioni, i suoni. Alla grigia atmosfera della città di Milano segue il paesaggio desertico e sconfinato dell’Africa, un’Africa così diversa da chi l’ha conosciuta anche per breve tempo: un nugolo di stelle nella voragine del cielo notturno. Ma certo l’Africa narrata ne Il posto delle pietre è più rispondente alla psicologia di Chiara, d’improvviso sradicata dalla famiglia, dalla coppia, dal proprio habitat, da ogni ancoraggio. 

Indubbiamente il paesaggio che con maggior vigore ti conquista per il fascino dell’antico che si rinnova è lo scenario di Taormina con l’ampio respiro su un mare fra i più splendidi per colore, brezza di vento, profumo, in cui il salmastro si annulla nei profondi anfratti della terra e nell’orgia floreale. A confronto di questo paesaggio che ha del miracoloso persino l’esotico lontano Giappone sembra attenuare il suo fascino di indubbia bellezza. 

È la linfa mediterranea che, come nei precedenti romanzi (in particolare in A Lipari un giorno avvenne), torna a scorrere limpida, con amore immutato, perché si può guardare con trasporto e sete di conoscenza ai paesi del mondo, ma il cuore e il corpo restano legati alla propria terra, alle radici più profonde che sono essenza di ragione e sentimento. 

E Giunta, pur nella sua totale apertura verso l’Europa e il mondo, è l’Ulisse delle Colonne d’Ercole, il figlio di un’isola che non si chiama Itaca ma Sicilia. 

Maria Racioppi

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg.41-42.




 LA POESIA 

Una poesia come un sorso d’acqua 
al buio, 
come una cagnolina che si accuccia 
con un guaìto, 
una moneta spicciola d’argento 
smarrita nella notte in una immensa 
foresta, 
è un poema senza altro tormento 
che la sua misteriosa condizione 
di poesia: 
unico, triste, 
solitario, ferito da mortale 
bellezza. 

Mario Quintana 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 51.




Per dare colore al tempo 

 Ho conosciuto stasera il vuoto che invade le cose, il gesto che fruga i profili dell’ombra, ed insegue un nome smarrito nella memoria. 

Per questi versi ho conosciuto gli arpeggi delle dita che salgono lungo il fumo della nebbia e lo modellano in fianchi e volti, subito prossimi a disfarsi sotto la pur lieve carezza. 

Per questi versi mi sono fermato inquieto sul punto dove il tempo si rovescia e si insegue, sulla soglia esangue che divide il giorno dal giorno e lo ripete, nell’ora ferma in cui 


pendolo triste 
ancora si muove 
il vuoto trapezio. 


E il suo andare, ondeggiando per sempre, scolorisce ogni volta una speranza. 
Ho cercato – lo dico – nella trama dei versi il suono che vibra forte e canta a note piene i sensi e l’amore e richiede l’applauso. 
Ho trovato l’accordo sommesso che parla da amico, 


Parole povere 
sparse da mano distratta 
che dopo il largo gesto 
cade inerte sul fianco. 


E a poco a poco ho sentito il ritrarsi dentro l’anima, il deserto dei colloqui smorzati. Ho ritrovato le attese interrotte, gli slanci fermati dall’indifferenza, gli abbracci senza risposta. 


Dalla finestra che si apre 
tendo le mani…  

Ma la folla ignara occupa le strade e le ingolfa, s’interseca ad ogni incrocio, riprende ottusa la sua corsa. 
Qui non c’è chi racconti le sillabe che insinuano nella mente un trepido invito all’amore, non c’è chi ascolti la voce che misura la solitudine, povera eredità dell’uomo: 


niente 
è rimasto tra le mie braccia. 


E sull’anima la vita è passata senza un segno, come l’onda 


che non serba ricordi 
che scivola sul viscido scoglio. 


Questo canto ha saggiato le parole che legano gli uomini e le ha trovate senza suono. In esse ha scoperto l’arida struttura che si interpone tra il cuore e la voce e crea la regola che dà precaria consistenza ai rapporti tra gli uomini, li spartisce nei ruoli, li consuma nei riti: ma questi si sciolgono al tramonto, per lasciare ciascuno provvisorio com’era, con il peso del vuoto sopra il petto.  

E’ così: nessun altro gesto che è iscritto nel giorno dura quanto il tocco leggero che sfiora la fronte segnandola con il suo calore, né si prolunga, se non si strugge nelle 


notti accarezzate dagli accordi di chitarra, dai 
canti lenti degli uomini che nell’abbraccio del 
buio perdevano la potenza, preda dei soli 
sentimenti, e divenivano fantasmi buoni a 
rincorrere sogni. 

Questo canto ha la musica scabra del lamento sull’uomo dilapidato, seme gettato a mani prodighe in cento solchi e senza frutti, sull’uomo stordito ai crocicchi, dove la luce opulenta cancella le memorie. 
Erano giorni veri, cresciuti dove gli alberi mantengono le foglie anche d’inverno, quelli che insegnarono 


a respirare la vita goccia a goccia 
l’amore a spartire con l’odio 
che è amore di sensi oppressi. 


Qui torna la mente, appena la sera si disfa. È vero 

I ricordi 
come uccelli migratori 
tornano sempre all’origine. 


Anch’io ho smarrito oltre il mare la strada che porta alla patria, dove l’inverno ha la forza del vento di bora che fa lucide le file di scogli che ritagliano l’orizzonte. È anch’essa 


isola 
circondata d’ignoto. 

 

Assediata dal tempo mostra di lontano solo la punta bianca del campanile 
Questa musica ha il suono lento di un canto di luoghi lontani, che si inerpica per l’anima e la scuote senza occasione. 
Dice le sere sulla panca a fianco il focolare e i vecchi che sapevano i proverbi, 
e il vino caldo, dolce come i pomi vizzi, ancora rossi presso il balcone. 
Dice il caldo grande della valle 

dove d’estate, nelle campagne riarse, il riverbero 
delle stoppie brucia gli occhi e dove, sui campi 
scoscesi, si ergono ancora le bianche pietraie, 
i calcificati sacrari della fatica umana, nella 
dura scoperta di una terra avara. 

E ancora, se ti fermi un istante, lì, presso il muro a secco, dove ora si ammucchia la rovina, sorridendo – non a te, non a me – ad altro sguardo, muove il capo la fanciulla e sulle spalle le scendono i capelli. 

Ho approdato anch’io alla tua isola, Romano. Ho sentito anch’io la tristezza dolce dei 

suoni che sono lamenti 
lamenti che sono canti 


che accompagnano i carri che vanno in fila argentata per la strada 


fiancheggiata dai pioppi 
– dita 
che contano ottuse 
i giorni – 
e si perdono, svanendo, 
lungo il pendio del monte 
entro le case antiche. 

In questa isola qualcuno ha già tolto la chitarra appesa al chiodo e le strappa empirie di suoni. A lui la vita non ha bruciato il coraggio di sperare, egli ha ancora il domani nel cuore perché sa dare una carezza per solo amore. 

Sono i ragazzi che fanno vive le scuole dei paesi, e intrecciano voli nelle piazze con i motorini e le borse dipinte, sulla schiena. 
Ora anch’essi 

percorrono sentieri imprevedibili, che sono quelli 
del gelsomino, deifichi d’india e dei fiori lilla dei 
capperi, che tutti portano alle case antiche, 
lungo i -pendii dei monti. 

Flavio Quarantotto

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 53-57