UN TRENO CHIAMATO MORTE 

Pi Lai (n. 1987, Pechino) 

La speranza non c’è ed il dolore 
non dura per natura. 
Al via si slancia 
il treno del mattino contro il vento. 
Tesse la gente un lungo andirivieni 
per le strade costrette: tutti stretti 
per amore o per odio … Chi lo sa? 
E la città 
trabocca di notizie-imprecazioni 
di morte 
con fragore di vetri 
che il capriccio innocente di bambini 
manda in frantumi 
per gioco in un allegro girotondo. 
Il mondo 
è un concerto di suoni e di motori: 
le nuove voci prive di motivi 
consolatori. 
Più non ci sono orecchie per intendere 
e il cielo è chiuso in sé 
senza una nuvola 
che prometta una pioggia di ristoro. 

Pi Lai

Traduzione dalla lingua cinese di Veronica Ciolli, versione di Patricia Lolli e Renzo Mazzone. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 39.




 L’osservatorio astronomico di Palermo 

Chiara testimonianza scientifica e patrimonio storico, l’osservatorio astronomico di Palermo si eleva su un’ala dell’antico Palazzo Reale, valida immagine che, alla fine del XVIII secolo, rappresentò il mezzo più significativo dell’astronomia moderna italiana. 

Con la determinazione del moto proprio di oltre 1000 stelle e, nel 180l, con la scoperta del primo asteroide, Cerere, collocato in un’orbita tra Marte e Giove, l’astronomo abate Giuseppe Piazzi portò l’osservatorio di Palermo all’attenzione del mondo scientifico di allora, facendogli occupare uno dei primi posti in Europa nella ricerca e studio del cielo settentrionale. 

Piazzi nacque nel 1746 a Ponte in Valtellina (Sondrio) e nel 1789 fu il primo ad organizzare a Palermo l’osservatorio astronomico. La scoperta di Cerere gli procurò una vasta simpatia e particolarmente quella dell’ammiraglio inglese William Hemy Smyth, che si trovava a Napoli per alcuni lavori di idrografia. Nel 1819, lo stesso ammiraglio diede ad un suo figlio il nome di Charles Piazzi Smyth, il quale divenne, in seguito, regio astronomo per la Scozia e direttore dell’osservatorio di Edimburgo; a lui si attribuisce il calcolo delle misure della piramide di Cheope. Si sottolinea che l’istituzione dell’osservatorio astronomico di Palermo sollecitò l’interesse delle altre città italiane, tanto da dare un impulso alla costruzione di una serie di alquanto modesti osservatori, aggregati alle rispettive Università di Bologna, di Pisa, di Torino, di Milano, di Padova e di Firenze. 

Oggi, uno dei più importanti cataloghi stellari è quello pubblicato nel 1803 da Piazzi, in edizione riveduta nel 1814 e messo in commercio nel 1933, dopo essere stato sottoposto ad un lungo e laborioso esame e poi ridotto da Francesco Porro per le sole ascensioni rette e, ulteriormente, completato nelle declinazioni. 

Giova precisare che 1’osservatorio di Palermo nacque su un progetto scientifico elaborato nel 1786, contemporaneamente alla istituzione di unacattedra di Astronomia presso l’Accademia dei Regi Studi1 e costruito, in appena otto mesi di lavoro, nella Torre di S. Ninfa, o Pisana, del Palazzo Reale. Ufficialmente fondato il l° luglio 1790, l’osservatorio s’impose subito come uno dei migliori esistenti in Europa, sia per la sofisticata strumentazione che per le felici ricerche scientifiche. Dopo la morte dell’abate Giuseppe Piazzi, ebbe la direzione dell’osservatorio di Palermo il suo stretto collaboratore Niccolò Cacciatore e dopo, nel 1842, il di lui figlio Gaetano. 

Nel 1853, a causa dei moti rivoluzionari del 1848, l’astronomia in Sicilia e bassa Italia subì un arresto, risvegliandosi soltanto per opera dell’astronomo Domenico Ragona che, nel 1855, acquistò il rifrattore equatoriale Mertz di 25 cm. di apertura, attualmente esistente nella cupola grande della Torre Pisana. Con l’unificazione italiana, l’astronomo Gaetano Cacciatore, prima allontanato dall’incarico e incarcerato (1849), quale rivoluzionario, venne reintegrato nella carica di direttore dell’osservatorio di Palermo e riprese la sua intensa attività, sviluppandola, ulteriormente, nelle tre sezioni, di Astronomia, Meteorologia ed Astrofisica. Nella sezione di Astrofisica, dal 1863 al 1879, si distingue il primo astronomo aggiunto Pietro Tacchini, il quale, dopo circa dieci anni di giacenza in magazzino, riesce a montare (1865) l’equatoriale Mertz e a dare inizio, primo in Italia, allo studio spettroscopico delle protuberanze solari. La figura di Pietro Tacchini s’inserisce fra quelle appartenenti a scienziati di fama mondiale, specialmente per essersi trovato fra i sostenitori e poi fondatori degli spettroscopisti italiani, che diedero origine all’attuale «Società Astronomica italiana» (S.A.It.). 

Purtroppo, l’osservatorio di Palermo è una costruzione che sempre è stata soggetta ad oscillazioni quotidiane per la sensibile escursione termica, dalla notte al giorno e viceversa, nonché a deviazioni del piano meridiano; elementi questi che influenzarono gli errori sulle osservazioni fatte dal Piazzi e che oggi si assommano alle cattive condizioni ambientali esterne ed interne. 

I palermitani, passando per Piazza Indipendenza e per le aree adiacenti, ammirano l’argentea cupola astronomica di Palazzo Reale e si domandano che se n’è fatto del vecchio e famoso osservatorio e se ancora oggi ha la sua giusta funzione nello studio della sfera celeste accanto ad altri osservatori nazionali. 

La risposta, purtroppo, sarebbe molto deludente per il profano, anche se confortata da vecchi attributi di gloria. Allo stato attuale, anche quando se ne avesse la volontà, non si potrebbe intraprendere alcuno studio stellare, neppure a livello didattico, ad eccezione di osservazioni visuali dei grossi corpi solari, come la Luna, Venere, Giove e Saturno. A questa limitazione concorrono soprattutto l’inquinamento atmosferico e le abbondanti luci cittadine. 

Nonostante quanto si è detto, la cupola più grande (m. 12 di diametro), continua ad ospitare, con muta dignità, il già menzionato rifrattore di di 25 cm., mentre quella più piccola, un recente Schmidt-Cassegrain di 35 cm. di diametro, che viene usato dall’Istituto universitario. 

Il vecchio e prezioso «Cerchio di Rarnsden», costruito dallo stesso Ramsden, sotto gli occhi del Piazzi e con cui l’abate aveva studiato le stelle e scoperto Cerere, illuminato da una flebile lampada elettrica, resta relegato in un angusto ambiente, immeritato destino di un valoroso guerriero, chiuso in prospetto da una impolverata e grande vetrata, attraverso cui il lucente ottone dello strumento viene intravisto dall’ammirato nostalgico. 

Ma la tristezza non s’addice ai giovani scienziati che dirigono l’osservatorio di Palermo, tanto che, negli ultimi cinque anni, lo studio della fisica solare rappresenta l’unico orientamento tradizionalistico dell’osservatorio astronomico che, sotto la guida degli illustri astrofisici G. Vajana e S. Serio, non può non aspirare ad una rapida rimonta per riprendere il posto fra gli osservatori più importanti d’Europa. Certamente, un’adeguata attrezzatura operativa, dislocata in area montana del palermitano, dove un fotometro a 4 colori potrà scandagliare il cielo nel lontano infrarosso, stabilirà i meriti che competono alla specola siciliana. 

A. Pezzati 

1 L’Accademia de’ Regi Studi era un settore della pubblica istruzione, organizzato dalla «Deputazione de’ Regi Studi», organo creato dal governo borbonico nel 1778. 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 43-45.




LUCIA MEZZASALMA, Amo la pace, poesie, I.l.a. Palma, Palermo, 2006.

La poesia come messaggio sociale 

Dopo Amo la vita del 1999 Lucia Mezzasalma è tornata a sorprenderci con una nuova silloge lirica dai toni pacati e sereni, ispirata a temi universali: la pace, l’incontro tra i popoli, la solidarietà, l’amore per la vita … Ed è questa sua capacità di saper saldare lirica ed etica. visionarietà e saggezza, che marca a tinte forti l’appartenenza ad una cultura intrisa di valori, tradizioni e sentimenti. Una cultura in contrasto con quella formale alla moda, che usa tutti i mezzi per ridurla a espressione di controcultura. La quale non risparmia nessuno dei media, conniventi nelle ipocrisie con cui si offrono i fatti all’opinione pubblica; agli inganni del capitalismo sfrenato, della falsa democrazia; alla miopi a degli intellettuali che non vedono le dinamiche del mondo. 

I fatti che cita ricordano tante tragedie dimenticate, i falsi miti del mondo d’oggi, spiegato come prosperità e acquiescenza all’amore del cosiddetto consumismo, in un ordine in cui la deregulation significa nessuna regola di vita associata al cinismo individuale. A cominciare dal mondo del lavoro, coi suoi falsi miti, come quello dei vantaggidella flessibilità indiscriminata, che tradotta in parole povere significa: «se oggi avete un lavoro, domani chissà». Il risultato è un baratro che aumenta l’insicurezza e minaccia la società, strangolata nella morsa tra i privilegi di pochi e la riduzione dei diritti dei molti. 

Come milioni di altri uomini subiamo un bombardamento di bugie sull’economia, sulla sanità, sulla qualità della vita, e giorno dopo giorno sentiamo il bisogno di dire basta e riprendere il filo di un ragionamento, così come ha fatto Lucia Mezzasalma. In Amo la Pace, il verso suona vasto, ridondando dignità e altezza alla parola, oggi così abusata e vana. Difficilmente in poesia si trova questa globalità, resa come se avesse il compito di innalzare la parola ad invocazione universale purificante. 

Questo libro si impone come voce di tantissime voci che non hanno tempo e rappresentano il dramma di una umanità nella sua intima storia. E non serve citare questa o quella poesia, perché l’intera silloge si muove sul filo della memoria, per visitare le note tristi dei periodi bui della vita e chiedere ai ricordi il senso di ciò che accade; per riconfermare alla vita la voglia di esserne partecipe e offrire un contributo per l’affermazione della pace e dell’ amore. 

Un libro nel quale la donna e il poeta camminano insieme e l’Autrice non si risparmia in sincerità, come nel suo primo libro Amo la vita, dove c’è già il nucleo del messaggio spirituale che Lucia sviluppa in Amo la Pace, in un crescendo di visione allargata per un programma di pace e di incontro con l’altro, sia l’espressione dei nostri fantasmi inconsci, sia l’uomo estraneo al suo stesso nucleo sociale e dunque nemico … 

La poesia ha certo una funzione di ricerca ontologica, ma non ha poteri taumaturgici per guarire i mali del mondo. E tuttavia essa può rappresentare una spina nel fianco della demenziale attitudine alla sopraffazione e all’egoismo; può rappresentare un grido di protesta lanciato a profanare i sacrari della prepotenza ideologica e sociale; può rappresentare un momento di riflessione e uno stimolo all’azione. 

Adriano Peritore

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 61-62.




 L’arte in Sicilia alle porte della Seconda Guerra Mondiale  e i suoi protagonisti 

Nel 1934 la pittrice siciliana Lia Pasquali no Noto, in re lazione alla cultura figurativa isolana del proprio tempo, così scriveva su un noto quotidiano di Palermo: “Noi viaggiamo molto, ma non emigreremo’ poiché crediamo oggi di avere il diritto di lavorare nella nostra casa senza essere perciò dimenticati”’. 

La frase esemplificava con lucidità la particolare situazione delle arti in Sicilia nel terzo decennio del ventesimo secolo: a cavallo fra necessità di innovazione attraverso stimoli e intuizioni provenienti dall’Europa in fermento culturale e imperativa volontà di mantenere la propria originarietà. 

L’ originarietà, o meglio forse la sicilianità, cui alludeva la Pasqualino Noto, la casa dove si ha diritto di rimanere senza essere dimenticati , doveva, infatti , possiamo oggi dedurre, prevedere, al suo interno, la coabitazione di indigeno, storico e moderno attraverso un nuovo alfabeto artistico in grado di consolidare la cultura figurativa dell’isola e formulare una nuova identità creativa: siciliana, italiana, europea.2 

Al termine degli anni venti, infatti , sommariamente, questo era il contesto artistico siciliano con cui la giovane Pasquali no Noto si era nutrita: un terreno culturale in bilico fra forze creative centripete – qualche stridio folclorico, qualche filo di retorica filonazionale – e centifughe – le mode decorative europee del Liberty – cui si era aggiunta la meteora futuri sta3. 

Come infatti scrive Anna Maria Ruta, […] lazione e la produzione futurista ebbero il grande merito di ridestare anch ‘esse l’ambiente siciliano, pur senza quel felice connubio operativo tra industriali, artigiani e artisti della precedente generazione dei Florio, dei Basile, dei Ducrot4. 

Fu a Messina che precocemente il Futurismo si manifestò: Messina […] per la sua stessa condizione di città tragicamente terremotata e pertanto tutta tesa verso l’avvenire e la ricostruzione, sembrava il simbolo stesso del futuro e, per la sua posizione geo-culturale di città di punta dell’isola, naturalmente protesa verso lItalia e l‘Europa, avvertiva in modo più vivace e impellente lo stimolo allo scambio e al nuovo5. 

A Catania, inoltre, presso la redazione della Gazzetta della Sera, mosse i primi passi nelle vesti di giornalista il futuro celebre pittore Umberto Boccioni, adolescente, che proprio dalla città etnea, ignaro del suo talento, scrisse alla madre di avere appena intrapreso l’arte del disegno per diventare illustratore6. 

1. L. Pasqualino Noto, Arte Moderna in Sicilia, in L’Ora, Palermo, 20 Luglio 1934. 

2. AI riguardo S. Troisi, Arte in Sicilia negli anni Trenta, in AA.VV., Arte in Sicilia negli anni Trenta, Milano, 1996. 

3. S. Troisi, I Florio e la cultura artistica in Sicilia fra Ottocento e Novecento, in, (a cura di R. Giuffrida e R. Lentini) L’edei Florio, Palermo, 1986. 

4. A. M. Ruta, Palermo, Messina, Catania e Sicilia, in (a cura di E. Crispolti) Futurismo e Meridione, Napoli, 1996. 

5. A. M. Ruta, Palermo … op. cit, 1996. Pag. 416. 

6. G. Agnese, Gli anni di Catania nella formazione del giovane Boccioni, in (a cura di E. Crispolti) ibidem 

Da un esame formale notiamo che la pittura siciliana futurista nasce dalla rilettura della ricerca figurativa romana. A Roma infatti era cresciuto il suo protagonista, il corleonese Pippo Rizzo, grazie alla familiarità con Balla, Boccioni, Dottori, Bragaglia, Prampolini, e Depero. Quest’ultimo aveva pure lavorato, negli stessi anni, in Sicilia, a Terme Vigliatore, nella provincia di Messina, alla realizzazione, unica per la realtà locale, di una dimora privata signorile, Casa Jannelli7. 

Rientrato a Palermo Rizzo, portò con sé le novità figurative che gli erano più affini e che maggiormente finirono con lo stimolare la pittura futurista palermitana degli anni venti, i modelli di […] Balla e Dottori, l‘uno per le ricerche condotte sulla scomposizione della luce, per le compenetrazioni ottiche e per il nitido esercizio cromatico, nonché per un dinamismo meno accentuato e dirompente rispetto alle soluzioni esplosive di un Boccioni o di un Severini, l‘altro per la semplicità e liricità dei suoi paesaggi umbri, manipolati con colori tenui certi verdi intensi e smorzati insieme con certi caldi blu -, che richiamano scopertamente squarci della campagna siciliana, sempre presente in tutta la poetica del futurismo isolano, in stretta collusione con gli elementi metropolitani e tecnologico-industriali tipici del movimento8. 

La Casa d’arte di Balla costituì il modello della casa creata da Pippo Rjzzo a Palermo, che a ‘sua volta fu esempio per l’attività promossa da due artiste siciliane: Rosita Lo Jacono9 e Gigia Coronal0. 

Corona e Varvaro accompagnarono Rizzo nella sua avventura futurista palermitana. Gli stessi e Rizzo esposero nel giugno del 1927 insieme ai maggiori esponenti del movimento in Italia, alla Mostra d‘arte Futurista nazionale, grazie alla quale, come diceva Rizzo, Palermo finalmente entrò nel numero delle città moderne”. 

L’anno precedente Rizzo e Corona avevano esposto, su invito di Marinetti, nella sala futurista della Biennale di Venezia. Nel 1928 tutto il gruppo dei futuristi siciliani partecipò pure alla Biennale accolti dalla sua massima autorità, lo scultore Antonio Maraini. 

L’avventura futurista terminò il suo periodo di splendore nel 1929. Contemporaneamente Rizzo pubblicò Arte futurista italiana, numero unico della rivista che ebbe il pregio di tentare una presentazione complessiva delle tendenze pittoriche e letterarie futuriste della Sicilia occidentale e nel 1930, infatti, la componente dei futuristi che presero parte alla Biennale di Venezia fu molto esigua. 

7. A.M. Ruta, Casa Jannelli a Terme Vigliatore, in (a cura di E. Crispolti) ibidem. 

8. A. M. Ruta, Palermo op. cit., 1996. Pag. 411. 

In seguito, dal luglio del 1929 al luglio del 1930, Rizzo diresse il Bollettino dell arte, l’organo mensile del Sindacato fascista degli artisti siciliani, prima di 

riprendere la via diRoma, avvenuta nel 1933. L’ obiettivo era ora di proiettare, attraverso il nuovo prodotto editoriale, la funzione costruttiva dell’attività degli artisti siciliani nel contesto più vasto dell’arte nazionale ed europea contemporanea. 

La più pregevole pagina di storia dell ‘arte futurista che ancora oggi permane a Palermo è costituita dalla realizzazione del Palazzo delle Poste in via Roma. 

Il progetto del palazzo di Palermo, così come quello di Agrigento e Ragusa, era stato affidato a Angiolo Mazzonj, direttore della rivista Sant’Elia-Futurismo e firmatario, insieme a Somenzi e Marinetti del Manifesto dell Architettura Aerea. 

Il palazzo, monumento pubblico di regime, sembra ancora oggi affermare le coordinate artistiche affioranti sulla scena artistica italiana del tempo senza rinunciare alla qualità storica del territorio della Sicilia. 

Il prospetto, ad esempio, magniloquente e imponente, dalle grandi arcate, ricorda le città 

metafisiche di De Chirico. All’interno la varietà delle tecniche e dei materiali impiegati rammenta 

la sperimentazione operativa che dali art nouveau in poi ha attraversato l’Italia, Palermo in prima linea, nell’uso dei marmi colorati, della ceramica, il rame, e il vetro che evocano pure l’ attività feconda delle case d’ arte futuriste. Le possenti colonne dell’accesso inequivocabilmente conservano suggestioni provocate dai vicini resti antichj di Segesta e Selinunte. Dunque, come ricorda A. M. Ruta: Nel lavoro di Mazzoni emerge la complessa alternanza di elementi segnati da una indiscutibile vena inventiva e da una originalità di ricerca in linea con le più. sofisticate tendenze razionalistiche f. .. p>. 

Il palazzo costituisce un piccolo ma prezioso museo futurista, nel quale oltre al progetto di Mazzoni, sono visibili capolavori delle arti applicate prodotte nel territorio. Sono presenti nella stanza del Direttore tempere e tappeti di Paolo Bevilacqua13 cui si unisce la collaborazione di Manlio Giarrizzo, Leo Castro, Pippo Rizzo e Gino Morici. Cinque tempere ad encausto di Benedetta Cappa14 – Sintesi delle comunicazioni terrestri, marittime, aeree, telegrafiche e telefoniche, radio foniche – moglie di Marinetti arricchiscono la sala delle Conferenze, cui si aggiungono due tele di Tato facenti parte di un trittico esposto alla Quadriennale di Roma del 1931, Il lavoro e Giovinezza fascista15. 

9 – Sulla personalità eclettica di Rosita Lo Jacono, dedita alla promozione delle arti applicate all’inizio del secolo XX in Sicilia, vedere: A. M. Ruta, Arredifuturisti, Palermo, 1985. 

10 – Gigia Zamparo Corona, friulana, creò con il marito Vittorio Corona, nella loro casa di via Candelai 59 a Palermo, nel 1926, un rinomato laboratorio artistico. Vedere: E. Di Stefano, Il Futurismo in Sicilia, in, a cura di V. Fagone, Gli artisti siciliani 1925 – 1975, Capo d’ Orlando, 1976. 

11 – Le parole di Rizzo sono tratte da A. M. Ruta, Palermo .. . op. cit, 1996. Pag. 413 

12 – A. M. Ruta, Nel palazzo delle Poste, a Palermo, (a cura di E. Crispolti) ibidem. 

13 – A. M. Ruta, Nel palazzoop. cit. Pag. 229. [Bevilacqua] Direttore dell’Istituto d’Arte di Palermo, artista duttile, moderno, proiettato verso il rinnovamento, senza peccati di sicilitudine, ammiratore di Giò Ponti e allento a lUllO ciò che di illleressante si produceva in ambito internazionale, fu l’unico siciliano cui fu affidato l’incarico di realizzare un progetto completo, seppur limitato ad una stanza, nel palazzo. Bevilacqua progettò mobili dall impianto novecentista sobrio e lineare, eseguiti dalla ditta Ducrot, amalgamando qualità della materia, gusto pittorico-decorativo e funzionalità, e ravvivandoli con luso dell’intarsio, in cui è possibile che gli sia stata presente la lezione di Depero, che in quegli anni ideava mobili in bu.xus. 

14 – Le tele di Benedetta, Sintesi delle comunicazioni terrestri, marittime, aeree, telegrafiche e telefoniche, radiofoniche furono dipinte fra il 1933 e il 1934. 

15 – La terza tela del Trittico era Lo sport.

Alla fine degli anni venti il panorama artistico a Palermo, dunque, aveva assunto una poliedricità di forme grazie pure alla presenza in Sicilia, dal 1928, del Sindacato regionale delle belle arti. L’istituzione, voluta dallo stato fascista [...] ebbe almeno tre conseguenze immediate: J) il confluire del vivace drappello dei futuristi siciliani nei ranghi di un novecentismo più o meno di maniera; 2) un maggiore spazio dato dalla stampa locale alle questioni dell‘arte, mentre l’episodio futurista aveva incontrato sempre una certa ostilità; 3) l‘affermazione nel giro di pochi anni di una nuova generazione di artisti16. 

L’ istituzione fascista dei sindacati era nata con l’obiettivo di creare opportunità espositive omogenee per tutti gli artisti della penisola. 

Già nel decennio precedente era maturata in Italia una forma di familiarizzazione fra ambienti fascisti e futuristi. 

Infatti, come ricorda Perfetti: La contiguità tra futurismo e fascismo movimentista fu certo riscontrabile in tutta Italia proprio per una comunanza di sentimenti e atteggiamenti di fronte alla guerra, al dopoguerra, alla stessa concezione della vita, ma nel Meridione essa si rafforzò, probabilmente anche per altre motivazioni riconducibili al desiderio di abbandonare un’atavica situazione di marginalità territoriale e di arretratezza economicosociale proprio in virtù della combinazione di due movimenti, l‘uno politico l’altro culturale, caratterizzati da una proiezione verso la modernità e verso i suoi miti, da quello industrialista a quello della creazione di un uomo vero17. 

All’inizio degli anni trenta, l’istituzione dei sindacati si proponeva nel contesto siciliano come un tramite che avrebbe consentito di superare il limite della distanza rispetto agli epicentri culturali della nazione. I sindacati in cui si ramificava l’istituzione nazionale erano diciotto e costituivano una sorta di vivaio destinato alla selezione delle presenze da inviare alle mostre maggiori, quali erano le Quadriennali di Roma e le Biennali di Venezia. 

La strategia delle mostre, nell’Italia fascista, era fondata sull ‘ampia diffusione delle stesse nell’intero territorio nazionale e su di un ‘organizzazione espositiva gerarchica (Biennali, Quadriennali e Interregionali) non facente leva su norme iconografiche e stilistiche. 

All’atto della costituzione il sindacato siciliano si suddivideva in occidentale e orientale. Il sindacato occidentale era guidato il primo anno di attività da Rocco Lentini18, il successivo da Pippo Rizzo. Il nucleo iniziale del sindacato era composto dagli elementi che nel 1925 avevano esposto alla Mostra d’arte primaverile siciliana: un drappello di giovani determinati a svecchiare la pittura locale. 

La I mostra del Sindacato ebbe luogo a Villa Gallidoro il 23 aprile 1928 dove Rizzo e Corona esposero ancora tele futuriste; la II Mostra del Sindacato, nell’anno successivo, diversamente, testimoniò il mutato clima culturale: la mostra, infatti, era concepita in due sezioni: una retrospettiva dell’Ottocento siciliano cui si aggiungeva un’ampia panoramica di pittura moderna composta da circa settanta artisti presenti con più opere. 

16 – E. Di Stefano, Palermo anni ’30: Lia Pasqualino Noto e il Gruppo dei Quattro, in Lia Pasqualino Noto, Milano, 1984. Pag. 15. 

17 – F. Perfetti, Futurismo, fascismo e Meridione, (a cura di E. Crispolti) ibidem. 

18 -Rocco Lentini, palermitano, pittore della cerchia di Lo Jacono, fu prioritarimente paesaggista. 

La I mostra del Sindacato ebbe luogo a Villa Gallidoro il 23 aprile 1928 dove Rizzo e Corona esposero ancora tele futuriste; la II Mostra del Sindacato, nell’anno successivo, diversamente, testimoniò il mutato clima culturale: la mostra, infatti, era concepita in due sezioni: una retrospettiva dell’Ottocento siciliano cui si aggiungeva un’ampia panoramica di pittura moderna composta da circa settanta artisti presenti con più opere. 

La sezione antica aveva il compito di accreditare storicamente la più recente che era composta da un nutrito gruppo di “novecentisti”: Giarrizzo, Catalano, Schmiedt, Mimì Lazzaro, Bevilacqua e i giovanissimi Lia Noto e Renato Guttuso. Nel 1929, inoltre, un gruppo di diciotto artisti fra cui la Pasqualino Noto, Guttuso, Rizzo, Catalano, Castro e Giarrizzo esponeva a Roma presso la Camerata degli artisti, ovvero partecipava alla mostra che ancora oggi rappresenta la piena affermazione del novecentismo siciliano. 

Nel 1931 il sindacato dominava completamente la vita artistica palermitana; malgrado ciò, Rizzo, manager e promotore dell’attività, riuscì a inviare pochi nomi siciliani alla l Quadriennale: Amorelli , Giarrizzo, Bevilacqua, Casto e Guttuso. Quest’ultimo lo stesso anno esponeva a Palermo nella Mostra dei dieci giovani. 

La III mostra sindacale del 1932 rappresentò l’espressione del consolidamento della presenza del novecentismo a Palermo; nell’occasione il Municipio di Palermo, il Ministero dell’educazione nazionale e il Banco di Sicilia, realizzarono parecchi acquisti , indice che la manifestazione godette di un notevole riscontro nell’opinione pubblica. Lo stesso anno Rizzo inviò una selezione di opere da presentare prima a Milano alla Galleria del Milione, dunque a Roma presso la galleria diretta da Piermaria Bardi. Questi due eventi espositivi nella penisola furono definiti da Rizzo stesso una felice conseguenza dellopera di propaganda e valorizzazione che esso ha finora svolto a pro dell’Arte Siciliana19. 

Scrisse Guttuso a proposito dell’esposizione milanese: Questa esposizione vuole soprattutto dimostrare la presenza di un gruppo di siciliani nel movimento artistico nazionale: presenza tutt’altro che trascurabile. Se si pensa che cosa era fino a sette od otto anni fa la Sicilia artistica, se si guardano le ultime esposizioni del Sindacato regionale e la odierna al Milione si può vedere quale e quanto cammino s‘è fatto20. 

Il critico Raffaello Giolli, sul Giornale d’Italia, individuò all’interno della mostra promossa dal sindacato la prova di un ricco movimento nazionale che congiungeva idealmente Milano a Palermo, segnando ormai il declino dei provincialismi e degli accademismj regionali: […] è inutile avere la nostalgia, davanti a quest’acqua senza colore, davanti a questo mare di morte, quasi senza cielo, delle allegre marine cantanti di Lo Jacono. Soprattutto si intende che è ormai ozioso, di fronte ai nuovi stati d’animo sorgenti, incolpar questi giovani d’aver tradito Sciuti o Lo Jacono ... Siciliani senza folclore, li amiamo proprio perché parlano senza accento dialettale, come parlano schietto italiano i lombardi e i torinesi che amiamo [...] Sono uomini come noi: e leggono i nostri 

19 -P. Rizzo, Giornale di Sicilia, 2 Febbraio 1932. 

20 – R. Guttuso, Pittori siciliani a Milano, in Vecchio e nuovo, Lecce 19 giugno 1932, presente in E. Di Stefano, Palermo .. . , op. cit. Pag. 20.

stessi libri. Perché mai la loro dovrebbe essere pittura soltanto siciliana? La Sicilia che essi ci portano è tuttaltra: quella che essi stanno creando21. 

La mostra milanese ebbe grosso seguito di stampa, come del resto la stessa III sindacale. Il 1932 si rivelò un anno particolarmente vivace per la cultura palermitana. Rizzo, che aveva consapevolmente vinto la sua personale battaglia contro il provincialismo, – […] la nostra battaglia è rivolta soprattutto verso quelle città fuori di Sicilia dove la penetrazione è ancora tenace. Regionalismo? Campanilismo? Le difficoltà si presenteranno. Facendo un bilancio vedremo bene queste vittorie. Il movimento artistico siciliano moderno oggi ha vinto22 fondò una galleria sindacale, la Bottega dell arte, che aprì a giugno dello stesso anno, nel centro della città, in via Mariano Stabile23. 

La personalità di Rizzo rappresentò indubbiamente il traino più forte per l’attività culturale palermitana di quegli anni, al punto che, quando il pittore si trasferÌ a Roma, all’ inizio del 1933, le iniziative di carattere artistico diminuirono. 

La IV sindacale ebbe luogo a Catania e la V di nuovo a Palermo. Alla V sindacale fu abbinata la Prima mostra autonoma dell‘artigianato artistico. Le opere esposte nelle ultime due sindacali testimoniarono un’inversione di tendenza rispetto alla III. Si erano configurate infatti una nuova forma di routine espressiva nutrita da nuovi accademismi e una nuova retorica, cui si aggiungeva l’affievolita attenzione della stampa. 

In un articolo del 1932, il critico Giuseppe Pensabene, dopo avere sottolineato la funzione di rottura e rinnovamento che aveva rappresentato l’ istituzione del sindacato nello stato fascista, scriveva: Riapparve, così, il pericolo di una nuova accademia e di una nuova retorica: Era inevitabile quindi una crisi. Ne fu occasione una mostra di gruppo, tenutasi di recente a Milano, presso la Galleria del Milione; .e se ne ebbe come conseguenza la recessione degli elementi più intransigenti, che formarono un nuovo gruppo: il gruppo dei Quattro24. 

La mostra a Il Milione, cui Pensabene alludeva nel testo, era quella dei sei siciliani del maggio – giugno del 1932. I Quattro indicati nello stesso testo erano Renato Guttuso, che aveva già partecipato alla mostra de Il Milione del 193225, Lia Pasqualino Noto e gli scultori Giovanni Barbera e Nino Franchina, arti sti accomunati da una lettura antiretorica di Novecento. 

21 – R. Giolli, Sei pittori siciliani a Milano, in Giornale dItalia , Roma, 24 Giugno 1924. 

22 – P. Rizzo, La cultura artistica il! Sicilia, in (a cura di L. Pignato) Almanacco degli scrittori di Sicilia, 1932. 

23 – La cura [della bottega] è affidata a una commissione composta da Paolo Bevilacqua, direttore dell’Istituto statale d’arte, dal pittore Manlio Giarrizzo e dallo scultore Benedetto De Li si. La funzione è quella di destare interesse con mostre a periodicità quindicinale e faci litare gli acquisti offrendo le opere a prezzi relativamente bassi. E. Di Stefano, Palermo … , op. cit. Pag. 2 I. 

24 – G. Pensabene, L’arte nuova in Sicilia, in Il Secolo XIX, Genova, 19 Ottobre 1932. 

25 – Migliore, è in Sicilia, lo condizione della pittura: questo è stato un merito indubbio del Sindacato regionale degli artisti. L’opera sindacale è stata benefica e valida; ha spazzato via senza esitazione, tutto il vecchiume. In tre anni, dal ’27 al ‘30, lo situazione si è cambiata. A nulla è servita l’opera negativa di certi ambienti: prima di tutto l’Accademia di belle arti. Larte moderna è riuscita a penetrare in Palermo. Sotto l’unica insegna di novecento” si affermavano giovani di tendenze diverse, ma tuui con una impronta di modernità [. . .]. Questo movimento ha seguito tutte le vicende del novecento. Dopo le prime entusiastiche affermazioni è apparsa anche qui la necessità di un riesame. Si è intravisto il pericolo di una burocratizzazione, che un intervento troppo minuto e continuo del sindacato potrebbe apportare. La sua azione, utile in un primo momento, non può mutarsi in WIO specie di controllo della produzione avvenire. [ … ] Dobbiamo dunque abolire, in occasione delle grandi mostre, i consigli e i giudizi generosamente anticipati, secondo un presunto gusto ufficiale. Questo sistema, che cominciava già ad essere apertamente seguito, ha portato dei danni anche in Sicilia, distruggendo quella coesione che era nata in un primo momento tra artisti giovani, animati tutti dallo stesso desiderio del rinnovamento, e benlungi dal pensare a compromessi di questo genere. [ … ] G. Pensabene, op. cit.

A Milano, nel 1931, per la mostra dei sei al Milione, Guttuso aveva avuto modo di rendersi conto della crisi sindacale che si andava configurando in Italia e del ruolo ormai essenzialmente opaco del movimento novecentista. 

Nel 1933, fortificato dalla proficua esperienza milanese il gruppo irruppe sulla scena artistica nazionale con una clamorosa protesta: una lettera aperta, polemica, contro Maraini per l’esclusione delle nuove leve artistiche siciliane dalla Biennale, firmata pure dallo scultore Cuffaro e pubblicata da Il Tevere del l Settembre26. 

Lo stesso anno Guttuso prese le di stanze, definitivamente, dal novecentismo e affermò l’attualità della pittura murale, così come pure fece Lia Pasqualino Noto, dichiarando, contemporaneamente, la necessità di un’arte antiretorica ma immersa con naturalezza nella contemporaneità27. 

Le opere esposte dalla Pasquali no Noto e Guttuso nella IV sindacale siciliana, però, del marzo – aprile, così come nella I Mostra del Sindacato a Firenze, nel maggio dello stesso anno, non lasciarono trapelare alcuna mutazione sostanziale del loro percorso artistico quanto piuttosto una maturazione del linguaggio creativo finora espresso. 

Nel 1933, infine, la Mostra dei venti artisti di Sicilia, al teatro Massimo di Palermo, promossa con gli auspici del sindacato, organizzata dallo scultore Barbera, dalla pittrice Topazia Alliata, e da tre artisti – Biancorosso, Buscio e Li Muli- assunse un significato antinovecentista e antiaccademico. Lo scultore Barbera, nell’articolo di presentazione, scrisse così: «II movimento artistico cosiddetto “novecento” ormai fortunatamente sorpassato è stato una vera disgrazia per alcuni che si iniziarono all’arte cinque anni fa. Ancora fino ad oggi i nostri occhi debbono girarsi in colli tubolari e mani a palette in composizioni in maniera dove l’artificio non è più una trovata geniale28». 

26 – […] Quaggiù non si dorme e c’è qualche pittore che non fa cartoline illustrate di Monte Pellegrino, e qualche scultore che non fa leste di bambini col bavaglino ... malgrado il fallo che nessuno mostri di accorgersi della nostra vitalità: né il sindacato, né le commissioni ufficiali delle grandi esposizioni. 

27 – Lia Pasqualino Noto, La “composizione” nella pil/ura Moderna, in LOra, Palermo 14 – 15 Novembre 1933. 

Sembra che la pittura moderna si orienti realmente verso la grande composizione. E così deve essere. Se vogliamo rimanere nella linea della nostra tradizione. Tale orientamento, riguardante sia lo concezione, sia l’esecuzione dell‘opera darte destinata a decorare la casa, ci fa subito pensare alla necessità di ritornare alla pittura murale, che si intona magnificamente alla sobriedell‘ambiente moderno e che ricollega lo nuova tendenza architettonica alla più schietta tradizione pittorica italiana. A tal fine però è necessario conservare alla composizione pittorica nobiltà e grandiosità, sia nella scelta del soggetto che nella distribuzione delle masse, nobiltà e grandiosità che fu base di tutta la pittura murale dei nostri antichi pittori. 

Non si dovrebbe più parlare di pil/ura decorativa nel senso corrente della parola, quasi ad indicare unarte a ben distinta dalla pittura di cavalletto, che al contrario viene chiamata arte pura. Tale distinzione è utile soltanto per mascherare lo meschinità di certe opere murali; fra pittura decorativa ed arte pura non esiste sostanziale differenza poiché ogni genere d‘arte ha funzione decorativa, e lo buona pittura murale deve essere tanto perfetta quanto si richiede alla pittura pura. [ … ] 

Il carattere costruttivo della nostra epoca, per la stessa ragione per cui ha falla risorgere la tendenza della pittura murale, anche nel quadro di cavalletto tende a farci ritrovare il senso della composizione, senso che può esistere 

in qualunque genere di piI/LIra ma che certamente raggiunge maggiore nobiltà nel quadro di figura. f..] 

Enecessario quindi che i pillori di oggi guardino alla composizione come al mezzo migliore per creare opera duratura. f. .. ] 

28 – G. Barbera, LOra, Palermo, 1933.

Non venne messa in discussione allora, almeno pubblicamente, per questo gruppo di artisti l’identificazione tra arte moderna di qualità e ideologia fascista, anzi , come un po’ dappertutto in Italia, la battaglia per il rinnovamento del linguaggio venne combattuta proprio in nome di una più rigorosa fedeltà alla rivoluzione del fascio29. 

La sindacale regionale del 1934 fu scadente: gli artisti, anche i migliori, non tendevano più a presentare i lavori più riusciti e l’esposizione iniziò a perdere il suo ruolo guida. 

Differentemente, lo stesso anno a Milano, i Quattro esposero al Milione, rivelando un linguaggio artistico di qualità, nuovo, scabro, privo di concessioni idealizzanti, che, come dice Eva di Stefano, sottomette forma e schemi compositivi tradizionali all’urgenza espressiva30. 

L’esposizione fu oggetto di critiche lusinghiere31 e persino Carlo Carrà dedicò alla manifestazione un lungo articolo su L’Ambrosiano, il 14 giugno del 193432 

Il critico Edoardo Persico33, in occasione dell’inaugurazione, pronunziò un discorso introduttivo, salutando l’esposizione come la prova più evidente di una problematica moderna nella giovane arte italiana, indispensabile per riaffermare, a suo avviso, la necessità di una mistica europea da opporre alla mistica fascista34 

La mostra e il discorso segnarono un punto di arrivo per i Quattro: i riconoscimenti di critica e di pubblico maturati consentirono al gruppo di riconoscersi come parte attiva di un più vasto movimento d’avanguardia. 

29 – L. Pasqualino Noto, La “composizione” op. cit. Larte segue da vicino lo storia dei popoli: noi che per sorte viviamo in un‘epoca di resurrezione dovremo necessariamente vedere e godere il frutto della nostra fatica e quello di coloro che ci hanno preceduti. Le scuole passate, le tendenze sorpassate, feconde per tutti noi, attraverso il misterioso lavorio della natura, costituiscono certamente lo base di una sempre maggiore elevazione spirituale, necessaria allo sforzo che ci siamo imposto per ritrovare il nostro equilibrio artistico.” 

30 -E. Di Stefano, Palermo , op. cit. Pag. 25. 

31 – Una mostra clamorosa ed esplosiva nei giudizi dei critici del tempo che idealmente congiungeva i giovani artisti di Palermo alla nuova linea degli anni ’30 dell‘arte italiana: una linea nella quale si possono ricordare il lavoro del Gruppo dei Sei a Torino, di Sassu, Birolli, Manzù a Milano, di Mafai e di Scipione a Roma, per citare solo i nomi più rappresentativi. [...] Il Gruppo dei Quattro artisti siciliani che esponeva al Milione settanta opere (dal 26 maggio al 15 giugno 1934) agiva in una posizione periferica ma certo non provinciale come nota Guttuso nel suo testo di presentazione a questa mostra rispetto alla operatività che già andava delineando a Roma o a Milano. 

V. Fagone, I quattro artisti siciliani, in Gli artisti siciliani 1925/1975, Capo d’Orlando, 1976. 

32 – La natura e il vero sono termini metafisici ai quali ciascuna epoca dà un particolare significato. Così, ad esempio, per gli artisti siciliani predecessori a questi giovani, la natura non ebbe che un attributo pseudoromantico e il vero fu un espediente folcloristico; mentre ora lo natura e il vero si sono trasformati e unificati in un concetto unitario e ordinato dalla personalità estetica dell‘artista. Tale assunto è, a dir il vero, ancora per lo più vagante nella produzione offerta dai quattro siciliani, ma per quanto non ancora ben determinato, appare già balenante realtà della loro arte. 

Anche di questo si deve tener calcolo, dovendo noi giudicare artisti in piena evoluzione. 

Epperò il sentimento artistico che si può notare in questi loro lavori, se talvolta appare come sommerso sotto schemi che ne infirmano in parte l’intima sostanza, già preannuncia lo sbocco in forme sensibili e unitarie. 

C. Carrà, L’Ambrosiano, Milano, 15 Giugno 1934. Pubblicato in E. Di Stefano, Palermo , op. cit. 

33 – Edoardo Persico fu storico e critico d’ alte. Sostenne con visione cosmopolita, il legame fra avanguardie figurative e architettura moderna e avversò sia la retorica del regime fascista sia l’ involuzione classicistica di Novecento. A Torino promosse l’attività del Gruppo dei Sei, a Milano fondò e diresse la galleria del Milione e partecipò con Giuseppe Pagano alla redazione di Casabella. 

34 – Le parole di Persico appaiono in E. Di Stefano, Palermo ... , op. cito Pago 25. Vedere inoltre: E. Persico, Tul/e le opere, a cura di G. Veronesi, Milano, 1964

La partenza di Guttuso e Franchina per il servizio militare costituì il motivo di una brusca frattura per i Quattro, proprio nel momento in cui il gruppo aveva raggiunto una maggiore coesione poetica e figurativa e ottenuto i primi risultati di critica. 

Negli anni successivi Guttuso consolidò i contatti già avviati a Milano, rientrò a Palermo solo per brevi periodi e si allontanò dalla città siciliana definitivamente nel 1938, quando si congiunse al gruppo Corrente. 

Franchina fu pure a Milano, dunque a Roma, infine a Parigi e sposò la figlia di Severini. Barbera morì precocemente nel 1936. 

L’ultima mostra comune ebbe luogo nel 1937 a Roma alla Galleria della Cometa. 

Nel 1935 la Pasqualino Noto fondò il primo spazio espositivo privato dedicato all’arte contemporanea a Palermo, nei locali di Palazzo De Seta, la Galleria Mediterranea. 

L’attività della galleria durata circa due anni costituì una significativa novità per la circolazione delle idee artistiche a Palermo perché consentì che opere provenienti da più aree geografiche potessero essere viste in Sicilia. 

Nel 1938 aprì qui i battenti la Rassegna di sessanta artisti italiani che si rivelò l’avvenimento che meglio esemplificò la qualità dell’attività artistica nell’isola e la considerazione che le era realmente destinata da parte del pubblico e de i media. 

Infatti, la manifestazione, malgrado la grande risonanza nella vita cittadina e il suo significato culturale non godette dell’attenzione dei media. 

L’ottava mostra sindacale, ne l 1938, s i tenne nei locali di Palazzo De Seta e lo scultore Franchina fu membro della commissione giudicatrice. 

Altre due mostre ebbero luogo quello stesso anno alla Mediterranea: una di architettura dedicata ai rilievi di edili zia minore siciliana e una personale di Enrico Paulucci. 

Nel 1939, a causa del trasferimento dei marchesi De Seta a Roma, la galleria chiuse. 

L’attività riprese nel 1940 presso la Libreria Flaccovio per un breve periodo, quando la Pasqualino Noto organizzò mostre personali di Tamburi, Mucchi, Afro, Natili e Guttuso. 

La guerra e la permanenza in Sicilia35 penalizzeranno la Pasqualino Noto, artista, pensatrice e infaticabile organizzatrice di eventi d’arte, che continuò a lavorare – come dice Maurizio Calvesi – tenace ma flessibile e tutta introversa, che l‘attesa non logora ma anzi sostanzia, e quel gestire è una sorta di ginnastica della speranza, per tenerla giovane e viva36. 

La nona mostra sindacale, del 1939, denominata Il ritratto e la scultura al Teatro Massimo di Palermo chiuse un’epoca: il 10 giugno dell’anno successivo l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania e una nuova età si apriva anche per le arti figurative. 

35 – L. Pasqualino Noto, Una testimonianza … op. cit. Pago 42: lo comprendevo che restando a Palermo sarei rimasta isolata 

e, senza l’entusiasmo che tutti insieme eravamo riusc iti a creare, mi veniva a mancare qualcosa di molto impattante 

e vitale. 

36 – M. Calves i, I Ginnasti della speranza, in Lia Pasqualino Noto, Milano, 1984. Pago 9. 

I dieci anni che precedono la seconda guerra mondiale furono, sostanzialmente, in Sicilia, anni operosi: anni di riflessione destinati alla partecipazione e al confronto con le idee del territorio nazionale. Questi furono, però, soprattutto, per l’arte, sotto il profilo critico, anni in cui la consapevolezza del ritardo formale rispetto al resto dell’Italia fu piena e a tratti sofferta, tanto quanto il tentativo di assorbimento di nuove forme, rinnovati e autentici contenuti. 

Questi furono anni in cui si riaprì con irruenza e mai si richiuse il dibattito sul futuro della propria identità isolana. 

La guerra, come tutte le guerre, sottrarrà linfa a questo dibattito, di sperderà le risorse intellettuali e soprattutto piegherà le forme delle città, convertendo in penosi accumuli di macerie quei luoghi , quei palazzi, quei giardini che negli anni immediatamente precedenti avevano lasciato segni preziosi di arte siciliana. 

Francesca Pellegrino




GIANNI GIANNINO, Il nido tra le stelle. Haiku e altri versi, collana «Pagine di Poesia», I.l.a. Palma, Palermo, 2007.

Quando nella parola si fa strada il Logas, esso esige necessariamente un silenzio per accoglierlo e allora la parola poetante diventa dono che tacitamente consente un rapporto tra soggetti che reclamano uno scambio differito. Dono sono, infatti, questi teneri haiku coronati da un mazzetto di liriche, specchio del creato che Gianni Giannino ha voluto, sì, regalarei per riportare lo spirito a un dialogo interiore. In tale direzione diventano una sfida per pensare, perché accettare un dono come questo significa impegnarsi a rendere di più. 

Se per i contenuti cui essi alludono occorre tuffarsi nella memoria storica d’un vissuto dolce-amaro di ricordi vivi del natio borgo di Acquaviva Platani: «una solitudine in bocca a un monte», non così è per ciò da cui essi provengono, perché impegna ogni lettore a diventare soggetto universale di questi poemetti brevi e originali. 

Siamo in presenza d’alta poesia lirica, dove la forma un po’ orientale radica ed illumina ancor di più i contenuti d’una cultura religiosa occidentale, che però qui non conosce tramonti. L’atteggiamento poetico antimoderno della nostra civiltà vuol salvaguardare un nucleo tradizionale di temi e problemi in quella forma originaria e originale che l’ Autore riesce a trasmetterei quale retaggio della migliore tradizione e gli consente di godere e cantare: «il mio nido sarà oltre le stelle, lontano lontano, per contemplare terre e cieli nuovi». 

Gli haiku sono brevissimi componimenti di tre versi, poco usati nella poetica italiana, pensieri da centellinare e auspicio che essi lascino nell’anima tracce di luce e desideri di santità. 

Valeria Patinella

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 61.




Padre G. Raimondi, Le nozze folli del giullare S. Francesco d’Assisi, ed. Krinon, 1991. 

 “Il Signore mi ha detto di volere che io intraprendessi una follia nuova nel mondo. Non ha voluto condurmi per altra via che questa”. Sono le parole che S. Francesco d’Assisi esclama ai frati, seguaci della sua regola, in un capitolo in cui si discute se essi debbano essere addrottinati. Dinanzi a taluni che si fanno sostenitori del valore della sapienza e della dottrina, Francesco ribadisce energicamente che la salvezza del cristiano può venire soltanto dalla “nuova follia”, la follia di chi, come lui, ha scelto di porsi al servizio della povertà evangelica. Di Francesco e della sua follia ci dà un ritratto, storico e al tempo stesso sovrumano, Padre Giuseppe Raimondi nella sua biografia del Santo, uscita per le edizioni Krinon. 

È un ritratto storico, perché viene puntualmente fornito un quadro minuto e realistico della società comunale entro cui si compì la predicazione del Santo: le rivalità tra Assisi, sua città natale e Perugia, le lotte, anche sanguinose, tra nobili e popolani, tra nobili e nobili, un mondo di violenze e di sopraffazioni, su cui Francesco fece valere la sua opera di pacificazione e di concordia. Ma è sopratutto un ritratto sovrannaturale, perché animato dalla visione tutta interiore che Francesco ebbe di Dio: nel momento in cui scelse, nella piazza principale di Assisi, alla presenza del vescovo, di rinunziare alle ricchezze del padre e di darsi interamente nudo nel corpo e nell’animo a Cristo, si avviò, ma, forse sarebbe meglio dire, si proseguì una comunicazione unica e irripetibile col Signore. 

Una metafora viva e reale accompagna il racconto, che a volte raggiunge toni leggendari, gli stessi toni dei primi testimoni del Santo: è la metafora delle nozze con Madonna Povertà, la decisione, cioè, di seguire fedelmente e integralmente il messaggio del Vangelo. Ed è una povertà vissuta non come rinuncia e disprezzo delle cose, ma accolta con gioia e semplicità. 

In un’atmosfera, che in certi momenti, può risultare idealizzata, a tal punto da richiamare la letteratura cortese o cavalleresca, si realizza la vicenda del giullare di Dio, che con animo lieto ne canta le lodi e la grandezza. Una vita, quindi, che ha quasi “l’andatura di un romanzo” come scrive l’autore nella prefazione, a rischio di sembrare un “sorpassato” rispetto alla critica storica più accreditata. 

Vito Parisi

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pag. 76.




Ponzio Pilato: vile indeciso o illustre magistrato? 

 Un personaggio da sempre discusso e criticato, accusato di viltà e di aver impunemente fatto condannare e crocifiggere nientemeno che il Cristo, può all’improvviso essere riabilitato? La risposta è senz’altro negativa, se si analizza la questione impiegando categorie contemporanee e notizie vulgate, se si chiudono gli occhi della mente per non-volontà di approfondire gli studi riguardo al personaggio o per la mancanza del coraggio necessario per accettare o affermare una teoria nuova e rivoluzionaria. In tal modo non si accettano le verità né si smentiscono le bugie, ma si imbrattano solo fogli di carta con l’illusione di aver scritto qualcosa di nuovo, ma, nella maggior parte dei casi, non si fa altro che perpetuare ignobili calunnie o presunte verità. È più opportuno, invece, chiedersi le ragioni degli eventi e dei comportamenti, cercando testimonianze attendibili che illuminino, al di là di ogni dogma o pregiudizio, la mente non solo dello studioso, ma anche dell’uomo della strada. 

Nel caso di Ponzio Pilato, il preambolo appena terminato era addirittura indispensabile, perché ci si trova in presenza di un personaggio discusso e bersagliato come “una testa di turco contro cui lanciare palle di stracci” per non aver avuto la forza, il coraggio o l’autorità di far assolvere Gesù. È opportuno, allora, riprendere la questione ab imis fundamentis, secondo i dettami della Filologia Sperimentale e, facendo tabula rasa di tutto ciò che si sa (o che si è accettato finora). cercare di ricostruire l’identità dell’uomo e il carattere del magistrato. 

Dell’esistenza di Ponzio Pilato si è assolutamente certi a causa di una epigrafe ritrovata nel 1961 durante gli scavi del teatro romano di Cesarea di Palestina dalla Missione Archeologica Italiana diretta da Antonio Froval. 

L’iscrizione, mutila sul lato destro e sinistro, dice: 

………..TIBERIEVM 
…….TNS PILATVS 
……ECTUS IVDAEE 
……E . 

Il filologo sperimenttale Davide Nardoni ricostruisce l’iscrizione, traducendo: “Ponzio Pilato Prefetto della Giudea, levava sacello in onore dell’Imperatore Tiberio nella città di Cesarea Marittima, sede della Prefettura di Giudea”2. 

Del Prefetto di Giudea conosciamo il cognome (nomen): Pontius e il soprannome (cognomen): Pilatus, ma non il nome proprio (praenomen). 

Il cognome Pontius consente di inserirlo nell’antica famiglia Pontia, di chiara origine sannitica, come è testimoniato da due iscrizioni presenti nella città d’Isernia3. Il cognomen Pilatus indica che Ponzio era stato un Pilus, ossia un Centurione Primipilare severissimo, poiché usava il pilum, il giavellotto e non il ramo di vite per esercitare il suo diritto e dovere di punire i soldati imbelli, percotendo le loro natiche scoperte4. Ciò consente già di delineare alcuni caratteri del personaggio: era Centurione Primipilare; consente, inoltre, di smentire con assoluta certezza la prima accusa, quella di viltà, infatti la carica di Centurione Primipilare si guadagnava sul campo, combattendo con valore degno di decorazione in almeno trenta occasioni. A ricoprire tale carica i Centurioni giungevano crescendo di grado, dal decimo al primo manipolo degli astati, dal decimo al primo manipolo dei principi, dal decimo al primo manipolo dei triari. 

Il Centurione Primipilare, oltre ad essere il capo di tutti i centurioni, aveva grandissima autorità ed era tenuto in conto di “cavaliere” (Eques)5. Ciò gli consentiva di aspirare ed, eventualmente, di ricoprire la carica di Prefetto di Giudea, che era risezvata agli uomini di rango equestre. 

Secondo quanto è dato sapere, Pilato conosceva tre lingue: il latino appreso da bambino, il greco appreso in età scolare e l’aramaico appreso durante il servizio militare in terra semitica6. Questa circostanza e l’indiscutibile valore di condottiero, oltre alle favorevoli presentazioni all’Imperatore da parte degli illustri parenti che frequentavano il Palatium, Ponzio Nigrino e Ponzio Fregellano, indussero Tiberio ad affidare a Pilato la Prefettura di Giudea. 

I Prefetti che precedettero Pilato furono Coponio (in carica dal 6 al 9 d. C.), Ambibulo (in carica dal 9 al 12 d.c.), Rufo (in carica dal 12 al 15 d. C.) e Grato (in carica dal1S al26 d.c.). Come si può vedere, se si esclude l’ultimo, nessuno di essi rimase in carica più di tre anni, a testimonianza della severità con cui l’Imperatore giudicava i suoi amministratori e i suoi magistrati. Il “cavaliere” Ponzio Pilato rimase in carica, invece dal 26 al 36 d. C., per ben dieci anni, e ciò prova che egli seppe bene interpretare la categoria romana suprema: l’imperium. Tale categoria che in origine indicava un “atto concreto di parificazione”7 e non il 

L’imperium, parte costitutiva della patria potestas era retaggio dei patres familias che morendo lo lasciavano al figlio maggiore o erede con l’ultimo bacio. 

I “padri di famiglia” che esercitavano l’Imperium come “potatori” nella vigna e come “aratori” nei campi, lo stesso imperium: “autorità suprema” che li rendeva sacri, esercitavano nella Curia nell’interesse di Roma, esercitavano nei castra sulle Forze Combinate Romane nell’interesse superiore della Pax Romana. L’obiettivo dell‘Imperium esercitato nelle vigne e nei campi era la “parificazione” delle viti potate ad occhi pari nei due tralci perché portassero uve per il nuovo vino, era la “parificazione” del terreno con aratro, erpice e rastrelli perché portasse buon grano. 

L’Imperium esercitato dai patres familias nell’ambito familiare mirava ad assicurare la “parità” dei diritti e dei doveri tra tutti i componenti: i figli liberi e i figli degli schiavi venivano educati alla “pari”: sub imperio matris. 

L’Imperium esercitato dagli Imperatores tra i legionari mirava a rendere “pari” le Forze Combinate Romane davanti alle fatiche di guerra, davanti al bottino di guerra, manubiae, davanti ai premi, alle promozioni e alle pene. 

L’Imperium esercitato nella sfera politica sui popoli “interni”, all’Orbe romano, mirava a dare ai popoli la “parità” dei diritti e dei doveri, concedendo a quanti se ne dimostravano degni la cittadinanza romana: ius civitatis.

comando, era esercitata nei riguardi di tutti coloro che, obbedienti alle leggi di Roma, si dimostravano degni di godere dello ius civitatis. L’atto di aggregazione era considerato un principio fondamentale della politica di diffusione dell’Impero; infatti, secondo quanto dice Virgilio nell’Eneide, lo stesso Giove aveva proclamato alla figlia Venere la missione assegnata dal Fatum a Roma e ai Romani: agire in vista della “parificazione” dei popoli: Imperium sine fine dedi8. 

La missione eterna assegnata dal Fatum a Roma veniva ripetuta dal padre Anchise al figlio Enea, nel lucòre dei Campi Elisi: 

Tu regere imperio populos, Romane, memento! 

“Romano ricorda di guidare i popoli al parime”9. 

Lo stesso padre Anchise al figlio Enea svelava le tre “arti” esercitando le quali Roma avrebbe dato la “parità” del diritto a tutti i popoli: 

1) Paci imponere morem10; 
2) Parcere subiectis 11; 
3) Debellare superbos12. 

I Romani, agendo in accordo a tal direttive di imperium, cercavano sempre e innanzitutto di applicare la prime e la seconda con l’intenzione di stabilire le condizioni, affinché potesse regnare la pace e di rendere produttivi i popoli sottoposti. Solo quando le prime due risultavano inefficaci, solo quando la pervicacia non poteva essere vinta con altri mezzi, Roma ricorreva alla debellatio, annientando la tracotanza con azione bellica violentissima. Si sa che l’applicazione della prima e della seconda “arte” d’imperium era lasciata alla discrezione dei vari governatori, amministratori e prefetti dei territori “aggregati”, mentre la terza poteva essere decisa solo dal potere centrale. 

La temibile debellatio, come la storia c’insegna, fu applicata nei riguardi del popolo giudeo tramite le legioni stanziate in Siria, che, nell’anno 70, rasero al suolo la città di Gerusalemme. Ciò indica con chiarezza quanto difficile fosse il compito di Pilato, il quale venne a trovarsi tra gente che nulla faceva per farsi intendere dallo straniero e che nulla faceva per intendere lo straniero. Pilato veniva a trovarsi tra gente che non poteva amare il “barbaro” venuto da città lontana ad amministrare la terra e il popolo che riconosceva una sola autorità, quella dell’unico dio dei Padri: Jahwéh. 

Pilato veniva a trovarsi tra gente che nulla avrebbe fatto per facilitare al Prefetto il suo compito; tra gente sempre pronta a mandare rapporti a Roma per levare lagnanze contro la condotta del prefetto davanti all’Imperatore. 

II compito posto sulle spalle del Prefetto mandato da Roma, era gravoso. 

Il compito di amministrare e reggere la Giudea comportava incombenze per il Prefetto, che si concretizzavano in atti che a tempo e luogo dovevano essere fatti. 

Il compito del Prefetto di Giudea erano uguali ai compiti di tutti i governatori: alcuni compiti solo dei “prefetti” della Giudea: 

l) Risiedere a Cesarea Marittima: 
2) Salire a Gerusalemme durante la Pasqua; 
3) Cooperare con le autorità locali; 
4) Controllare i “pubblicani”; 
5) Inculcare il culto dell’Imperatore; 
6) Mantenere l’ordine pubblico; 
7) Tenere in ordine l’archivio; 
8) Dare l’allarme al governatore della Siria; 
9) Chiedere delucidazioni a Roma; 
l0) Aggregare la Giudea a Roma; 
11) Fare i lavori pubblici; 
12) Conservare nella Baris i paramenti del Sommo Sacerdote; 
13) Vigilare sulla condotta del Sommo Sacerdote e sulle Autorità locali; 
14) Riscuotere le tasse per l’erario e per il fisco; 
15) Amministrare la giustizia(13. 

Appena assunta la carica di Prefetto, Pilato fece il suo ingresso in Gerusalemme di notte e ad insegne spiegate. Come dice giustamente il Nardoni14, tale gesto aveva due spiegazioni: 1) le insegne recanti l’immagine dell’Imperatore, alzate nella Città Santa costituivano “sacrilegio” intollerabile agli occhi degli israeliti della Madrepatria e “profanazione” agli occhi dei credenti della Diaspora; 2) Le insegne con l’immagine dell’Imperatore, piantate nel cuore di Gerusalemme, agli occhi di Tiberio, di Seiano Praefectus Praetorii, del Prefetto, dei legionari posti a difesa dell’Impero e di tutti i romani, costituivano il primo tentativo del Prefetto per fare accettare ad Israele Roma e per “aggregare” territorio e popolo all’Orbe romano. 

Con quel gesto Pilato, dimostrando la sua intenzione, chiariva la sua azione nella Giudea: rispettasse la Giudea Roma come Roma rispettava la Giudea sine ullo discrimine15: senza differenze, senza discriminazioni. 

In opposizione a tale gesto, gli Israeliti manifestavano il loro disappunto e il loro rigetto alla proposta di “aggregazione”, sostando per ben cinque giorni in pacifica dimostrazione davanti alla sede della Prefettura di Cesarea Marittima ed ottennero la rimozione delle insegne. Tiberio non batté ciglio, non criticò Pilato: egli stava tentando di applicare la prima direttiva d’imperium. 

A Pilato è stato anche fatto il rimprovero di essersi impossessato del Tesoro del Tempio, Korbonàs, per costruire l’acquedotto di Gerusalemme. Non è difficile smontare anche quest’altra accusa. Si sa, infatti, che il Korbonas16, che era stato costituito da tredici casse o ceste contenenti gli “scicli” della tassa del Tempio e delle elemosine si trovava nell’azarah, nel cortile delle donne, ossia nella parte più interna del Tempio, alla quale i Romani, Gentiles, Goyìm, “infedeli”, “miscredenti”, giammai sarebbero potuti pervenire senza compiere un grave atto di profanazione che il Sommo Sacerdote avrebbe immediatamente denunciato a Tiberio. Ciò non accadde. Neppure le fonti ebraiche Filone Giudeo e Flavio Giuseppe lamentano tale profanazione. La conclusione è, quindi, semplice: i Romani non avevano preso in modo coatto il Tesoro, ma lo avevano ricevuto dal Sommo Sacerdote Caifa, il quale, anche in altre occasioni, dimostrerà di intendersela politicamente con l’illustre funzionario di Roma. 

Il secondo tentativo di far accettare agli Ebrei la presenza di Roma, Pilato lo fece esponendo i clipei virtutis sul Palazzo di Erode, sede del Prefetto. Tali scudi non recavano l’immagine di Tiberio, ma solo la sua “nominatura”: 

Ti. Claudio Neroni, divi Aug. F., Imp.? 
Con.? Trib. Potest.? P.P. 

Anche ciò fu ritenuto un oltraggio dagli Israeliti, i quali ne chiesero l’immediata rimozione e, poiché Pilato non esaudì tale richiesta, gli stessi inviarono un rescritto a Tiberio, il quale ordinò al suo magistrato di togliere i clipei. Pilato obbedì. L’Imperatore non rimosse il Prefetto dalla sua carica, dimostrando chiaramente di aver capito quale era la funzione politica della sua mossa. 

Altra accusa comune diretta al celebre Ponzio è quella di essere stato spietato e sanguinario. A sostegno vengono addotti due passi del Vangelo. Il primo è quello in cui Luca dice: “In quel tempo. alcuni presenti riferivano a Gesù di Galilea, il sangue dei quali Pilato aveva mescolato con il sangue delle vittime sacrificali” 17, volendo dire che le forze legionarie profanarono addirittura il Tempio massacrando i Galilei mentre compivano i loro sacrifici. Ancora il Nardoni18 fa giustamente ed acutamente notare che la voce greca “Thysiòn”, genitivo plurale di “Thysia”, indicando le “vittime da sacrificio”. non fa alcun riferimento al luogo del massacro. Lo stesso evidenzia che. poiché Israele era suddiviso «in tanti maamadoth con il compito di fare i sacrifici nel Tempio, questi quel giorno toccavano ad un maamad galileo. Salivano i rappresentanti del maamad galileo a Gerusalemme ma prima che entrassero nella Città Santa venivano affrontati dalla forza Romana in ricognizione perché allarmata. Romani e “Galilei” si affrontavano; dopo lo scontro, sul terreno “Galilei” uccisi e bestie sgozzate. Il massacro avvenne fuori del Tempio». 

L’altro episodio, riferito da Marco19, parla di una repressione operata dalle forze romane contro “ribelli che avevano commesso assassinii durante una rivolta”. 

Mi sembra che in entrambi i casi non si possa parlare di “sete di sangue” del “prefetto”, ma semplicemente di due azioni di polizia tese a preservare l’ordine pubblico. compito questo che. come si è già detto. era fondamentale per il Prefetto e per tutti i magistrati e governatori di Roma. 

Oltre agli eventi citati, se si fa eccezione per l’esecuzione di Cristo, di cui parleremo ampiamente. non si rilevano altri eventi di spicco in Giudea durante il mandato di Pilato e, sembra, durante il regno di Tiberio, che fu un periodo di quies, come sostiene l’insigne storico Tacito20. 

Prima di affrontare la difficile analisi delle vicende di Cristo, è opportuno ricordare che, al tempo di Pilato, vigeva la Magna Charta Libertatum, che Cesare aveva concesso agli Israeliti, come riconoscimento dei validi aiuti ricevuti durante il Bellum Alexandrinum, grazie ai quali era riuscito a vanificare gli attacchi di AchUla, il generale di Tolomeo XIII, fratello di Cleopatra Filopàtore21. La Magna Charta riconosceva agli Israeliti il diritto di professare liberamente la loro religione sia nella Madrepatria che nella diaspora, nonché il diritto di giudicare ed eventualmente di condannare a morte (pena che le legioni avevano l’obbligo di eseguire), coloro che fossero risultati rei e condannati a tale pena dal Grande Sinedrio; il Bet Din haGadol. La forza romana e quella giudaica avevano, quindi, una chiara, rigida sfera d’azione entro la quale agire: l’una giudicare secondo lo ius romano, l’altra secondo la Torah, la Legge dei Padri. 

Quando mancavano pochi giorni alla Pesach, la Pasqua degli Ebrei, Gesù fu arrestato da una forza “combinata” di guardie del Tempio e di legionari dell'”Antonia” (n.d.r.: la torre Antonia, la Baris, fungeva anche da carcere locale), in presenza dell’ “accusatore”, Giuda22, che, come si sa, non poteva mancare, dal momento che la legge e la prassi romana non accettavano le denunzie anonime, segno di tirannia e corruzione23. Poiché Cristo non aveva commesso reati contro Roma, l’impiego di una forza “combinata” è giustificato dal tentativo di Pilato di mantenere l’ordine nella città di Gerusalemme in un periodo particolare, quello della Pasqua, in cui confluivano nella Città Santa, fedeli da tutte le comunità ebraiche, locali e non. La prova di ciò sta nel fatto che il Cristo fu condotto in giudizio dinanzi ad Anna24, suocero di Caifa e capo del Bet Din (Piccolo Sinedrio), e non dinanzi al magistrato romano. Inoltre, il fatto che Gesù non fu lapidato, come accadeva di solito in presenza di un sacrilego (perché tale era l’accusa contro Gesù, tacciato di essere un “bestemmiatore del nome di Dio e un nemico del Tempio” per essersi proclamato Rex Judaeorum e la lunga durata nella carica di Sommo Sacerdote di Caifa durante la Prefettura di Pilato, testimoniano una tacita intesa tra il Sacerdote e il Prefetto. Dopo la condanna del Bet Din, Gesù fu condotto, per un giudizio scontato, dinanzi a Caifa, Sommo Sacerdote in carica e capo del Bet Din haGadol25. Condannato, fu condotto da Pilato26, perché il Prefetto, nelle cui mani era lo ius gladii, procedesse all’esecuzione. Sappiamo, infatti, che i due Sinedri avevano la capacità giuridica di arrestare, processare e condannare chi si macchiava di colpa religiosa, ma non quella di eseguire la sentenza. Sappiamo anche che nessuna delle due parti, ebrea e romana, avrebbe tollerato che l’altra ne usurpasse le competenze. Il Sommo Sacerdote e i suoi complici sapevano che il Sinedrio, non avendo potere politico, non poteva pronunciare condanne su chi era accusato di aver commesso un reato politico. Sapevano anche che sarebbe stato perfettamente inutile portare Gesù dinanzi a Pilato accusandolo di colpa religiosa, perché lo stesso, senza infrangere le rispettive sfere di azione, li avrebbe liquidati dichiarando che l’accusa non era di sua competenza, Era indispensabile che Gesù venisse riconosciuto colpevole di reati politici, perché Pilato fosse costretto ad agire. Per queste ragioni, Gesù fu condotto dal Prefetto sotto l’accusa di essere un malefactor27. Dopo l’interrogatorio, Pilato proclamava l’innocenza di Gesù davanti a Roma con la frase: Ego nullam invenio in Eo causam. Il Prefetto, dichiarato Gesù innocente verso Roma. credendo di poter chiudere l’affare, chiedeva se poteva rimettere il libertà Gesù: “Re dei Giudei”.28 La risposta del popolo fu: Non Hunc, sed Barabbam/29. “Non Lui, ma Barabba!”. 

Come rileva giustamente il Nardoni30. •Giovanni non parla di un aut-aut posto dal Prefetto alla folla: Gesù o Barabba: Giovanni non dice neppure che Pilato abbia liberato quel latrò di Barabba: Giovanni dice il vero e si deve credere a Giovanni se Pilato non poteva mettere sui piatti della stessa bilancia l'”Innocente” verso Roma e il latro sicarius- (“terrorista”) nemico dell’Urbe; “Barabba era stato arrestato dagli uomini dell’Antonia-, Gesù, invece, “dagli uomini del Tempio e dai legionari dell’Antonia; Pilato non avrebbe potuto giustificare agli occhi di Tiberio la liberazione di un sicarius e la condanna di Gesù. Pilato non desisteva dal tentativo di rimettere in libertà l’accusato, perché è dovere del giudice -liberare gli innocenti e punire i colpevoli-o Anche la flagellatio, a cui fu sottoposto il Cristo, fu un ultimo tentativo di dimostrarne l’innocenza. Pilato, mostrando l’uomo inerme al popolo, gridava, Ecce Homa31, ripetendo per altre due volte: Ego non invento in Eo causam32. 

Pilato con quel brachicologico: Ecce Homo! voleva significare ai Giudei che Gesù di Nazareth non era un Rex, se lo era mai stato, se la flagellazione ne aveva dimostrato l’innocenza nell’inesistenza delle pretese regali. 

Gesù dichiarato “Uomo”, cadeva l’accusa politica presentata dal Tempio e, caduta l’accusa, Pilato poteva procedere a liberarlo: Ponzio tentava di rimetterlo in libertà ma non ci riusciva: la legge non gli dava questa facoltà. Caduta l’accusa politica, restava l’accusa religiosa che, restando in piedi con la condanna che ne derivava33, costringeva Pilato a procedere all’esecuzione. La “Legge” dai Romani era rispettata in modo assoluto anche se essi sapevano che: Summa Lex summa iniuria34. Inoltre, in risposta alla ennesima richiesta rivolta al popolo e tesa alla liberazione di Gesù, a Pilato furono ironicamente ricordati i suoi obblighi di rispettare la Magna Charta Libertatum, alla domanda: “Crocifiggerò il vostro Re?”, il popolo rispondeva: “Solo Cesare è nostro Re”’. È chiaro che, dato l’odio nutrito dagli Ebrei nei riguardi dei Romani, considerati infedeli al punto che gli stessi Ebrei facevano lunghe abluzioni purificatorie anche dopo aver solo toccato un Romano, non si può che dare alla frase il significato di: “Ricorda ciò che Cesare ci ha concesso e che tu devi rispettare!”. Pilato infatti, sapeva che se avesse violato la Legge, il Sinedrio, che ne aveva facoltà, lo avrebbe fatto rilevare al governatore della Siria e allo stesso Imperatore con rapporti e legazioni. La punizione da Roma sarebbe giunta implacabile: reprimenda, rimozione dalla carica. processo e, forse. il perentorio codicillo seca venas! Pilato non aveva scelta e, anche se cosciente di commettere una grave ingiustizia, da buon magistrato. applicò la legge attirando su di sé l’enorme quantità di critiche e damnationes, che gli sono piovute addosso nel corso dei secoli. Ciò nonostante, fino al momento in cui i calones non inchiodarono il Messia alla croce, egli ebbe grande rispetto per la persona del Cristo, sia dal punto di vista umano che da quello giuridico. Egli non lo fece flagellare per la seconda volta, come si faceva di solito con i colpevoli politicamente, non lo fece maltrattare durante la Via Crucis, gli consentì di avere un titulus con la nominatura completa sulla croce (JESUS NAZARENUS REX JUDAEORUM). cosa che non era concessa ai peregrini. Ciò prova che Cristo, non colpevole verso Roma, godeva ancora dello jus civitatis, e Pilato lo fece rispettare sino alla fine, facendolo crocifiggere da Romano e non da straniero da quel buon magistrato e amministratore della Lex Romana quale era, nonostante le accuse rivoltegli. A riprova di ciò è il fatto che Tiberio non censurò le sue decisioni. Pilato, infatti, rimase in carica per altri tre anni e fu destituito solo quando commise l’errore di attaccare i Samaritani, alleati dei Romani (e nemici giurati dei Giudei) a Tirathana, forse con l’intento di procurarsi simpatie tra gli Israeliti. Da Samaria partiva legazione al Governatore della Siria, Vitellio, il quale riconobbe che Pilato aveva attaccato un popolo amico senza nessuna valida giustificazione e, depostolo dall’incarico, lo inviò a Roma affinché fosse sottoposto al giudizio dell’Imperatore. 

Ma, -navigando da Cesarea verso Ostia e Roma, Ponzio Pilato si perdeva dalla storia35. ed entrava nella leggenda. 

Adolfo Panarello 

1. Cfr. A. DE GRASSI, Scritti vari d’Antichità, Venezia, 1967, vol. III, p. 268.
2. D. NARDONI, Sotto Ponzio Pilato, Roma 1987, p. 10. 
3. Cfr. M.J. OLLIVlER, Ponce Pilate et /es Pontii, in RB 5 1986, pp. 247-254; pp. 594-600. 
4. Cfr. D. NARDONI. op. cit., p. 15, nota 16. 
5. Cfr. AG.H. NIEUPOORT, Rittum apud Romanos explicatio, Venezia 1749, Sect. V, Cap. II, § 2 p. 357: Optima quoque praemia capiebat et pro equite erat. 
6. Cfr. D. NARDONI, op. cit., p. 18. 
7. D. NARDONI, op. cit., p. 28, nota 34: “Imperium: “atto concreto di parificazione”, “Pàrime”, “Oleichgeltungsreich”, “Ausgleichungsreich” ancor prima che “comando”, “impero”. Nel Sermo rusticus: parlata dei campi, dal quale tutti gli altri sermones derivavano le espressioni: imperare vitibus, imperare arvis indicavano l’attività del “potatore” nella vigna e dell’ “aratore” nei campi; nello stesso sermo rusticus, la voce imperator indicava il “potatore” nella vigna e l’ “aratore” nei campi; la voce imperium: “attività parificatrice” indicava l’attività del “potatore” nella vigna e dell’ “aratore” nei campi. 
8. Cfr. VERG., Aen, I, 279. 
9. VERG., Aen, VI, 851. 
10. VERG., Aen, I, 852. 
11. VERG., Aen, I, 853. 
12. VERG., Aen, I. 853.
13. Cfr. D. NARDONI, Op. cit, p. 37. 
14. Cfr. D. NARDONI, Op. cit., p. 115. 
15. VERG., Aen, I, 574. 
16. Cfr. D. NARDONI. Op. cit., p. 119.
17. LUC. XIII. 1. 
18. Cfr. D. NARDONI. Op. cit., p. 125-126. 
19. Cfr. MARC. XV. 7. 
20. Cfr. TAC., Hist. • 9: Sub Tiberio quies.
21. Cfr. R NEHER-BERNHEIM, Le Judaisme dans le moncle romaine, Parigi 1959, p. 27: “César, lors de son expedition d’Egypte…trouve une aide appréciable auprés des Judeéns, dont il se fait dés lors le protecteur, il autorisa notamment la reconstruction des murs de Jerusalem”; JOS. FLAV., Ant. Jud. XlV, 8. 
22. Cfr. JO. XlIX, 3; MAITH. XXVI, 47; MARC. XlV, 43; LUC. XXI, 47: Judas ergo cum acceppiset cohortem et a Pont!ficibus et Phariseis ministros venit Uluc cum latemis et Jacibus et armis. 
23. Cfr. PLIN. JUN., Paneg. Traiani: Vidimus delatorum indicium quasi grassatorum, quasi latronum Non solitudinem illi, non iter, sed templum, sed forum insederant. Nullajam testamenta secura, nullus status certus, non orbitas, non libri proderant. Auxerat hoc malum principum avaritia. 
24. Cfr. JO. XlIX, 13; MAITH. XXVI, 57; MARC. XlIII. 53; LUC. XXII, 34:Et adduxerunt Eum ad Annam. 
25. Cfr. JO. XlIX, 24: Et misit Eum Annas ligatum ad Caipham Pontificem. 
26. Cfr. JO. XlIX, 28; MATTH. XXVII, 2; MARC. XV, l; LUC. XXIII, 2: Adducunt ergo Jesum a Caipha in praetorium.
27. Cfr. JO. XlIX, 30; MATTH. XXVII, 12; MARC. XlV, 3; LUC. XXII, 3: Responderunt et dixerunt ei: si non esset malefactor, non tibi tradidissemus Eum. 
28. Cfr. D. NARDONI, Op. cit., p. 160. 
29. Cfr. JO. XlIX, 40; MATIH. XXVII, 17; MARC. XV, 11; LUC. XXIII, 18. 
30. D. NARDONI, Op. cit., p. 160-161. 
31. Cfr. JO. XIX, 5. 
32. Cfr. JO. XlIX, 38; XlX, 4; XIX, 6; LUC. XXIII, 4; XXIII, 14; XXIII, 22. 
33. D. NARDONI, Op. cit., p. 165. 
34. Ivi, p. 165. 
35. Ivi, p. 132.

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 20-30.




VIAGGIO

Io faccio un lungo viaggio 
del quale non so il senso 
e preparo un bagaglio 
di futili perché … 
Nulla che mi motivi 
eccetto questo cuore 
carico ed emotivo 
che mi guarda negli occhi 
e dice che ho ragione, 
anche senza motivo. 
Meglio così che no …

Pallottini Renata

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 47.




 In fin dei conti, cos’è poesia?  di Renata Pallottini* 

Alcune recenti letture di buona fonte mi fanno rivivere i tempi dei miei studi filosofici, l’epoca felice in cui gli scavi nel terreno della teoria e del pensiero astratto ci chiamavano e richiamavano alla parola. Lontani da noi, i semplici piaceri e le faccende del quotidiano. Kant non aspettava dietro la porta… 

Dedita alla modesta pratica della Poesia, non pensavo di dovere oggi tornare alle indagazioni “sui primi princìpi” e sulle “cause ultime”. Ma andiamo avanti: che cos’è Poesia e, più propriamente, la Poesia lirica? 

Rovistando nell’erudizione degli antichi, ci tocca cominciare da Platone ed è un inizio poco felice. Dice Platone che la Poesia (la Poesia tutta, non solo lirica) ricrea o imita la parola passionale dell’anima, quella che sta più appartata o discosta dalla conoscenza, dalla sapienza. Il poeta fa l’imitazione della imitazione e, di conseguenza, soltanto dell’apparenza. 

Come tale, dev’essere…bandito dalla Repubblica, dai suoi fini educativi. Per fortuna, Aristotele è meno crudele: nel primo capitolo della Poetica, tratta di passaggio la poesia lirica. Di passaggio, perché l’epica e la drammatica occupano molto di più il suo pensiero, in modo tale che, almeno per quanto concerne il teatro, lo stagirita è un’autorità che va costantemente consultata. 

Secondo Aristotele, si tratta di citaristica, per cui la poesia è fatta per essere cantata, avvalendosi dei ritrovati della melodia e del ritmo. Ma una poesia per dire che cosa? 

Con ricorsi melodici speciali parlerebbe degli intimi movimenti dell’anima. Poesia del soggettivo, pertanto, contrapposta all’epica, alla narrativa, alla drammatica, quasi in conflitto con ogni tipo di azione… 

Passando con un lungo salto ad Hegel, abbiamo più materia da mescolare. 

Per il filosofo idealista (XVIII-XIX secolo), la Poesia ha il compito di rivelare alla coscienza il potere della vita spirituale, le passioni che agitano l’anima, gli affetti del cuore umano, i pensieri che si sviluppano nella coscienza dell’uomo; in una parola il dominio completo delle idee, degli atti, dei destini umani, tutto ciò che accade in questo mondo e il governo divino dell’universo (Poetica). 

Così sia pure caratterizzata come espressione del soggettivo, degli stati d’animo, delle emozioni e dei sentimenti umani, proprio per questo, la Poesia lirica non si può caratterizzare appena come pura versione di amori contrastati, di emozioni individuali o particolari, senza importanza o rilevanza per il complesso sociale nel quale si inscrive. Essa è stata ed è in ogni tempo, denuncia arma di lotta, parola modificatrice. 

Basterebbe citare a riprova alcuni poeti, le loro opere. Non si può dimenticare, per esempio, l’influenza che in Inghilterra, come nel mondo intero, ha esercitato la Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde, scritta forse al tempo dell’esilio in Francia (1897), dopo la condanna del poeta a due anni di lavori forzati. Influenza sulle condizioni carcerarie dell’epoca, nonché sull’abolizione della pena di morte. 

Parimenti difficile è ignorare l’importanza che, in occasione della guerra civile del 1936 in Spagna, ebbero i versi di Federico Garcia Lorca, specialmente quelli che compongono il Romancero gitano, in cui denunciava con straordinario vigore e forza lirica gli eccessi e gli arbitri commessi dalla Guarda Civil sugli zingari ed altri gruppi di emarginati. 

Altrettanto significativi, se vogliamo cercare altri esempi, sono i poemi di Walt Whitman sulla dignità dell’essere umano e la libertà in tutti i sensi; i poemi libertari di Castro Alves, gli “indianisti” di Gonçlves Dias, come le opere di Fernando Pessoa, di Sophia de Mello, di Breyner Andersen, di Cesar Vallejo, di Raphael Alberti, di Pablo Neruda, di Giuseppe Ungaretti e di altri. 

Di tanti poeti e del loro inestimabile contributo alla poesia lirica si può dire che hanno saputo stimolare il dibattito delle idee, hanno saputo riflettere il proprio paese, lottare contro le tirannidi e soprattutto hanno significato l’opera d’arte sul piano nazionale loro proprio e su quello universale. 

Renata Pallottini

(Versione italiana di Renzo Mazzone) 

* Vicepresidente dell’Unione brasiliana scrittori dello Stato di São Paulo. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 47-48.




MADRE

Sul letto di morte, 
madre, 
ho baciato le tue mani 
che carezzano i miei occhi 
prima che scoprissi il sole. 
Le tue mani, 
madre, 
che sfornarono il pane lievitato 
tra la guerra. 
Le tue mani, 
madre, 
che profumano di ostia consacrata. 

Antonio Osnato 

Stella polare, Kal6s, Palermo, 2004

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 29.