PARTITURE 

Suoni -esplosioni 
lacerano la terra con stridore 
straziano corpi, 
musica che frantuma sentimenti 
assenti alla barbarie. 
L’acqua, il fuoco, la terra 
e l’aria, le montagne ed i deserti 
sfuggono al controllo degli dèi . 
Un maestro orgoglioso dal suo podio 
segna con la bacchetta partiture 
macabre. Eppure un coro 
d’angeli intona canti di speranza 
ed acque di cristallo 
rispecchiano nei cuori un divenire 
certo. 
Turiboli a incensare 
desideri d’avvento della luce. 
Rintocchi di campane a coronare 
silenzi. 
Fremiti di colombe a sorvolare 
cattedrali dell’ anima. 
(Un dio perplesso 
anch’esso ora è in attesa.) 

Yeda Prates Bemis

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 44.




Il rame e la vita

Le scelte materiche di un artista possono obbedire talvolta a ragioni che sono ben al di là e ben più in alto delle ragioni della tecnica creativa. Le scelte materiche possono anche attingere dimensioni di profondità concettuale, tale da trovare la radice dei propri processi di determinazione, in termini di logiche espressive, produttive, generative, sul piano delle stesse scelte motivazionali, esistenziali dell’individuo artista che, attraverso quelle scelte, estrinseca oggettivandoli i propri parametri interiori di attività e di giudizio. Le scelte materiche di un artista, in buona sostanza, sono riconducibili ad un rapporto tra la dimensione esistenziale dell’essere e la realtà talvolta dolente del divenire che quell’essere attraversa, risultandone condizionato e nello stesso tempo determinandolo e improntandolo. 

Non coglierebbe certamente il senso, lo spessore, la densità emotiva di questo rapporto chi immaginasse che l’orientamento materico di un artista, nel momento che precede la fase creativa, ma che talvolta con essa si identifica, sovrapponendosi, se non in termini temporali, almeno in termini di coincidenza emozionale, si sviluppasse attraverso un accostamento alla materia valutata e accettata in funzione della sua disponibilità estrinseca all’intervento creatore. L’itinerario di questa scelta-rapporto è ben diversamente ricostruibile, sempre che si voglia ricostruirlo in termini di penetrazione della diacronia storica dell’opera d’arte. 

Il cammino che porta l’artista all’approccio creativo con una determinata materia trascende la dimensione intrinseca della materia stessa, che non è più vista come supporto naturale, come elemento di estraneità, di alterità, rispetto allo slancio creatore che nell’artista palpita di una propria vitalità autonoma, che autonomamente va accolta, registrata, promossa, sviluppata, fino all’oggettivazione nel manufatto artistico. 

Di qui discende lo statuirsi di un processo biunivoco, per il quale la materia si offre all’artista e l’artista alla materia, nella prospettiva di un reciproco arricchimento/impoverimento, quasi spasmodico dono di se stessi all’altro, ad un altro che è l’individuo creatore ed è anche la “cosa” creata, per cui due avidità sembrano accoppiarsi con una fame dell’altro che può anche essere sentita nella prospettiva di una sessualità intellettuale, alla quale non è estranea né l’angoscia del desiderio, né l’appagamento del piacere raggiunto, goduto, sofferto. 

A questo punto si potrà anche immaginare e dire che ci sono materie che si offrono con maggiore sensualità all’artista rispetto ad altre che sembrano racchiudersi in una loro gelida frigidità, che l’artista riesce magari a violentare, plasmandole alla propria volontà, senza però che esse conoscano l’ansimare partecipato e partecipante del godimento comune. E questo ovviamente non soltanto in funzione della materia in sé, ma anche in relazione alla fame esistenziale dell’artista. 

La tela col suo distendersi aperta nel candore che sa di verginità preziosa e inutile nello stesso tempo, reagisce poco e male alla carezza/oltraggio del pennello o della spatola, per cui il dono del colore che è dono di sangue e di intelletto sembra ricevuto senza gratitudine, nella prospettiva di un omaggio dovuto, di un ossequio istintivo, quasi compenso/risarcimento per la perduta (ma non donata) verginità. 

Il marmo col suo incombere massiccio e greve, finché ovviamente levità non gli venga dallo scalpello che fruga, penetra e crea, sembra postulare un distacco, rispetto all’artista, sembra statuire una sorta di distanza di rispetto, che l’intervento creatore riesce a superare soltanto se ed in quanto la forza sua intrinseca sappia e possa domare, per così dire, il blocco, il masso, il nemico/estraneo di marmo. E le stesse reazioni del marmo all’intervento passionalmente violento della mano scalpellante dell’artista, restano in termini di rigidità, di freddezza, di estraneità, poiché si concretizzano in schegge dolenti e scabre, in blocchi che si staccano, in elementi di superfluità che vengono eliminati e che comunque conoscono una sorta di processo di rifiuto, di rigetto, di distruzione. 

Il bronzo nasce alla vita dell’arte passando attraverso un diaframma che si pone con secchezza ardente tra l’artista e il risultato della sua emozione creativa: penso al diaframma del fuoco della fusione, il cui peso nel processo creatore non saprei quantificare senza chiedermi dove finisca l’impegno dell’artista e dove cominci la forza di natura, che l’artista deve assoggettare alla sua volontà ma che attraverso i vincoli e i legami della tecnica, attraverso i limiti rappresentati dalla forza limpidamente eppur ottusamente costruttiva delle leggi della fisica, può anche rifiutarsi all’imperio emozionale del creatore. La lunga notte/lotta del Cellini, l’angoscia che avvelenava il suo gioioso anelito creativo, in attesa della riuscita della fusione, se da una parte segnano una delle pagine più brillanti della sua prosa autobiografica, dall’altra traducono in termini letterari un dramma artistico che trova la sua matrice proprio in quel fuoco/diaframma che separa l’artista dalla materia bronzo. 

Non diversa appare la situazione relazionale per quanto concerne la creta, che nella morbidezza della sua umida modellabilità contiene un germe di fragilità, che soltanto attraverso il passaggio del fuoco attinge una solidità che non è però resistenza né durata nell’assoluto del tempo e dello spazio. 

Resta il rame, che mi pare fra i materiali che si offrono alla scelta dell’artista quello che maggiormente coniuga la disponibilità con la “durata”, intesa non come durata intrinseca, come durata materica, bensì come durata della creazione, come durata delle forme che lo slancio emozionale dell’artista ha assunto per se stesso e per il mondo al quale egli parla. Sul rame la mano dell’artista interviene con la morbidezza della carezza appassionata, carezza non priva, quando la sensualità della creazione lo esiga, del necessario peso, della necessaria insistenza ai limiti della violenza dolce/forte, che la materia sembra non sgradire, talché la sua resistenza è fatta di cedevolezza, quella cedevolezza che genera il rilievo, il segno, la rotondità, l’espressività. 

Nel rame palpita la vita, splende la luce, vibra il calore, si dispiega il colore, attraverso il variegarsi della superficie che acquista toni caldi e pastosi, nelle zone in cui si distende maggiormente per creare il rilievo, accanto a toni volutamente più freddi negli angoli nei quali la bruschezza dei dislivelli genera zone d’ombra, oscurità di sentimento e senso. 

In questa prospettiva spirituale le scelte materiche di Romano Cammarata, che ha, a lungo, privilegiato il rame sfogando su di esso una sua rabbiosa fame di vita, di certezze, di bisogni indistinti eppur sofferti, assumono il senso di una affermazione esistenziale, tesa a dire, attraverso le mani e il martello sul quale quelle mani cercavano e trovavano ritmi di vitalità anelante, quello che la parola si rifiutava di esprimere. 

La biografia interiore di un artista non può ignorare certi dati della vicenda umana, che se non condizionano l’evoluzione spirituale dell’uomo rappresentano comunque un elemento che interviene nella storia intima dell’essere. Taluni momenti di dolente realtà hanno segnato l’interiorità di Cammarata, che ne è uscito proiettato verso il mondo esterno, in un rapporto che è di continua presenza/testimonianza: una presenza che è fatta di multiformità di impegni, di varietà di interessi, di pluralità di moduli espressivi; una testimonianza che è fatta di unità e di costanza nel rapporto col mondo esterno/interno dei singoli e del tutto col quale Cammarata si rapporta. 

Ed ancora una volta il rame, come scelta materica nella prospettiva creativa, dice qualcosa di particolare, fornisce qualche ulteriore elemento di chiarificazione per una decodifica sincera e sicura dei messaggi che l’attività/produttività di Cammarata manda a chi voglia accoglierli con altrettanta disponibilità di testimonianza. Il rame dice il bisogno dell’artista che, uscendo da un mondo personale e oggettivo di dubbi, di incertezze, di terrori che sono fisici e poi morali proprio perché fisici, aveva bisogno di poggiare le sue mani su una materia che fosse insieme rigida e morbida, amica e nemica, amica da amare e nemica da domare. Il rame dice l’ansia di afferrare la vita, di possederla, di plasmarla, con un contatto diretto, non mediato, non strumentalizzato da diaframmi, non allontanato da passaggi intermedi. Il rame dice ancora la soddisfazione del risultato creativo che nasce e cresce nella immediatezza di un rapporto tra gli occhi e le mani dell’artista, in una tridimensionalità che non ha spigoli, non ha sbalzi, non ha contrappunti, non ha bianchi/neri, ha soltanto morbidezze, rotondità, levità. 

La prospettiva assai specifica ed individualizzata di questo rapporto tra materia e intervento creatore che Cammarata ha determinato con la scelta del rame si traduce in talune linee che costantemente caratterizzano la sua produzione. Si spiegano in questa ottica alcuni momenti/elementi della sua galleria ideale. Penso alla pienezza di talune figure femminili, alle cosce robuste ed esibite di taluni nudi che si materializzano in offerta impudente ma non impudica, al sesso che talvolta sembra isolarsi in certe prospettive di moraviana centralità. In queste linee calde e sensuali vibra una fame di vita che può e sa essere indifferentemente fame di terra e di cielo, fame di prosa e di poesia, fame di amore e di sesso, purché terra, cielo, prosa, poesia, sesso, amore nascano dalla vita e vita offrano a chi li accoglie con la serenità/duttilità che è indispensabile per l’uomo nel mondo: per intenderci, la serenità/duttilità del rame. 

Antonio Portolano

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 49-52.




 Filosofia e pace:  un rapporto possibile? 

1. La storia della riflessione filosofica sul tema della pace, iscritta nel più vasto ambito della filosofia morale e politica, riprodurrebbe in sintesi la storia stessa della filosofia. Dai sofisti a Platone. da Sant’Agostino a San Tommaso, da Hobbes a Kant, non è mai mancato l’assillo di fornire una risposta definitoria e definitiva alla questione della pace tra gli uomini e tra i popoli. Nella tradizione filosofica l’interrogativo si è risolto in teorie, sistemi compiuti, visioni del mondo, ed è sembrato volta a volta destinato a soluzione durevole. In Kant ritroviamo forse il momento più alto di tale pretesa di normatività, nella quale il rigore logico dell’enunciazione aggredisce la complessità storico-politica del problema. 

Ma la filosofia moderna. che trova in Kant la sua più conseguente sintesi, è stata già da lungo tempo corrosa dallo spirito della «critica» (essa stessa sorta con Kant); diviene sempre più ricorrente la figura del «declino» della filosofia, correlata alla epocalità della crisi della civiltà occidentale. Anche chi non ha fatto proprie le metafore del «pensiero debole» e non ha accettato l’idea di una dissoluzione della filosofia nella letterarietà ornamentale riconosce la difficoltà di un filosofare ancorato ad assunti normativi, dovuta soprattutto a una crisi della cultura che ha reso tangibili secolarizzazione e disincanto1. Quando la filosofia non si fa scienza, e non fornisce una risposta «produttiva» alla crisi, deve giocoforza dedicarsi a svelare una realtà frantumata. facendosi così luce critica. ma – nello stesso tempo rispecchiandosi come linguaggio retorico, discorso mitico che ancora una volta trasforma e cela il reale. 

Se la filosofia affronta quindi oggi il tema della pace lo fa soltanto a partire dalla crisi della propria stessa collocazione in quanto filosofia. In altri termini, i «filosofi» si trovano da un lato nell’impossibilità di assegnare alla realtà odierna un «destino», o anche soltanto un ordine ultimo e un senso teoretico, dall’altro nella necessità di assolvere al compito che viene loro affidato (anche contro la loro volontà), articolando nuove modalità di pensare il reale. Da un lato il disincanto dinanzi alla diffusione incrementale della guerra, in forme e strategie non ancora pienamente «comprese», disincanto che può risolversi in una critica nichilistica dell’effettuale: dall’altro il rinnovarsi di un discorso che oltrepassi il disincanto e la stessa epocalità della crisi per farsi speranza concreta, nella forma sempre uguale dell’intreccio tra logos e mythos. Per quanto consapevoli della profondità della frattura che – nella società contemporanea – si è prodotta rispetto a una tradizione millenaria, i «filosofi» muovono ancora sempre dal luogo del discorso, dal carattere ultimativo del discorso filosofico. Oggi come non mai la crisi della filosofia si muta nel variegato panorama di una «filosofia della crisi». Al suo interno trova senso una riapertura del dibattito filosofico sulla pace. 

2. A parziale motivazione di quanto sopra scritto sul carattere irreversibile del passaggio dalla tradizione critico-sistematica della filosofia moderna alla costellazione frantumata della filosofia della crisi mi sia permesso soffermarmi brevemente su qualche aspetto di quest’ultima, anche in relazione al mutare del referente morale e politico del quale qui si tratta, ovvero del tema della pace. 

La riflessione su tale passaggio non è del tutto compiuta, se è vero che le «cronache» filosofiche si sono tanto fermate sul rapporto tra teoresi e tacita o esplicita adesione al nazismo in Heidegger2. Senza voler entrare in alcun modo nei particolari, va ricordato che è in questione proprio l’autolegittimazione della filosofia come luogo centrale e assoluto della cultura di un’epoca e come commento fondante della stessa prassi politica. Nella filosofia della crisi si concorda sull’abbandono di questo ruolo universalistico, ma si riconosce anche che la rinuncia alla centralità della filosofia non deve comportare la riproduzione di una fondazione «forte» – se pure negativa – della filosofia stessa. Non basta tuttavia che i «filosofi» non si ritengano più depositari di un sapere universale e politicamente efficace, poiché, in qualche modo, viene richiesto loro da parte dei «non filosofi» pur sempre un «orientamento» che presuppone profondità e responsabilità teoretica. Per quanto muti la figura «professionale» del «filosofo» e il suo stile di pensiero, il pensare stesso, inteso nella distanza e nello scarto rispetto alle forme e ai miti del senso, si fa sempre filosofia. Ma, forse, lo stile del pensiero è costitutivo del pensiero e nel nuovo stile di pensiero sono impresse le tracce dell’epocalità della filosofia della crisi. Si possono infatti individuare nuovi abiti e figure: crisi della ragione. complessità, pensiero debole sono termini che comportano nuovi profili, nuove metafore e anche nuovi miti. I termini sono ormai polisemici e non univoci, racchiudono una insolubile contraddizione, poiché rinviano a un pensare che si distacca dai miti del senso comune per riprodurne altri ugualmente «infondati». La filosofia della crisi intende quindi distinguersi per la sua dedizione ad «abitare la contraddizione del pensiero» (P.A. Rovatti). Pensare nel luogo stesso della contraddizione tra il pensiero e il mondo, senza far prevalere il primo rispetto al secondo e senza ritenere questo luogo un ancoraggio fisso: così la filosofia risponde alla crisi. Essa muta livello, allontanandosi e differenziandosi rispetto alla stessa tradizione filosofica e affermandosi come riflessione di secondo grado rispetto a questa tradizione. In altre parole. il «filosofo» accetta che la distanza non neghi la passione, che la responsabilità si risolva in semplice disponibilità a rispondere, che il pensare stesso ospiti e sia ospitato nel mondo, senza alcuna «volontà di potenza». 

Tale trasmutazione di stile dovrebbe rendere la filosofia nuovamente accessibile, oltre che sul piano degli interrogativi anche su quello della scrittura (sempre più intessuta di letterarietà), rinnovando la sua valenza morale e politica. Sappiamo bene che l’urgenza etica condensata negli interrogativi che tutti ci poniamo non è soltanto l’effetto di un ripensamento interno sul ruolo attuale della filosofia, ma come – ben più – essa traspaia con forza dai mutamenti concreti della materialità stessa della civiltà occidentale. Se da un lato il declino della filosofia si risolve in una filosofia multiforme della crisi. dall’altro la crisi reale della civiltà occidentale annuncia un baratro possibile, che la filosofia può soltanto pensare, ma che ha il dovere di pensare. Inutile qui ricordare le vicende catastrofiche che hanno attraversato il XX secolo, dominato – fino al 1945 – da una guerra mondiale 

La civiltà «planetaria» nella quale viviamo mette infine in discussione le ottimistiche previsioni sugli stessi tempi di sopravvivenza del genere umano. Pur senza menzionare le trasformazioni della storia recente, appare tuttavia ben stagliato lo scenario contemporaneo, in cui dominano conflitti, singolarità, contingenze non più riducibili ad un ordine o ad una «filosofia della storia». È questa la crisi della quale si parla, crisi che non tocca soltanto la quantità e la complessità degli eventi, ma che implica una rottura profonda degli equilibri che hanno permesso il consolidarsi di sistemi sociali e viventi all’interno dell’ambiente-mondo. Non è un caso se divengono frequenti i tentativi scientifici e filosofici volti a valorizzare una «coscienza ecologica». Si uniscono gli sforzi per educare ad una «ecologia della coscienza» che si prospetta come l’esito di una rivoluzione intellettuale senza precedenti e si riconosce nel «ritorno del catastrofismo» l’effetto di superficie di un più consistente mutamento nell’immagine della civiltà planetaria3. 

Dinanzi alla doppia trasformazione che coinvolge insieme modi di pensare e volto del mondo, umano e naturale, l’arco delle possibili risposte è ampio, ma tutte si iscrivono in una prospettiva genericamente politica. 

3. Prima di presentare due soluzioni filosofiche sul tema in questione, a modello del modo di pensare moderno e di quello attuale, offrirei un sondaggio, appena accennato, su qualche figura ricorrente nelle odierne prese di posizione dei «filosofi» dinanzi alla crucialità della trasformazione. 

Se il filosofo è destinato – come si è sopra concluso – a «comprendere e […] ordinare la diversità fenomenica secondo un ordine di ragione – o di ragioni»4, allora egli deve interpretare il proprio tempo, essere il proprio tempo nella sua forma migliore. All’urgenza etica sollevata dai conflitti del mondo si risponde con una «pazienza filosofica», che moltiplica le circostanze nelle quali è possibile pensare. In tal modo il dialogo e l’interrogazione sostituiscono il conflitto, ma con modalità spesso divergenti. 

C’è chi interpreta oggi il dialogo infinito, il «pathos dello stupore» nel quale si muove il pensare, come un abbandono volontario della filosofia. La letteratura prende il posto della filosofia della crisi poiché nella prima il pathos dello stupore è rappresentabile senza «volontà di potenza»; bellezza e verità si fondono in un pensiero pacificato. 

Altri accolgono fino in fondo l’esperienza corrente, le aspettative più diffuse nel senso comune, moltiplicate dal sistema delle comunicazioni di massa, e risolvono il ruolo politico della filosofia nella continuità dell’esperienza collettiva. Il filosofo si fa portavoce delle aspettative dei più e la filosofia diviene «retorica sociale». Riflettere sulla pace equivarrà ad amplificare luoghi e figure del pensare comune. 

Ma, in direzione opposta, si sottolinea che il conflitto comporta sempre una possibilità di scelta e che il filosofo è coinvolto nella scelta, non solo come uomo, ma anche come filosofo «professionale». Heidegger e Gentile hanno scelto per la guerra come altri (Cassirer, Lukàcs) hanno lottato contro la guerra. E i primi non furono responsabili soltanto come cittadini, ma anche in quanto il loro ruolo implicava la «critica», la presa di distanza, «un uso cautamente responsabile» della parola loro concessa per collocazione professionale. 

Infine non manca la prospettiva della cancellazione della «pazienza filosofica» nell’impegno sociale e politico, tanto più se questo impegno coinvolge scelte ecologiche che assumono la loro forza dall’accumularsi di teorie biologiche e cosmologiche sempre più raffinate5. 

La conflittualità epocale del presente dissolve la filosofia in letteratura, viene minata nella retorica sociale, viene esaltata dalla critica dialettica, viene superata nell’olismo dell’ecologia. Figure possibili e concrete di una risposta difficile all’eventualità di una «filosofia della pace», tra rinuncia, insuccesso e marginalità utopica. 

4. Non si può negare una qualche nostalgia per la lucidità e la sicurezza con la quale la questione della pace perpetua veniva risolta – nella prospettiva più alta della filosofia moderna – dal genio di Kant6. 

Nel suo scritto più celebre sull’argomento Kant si pone in una prospettiva irenica, insieme ancorata e separata rispetto al corso degli eventi, oscilla tra utopia e progetto, secondo un movimento tipico della ragione illuministica. La nozione di pace assume un aspetto «categorico»: essa non può che essere perpetua, altrimenti non è vera pace. Nell’orizzonte della «ragion pura pratica» non c’è posto per le teorie della «ragion di Stato» e non si può accettare la massima si vis pacem, para bellum, in quanto la corsa agli armamenti è scorretta sul piano teoretico (non risponde al concetto di pace) e su quello concreto (genera un reale pericolo di guerra). Ma Kant è consapevole che la realizzazione di una pace perpetua può avvenire soltanto se si fonda una volta per tutte il diritto internazionale; deve di conseguenza ricorrere alla teoria hobbesiana del contratto sociale, estendendola al rapporto tra gli Stati. Tuttavia se l’idea di stato di natura viene trasposta sul piano degli Stati produce un esito paradossale: il diritto istituito, del quale gli Stati sono la più alta rappresentazione, coesiste con lo stato di natura, raffigurato nell’aggressività tra Stati e nella persistenza della guerra. 

La quarta esigenza viene esemplificativamente fatta valere da W.I. Thompson in Gaia e la politica della vita. Un programma per gli anni novanta?, in AA.W., Ecologia e autonomia, cit., pp. 169-210. 

Kant coglie questo paradosso, che avvolge la civiltà europea: essa è in fondo incivile e selvaggia, anche se culla del diritto. Peraltro dietro di esso si nasconde – a detta di Kant – una disposizione morale assopita, che prima o poi prenderà il sopravvento sul male. Il diritto internazionale va quindi compreso e fondato sempre a partire dalla legge a priori della «suprema potenza morale legislatrice», della «ragion pura pratica». L’inevitabile divaricazione tra necessità astratta della legge morale e complessità concreta e storica delle relazioni internazionali provoca sì in Kant un supplemento di indagine, in vista di una riduzione prospettica della seconda nella prima, ma le proposte, anche rilevanti, formulate al proposito non possono risolvere le aporie insite nell’affermazione che una legge a priori della ragione pura soggiace e orienta entità storicamente definite e volte alla supremazia e al conflitto. Kant si rifugia allora in risposte di tipo provvidenzialistico e naturalistico. Il destino, originato dalla natura stessa degli uomini, finalizza le discordie umane a una prospettiva di concordia, poiché proprio le continue discordie renderanno consapevoli gli uomini della necessità di un accordo ultimo. Tale destino assume anche la profondità di una legge incognita e cela quindi il disegno di una superiore Provvidenza. Al di là delle interpretazioni che si possono fornire sui limiti di questa istanza di secolarizzazione va riconosciuta l’oscillazione presente nell’argomentazione kantiana: felicità e pace sono utopiche, ma pur sempre oggetto di un desiderio naturale, forniscono il «senso» stesso della storia, originata nella naturalità di un desiderio e tesa a quella moralità non meno radicata nella natura umana. Un’oscillazione che – si è detto – è tipica della ragione illuministica e che è comunque sorretta dalla negazione di ogni discordanza razionale tra morale e politica. Con questo movimento Kant elabora lo stile più compiuto di una filosofia normativa della pace, nello spirito sistematico della modernità; ma pone anche le condizioni per il suo «declino», tramite la dissoluzione della legge universale in utopia irrealizzabile, definitivamente staccata dal procedere devastante della storia dei popoli. La teleologia provvidenzialistica e naturalistica prospettata da Kant si infrange nella tragicità delle catastrofi storiche, che – a partire dalla rivoluzione francese – hanno segnato l’intera umanità. 

Dobbiamo allora abbandonare la nostalgia per le definizioni ultime e prescrittive, per una sanzione perpetua sulla questione della pace. 

5. Il modello con il quale intendo chiudere il cerchio di .questa riflessione frammentaria, si ritrova alla fine di quel processo di trasmutazione di stili e di modalità del pensare sopra rievocato. Esso riconosce soprattutto la dilatazione estrema delle contingenze presso le quali risiede, viene dopo la crisi e la catastrofe, sa del crollo delle speranze più vitali. Si potrebbe dire, con una impossibile metafora, che ha già assistito alla fine dell’umanità7. Pur tuttavia intendo – tramite l’opera di Michel Serres – rinviare a una filosofia della pacificazione. 

In questo paragrafo sono utilizzate soprattutto le seguenti opere di Serres: Genesi (1982), tr. it. di G. Polizzi, il melangolo, Genova 1988; Statues, F. Bourin, Paris 1987 e Lucrezio e l’origine della fisica (1977), tr. it. di G. Cruciani e A. Jeronimidis, Sellerio, Palermo 1980. 

Serres rende consistente e credibile una modalità del pensare estranea alle forme del pensiero polemico, pensiero espresso in linguaggio militare o giudiziario, intessuto di strategie e di giudizi. Il razionalismo e la dialettica negano o coprono l’evenienza delle molteplicità, del possibile indifferenziato, vanno d’accordo con l’argomentazione del politico o con la logica dello scienziato, sempre finalizzate a rendere stabile la «ragione». Sul versante del possibile il filosofo dovrebbe invece mirare a salvaguardare il nuovo, l’inatteso, abbandonando consapevolmente l’ordine costituito della ragione imperante e sopportando le difficoltà di un’odissea senza fine, prezzo da pagare perché ci sia ancora un futuro per la cultura. 

Pacificazione innanzitutto come imperativo «fisico»: l’evento di una conciliazione tra uomini e mondo richiede uno spazio aperto, privo di steccati e di garanzie, che permetta alle molteplicità irriducibili della naturalità e della storia di miscelarsi senza scontrarsi. Una fisica della riconciliazione, epicurea e lucreziana, che ritiene ancora possibile un ritorno all’indifferenziato, per salvare la consistenza materiale del nostro mondo. 

Pacificazione quindi come imperativo «morale»: l’evento di una conciliazione tra gli uomini presuppone l’abbandono di quell’idealismo diffuso che fa credere a ciascuno di noi di essere centrale ed eterno, in nome di un «noi» che designa l’elemento miscelato e unitario del nostro vivere. Non si tratta soltanto di una impresa filosofica, nella quale alla contrapposizione classica tra soggetto e oggetto si sostituisce l’apertura alla miscela di vita e di morte che compone insieme il corpo vivente e la società. Si tratta di una necessità vitale. L’incubo persistente della morte atomica e della morte ecologica costringe ad ascoltare una filosofia che annuncia una pace senza alternative. 

La «filosofia dei corpi miscelati» è allora una scommessa augurale che – tramite le figure congiunte del messaggero Ermes e della bella Afrodite – diffonde la novella della pienezza e dell’abbondanza, la logica del terzo incluso, la mescidanza dei nostri corpi nella miscela infinita della vita sociale e naturale. Ritrovare l’androgino che dimora nel «noi», nella collettività, è impegno straordinario, ma ne va della vita o della morte. Se fossimo consapevoli di quanto sia piccolo lo scarto tra vita e morte, di quanto sia ridotta la fluttuazione che permette alle masse umane e sociali di ondeggiare sulla nostra matrice materiale, riverseremmo tutto il nostro impegno nel tentativo di allontanare il più possibile la morte individuale e collettiva che scandisce inesorabilmente il nostro tempo. 

Prima di inchinarci definitivamente dinanzi all’impeto di distruzione e di morte che – nella forma odierna di una pace sempre più guerreggiata – attraversa l’intera nostra civiltà, possiamo sentire ancora un’esigenza di resurrezione. Su questa tenue speranza poggia la parola filosofica di Serres. 

6. Il richiamo alla filosofia di Serres può però apparire puramente retorico. Siamo tutti convinti che una «filosofia della pace» presuppone una qualità pacificata del vivere. Si potrebbe anzi aggiungere senza forzature che l’intera filosofia si dispiega secondo modalità del vivere essenzialmente pacificate. Oggi è facile diagnosticare invece un mondo attraversato fin nelle sue pieghe più profonde dalla violenza e dalla «potenza»; in esso la tradizionale dialettica pace-guerra è venuta meno, sostituita dalla pervasività di una guerra non combattuta e di una pace guerreggiata, da uno stato di guerra interna (si pensi a delinquenza, droga, inquinamento, ecc.) e da una condizione di pace conflittuale tra gli Stati (si pensi al coesistere di accordi generali e generici e di guerre locali e irrisolvibili). Di conseguenza la «filosofia della pace» si è risolta nella forma «privata» di un’utopia. La filosofia di Serres può sembrare retorica dinanzi alla normatività kantiana, ma è cogente come modalità del vivere individuale; essa non è priva di aporie e non possiede alcuna conclusività, ma ci costringe a cimentarci con la speranza, per quanto esile, di una pace possibile. Sappiamo che soltanto una interdipendenza reale tra i popoli e all’interno dei popoli che escludesse ogni logica di dominio potrebbe sostanziare la diffusione sociale di una «filosofia della pace». Siamo liberi quindi di assumere l’aspetto retorico della questione. Ma sappiamo anche che esistono vincoli ai quali non possiamo più sfuggire, che una nuova modalità del vivere e del pensare si impone come obbligo dinanzi al futuro individuale e sociale. 

L’epocalità della crisi conduce a disperare, ma – proprio per questo motivo – a far sempre rinascere la scommessa di una filosofia. Un rapporto tra pace e filosofia è dunque ancora possibile. E forse può rinascere proprio dalla Sicilia che tutti noi tristemente conosciamo, ma che è stata spesso anche metafora concreta per la rinascita del pensiero: «Agrigento, Selinunte, Catania, Siracusa, Palermo, abbiamo fatto il giro dell’isola o quello del mondo; Empedocle, Archimede, Majorana, ecco chiuso il ciclo del tempo, della storia, delle scienze; abitiamo ormai una sorta di Sicilia isolata chiusa sotto la luce nera di Etna numerosi, che dipendono e che non dipendono da noi»8. 

Gaspare Polizzi 

(1) Sul tema del disincanto e del pensiero tragico rinvio a s. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Milano 1988. Le tematiche concernenti il «declino» della filosofia e le sue responsabilità, anche in rapporto alla crisi della tradizione del pensiero moderno, sono state oggetto di recente dei fascicoli monografici di «aut-aut», n. 226-227, luglio-ottobre 1988 (Il filosofo e l’effettuale. Questioni sulla responsabilità della filosofia) e di «autrement», n. 102, novembre 1988 (A quoi pensent les philosophes), ai quali rinvio per uno sguardo d’insieme aggiornato sui temi considerati nei primi tre paragrafi. 

(2) Il dibattito sull’adesione di Heidegger al nazismo e sui più generali rapporti tra filosofi e potere si è esteso fino a coinvolgere anche i quotidiani; per un orientamento più diretto rinvio – oltre ai fascicoli sopra ricordati – ad «Alfabeta», n. 103, 105, 107, 113, 1987-88. senza confronti in durata, in morti, in distruzione,e – nella metà successiva – da una pace, puntuata di conflitti profondi e persistenti, interni ed internazionali. 

(3) Ricavo queste considerazioni dal saggio di W. I. Thompson Le implicazioni culturali della Nuova Biologia, in AA.W., Ecologia e autonomia. a cura di W.I. Thompson. presentazione di M. Ceruti, tr. it. di L. Maldacea, Feltrinelli. Milano 1988, pp. 33-52, dove si sostiene tra l’altro: «Il passaggio da una condizione di conflittualità ideologica a una ecologia della consapevolezza a livello globale richiede oggi un chiarimento più profondo di quello offerto in Europa dalla filosofia illuminista che ispirò le rivoluzioni americana e francese» (p. 49). 

(4) Cfr. P. – J. Labarrière, Quand est-il temps de philosopher? in «autrement», cit., pp. 71-75. 

(5) Le posizioni qui presentate richiamano, nell’ordine, i contributi di F. Rella, Contro la seduzione del potere, di G. Vattlmo, Predicare il nichilismo?, di M. Vegetti, Per una dialettica indebolita, in «aut-aut», cit., pp. 102-108, 111-116, 117-120. È il caso di ricordare le seguenti affermazioni divergenti di Vattlmo e di Vegetti: «Da noi – del resto secondo una tradizione che risale a Vico, Croce, Gramsci – la filosofia appare più chiaramente come una ‘re-torica sociale’; e può darsi che questo modello italiano non sia destinato a valere solo per noi, e configuri invece i tratti (post-moderni?) di una responsabilità filosofica per la prima volta consapevole della dissoluzione dclla metafisica e del suo problematico superamento» (p. 116); «Ma se c’è comunque responsabilità dei filosofi (in ogni caso impegnati nel conflitto perché gli piaccia o no impegnati dal conflitto), può valer la pena di tentare un uso cautamente responsabile di quel tanto di parola che è loro concessa, nei margini di indeterminazione che la conflittualità sociale consente. Per il resto, o altrimenti, è meglio tacere o parlar d’altro, come saggiamente fa la maggior parte degli uomini» (p. 120). 

(6) La posizione di Kant è espressa nello scritto Per la pace perpetua (1795), per il quale rinvio all’edizione italiana a cura di D. Faucci, in I. Kant, Scritti di filosofia politica, La Nuova Italia, Firenze 19692. 

(7) La fine dell’umanità sta assumendo gli aspetti di uno scenario immaginabile, nel quale si possono comporre: la catastrofe nucleare (civile e militare), la sovrappopolazione, la scomparsa delle specie animali e vegetali, l’inquinamento delle terre, dei mari e dell’atmosfera, la sovrapproduzione di scorie. 

(8) M. Serres, Statues, cit., pag. 273. 

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg 19-28.




 Brama di palingenesi 

Rosa Barbieri, Testimonianze dal mare, Ed. Janua, Roma, 1988, pagg. 110. 

Arpeggiando un ideale contrappunto alla precedente raccolta (Dal fondo delle anfore, Pisa, 1984), Rosa Barbieri cerca ansiosa il ‘varco’ montaliano, la ‘maglia’ rotta nella rete per risalire, lei discesa nell’abisso pelagico, a interrogare la grande ‘immensa culla’ della vita, il mare, per rinascere purificata e rorida nel sole e nelle stelle, con quest’ultimo canto poematico: Testimonianze dal mare. 

Oltre i limiti della filosofia, sulle soglie della religione, con timore e tremore kierkegaardiano, si situa la poesia barbieriana, il cui movente giustificativo, squisitamente morale, è quello dantesco del ritrovamento della «diritta via» smarrita, della salvezza individuale e cosmica, attraverso la tragica prova dello sprofondamento e perdita dell’ego negli abissi oceanici ed ambigui della propria anima, attraverso le oscurità angosciose della notte di S. Giovanni della Croce, o l’allucinante visione della ‘waste land’ eliotiana o del deserto beckettiano. 

«I poeti. dice la nostra poetessa in una nota autobiografica, «sono pescatori di luci profonde, convergenti tra reale e immaginario, tra il terrestre e il cosmico». È l’eterno appello ai valori dell’interiorità dello spirito: in te ipsum redi che però in Rosa Barbieri diventa anche (e di qui l’angoscia assillante) la «discesa degli inferi» baudeleriana, la discesa verso gli anditi più torbidi e oscuri della nostra coscienza, e la conseguente inorridita constatazione sia del fascino dell’angelo come dell’attrazione verso il satanico che pure è dentro di noi. Questa prima ‘fase, l’immersione nell’abisso, è la conditio sine qua non per intraprendere l’itinerario mistico verso il Verum-Bonum: solo ripiegandosi su di sé, dopo aver fatto il vuoto e il silenzio più assoluto riconoscendo umilmente la propria nullità e la vanità del tutto, l’anima sarà in grado di auscultare il battito eterno del cuore di Dio. Solo così «il naufragar» sarà dolce «in questo mare» della misericordia divina, l’inquetudine agostiniana riposerà pacata. Ma il rischio e lo scacco heideggerriano e jaspersiano sono sempre in agguato, in questa fase di introspezione radicale, se appena Euridice «scompare a l’ingordo volere», se Dio cioè scandalosamente tace e si onubila alla vista e al cuore dell’anima smarrita. L’in te ipsum redi paradossalmente si capovolge appunto in un tuffo disperato nella voragine infernale, baudeleriana, appunto dove non si ascolta il battito del cuore misericordioso e pacificatore di Dio, ma «il lamento dell’anima», la sua angoscia, il suo smarrimento in un cosmo effimero ed assurdo. 

In questa atmosfera drammatica squassata dai venti del nichilismo e del materialismo contemporaneo, Rosa Barbieri, aggrappata al suo ponte tibetano di corde, sospeso nel precipizio, si dibatte per salvarsi, implorando ali alla poesia per spiccare il volo verso il suo sole, il cielo. 

E la poesia, pietosa, accoglie il grido e la Donna s’impiuma e si fa aquila, si fa Pegaso scalpitante tra le galassie, lasciandosi dietro, perduto, il pensiero che non riesce più a tener dietro a quella corsa sfrenata di immagini galoppanti, accavallandosi nel turbine incandescente dell’immaginazione priva di corrispettivi nel linguaggio ordinario: la scrittura si fa ardua, allucinata, automatica .difficile da ricondurre nell’alveo minimo di una logica». In tale stato di trance forse il poeta gioca la sua partita più pericolosa: un invisibile filo rosso divide il bene dal male, il vero dal falso, la vita dalla morte: «Alle vergini folli i fiori del male / danzano sul petto con vaghezza di morte». 

Il carattere orfico è evidente in molti passi della poesia di Rosa Barbieri, echi di parole proferite da una Sibilla, parole bisognose di una lettura e di un ascolto attentissimo. La grande fascinosità di questo personalissimo linguaggio assurge a profezia nel suo flusso lavico e incandescente di immagini catartiche e purificatrici. Bisogno di un varco di salvezza, in questo nostro mondo tecnologico – consumistico «dove i numeri inalterabili ruotano combinazioni / alleandosi alla morte»; un mondo votato, come pare all’autodistruzione: «Dicono che non rimarrà / più nulla di tutto questo, ogni pagina / ogni parola data al rogo, al massimo / impigliato in qualche metro di nastro». Un mondo nelle mani di empi «orologiai genetici» di «laccatissimi robot.» la cui sola religiosità è il potere, la violenza, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Un mondo, ancora spietatamente additato alla gogna dalla Nostra, in cui regna il maligno, annidato come un «serpente-drago» nelle voragini dello spirito umano, e che ha paurosamente trasformato l’uomo in un diabolico Caronte «con occhi di brace» a solcare «le distese astronomiche e marine» per snidare e dissacrare la santità dell’Essere universale. 

Ma l’uomo, creatura di Dio, non può non deve morire proprio perché siamo all’epilogo, all’ultimo atto della battaglia dell’anticristo, in cui «il diavolo furoreggia / nella sua esperienza di spazio», fiancheggiato da coloro che si «alternano al comando», unici detentori del codice per interpretare «le formule anagrammate ambiguamente». Toccato il fondo dell’abiezione e della disperazione, con timore e tremore, l’uomo intenerisce il cuore di Dio ed attende «gabbiano imbrattato nella neve» una parola di salvezza, una nuova novella, un nuovo Gabriele. 

E la Parola è venuta ed eternamente corre nel vento; la Parola che saprà far «partorire il seme d’oro» dopo che la carne si sarà straziata e macerata, perché sbocci una coscienza nuova, pura, e l’uomo sia di nuovo libero «con larghe mani» per riabbracciare il mondo. La Parola per cui tutto è stato fatto e per cui si rifonderanno cieli nuovi e terre nuove e per cui ancora «radici lontane rifluirà / il ramo cilestrino che sovverte il gioco». La Parola che ancora dice «Lasciate che i pargoli vengano a me», ecco, un pargolo, il suo bambino, è stato prematuramente chiamato, sacrificio richiesto nell’attraversamento del deserto. Quale «creta dolcissima premuta / alla violenza dell’esistere», il diletto figlio vive ora nel mistero dell’Universo «dalle grandi sciagure, dalle grandi meraviglie», e che ci nasconde un segreto e una gioia inimmaginabili, che ci prepara una «gioia più grande» e più vera, secondo l’intuizione manzoniana. La madre ora sa che egli è nel seno di Euridice, nell’immensa luce dell’Amor «che move il Sole e l’altre stelle», ed al figlio, ora lei, sovvertendo il gioco, chiede la mano perché non possa perdersi per raggiungerlo. In quell’istante supremo, dopo avere posto lo sguardo pietoso sulle maniglie delle porte e delle finestre, sullo specchio, tolte tutte le prese di corrente, ancora e sempre «il glicine [la poesia) rifiorirà lungo l’arco dei secoli per la fatica di tenere desta la memoria». Così, abbandonata ogni cosa di questa società in cui gli uomini, come in un «teatro rabbioso», sono giocolieri disperati «amputati dell’anima», e fatto il deserto interiore, la nave prenderà il largo verso il mare aperto ed infinito dell’Essere, unico e salvifico porto. 

È in questa seconda fase, la ‘pars construens’, che più ci piace cogliere la poesia di Rosa Barbieri; una fase in cui il ‘raptus’ si placa, l’allucinazione si fa sogno dolcissimo in dormiveglia, la parola si ricompone, il pensiero controlla e addolcisce lo spasimo di trance, le schegge e i frantumi delle sillabe si ricoaugulano e le immagini, parossisticamente inseguentesi, illimpidiscono unificandosi. Ed è in questa misura ritrovata di equilibrio olimpico che si scioglie il canto soavissimo di questa Sirena nell’ultima parte di Testimonianze dal mare, e cioè ne Il Veggente e la Cosa, all’unisono col canto dell’Universo di Pierre Tenhard de Chardin. Il varco della salvezza è trovato, la nave segue sicura la rotta illuminata dal faro dell’Oriente; l’uomo, che aveva dimenticato «l’ebbrezza delle stelle e il tocco della Pasqua», può ritrovare l’Eldorado perduto, accogliendo la «pepita d’oro dell’annuncio» ai piedi della radice di Jesse; «l’umanità intera sboccia dal focolaio del Giusto». 

Deluso dalla ‘sfinge’ della ragione che sempre si affatica a riordinare «spezzoni di epitaffi» per spiegare tutte «le possibili facce della Cosa», senza pervenire a nulla se non a riconoscere il proprio scacco, accettato lo scandalo di un Dio che ama la vita nel «Figlio dolente», che riscatta il dolore dell’uomo e del cosmo attraverso il corpo straziato di Cristo «tra le braccia giganti del Sole» (il Padre), l’uomo finalmente rinuncia alle ambizioni luciferine e si abbandona fiducioso al respiro incessante della Cosa, confidando che il risucchio della sua anima nel gorgo eterno dello Spirito genererà una nuova creatura, un nuovo parto di cui già avvertiamo le doglie nella tensione cosmica; l’anelito accorato della fine e del ritorno alla casa della Gerusalemme celeste. 

Come tra i primi cristiani, nell’attesa della Parusia, si leverà il grido: «Vieni, Signore Gesù», dopo aver accettato di morire nel solco come il chicco di grano; perché questa è la legge eterna del divenire, la sola che permetta di risalire à rébours, ricongiungendo la morte con la vita nel «miracolo del capovolgimento»: «Tutte le cose lo sanno / e dolcemente chinano il capo in attesa / che si colmi il limite doloroso» per una nuova e vergine mutazione. 

Filippo Pirro

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 52-55.




CON QUESTI PESI 

 Con questi pesi che ti porti dietro 
giri per la città, tutto da solo, 
la cattiva coscienza t’importuna: 
un vino inacidito dentro l’anima. 
C’è un bar all’angolo dove ti fanno 
la carità di un dito di J&B 
e una voce sospira Summer time 
portando ti veleni d’oltre Oceano. 
Le colombe s’inventano Venezia 
e tu rinneghi nella tua laguna, 
senza violino. 
La cassiera sorride a una battuta 
arguta sul suo seno che è in rigoglio, 
ti tratta già da vecchia conoscenza 
e niente sa di te, dei tuoi fantasmi. 

Carmelo Pirrera

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 49.




CAMMINI

 Ho cantato i miei amori 
nei giorni luminosi 
di una luce accecante. Li ho cantati 
nei sogni 
chiusa nel sonno o in veglia, 
col favore del tempo 
o al soffiare di venti tempestosi. 
Li ho chiamati per nome 
quando urgeva 
la vita, nelle feste rumorose 
o nella solitudine. 
lo mi sono adattata sempre al tempo. 
Ho pianto per amori sgretolati 
lungo la via 
mentre io, quasi senza percepirlo, 
spinta dal vento andavo per cammini 
senza ritorno. 

Djanira Pio 

da «L.B .», 44, 2006

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 45.




Viaggiatori stranieri in Sicilia  tra il Cinquecento e l’Ottocento 

Virtualmente collegata alla nota ricerca ottocentesca di Giuseppe Pitrè, sui viaggiatori italiani e stranieri in Sicilia, è l’opera in cui è impegnato con la sua équipe Rosario Portale, ordinario di lingua e letteratura inglese presso la facoltà di letterature straniere all’Università di Catania e presidente del «Centro Linguistico multimediale d’Ateneo». 

Portale dirige, con la passione dello studioso e la curiosità del ricercatore, una collana sul tema «Viaggi e viaggiatori in Sicilia», che suscita sempre nuovo interesse nel mondo scientifico e culturale. 

Sono già usciti dodici volumi ed è in preparazione il tredicesimo. Le pubblicazioni, frutto di lunghe e accurate ricerche, grazie anche al ritrovamento di materiale inedito, offrono testimonianze, relazioni, documenti, carteggi, diagnosi sulla società siciliana di varie epoche e le immancabili descrizioni delle bellezze artistiche, naturali, paesaggistiche dell’ isola, che culminano spesso (vedi Emily Lowe e Patrik Brydone» nell’incantato stupore per la maestosità dell’Etna. Anche il mito e la leggenda sono rievocati e rivissuti da alcuni viaggiatori in tutta la loro suggestione. Sulle finalità e il contenuto storico-scientifico dell’opera abbiamo rivolto alcune domande al prof. Portale, che ci ha accolto nella sede del Centro Linguistico, la più prestigiosa struttura didattica per le lingue straniere dell’ Italia meridionale. 

D.: Quali sono le finalità della collana da lei creata e diretta? 

La collana «Viaggi e viaggiatori in Sicilia: traduzioni, testi critici e documenti » è pubblicata da Lumières Internationales, sotto l’egida della Provincia regionale di Catania, col patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, del Ministero per le Pari Opportunità, della omonima Commissione Nazionale, del British Council, delle Ambasciate di Francia e d’Inghilterra, e naturalmente, dell’Università di Catania. 

Con questa iniziativa, alla quale collaborano docenti universitari, ricercatori, studiosi ed esperti di letteratura odeporica (per usare il termine coniato dal lo studioso Luigi Monga), mi sono proposto di portare all’attenzione del pubblico e della critica alcuni illustri personaggi stranieri – diversi per credo religioso, cultura e status sociale – che dalla seconda metà del Cinquecento alla fine dell’Ottocento fecero della Sicilia la loro meta privilegiata e di questa esperienza lasciarono testimonianze affidate a diari, lettere, resoconti, relazioni, saggi, appunti, racconti e opere a stampa. 

Diversamente da altre attività editoriali similari, la ricerca si caratterizza per la particolarità della scelta e l’ampia varietà dei temi. Sono infatti presentati autori ritenuti minori, le cui opere presentino situazioni ambientali interessanti e insolite, frutto della complessa realtà siciliana del tempo. 

D.: Vuole illustrare qualche volume? 

Mi limiterò a darle una campionatura esemplificativa ma non certo esaustiva. 

Per esempio, Lo sguardo dei Consoli. La Sicilia di metà Ottocento nei dispacci degli agenti francesi presenta materiale inedito (dispacci, memorie e corrispondenze) ritrovato negli archivi del Ministero degli Esteri francese. Questo materiale può farci scoprire non il volto della Sicilia com’era, ma in che modo ne ricostruiva i tratti quel particolare tipo di osservatori, un po’ viaggiatori, un po’ funzionari, che erano gli agenti stranieri nell’isola. Il volume Trinacria. Passeggiate ed impressioni siciliane del francese William Fleury (edito con lo pseudonimo di A. Dry) si configura come un percorso sociologico con una caratterizzazione dei personaggi-tipo ed una trattazione diacronica degli eventi storici. Il raffronto continuo con altri territori, l’Oriente in particolare, permette di costruire una rete di riferimenti analogici e comparativi che inserisce l’isola in un circuito geografico ad ampio raggio. Un altro volume, Il dialetto siciliano nei testi odeporici del Settecento, risponde alla legittima domanda: come facevano i viaggiatori stranieri del XVII secolo a comunicare coi siciliani, la maggior parte dei quali conosceva solo il dialetto? Per soddisfare questa curiosità, si sono presi in esame venti opere di viaggiatori, provenienti dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania, dalla Danimarca, dall’Olanda e dalla Polonia, studiandole da una prospettiva linguistica e mettendo in rilievo i passi nei quali vengono espressi giudizi, per lo più impressionistici, sulle varie parlate isolane. Particolare attenzione è stata dedicata ai toponirni variamente deformati, alle rare etimologie, spesso fantasiose, e alle espressioni che mostrano una interferenza fonetica, morfologica e lessicale tra dialetto locale e lingua del viaggiatore. Con questa ricerca si è pertanto cercato di evidenziare l’importanza che i resoconti di viaggio hanno per gli studi dialettologi. 

D.: Lei parla di autori ritenuti minori … Chi sono? 

R.: È il caso dell’inglese John Dryden junior, figlio del poeta omonimo. La sua opera, Un viaggio in Sicilia e a Malta nel 1700-1701, non ha grandi pregi letterari ma affida la sua originalità alla descrizione dell’itinerario Napoli – Messina – Catania – Siracusa – Malta – Palermo con il suo corredo di eventi, di incidenti di viaggio, di incontri e di osservazioni spicciole, alla registrazione di una gamma eterogenea di reazioni psicologiche di fronte ad una realtà altra e al sapiente dosaggio di reminiscenze storiche e letterarie. 

D.: Nella collana sono presenti anche donne viaggiatrici? 

R.: A compiere il viaggio nella nostra isola non furono soltanto uomini, ma anche donne di varia estrazione sociale, che affrontarono difficoltà materiali oggi impensabili. Un caso straordinario è quello di una viaggiatrice vittoriana, Emily Lowe (fra l’altro prima donna inglese a conseguire la patente di capitano navale), autrice di Due viaggiatrici indifese in Sicilia e sull’Etna. Diario di due lady vittoriane. Il racconto si presenta come narrazione in prima persona di una impresa, per quel tempo eccezionale, compiuta da due donne – l’autrice e la madre – che, senza accompagnamento maschile, intrapresero nel 1858 un tour in Sicilia e si avventurarono su vetture noleggiate e carrozze postali, passando per località archeologiche e per piccoli centri delle zone di Enna e Caltanissetta. Esplorarono la costa orientale, da Siracusa a Catania e Messina. Momento culminante della narrazione è l’ascesa del cratere centrale dell’Etna in pieno inverno. 

D.: A proposito dell Etna, è presente anche lo scozzese Patrick Brydone, autore, fra l’altro, della bella descrizione del vulcano e dell’alba vista dalla sua sommità? 

R.: A lui è dedicata la mia corposa monografia La meteora Brydone, frutto di minuziose ricerche negli archivi di mezza Europa. Grazie al ritrovamento di materiale inedito, faccio un’accurata ricostruzione della biografia di questo viaggiatore scozzese, di cui non si sapeva quasi nulla, e un’analisi documentata del suo Viaggio in Sicilia e a Malta, 1770, opera che ebbe una diffusione straordinaria anche negli Stati Uniti, e che esercitò tanta influenza sui viaggiatori inglesi, europei ed americani che, sulle sue orme, visitarono la Sicilia. Completano il volume cinque appendici, ricche di materiale inedito (relazioni, documenti, carteggi ed un’ampia selezione epistolare). Scopo di queste appendici è di offrire anche una tranche de vie, fino ad oggi sconosciuta, di Brydone e dei suoi interessi scientifici e letterari, compresi i rapporti che nel corso della sua vita intrattenne con varie personalità del mondo politico, diplomatico e culturale. 

D.: La Collana contiene esclusivamente traduzioni, monografie critiche e documenti? 

R.: No. Cammin facendo, ho pensato di arricchirla con due contributi che rivestono particolare importanza per gli studiosi italiani e stranieri. Si tratta di Viaggiatori britannici e francesi in Sicilia, 1500-1915. Bibliografia commentata e The Errant Peno Manuscript Journals of British Travellers in 1taly. Fra le peculiarità del primo, le traduzioni italiane apparse dal 1500 al 1915, l’itinerario di ogni viaggiatore e un indice di toponi mi utilissimo per chi volesse conoscere quale viaggiatore britannico o francese abbia visitato in quei secoli una città, un paese o un semplice villaggio siciliano. Il secondo, l’unico in lingua inglese, dispiega una ricchissima documentazione di manoscritti inediti, in particolare diari, relazioni, appunti e carteggi lasciati da viaggiatori inglesi che dal XVI secolo hanno visitato l’Italia e la Sicilia. È un’opera che si rivolge soprattutto agli studiosi di odeporica, archeologia, storia dell’ arte, architettura, storia, musica e anche a quelli di letteratura italiana e inglese. 

D.: Sono presenti solo viaggiatori inglesi e francesi? 

R.: La maggior parte sono inglesi, ma non mancano viaggiatori di altre nazionalità, quali il danese Friederich Leopold Graf zu Stolberg, di cui presentiamo il Viaggio in Sicilia, e il filologo, scrittore e giornalista russo Osip Senkovskij che non venne mai in Sicilia ma scrisse Viaggio sentimentale sul monte Etna (tratto da I viaggi fantastici del barone Brambeus) sotto l’influenza del più famoso barone di Mlinchhausen, come lui impegnato in viaggi soltanto immaginati. Il racconto di Sekovskij, dalla forte carica polemica e ironica nei confronti della società letteraria e scientifica russa, è una splendida parodia del genere odeporico, diffuso in Russia a partire dalla fine del Settecento. Redatto inizialmente in forma diaristica, questo straordinario ed esilarante racconto fantastico si trasforma via via in un monologo fanfaronesco, dispiegandosi attraverso l’ascesa sull’Etna fino al cratere, entro il quale l’improvvisato viaggiatore finisce per cadere. 

D.: All’inizio dell’intervista, lei ha detto che la collana consta di dodici volumi ... 

R.: Erano stati previsti dodici volumi, che nel giro di pochi mesi sono quasi tutti esauriti. Con la casa editrice «Lumières Internationales» e il suo direttore editoriale, dotto Antonio Scollo, stiamo pensando ad una ristampa di tutta la collana, ma nel frattempo farò uscire, speriamo entro l’anno, un tredicesimo volume dal titolo Viaggio in Sicilia e a Malta nell’estate del 1772. Si tratta di un delizioso diario inedito del giovanissimo inglese William Young, che visitò la nostra isola nel 1772, quando cioè l’opera di Brydone non era stata ancora pubblicata. Conterrà, fra l’altro, materiale iconografico dello stesso Young.le faccio presente che la parte iconografica di questo, come di ogni volume, è costituita, per quanto possibile, da materiale inedito e mira a creare un rapporto tra testo e illustrazione che in taluni casi è determinante per la migliore comprensione dei luoghi descritti. 

D.: Da quanto lei ha affermato, mi par di capre che tutte queste opere aiutano il lettore a scoprire / riscoprire una Sicilia che gli stessi siciliani non conoscono. 

R.: Per chi vuole riscoprire la Sicilia che fu, c’è in queste opere tutta una gamma minuziosa e colorita di schizzi, episodi curiosi di vita, tradizioni, abitudini delle varie classi sociali, incidenti di viaggio, curiosità culturali, intriganti minuzie aneddotiche, e suggestive descrizioni paesaggistiche: tutte espressioni vive di una Sicilia d’antan e insostituibili testimonianze per un recupero memoriale del nostro passato. 

Nino Piccione

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 43-46.




 Un Centro linguistico multimediale d’Ateneo per l’apprendimento specialistico delle lingue 

Intervista di Nino Piccione a Rosario Portale, dell’Università di Catania 

Nuova sede a Catania del Centro linguistico multimediale dAteneo (C.l.m.a.), la più prestigiosa struttura didattica dell‘Italia meridionale, all’avanguardia nel campo delle attrezzature informatiche. Il Centro è presieduto dal prof. Rosario Portale, titolare della cattedra d’inglese della università etnea, eminente studioso, 

riconosciuto in una dimensione culturale europea. Incontriamo il prof. Portale in un antico palazzo, nel cuore della Catania barocca, e gli rivolgiamo alcune domande. 

– Professor Portale, cos’è il Centro linguistico multimediale? 

-È stato istituito nel 1995 dall’ Ateneo catanese, con lo scopo di promuovere, con l’ausilio delle più sofisticate tecnologie multimediali, la diffusione delle lingue straniere. Sappiamo che oggi la conoscenza di almeno una lingua straniera, oltre ad essere fondamentale per lo sviluppo personale, è determinante per quello professionale. L’Europa è multilingue e pertanto saper parlare bene le lingue, sottolineo bene, diventa necessario, poiché il rischio è di rimanere tagliati fuori dalla realtà europea e non solo. 

Il C.l.m.a. dal 1998 è socio A.i.c.l.u. (Associazione Italiana Centri Linguistici Universitari), si avvale, per l’insegnamento delle lingue e l’assistenza tecnica, di tutor linguistici, di esperti in didattica, di tecnici informatici e di formatori madrelingua. In qualità di presidente del Centro sono orgoglioso di dire che all’ultimo G8, tenutosi a maggio in Giappone, abbiamo inviato una nostra traduttrice ufficiale. Nella gestione della struttura sono affiancato da uno staff di giovani altamente qualificati, oltre che dal direttore scientifico e dal Comitato tecnico scientifico. 

– Quali sono le finalità del Centro? 

– Le finalità e i compiti del Centro sono molteplici: promuovere l’apprendimento strumentale della lingua straniera, la pratica e lo studio per gli allievi dei corsi di dottorato di ricerca, specializzazione, perfezionamento, ma anche per gli assegnisti di ricerca, per il personale docente e tecnico-amministrativo dell’università. Il C.l.m.a., che è anche un centro di ricerca, risponde in maniera adeguata alle esigenze culturali di approfondimento nel settore dell’insegnamento linguistico. Questo Centro è una struttura aperta al territorio e perciò, oltre ad organizzare corsi di microlingua e a programmare corsi per formatori di lingua italiana per stranieri e per studenti universitari, promuove importanti iniziative come il Learn by Movies. Inoltre collabora coi vari Centri linguistici presenti sul territorio nazionale; stabilisce accordi con enti locali, pubblici e privati; stipula convenzioni con l’Irssae Sicilia per la realizzazione di corsi di formazione e aggiornamento per il personale degli uffici scolastici provinciali, i docenti di lingua straniera e le scuole di ogni ordine e grado. 

– Di quali strumenti dispone il Centro? 

– Il Centro è un gioiello dell’elettronica e dell’informatica. I nostri spazi, tutti appositamente progettati, sono ampi e confortevoli. La fase di progettazione è stata seguita da un collega della facoltà di Ingegneria dell’Università di Catania e sono fiero che per la realizzazione di questo ambizioso progetto l’Ateneo catanese non abbia dovuto pagare consulenze esterne. Disponiamo di tre laboratori multimediali, dotati di software sofisticati, di cui uno attrezzato con postazioni Apple, di tre aule per corsi frontali e di una fornitissima mediateca a disposizione degli utenti. Tutte le nostre classi possono essere utilizzate anche per riunioni e seminari. Esse consentono di ospitare fino a 15 studenti (oltre alla postazione docente) in un ambiente altamente professionale, high-tech e anche piacevole. 

Siamo in grado di ospitare circa cento utenti ogni ora. 

– Qual è la tipologia dei corsi? 

– Il C.l.m.a., dove, oltre all’inglese, vengono insegnate altre lingue, come il francese, lo spagnolo, il tedesco, l’arabo, il russo e, quanto prima, anche il cinese, offre una vasta gamma di corsi. La loro tipologia è varia. Il nostro obiettivo è di soddisfare le richieste dei nostri utenti anche in termini di flessibilità di orario e di pagamento delle tariffe; e così, gli studenti possono concludere agevolmente il percorso di studio! Tenga presente che i corsi non sono aperti soltanto agli studenti universitari, ma a tutti coloro che, indipendentemente dal titolo di studio, dalla professione, dall’ età e dal grado di competenza linguistica ne facciano richiesta. Il nostro obiettivo è di rispondere alle esigenze degli utenti. Non è un caso che il nostro slogan sia: «Da noi le lingue sono una cosa seria.» 

Ci sono corsi multimediali di conversazione e di preparazione alle certificazioni internazionali (Cambridge, Dele, Toefl, etc.). Siamo l’unico ente certificatore universitario per la preparazione del prestigioso esame Toefl, richiesto dalle università straniere. Ci sono poi i corsi «uno a uno», dove lo studente ha la possibilità di avere un docente tutto per sé. I corsi multimediali, tenuti tutti rigorosamente da formatori madrelingua, hanno una durata che varia dalle 40 alle 90 o più ore, con frequenza bi o tri-settimanale, e si offrono strumenti e opportunità per sviluppare tutte le abilità linguistiche (lettura, ascolto, scrittura, etc.). Quelli di «conversazione in lingua» hanno una frequenza bi-settimanale, per un training complessivo di 40h. Tutte le lezioni hanno come obiettivo lo sviluppo dell’ abilità di speaking (produzione e interazione orale) attraverso un percorso di studio coerente e mirato nell’ambito dei livelli e dei parametri stabiliti dal QCER (Quadro comune europeo di riferimento per le lingue). 

Anche i corsi di preparazione agli esami Cambridge PET (Preliminary English Test), FCE (First Certificate in English) e CAE (Certificate in Advanced English) e alla certificazione americana Toefl IBT (Test ofEnglish as a Foreign Language internet based) sono tenuti da formatori madrelingua ed hanno come obiettivo l’ acquisizione delle tecniche più idonee al superamento dell’esame. Ogni corso può avere un numero massimo di quindici studenti e si avvale dell’ausilio di software e attrezzature glotto-didattiche sofisticate. Stiamo molto attenti a non superare il numero di 15 utenti, poiché è ritenuto il numero ideale al fine di ottimizzare la capacità di apprendimento di ogni singolo studente. 

– Ma tocchiamo una nota dolente in questi tempi di recessione. Mi riferisco ai prezzi... 

– Le nostre tariffe sono assolutamente abbordabili e competitive. A coloro che fruiscono dei nostri servizi viene richiesto il pagamento di una cifra stabilita dal Consiglio di amministrazione dell’Università. I prezzi variano a seconda del tipo di corso. Faccio un esempio. Il corso di preparazione al PET si svolge in 90 ore, con una frequenza tri-settimanale, e costa 650 euro, con possibilità di rateizzare il pagamento. Le iscrizioni, si possono effettuare on fine, collegandosi al sito www.clma.unict.it. Chi vorrà iscriversi dovrà sottoporsi a un test gratuito della durata di 30 minuti, cui seguirà un colloquio con un formatore, al fine di stabilire il livello di conoscenza linguistica e il relativo inserimento in una classe. 

Ci sono nuove iniziative in cantiere? 

– Gliene anticipo tre. La prima riguarda i neolaureati: per loro sto attivando un corso per «esperto in editoria e comunicazione», realizzato in collaborazione con la nota casa editrice Lumières Internationales di Lugano. Si tratta di un progetto che non è mai stato realizzato da Bologna in giù e che offrirà ai nostri laureati maggiori opportunità di impiego. La seconda novità è il corso «The Language of International Politics», della durata di tre mesi, con due incontri settimanali di un’ora, tenuto da docenti ed esperti universitari. L’altra iniziativa, di cui sono particolarmente orgoglioso, riguarda l’istituzione di un «Centro traduzioni», che sarà fra i pochissimi esistenti in Italia e che nasce con l’obiettivo di offrire, ad un costo moderato, come è nella nostra filosofia, servizi altamente qualificati e di alto livello, grazie anche alla collaborazione di traduttori esperti, referenziati nei diversi campi della traduzione (giuridico-legale, tecnico-scientifico, letterario, medico, economico, etc.). Il «Centro traduzioni» offrirà un accurato servizio di traduzione, revisione e consulenza linguistica in regime di prestazioni a pagamento in conto terzi. Oltre che per le più diffuse lingue europee, cercheremo di garantire servizi anche per quelle extraeuropee che si sono ormai imposte sulla scena internazionale, quali la cinese e l’araba. Come per i corsi di lingua, esso non soddisferà solo le richieste dell’Università e delle sue strutture didattiche, scientifiche e amministrative, ma anche quelle di tutti gli utenti esterni (pubbliche amministrazioni, enti locali, tribunali, imprese, privati) che si rivolgeranno a noi. Anche con questa iniziativa ci si propone l’obiettivo di diventare un punto di riferimento per tutto il territorio. 

La conversazione è finita. Vogliamo ricordare l’attività e le opere principali del prof. Portale. Ha collaborato, come responsabile unico e di settore per la letteratura inglese e del Commonwealth, a numerose pubblicazioni edite dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Tra le sue pubblicazioni: «Plays of the Absurd. Beckett, Pinter, Simpson», studio su tre dei maggiori esponenti dell’Assurdo; «Virgilio in Inghilterra», raccolta di saggi di comparatistica sull’influenza del poeta latino su alcuni grandi scrittori inglesi dal 1500 al 1800. Ha curato la traduzione di T.L. Peacock, «Le quattro età della poesia»; di PB. Shelley, «Difesa della poesia»; di John Dryden, «Un viaggio in Sicilia e a Malta nel 1700-1701»; e due volumi di autori vari su «La traduzione poetica nel segno di Giacomo Leopardi» e «Omaggio a Keats e Leopardi». 

Nino Piccione 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 33-35.




Rinnovamento e continuità nella poetica  architettonica siciliana dal 1930 al 1950 

Gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale furono, per l’attività edilizia, anni di antinomia. Si ricercava, infatti, un equilibrio tra la necessità di operare e l’istanza di approntare un disegno organico di ciò che si dovesse fare. Le scelte operate in quegli anni affondano le proprie radici nel clima culturale che si era formato durante il ventennio fascista. In Italia, tra il ’20 e il ’30 si assiste ad una scarsità di contatti con l’Europa, accentuata dal protezionismo culturale del regime (che, in economia, doveva portare all’autarchia). Pochi, prima di Edoardo Persico, si erano resi conto di quello che succedeva nelle aree d’oltralpe. Questo clima è reso manifesto dalle sorprendenti parole con cui Marcello Piacentini descrive la situazione tedesca: «In Germania non si palesa ancora un carattere dominante e preciso: ancora perduta, in mezzo a grandi incertezze, la lotta tra la linea orizzontale e verticale»1. È soprattutto a partire dagli anni trenta che 1’Italia mostra notevole attenzione verso le nuove espressioni artistiche provenienti dal resto d’Europa. Le istanze di cambiamento, avanzate da più parti del nostro paese e caldeggiate in un primo momento anche dal regime, sembra possano coniugarsi alle novità in ambito architettonico promosse dal razionalismo; questo non risparmierà, tuttavia, di Raimondo Piazza l’accendersi di un dibattito tra i sostenitori del «tradizionalismo», inteso come la via più breve verso la soluzione dei problemi, e i promotori «dell’internazionalismo architettonico», secondo la definizione di Giuseppe Samonà2, che auspicheranno una concreta rivoluzione del linguaggio architettonico, nei metodi d’insegnamento e nell’ambito professionale. Entrambe le posizioni si pongono «come interpreti della modernità e fautrici di un ordine nuovo»3. 

L’accentuarsi delle posizioni conservatrici della dittatura e il conseguente intensificarsi del sentimento nazionalista, spinge comunque gli architetti verso la creazione di uno stile nazionale, fondato sulla riscoperta dell’architettura classica, ricco di toni celebrativi del potere del duce, scenografico e monumentale. L’imperativo del «ritorno all’ordine », contro l’eclettismo che aveva caratterizzato l’architettura del passato, in Sicilia si identifica con il superamento delle esperienze precedenti. 

Qui, come scrive Ettore Sessa, «l’ideale astratto di classicità assume quei connotati di “razionalità mediterranea” che, pur nelle dicotomiche valenze italico- monumentali [ … ] e italico-vernacolari […] ne assicurano l’appartenenza a quella “terza via dell’ architettura contemporanea” comune a Francesco Fichera e nella quale rientrano, fra le altre tendenze, il “classicismo moderno” scandinavo e il panslavismo architettonico di Kotera a Plecnick»4. 

Forse il maggiore esponente palermitano della nuova poetica architettonica è Salvatore Caronia Roberti, la cui sede del Banco di Sicilia a Palermo (1932-1938) ne è certamente l’esempio più paradigmatico. 

Lo scoppio della guerra frena com’è naturale, il maturare di una coscienza architettonica. Con la liberazione dell’ Italia, l’impegno maggiore cui vengono chiamate le forze della cultura riguarda non solo la ricostruzione materiale dell’isola, ma si rivolge anche ad una sorta di rieducazione delle masse affinché prendano coscienza del ruolo di cittadini della nuova Italia democratica: nuovi slogan predicavano un progressivo sviluppo culturale capace di mutare quelle condizioni esasperate che fino ad allora avevano favorito il fiorire del degrado. Anche gli architetti sono chiamati a svolgere il loro lavoro con un mutato spirito: dovranno farsi interpreti del cambiamento con le loro opere e sperimentare nuovi schemi funzionali, adatti a soddisfare le urgenze provocate dalle distruzioni della guerra. 

Per quanto riguarda l’edilizia residenziale, le prime costruzioni sono realizzate principalmente grazie ai finanziamenti del «Piano incremento occupazione operaia», attuato dalla legge Fanfani. Queste realizzazioni, in genere, sono improntate all’applicazione dei canoni del Razionalismo e attingono dalle esperienze degli anni venti, portate avanti dal Movimento Moderno nei «quartieri manifesto» tedeschi. Nel recupero, comunque, di quell’ eclettismo ereditato dall’Ottocento, ma avvilito dal progetto di unità stilistica nazionale messo a punto dal fascismo, vengono ripresi elementi tratti dalla tradizione costruttiva mediterranea, che contrassegnano molti quartieri abitativi. 

Dopo il conflitto, infatti, l’architettura cerca di rigenerarsi attraverso la storia che la letteratura ufficiale aveva ignorato, cioè rileggendo le manifestazioni spontanee dei luoghi. L’interesse per queste opere, per le tecniche costruttive tradizionali, che coinvolge progettisti come Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi, Giuseppe Samonà e molti altri, rivela la volontà morale di instaurare un discorso con la realtà semplice della vita quotidiana. È soprattutto nell’abitazione che verranno alla luce i primi frutti di questo rinnovato rapporto con la storia5. Abbandonata l’immagine della città-giardino degli anni venti, si tenta di ricreare l’unità e la ricchezza d’immagine dei centri storici, recuperando forme tradizionali di scale esterne, ritmi di finestre, deviazioni che disegnano strade non rettilinee, slarghi e piazze6. In qualche modo si cerca così di fondere schemi razionalisti ed elementi caratterizzanti della cultura vernacolare. 

In un clima culturale che non manca di evidenziare incertezze, come denota lo stesso bando di concorso per la creazione della nuova via del Porto a Palermo (1949), si può identificare nel progetto dell’Istituto tecnico nautico di Palermo (1948) di Giuseppe Spatrisano (con V. Ziino, A. Bonafede, P. Gagliardo), la prima opera dove si approfondisce il metodo progettuale sostenuto dal Movimento Moderno, che comporta l’abbandono dei localismi. 

Il nuovo Istituto doveva inserirsi in un’area particolarmente delicata in quanto densa di emergenze architettoniche e fomentatrice di relazioni spaziali complesse. Come scrive Edoardo Caracciolo nel 1950, «la sistemazione verso il mare risolve egregiamente la funzione di cerniera. La rigida massa parallelepipeda nella quale è incastonata la vecchia loggia dell’ospedale continua la “parete” formata dai palazzi sulle mura, dal De Seta al Trabia, e la conclude. Il tumulto di superfici, più che di masse, verso la cala, stacca nettamente la composizione aulica precedente e preannunzia i volumi frammentari estendentisi lungo l’ansa del vecchio porto»7. 

Edoardo Caracciolo mette in evidenza, inoltre, uno dei caratteri progettuali moderni dell’istituto, ovvero la scomposizione dell’edificio in «masse diverse a seconda delle esigenze funzionali interne»8. 

Il linguaggio aggiornato e sensibile dell’ Istituto nautico, sostiene Gianni Pirrone, «sembrava dovesse dare il via ad un nuovo corso dell’architettura palermitana»9. 

Il progetto, il cui nitore cristallino ricorda le opere dei milanesi Mario Asnago e Claudio Vender, viene però mutato in corso d’opera, forse per motivi economici, mortificando lo spirito dell’idea originaria ed evidenziandone, in definitiva, i difetti. Pur con le sue deviazioni dall’idea originaria, tuttavia, l’opera può essere considerata il primo tentativo cosciente di un’ interpretazione antiletteraria dell’architettura, forse il modo più corretto di inserimento in un luogo così delicato, analogamente alla stazione ferroviaria Michelucci, costruita a Firenze dietro le absidi di Santa Maria Novella. 

Creare un’ architettura per l’ uomo, fruitore dell’ opera dell’ architetto, è il motto che impera fra la maggior parte degli architetti italiani già all’indomani della guerra. Un imperativo che punta alla democratizzazione dell’ architettura e che proviene da lidi lontani, come l’America e la Finlandia. Le nuove vie dell’architettura indicate da maestri come Wright o Aalto hanno larga eco nell’Italia postbellica, promosse da Bruno Zevi con la fondazione dell’ Apao. 

In Sicilia, l’adesione al movimento fondato da Zevi, viene accolta come un momento d’ incontro e di collegamento con le vicende che si svolgevano altre lo Stretto; a Palermo nel 1949 si tiene una riunione dell’ Apao, alla quale partecipano i nomi di spicco dell’architettura locale. Qui la lezione organica viene assimilata e rivisitata alla luce di quella atavica tendenza conservatrice, che opta per una rilettura dei nuovi canoni lessicali e per un loro accostamento ad elementi tipici dell’ architettura mediterranea. Si può dunque parlare di un’esperienza che acquisisce toni originali in quanto si lega alla riscoperta del concetto di sicilianità. Il confronto tra l’Istituto tecnico nautico, del 1948, e il posto di ristoro sul Monte Pellegrino, del 1954, dello stesso architetto, evidenzia chiaramente la mutata concezione architettonica. 

Tuttavia l’idea di dover fare (o di non dover fare) un’architettura organica, che si contrappone a quella definita razionalista, porta con sé anche aspetti piuttosto negativi, poiché abitua a pensare la tradizione moderna in termini indebitamente ristretti. Infatti, il dibattito si sposta inavvertitamente sui vecchi temi culturali e la storia dell’ architettura moderna appare allineata con quella dell’architettura antica come una successione di indirizzi formali, che si soppiantano tra loro all’infinito 10. 

La vastità degli stimoli formali, sia essi riferiti all’ architettura internazionale, sia riferiti a quella mediterranea, porta, in antitesi con le istanze iniziali, a trattare ogni tema più come occasione isolata che come proposta per il rinnovamento organico della città. Si apre così una nuova strada, che è quella della ricerca della perfezione qualitativa della singola opera o del singolo complesso. 

La momentanea conciliazione di tradizione e modernità mostra, a distanza di tempo, che solo una parte di questa attività vale come contributo alla soluzione di alcuni problemi della città moderna – la museografia11, l’ambientamento di nuovi edifici nei quartieri antichi monumentali, la ricerca di una identità regionale -, mentre alcune limitazioni implicite hanno pesato negativamente sulle esperienze successive in misura notevole. Tra queste, l’ abitudine di trasferire l’esigenza della continuità storica sul terreno formale e spaziale e soprattutto la difficoltà di affrontare sopra una determinata scala i problemi che condizionano sempre più urgentemente la vita della città moderna, quindi la mancata continuità tra l’impegno architettonico e urbanistico. Questa diviene il punto cruciale della cultura architettonica, non solo siciliana, che mostra i propri esiti nella scarsa vivibilità di molte città italiane. 

Raimondo Piazza

NOTE 

1 M. Piacentini, Architettura doggi, Roma 1930, p. 34. 
2 M. C. Ruggieri Tricoli, Salvatore Caronia Roberti architetto, Palermo 1987, p. Il. 
3 M. Capobianco. Gli anni quaranta. “La via più dura» dellarchitettura italiana, in M. Capobianco (a cura di ), Architettura italiana 1940·1959, Napoli 1998, pp. 61·145, cit. p. 70. 
4 E. Sessa, Salvatore Caronia Roberti. Opere e poetica, Dipartimento di Storia e Progetto dell’Università degli Studi di Palermo, «Bollettino della Biblioteca», n. 2, gennaio-dicembre 1993, pp. 130·133, cit. p. 131. 
5 Cfr. C. Conforti, Roma, Napoli, Sicilia, in F. Dal Co (a cura di), Storia dell’architettura italiana, il secondo Novecento, Milano 1997, pp.176-241, cit. pp. 178-179. 
6 V. Fontana, Profilo dell’architettura italiana del Novecento, Venezia 1999, p. 219. 
7 E. Caracciolo, il teatro marittimo di Palermo, «Urbanistica», n. 3, gennaio-marzo 1950, pp. 75-77, cit. p. 77. 
8 Ibidem. 
9 G. Pirrone, scheda «Istituto tecnico nautico», in Architettura del XX secolo in Italia, Genova 1971, pp. 122· 123, cit. p. 122. 
10 Si veda a tal proposito: B. Zevi, Saper vedere larchitettura, Torino 1948. 
11 Si veda, per esempio, la sistemazione museale di palazzo Abatellis a Galleria nazionale di Sicilia, realizzata a Palermo da Carlo Scarpa negli anni 1953-54.

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 22-26.




 Architetti dei «centri minori» in Sicilia:  Salvatore Costanzo 

Giancarlo Lunati, presidente del Touring Club Italiano, definisce «centri minori» quelle città che, seppur di piccole dimensioni, hanno svolto una funzione di controllo del territorio circostante ed espresso significativi momenti di civiltà urbana. Qui si riscontra spesso una considerevole tipicità in termini architettonici e urbanistici, dovuta alla presenza di individui dotati di ingegno e sensibilità che, per motivi diversi, scelgono di operare lontano dalla ribalta delle grandi città. Di costoro, talvolta magistrali registi delle metamorfosi dei luoghi, la storia con difficoltà tenta di ricostruirne criticamente l’operato, anche per la dispersione del materiale documentario. 

La definizione di Lunati calza perfettamente a Mussomeli, «centro minore» della provincia di Caltanissetta, noto soprattutto per il trecentesco castello chiaramontano. 

Qui, tra i protagonisti della scena urbana si distingue l’architetto Salvatore Costanzo; attivo per gran parte dell’Ottocento – scompare il 29 gennaio 1889, all’età di settant’anni -, è tra gli ultimi professionisti ad operare in contatto con una committenza colta ed esigente, attenta ai problemi del «decoro urbano», prima che le modificazioni del centro abitato e del territorio divenissero preda di speculatori e di politici privi dei più elementari strumenti culturali e morali. 

Le fonti letterarie su Costanzo ne evidenziano1 il ruolo incisivo assunto all’interno di quel processo tendente alla modernizzazione di Mussomeli, consono ai progressi urbanistici, architettonici e tecnici di un secolo caratterizzato da profondi cambiamenti in molti settori della società, della scienza e dell’ arte2. 

Si può ritenere che la formazione accademica dell’architetto avvenga a Palermo tra la seconda metà degli anni trenta e i primi anni quaranta del sec. XIX. In questo periodo, la cattedra di architettura civile è tenuta da Carlo Giachery3, che dà un taglio tecnico ai suoi corsi, e affronta anche la trattazione dell’opera di Francesco Milizia (1725-98), uno dei più significativi teorici del Neoclassicismo. 

Il percorso universitario fornisce all’architetto mussomelese anche quelle basi culturali che lo inducono, certamente per inclinazione personale, ad essere al contempo pittore, cesellatore e poeta, nonché cultore di letteratura e storia, di scienze fisiche e naturali4. 

L’ambito cronologico in cui si forma ed opera Costanzo è certamente tra i più complessi della storia dell’architettura: da un lato, le scoperte archeologiche conducono al risveglio del classicismo; dall’altro, le evoluzioni della tecnica, l’adozione di nuovi materiali costruttivi come la ghisa e il vetro, la necessità di nuove tipologie edilizie adatte alle nuove istanze del progresso, spingono verso la formazione di nuovi linguaggi espressivi in grado di rispondere pienamente alle esigenze della vita contemporanea. L’Ottocento, pertanto, oscilla tra pionieristiche fughe in avanti e consolatori rifugi nel passato, che nella seconda metà del secolo sfoceranno nel vario e ampio formalismo architettonico dello storicismo e dell’eclettismo, talvolta con abili compromessi. Giovan Battista Filippo Basile e Giuseppe Damiani Almeyda riassumono perfettamente le contraddizioni dell’epoca5. 

Come molti progettisti che operano nell’Ottocento, Costanzo tiene disgiunta la nozione di arte da quella di tecnica, per cui la sua abilità ingegneristica si applica ad opere di carattere utilitario, altrimenti viene dissimulata in una veste architettonica d’ispirazione prevalentemente classica. 

Tra il 1867 e il 1882 l’architetto si cimenta in opere che denotano approfondite conoscenze nel campo dell’idraulica: la riforma dell’impianto idrico comunale, il pubblico lavatoio, le fontanelle a getto intermittente6. 

Nel 1871 si inaugura la strada che collega Mussomeli con la costruenda stazione ferroviaria di Acquaviva Platani; nel 1882, lungo tale strada, ad appena un chilometro fuori dall’abitato, Costanzo realizza la cappella funeraria Sorce-Malaspina, dedicata alla Madonna del Riparo. Si tratta di una piccola costruzione in pietra a faccia vista, a pianta quadrata, sormontata da una cupola emisferica, con ingresso a fornice affiancato da paraste ioni che; la paraste, due per lato, danno solidità visiva ai cantonali e reggono una trabeazione che si svolge lungo il perimetro. Sopra la cornice, in asse con le paraste, volute lapidee a quarto di cerchio creano un felice contrasto con la curva della cupola. I fondamenti storici – e quindi culturali – che qui presuppongono l’attività di progettazione rimandano ad esempi romani e rinascimentali. 

Il rigore geometrico dell’impaginato architettonico conferisce una solennità all’opera che ben si adatta a perpetuare la memoria delle virtù umane di chi vi è sepolto: nella cappella riposa, infatti, il cav. Vincenzo Sorce Malaspina, fondatore dell’omonimo orfanotrofio. Nella parte sommitale, oltre all’opera di Palladio, il riferimento più prossimo che Costanzo adotta è presumibilmente il gymnasium dell’ Orto botanico di Palermo, progettato da Leon Dufourny nel tardo Settecento. L’accostamento della cupola alle volute con opposta curvatura, infatti, ricorda da vicino l’opera palermitana dell’ architetto francese. Comunque sia, Costanzo dimostra di assimilare nella propria architettura la lezione della storia che, attraverso una considerevole abilità grafica nell’articolazione delle forme e un forte senso di equilibrio nella composizione volumetrica, trascende il passato con nuovi apporti non privi di originalità. 

Analoghe considerazioni possono farsi per il palazzo del barone Mistretta, in piazza Umberto I. 

Il palazzo Mistretta, anch’esso realizzato in muratura portante con pietra a faccia vista, si articola su tre livelli: piano terra, piano nobile e mezzanino. Il prospetto sulla piazza riflette l’uso interno dei piani ed è quindi tripartito: il piano terra, destinato a magazzini, si presenta con una teoria di aperture a fornice; l’ingresso principale è inserito in un leggero risalto che comprende tutte le elevazioni. Il piano nobile è articolato da coppie di paraste ioniche e lesene pensili, alternate a balconi a petto in asse sia con le aperture sottostanti sia con quelle del mezzanino, ed è concluso da una evidente cornice che lo separa dal piano superiore, presumibilmente destinato alla servitù. 

La tipologia trova ancora echi nell’arte del Cinquecento, ma l’astratto rigore geometrico del secondo rinascimento, che Costanzo adotta nella cappella Sorce-Malaspina, ha qui lasciato il posto ad un pregevole virtuosismo grafico, in particolare nelle mostre e nei decorativi rilievi sopra i balconi; non si può escludere che sia stata la stessa committenza a richiedere una maggiore enfasi formale quale simbolo evidente di un solido status economico. Osservando il palazzo con attenzione, si nota come il risalto centrale paradossalmente non sia al centro. Ovvero, sul lato destro si trovano due moduli di balconi compresi tra paraste binate, mentre sul lato sinistro si trova un unico modulo. Tuttavia, esaminando la cornice del lato destro, si nota che rigira ad angolo retto per attestarsi come limite laterale del palazzo. La cornice del lato opposto, invece, prosegue rettilinea per un breve tratto oltre le ultime paraste, segno che la costruzione sarebbe dovuta continuare nel sito oggi occupato da un altro fabbricato, il cui fronte equivale proprio ad un modulo del palazzo. Anche nel paramento lapideo è evidente la predisposizione all’ammorsamento con altra struttura laterale, cioè con il modulo del palazzo forse originariamente prevista, ma non realizzata. Non sappiamo per quale motivo il palazzo venga ridimensionato; fortunatamente, il risalto centrale, poco accentuato, rende meno evidente lo squilibrio della facciata, che rimane, però, degna di merito per il rapporto proporzionale tra piano terra e piano nobile e per l’eleganza degli intagli, pur notandosi qualche forzatura compositiva proprio nell’innesto del risalto sulla facciata. Questo palazzo è solo il prologo dell’intervento che più di qualunque altro caratterizza urbanisticamente l’espansione di Mussomeli extra moenia: «la bella e moderna via Palermo», per citare l’articolo del 1955 di Raimondo Piazza sull’architetto mussomelese. 

L’idea di un tessuto stradale che costituisse la matrice della nuova espansione edilizia non è estranea alla cultura siciliana: validi esempi si riscontrano a Palermo nella settecentesca addizione regalmicea o nella via della Libertà che si realizza a metà dell’Ottocento7. E certamente sulla base di questa nuova cultura urbanistica che Costanzo immagina la strada capace di regolare la nuova espansione all’abitato verso est e collegarsi con la provinciale che porta alla stazione ferroviaria e alla statale Palermo-Agrigento. Ma maggiori pregi di questa nuova strada si ritrovano soprattutto nelle qualità dello spazio, nelle proporzioni complessive della sezione, nel confluire elegante verso la piazza Umberto I. 

Nonostante l’importanza architettonico-urbanistica, l’approvazione del nuovo tracciato stradale non è immediata. Pare che l’architetto trovi forti resistenze non solo da parte dei proprietari delle aree da espropriare, ma persino da parte dell’ Amministrazione comunale, che difficilmente può comprendere lo spreco di tanto suolo edificabile. Superate le resistenze e i particolarismi, l’opera viene realizzata. Purtroppo oggi, il valore di exemplum viene trascurato: l’attuale sviluppo urbanistico dell’abitato mette in evidenza soprattutto atteggiamenti speculativi che, per soddisfare interessi personali, ignorano quella che è la più elementare istanza di una società civile: la qualità ambientale. È proprio vero, come scrive Giuseppe Spatrisano, che «ogni epoca esprime la propria condizione materiale, morale e spirituale [ … ] nell’architettura, per quel rapporto fisico e profondamente umano che essa ha con la società»8. 

I lavori di cui si è detto costituiscono solo frammenti dell’intensa attività progettuale dell’ architetto Costanzo. Ad esempio, nel 1867, per tutto l’anno solare, l’architetto si occupa delle «fabbriche di campagna dello Stato di Mussomeli di proprietà degli eredi del principe di Trabia»9. Un documento dello stesso anno conferma la sua presenza anche nel castello, per interventi di manutenzione10. Nel 1870 è incaricato dal Comune del completamento della piazza Sant’Antonioll . Nel 1872, in esecuzione della legge del 1865 sulla sanità pubblica, che vieta la tumulazione dei defunti nelle chiese dell’ abitato, l’architetto redige il progetto per la costruzione del cimitero. Il complesso funerario comprende anche la costruzione di una cappella, di una stanza mortuaria e una per il custode, cui si è accennato. 

Nel 1883 Costanzo si occupa del progetto di rifunzionalizzazione dell’ex convento di San Domenico, destinato a scuola elementare. Giuseppe Sorge, nelle sue Cronache, scrive che l’architetto, nell’esercizio professionale, dirige lavori di costruzione per conto del municipio, delle chiese, dell’amministrazione Trabia e di altra committenza12. 

Possiamo supporre, pertanto, la sua influenza, se non proprio il suo intervento, nei prospetti delle chiese di Sant’Enrico e soprattutto di Sant’Antonio, ascrivibili agli anni della sua attività e stilisticamente coerenti con la sua poetica. La facciata della chiesa di Sant’Antonio, ad esempio, oltre ad essere ispirata morfologicamente e sintatticamente all’arte del Cinquecento, presenta in sommità quelle singolari volute a quarto di cerchio che abbiamo già osservato nella cappella Sorce-Malaspina. Si evidenzia in queste opere una predilezione per l’esibizione dei materiali naturali, soprattutto la pietra, modellata con singolare maestria. 

L’opera di Salvatore Costanzo connota profondamente l’attuale morfologia dell’abitato. I risultati ottenuti nel campo della tecnica, del restauro, dell ‘ architettura, dell’urbanistica, dell’ arredo urbano, almeno nell’accezione ottocentesca dei termini, impongono uno studio approfondito della sua operal3, congiuntamente a quella di molti altri architetti operanti all’ombra di «centri minori». In questo modo emergerebbe un quadro più esaustivo di quello che, senza dubbio, può essere considerato tra i più complessi e contraddittori, nonché fecondi, periodi della storia dell’architettura: l’Ottocento. 

Raimondo Piazza

NOTE 

1 La prima pubblicazione di rilievo, dove si trovano notizie sull’architetto Costanzo è dello storico Giuseppe Sorge, Mussomeli nel XIX secolo, 1812-1900, Palermo 1931; una seconda è dello studioso Raimondo Piazza, La bella e moderna via Palermo, testamento ideale di Salvatore Costanzo, «Giornale di Sicilia», 3 setto 1955, p. 5. 
2 Pur non volendosi sminuire la dimostrata attendibilità degli autori, poiché le notizie riportate nelle fonti bibliografiche non sono riconducibili a documenti di archivio, saranno presi in considerazione solamente i dati ritenuti attendibili sulla paternità e la datazione di alcuni progetti. 
3 La cattedra di architettura tecnica viene affidata, nel 1837, all’appena venti sei enne Carlo Giachery, che la manterrà fino al 1852. 
4 R. Piazza, La bella e moderna , cit. 
5 Lo stesso Costanzo dimostrerà di cogliere questa valenza revivalistica nella modesta chiesa del cimitero di Mussomeli (1872), dove mutua elementi desunti sia dall’ architettura gotica sia da quella paleocristiana, forse con l’intento di conferire una maggiore spiritualità ad un luogo così sacro. Allo stato attuale degli studi, la chiesa del cimitero costituisce soltanto l’eccezione di una visione prevalentemente classicista dell’architettura. 
6 Il primo intervento in cui Costanzo mostra approfondite conoscenze tecniche e di idraulica è la riforma dell’impianto idrico comunale attraverso una nuova conduttura d’acqua che dalla contrada Bosco confluisce in una fontana posta nel centro dell’abitato di Mussomeli, dinanzi al palazzo Trabia, oggi piazza Roma (1867). L’architetto sostituisce la precedente conduttura in tubi di argilla con elementi in ferro fuso, che possano resistere alla pressione di ben sedici atmosfere, importati direttamente dell’Inghilterra, all’avanguardia in Europa. Il percorso studiato dall’ archi tetto per la nuova conduttura attraversa ambiti irregolari e scoscesi, come i burroni nella zona dell’ Annivina, conseguendo una sostanziale riduzione della lunghezza complessiva delle tubazioni rispetto all’impianto precedente, che portava l’acqua nell’attuale piazza Umberto I. Alcuni anni dopo, Costanzo progetta il pubblico lavatoio presso la fontana dell’Annivina (1872), nel periodo in cui la zona viene dotata della strada carrabile di circonvallazione. Il lavatoio merita particolare interesse per i rilievi lapidei che vi sono integrati. Nel 1874, poiché l’Amministrazione comunale vuole rendere agevole agli abitanti la presa dell’acqua per uso domestico, egli progetta delle fontanelle a getto intermittente che vengono collocate in vari punti del paese e in cui confluisce, attraverso diramazioni realizzate con tubi in ghisa, l’acqua della condotta principale. Altra conduttura viene realizzata nel 1882, insieme a un abbeveratoio nella «via del Signore», presso la chiesa di Santa Maria. 
7 Si consideri la riqualificazione parigina con arterie spaziose e rettilinee ad opera del barone Haussmann, prefetto della Senna dal 1853 al ’69, che assume in Europa un valore ecumenico. In Italia sono poche le città dove non si realizzi una strada in linea retta fra il centro e la stazione ferroviaria: via Nazionale a Roma, via Indipendenza a Bologna, via Roma a Torino e Palermo, mentre nella Firenze capitale d’Italia l’intervento è ancora più comprensivo. 
8 Cito in Vincenza Balistreri (a cura di), con scritti di Raimondo Piazza e Agnese Sinagra, Giuseppe Spatrisano architetto (1899 – 1985), Palermo 2001. 
9 Archivio di Stato di Palermo, Fondo Trabia, Serie A, voI. 509: comprende fasc. 1-2-3-4, Mussomeli. Cautele e spese 18561868, fasc. 4, f. 38, anno 1867: «Nota di giorni di servizio prestati dall’architetto Salvatore Costanzo per le fabbriche di campagna dello Stato di Mussomeli di proprietà delli eredi del Principe di Trabia da gennaio a dicembre». 
10 Ivi. 
11 Archivio Storico di Caltanissetta, Deliberazioni comunali, delibera 1085 della Prefettura di Caltanissetta, 11 luglio 1970. 
12 G. Sorge, Mussomeli nel sec. XIX. 1812-1900. Cronache, Palermo 1931, p. 139. 
13 Molti sono, infatti, i punti ancora da chiarire: ad esempio, ci si chiede perché i suoi primi interventi documentati risalgano al 1867, quando l’architetto ha quasi quarant’anni; qual è stata la sua attività, anche progettuale? In quale ambito territoriale opera? 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 33-38.