Stella Polare

Cielo trapunto di stelle.
Occhi nel firmamento
alla ricerca dell’indice paterno.
Occhi assorti, attoniti.
Orecchie che ingoiano parole
del padre ignaro del cataclisma.
Notte velata.
Gran carro, piccolo carro, stella polare.
I figli,
in quel tempo (fratelli),
possedevano la stella polare.
Nessuno esclamò, vivente il padre, è
mio, soltanto mio.
Notte buia.
Occhi che scrutano il firmamento
orbo della stella polare.

Antonio Osnato

(Stella polare, Palermo, Kalós, 2004)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag.10




 Un dibattito da non ritenere chiuso e archiviabile 

1. Fantasticherie e fantasia 

Accettata, per la sua parte, la proposizione di Heidegger che l’arte è una messa in opera della verità, non si negherà che la fantasia ne è non poche volte il battistrada a scoprirla. 

Ma la verità è. Essa non è né passato né presente né futuro, ma è nel passato, nel presente, nel futuro dell’uomo e oltre il tempo dell’uomo. Nella sua sostanziale perennità, la verità, è senza tempo. I mutamenti che le girano intorno – e solo apparentemente sembrano riguardarla fino, a volta a volta, a smentirla – smentiscono, in effetti, credenze e vicende d’uomo. 

Sono, in effetti, mutamenti fenomenici, legati alla dinamica dell’essere e del mutare chimico-fisico-astronomico nel cosmo; antropologico nella storia: logico e conoscitivo nella ricerca e nel cammino del pensiero ecc. Ritenere, perciò, datate e superate alcune verità per il solo fatto che appartengono al passato e, per questo, giudicarle scadute e da seppellire, è l’errore di ossessi avanguardismi sempre con la puzza sotto il naso del già visto, del già sentito e che, proprio in quanto si accaniscono ad abbattere verità per sola smania d’innovare, mostrano i loro presupposti o miopi o chiassosamente esibizionistici. 

Ma altrettale è l’errore di chi vuole, in forza di una tradizione sacralizzata, tenere in vita nei miti del passato – e nei riti e nei modi del passato – come verità le suggestioni e le autosuggestioni, gli sprofondamenti logici in profondità mistico-magiche dell’inconscio, i tolomeismi di scrittura e di pensiero. 

Così, infine, risulta presuntuosa ed anch’essa portatrice dello stesso errore quell’asserzione di verità che si pretende tale se ha il marchio di origine controllata nel riscontro positivistico – che può dare risposte ai come e mai agli ultimi perché – e nega che vi possa essere via alla verità in forza, talora, di una illuminante intuizione. Nella quale è il momento del più alto e teso impegno creativo dell’uomo nel campo dell’arte, della scrittura e, non raramente. anche in quello della scienza e dell’indagine sociale. 

Ma farlo scadere, questo momento, a smania di futurismi senza futuro e a vezzo di fantasticare senza fantasia è vastamente rintracciabile e operante nei nostri tempi. E, insieme con le altre davvero non molte opere di effettiva trazione verso il futuro e il nuovo, manderemo al giudizio dei posteri questa fine di secolo, madre di tanta sconcertata e sconcertante produzione artistica e letteraria, in cui si vanno a nascondere nell’oscurità e nel bizzarro, portati a parodia di genio, false profondità e assenze. E non so prevedere se sarà maggiore lo stupore o la condanna dei posteri – prevedibilmente agganciati domani più che noi oggi da temi e problemi drammatici, in uno stesso contesto tecnico che si va facendo delirio tecnico – per la connivenza di certa azione critica, che conclama originali e creative le provocazioni e le vocazioni della stramberia e, consonante, vibra a ricavare gli assoluti dalle magie, l’insolito da un fantasticare pargoleggiante, trovato rifugio comodo dall’incapacità di scavo psicologico e di lettura al fondo dell’anima delle cose e degli uomini. 

Così si chiama spesso inventiva l’uso spettinato e capovolto di frantumi del passato di seconda e terza mano; si accoglie e saluta come rigeneratrice rivoluzione il trionfo del grottesco come dissacratore di ogni tirannia di ordlne razionale; si dà credito al nonsenso, disertore da ogni umana verità o plausibilità, e disossato completamente della struttura portante delle idee e dei sentimenti; si irrompe nell’antico eccesso di una pulizia troppo agghindata e esornativa con l’altro eccesso della trasgressione di ogni norma della pulizia e del gusto, apponendogli la moda codificata di imbrattarsi di sterco e di trasandatezza, in un’accesa gara a chi trasgredisce di più. Si marcia, così, baldanzosamente contro regole e paradigmi, ingredienti necessari di un prodotto che in tanto è in quanto lo creano, lo reggono in vita e lo giustificano suoi elementi specifici e essenziali a connotarlo e lo verificano norme del giuoco e severe prove del fuoco dei veri talenti. 

Ma per un esteso andazzo, travestite da avanguardia, vengono incoraggiate e trovano accredito una supponenza ciarlatana e un’anarchia donchisciottescamente dissacrante, in mezzo alle quali soltanto possono cantare numerosi e confusi anche i più stonati e gridare protervi quelli che, un tempo, l’incapacità di affrontare vere prove del fuoco costringeva al silenzio e, se non a questo, la spudoratezza al ridicolo. 

Ma, oggi, si è non poco perduto di vista il limite oltre il quale c’è il ridicolo o il risibilmente velleitario. Di qui, col dilagare e l’imperare della moda, il dilagare della resa. Quanti nel nuovo regime culturale i trasformisti affannati a far sparire tessere di figurativismo o di realismo – quasi come dive che, pervenute al successo, si affannano a cancellare dal loro passato il trampolino di lancio del letto del regista o del produttore – e, ora, i più selvaggiamente impegnati a far saltare con le mine del «disordine creativo» e con mimesi del caos ogni struttura di progetto nelle opere e ad annebbiare, fino a uno stato confusionale e al nonsenso, di ambiguità polisemantiche e multipiani di lettura l’autenticità – sorrisa come ingenuità del tutto e chiaramente detto – della cristallina chiarezza, chiesta dall’urgenza del dire e del sentire e fatta necessaria dal proporsi della verità. Il risultato è che il significato (in tempi di disperata ricerca del dove consistere) è mandato in esilio e con esso il pensiero; l’autentico sentire è mandato in bocca ai clown; alla comunicazione si recide ogni filo, aumentando i sigilli alla bocca del silenzio. Ma soprattutto resta sconfitta la vera fantasia: non quella per turisti di evasione nel fantastico posticcio né quella della fuga e del rifiuto, ma quella che si impasta con la storia degli uomini e con la loro realtà a sventolarvi dentro gl’ideali del superamento del limite e a combattervi le battaglie delle sue utopie e, con ciò, a fare la storia e a far crescere la coscienza, forza motrice, pur in un contesto di contrasti violenti e di mortificazioni e di ritardi, della promozione umana. 

2. I vestiti del buon senso 

Sì, v’è un preteso buon senso, così battezzato in forza di tradizioni che lo hanno impastato col pregiudizio, con la paura del nuovo vestita da cautela, con la crassa autorità del potere, con i falsi valori arzigogolati dalle ipocrisie, dai sofismi e dalle furberie degli egoismi. Lo hanno poi sorretto, via via, e sacralizzato vassalli, valvassini e valvassori del pensiero altrui e, infine, tenuto in vita menti pigre spaventate dal solo pensiero di lasciare il comodo tradizionale giaciglio per un arduo e nuovo cammino. 

Ma v’è un buon senso figlio della luce che ha indagato; nato dall’esperienza che si è scottata le mani al fuoco e ha imparato la fiamma; seguito al volo che si è ammaccato al suolo e ha, perciò, imparato i limiti del sognare e l’inaffidabilità della velleità; che si è chiuso spesso nel silenzio e lì ha avvertito l’inutilità del rumore; che ha portato e prestato le idee all’esperienza e l’esperienza alle idee.  

È questo un buon senso da cui nessuno e niente, se non gli arruffamatasse e le loro astratte stupidaggini, possono prescindere. 

3. Avanguardie senza passato, senza presente, senza futuro 

A guardarvi in fondo, ogni movimento di avanguardia, mirando al rinnovamento, parte, pur in mezzo a dichiarazioni solenni di rivincita dell’irrazionale, da una profonda rivolta del razionale contro l’abuso delle forme, contro la maniera, contro la ripetitività, contro il pappagallismo delle mode contro l’insincerità melensa delle arcadie di ogni genere. Parte, ripeto, da una rivolta razionale, ma che, carica, come ogni ansia di abbattere e rinnovare, di una sua ebbrezza, si va, via via, sempre più euforizzando fino alla pesante ubriacatura e alla perdita di controllo ed esaspera le premesse radicalizzandole, le svia, le svuota delle ragioni, pure giuste, dell’originario progetto, tutto portando a cadere in braccio a un irrazionale astratto che per niente collima con quell’irrazionale della vita che, in quanto risponde a logica di vita, si scontra e si mescola col razionale e ne mantiene i segni della probabilità e della necessità. 

Accade, così, che ineluttabilmente il movimento di avanguardia si confina e restringe, strada facendo, nella rivolta del gusto col naso arricciato. Nella ricerca ad ogni costo del cambiamento, scambia e non cambia, scambiando le allucinazioni per intuizioni, la droga per ispirazione. Scivola nello snobismo come stadio patologico dell’esclusivismo. Si va sempre più esaltando nell’esercizio della provocazione e della dissacrazione e, quando un certo tipo e una certa dose di provocazione non bastano più, ne inventa e adotta altri più vistosi e rumorosi: si fa chiasso per attrarre l’attenzione, meravigliare o scandalizzare; si va facendo sempre più enorme (nel senso di uscire sempre più dalla norma per ogni aspetto), infervorandosi in un imperialismo di poetica e in una perentorietà di giudizio, finendo a una costante e talora esagitata (quando scappa la pazienza falsa della sufficienza) opera di mortificazione e irrisione dell’equilibrio, del senso comune e, perciò, di una maggioranza – quasi totalità – di lettori, spettatori, uditori, al cui consenso, spregiato in parole, in effetti intimamente si aspira, ma a cui si vieta la partecipazione col cartello «Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori». 

Eppure, proprio quando pare che la pretesa avanguardistica abbia schizzinosamente tenuto lontana la quasi totalità, è, invece, essa stessa che si è rinchiusa nei limiti e nella improbabilità del suo recinto, fuori della storia, fuori del respiro della verità umana, esaltandosi in ripetute dichiarazioni di guerra alla figura, al significato, al contenuto e, come quelli che pretendono di cambiare l’amplesso amoroso, tale nella sua essenziale, genuina, semplice e pure meravigliosamente creativa forza di natura con l’apporto lentamente suicida della cocaina, così la sindrome ossessiva del sempre più fuori dal banale del quotidiano porta arte e letteratura sempre più fuori dalla vita in un loro lento suicidio. 

Non pochi avanguardisti già arrabbiati. facendo emergere un più avvertito senso autocritico da quegli angolini della riflessione, cui portano l’età e l’onestà intellettuale. hanno avvertito o vanno avvertendo l’esaurimento e la labilità delle ragioni del correre nel deserto di un futuro, che mai sarà. e rientrano nell’ordine non di codici paleoartistici né di anchilosate istituzioni che vi trovano ancora rifugio. ma in quello che ha costruito e va costruendo per modifiche e convalide la vita con le sue pulsioni e la sua mai stanca creatività nell’ancora illetto contesto delle sue leggi. Patetica, a fronte di ciò, risulta la resistenza ad oltranza degli ultimi e fanatici cecchini delle pseudorivoluzioni culturali sulle rocche sbrecciate delle loro astrattezze, rimanendo senza un passato, in quanto lo hanno distrutto, senza un presente in quanto, tenendo l’occhio a un futuro astratto, non vedono quel che vive e urge nel giorno che si svolge, senza futuro, in quanto straripano dal letto che vi porta per le vie dell’uomo e non dell’idea astratta di uomo. 

Caravaggio, gli impressionisti, Pascoli, Einstein, per fare, fra gli altri, alcuni significativi esempi, operarono nel loro tempo, rimanendovi, una irriducibile, irricucibile, epocale rottura col passato che nel loro tempo permaneva, e, quindi col loro tempo, ma senza chiasso di manifesti né costituzione di gruppi scamiciati sulle barricate delle pseudorivoluzioni. E le loro opere e l’effetto di esse rimangono senza l’ausilio di revival a suffragio editoriale né mobilitazioni ad hoc di critici generosamente accomodanti e generosamente retribuiti. 

4. Le gabbie 

Ma arte e vita, non verità di vita filtrata per il crivello di zdanovismi di qualsiasi tipo, accomodata alle proprie chiese per inginocchiare opere e autori al Molock delle ideologie, ai catechismi delle estetiche di gruppo (niente è più soggettivo e isolato della reazione a un dato del pensare e del sentire che si fa ispirazione e creazione), ai sistemi onnicomprensivi, montati nei laboratori cerebrali, che pretendono di sostituirsi alla vita, anzi di ingabbiarla. 

E niente è più fuorviante e devitalizzante del voler regolare la vita fuori delle sue insostituibili norme naturali, combattendone la flessibilità, la logica tramata di raziocinio e irrazionalismo, la fantasia, le emozioni, le gare e le trovate sempre nuove e creative dell’insopprimibile egoismo come difesa, affermazione e proiezione di sé per naturale espansione di forza vitale, i voli, i crolli, i fragili eroismi, la saggezza del cuore e lo scandaglio della mente nei suoi viaggi al nulla e ritorno, il gran libro della memoria, l’aspirazione che si leva dalla, sulla e per la vita e oltre, irrorata di sangue, di carne, di storia e delle alte utopie che la muovono. 

Non c’è bisogno di uscire dai suoi territori per ricerche di altri linguaggi e cammini: nella vita c’è tutto: dai ghirigori estrosi del capriccio alla drammatica febbre dell’assoluto, dalle verità emerse nel tempo attraverso la più didatticamente efficace lezione dei sudori, degli errori, dei fervori, degli stupori e dei tremori dell’uomo alle verità ancora nascoste nelle pieghe dei suoi non ancora svelati misteri. 

Perciò la vita resta il vero e materno utero dell’arte. Le opere nate da piatta ubbidienza a mode o a diktat ideologici, estetici, filosofici, proprio in quanto sono state concepite fuori dalla vita come luogo del sentire, agire, progettare dell’uomo, hanno, nascendo in rigide strutture obbligate, una, per così dire, già loro rigidità cadaverica. 

5. Un conto aperto 

Né è chiuso il conto tra sogno e realtà. Né, prevedibilmente, per destino di uomo, l’uno escluderà l’altra o viceversa. E, infatti, la ragione (necessità-onestà-orgoglio intellettuale di rigorosamente consequenziali partenze e approdi logici – che non si lascino sedurre e sviare dalla prepotenza del dato emotivo -) e sentimento (rimpianto di cose tempi eventi insaporiti di mito, bisogno di sogno, proporsi e riproporsi di tradizioni legate al cuore e, per esso, ai ricordi e agli affetti – che si oppongano all’inaridimento e alla desertificazione, cui spinge la ragione -) non riescono a stipulare una pace definitiva, per la quale l’una si riconosca vinta definitivamente dall’altro, e viceversa, e ne riconosca finalmente la sovranità. 

Fanno delle tregue, alla cui base è il compromesso, nel quale si compenetrano delle temporanee necessità. più che delle ragioni, l’uno dell’altro. E su ciò soltanto poggiano le contingenti clausole delle loro precarie tregue. Per il resto l’una e l’altro, come superstiti di un’armata rotta e dispersa, che rifiutino tuttavia di alzare la bandiera bianca della resa, vanno ogni volta radunando i motivi – sia pure laceri di ferite, sporchi di polvere e di sudore, traballanti di dubbi – per un’eventuale vittoria. Non prevalgono ancora e sempre le ragioni di una pacifica convivenza, come pure tanto vastamente è nella natura e necessariamente deve essere della vita. 

Accade perciò che spinti e puntigliosi illuminismi non riescano ad affrancarsi, nella loro demolizione dei miti, dallo scrivere Dio con la maiuscola e, dall’altra parte, che i sudditi più lealisti del dogma anelino a rivolte per evadere ai luoghi della libertà, del dubbio e della ragione. 

Il più alto tasso di arte, le più folgoranti scariche di poeticità, i più alti contenuti di civiltà non sono nati e non nasceranno da una realtà non lievitata dal sogno, staccata e inerte, né, tanto meno, dal sogno solitario eremita, che si maceri e si dissolva nell’aeriforme impalpabilità dell’irreale, ma si registrano nella coabitazione e nello scontro tra sogno e realtà, tra storia e ideale, quando il pensiero si sanguifica e si avviva nell’emozione dell’utopia e l’utopia con le gambe tremanti per l’emozione chiede il sostegno del pensiero. Nel caos Si aprono spiragli all’armonia, nel nonsenso ammiccano lontane luci di significato e l’essere. proprio perché s’interroga a ricercare un suo fine, svela la sua ansia ad un’alta milizia nella vita. Sono i momenti in cui le pretese dell’intellettuale puro e dell’arte pura avvertono il segno del pudore e il sospetto e il timore dell’inutilità. 

6. Le pseudoterapie 

I gelosi guardiani dello splendido isolamento della letteratura, col pretesto della difesa della sua specificità e inappartenenza, spingono a fare della storia (e, quindi della vita, che di tutta la storia è matrice, nel bene e nel male) la, nemica dichiarata della letteratura, che essi vogliono fuori della storia e contro di essa sempre e indistintamente, come altro da essa. In questo prendere le distanze dalla storia. la letteratura è portata a una neutralità che di necessità la riduce a una schizzinosa lontananza dalla vita, a una corporativa letterarietà tutta chiusa in una vita da scaffale, a una incorporeità, in cui anche lo spirito si dissangua. E a siffatta letteratura, ormai, non molti – e pochi anche fra gli stessi addetti ai lavori – sono disponibili a concedere la giustificazione dell’essere e rimanere tale. 

È incontrovertibile, invece, che la letteratura, come ogni altra manifestazione di arte. è una delle tante esigenze ed espressioni del vivere dell’uomo in società (chi scrive sempre e in ogni caso. anche quando recita solitudini, si pone di fronte dei lettori o a dei lettori) e, come tale, una delle componenti della vita nel suo farsi storia e civiltà. concorrendovi e promanandone. 

Da qui la necessità che la letteratura tenga o riporti i piedi nella vita, la narrativa, a narrare, non distorta dalle sue motivazioni e dai suoi fini, la poesia, a rifarsi interprete di quel mondo inesaurito e inesauribile che è dentro l’uomo e, perciò, nella sua vita e nella sua storia. È qui che la letteratura deve operare a portarvi sì il suo sentore di esilio ma anche i suoi progetti di alternativa e il suo grido, sì i capogiri delle sue altezze, ma anche lo sgomento e la rottura e, al tempo stesso, i materiali della ricostruzione e della pacificazione, ma, in ogni caso vivendoci e vivendone e ravvivando, nel ruolo di cervello che riceve e pensa e di cuore che lo nutre e irrora di sangue e di sentire. 

A così operare, senza ruoli di servizio permanente effettivo agli ordini di niente e di nessuno, è necessario il coraggio dell’uscire da certo conformismo gregale che acriticamente piega il capo alle mode e, non meno negativo, alle consegne dell’abitudine e dei giudizi passati di bocca in bocca, e aggiungere senza la paura che il proprio dire si senta e noti più nel generale silenzio, la propria voce a quella dei pochi coraggiosi, che, ad esempio, dicono che Picasso non è poi stato quell’inarrivabile genio che si dice in coro; che, sempre ad esempio, i Zanzotto. i Manganelli, i Sanguineti e succedanei, nel proposito validissimo di sconfiggere rancidume e ristagno, sono soltanto pervenuti allo stravolgimento, punendo, peraltro, la loro stessa spiccata vocazione e autenticità e togliendo alle loro opere. essi che pure ne hanno capacità e mezzi notevolissimi. il respiro che vincesse la contingenza e con essa i limiti del tempo e dello spazio per farsi attuale sempre e ovunque, che è il presupposto dell’universalità. E si sa che ciò non è se non si riesce a cavarsi fuori dalla smania dell’inusuale che scivola alla soglia del dandismo letterario e dello snobismo o anche se non ci si porta fuori da quella troppo risentita reattività che spinge a esasperare poetiche dell’opposto con i loro eccessi del contrario fino alle distruzioni con solo rovine e solo babeliche summe di rifondazioni. 

Perciò, diciamole queste cose prima dei forse necessari cinquanta anni per dirle poi in pentimenti, getto di tessere e rivisitazioni critiche e autocritiche. 

Altrimenti? Sì, altrimenti, avversata dai suoi nemici e screditata, per la via della estenuazione o per quella della esasperazione, da non pochi dei suoi stessi cultori; spinta dai grandi e incalzanti rivolgimenti di valori e mutamenti dei costumi in angoli sempre più piccoli e remoti del vivere; sconfitta, di fatto, da mezzi più tecnicamente aggiornati, più rapidi e, perciò, più mediatori di informazioni e formazione dell’opinione; tenuta in uggia dalle sedi e dai criteri della programmazione del tempo libero; aggiogata dalle mode e dal profitto editoriale, la letteratura, si troverà in sempre maggiore difficoltà a giocare la sua carta decisiva: o a dare quello che il cinema non può dare, la televisione non mediare fino alle segretezze del sentire e del pensare, la sfilata delle mode non riempire, lo stadio, il sesso, il partito politico, la discoteca, l’oratorio, il bar, il club, i jeans non tacitare né ogni sforzo di vacanze più o meno intelligenti sostituire, oppure finire nella preagonia, che si crede ancora vita, degli enti inutili a sovvenzione statale. 

E il problema tocca più da vicino e con più urgenza la poesia. Proponendosi, infatti, nell’urto dei tempi e nella sospensione dei giudizi l’interrogativo se ancora poesia e, se sì, con quali motivazioni, per quali vie, con quali strumenti e con quali riferimenti, la pseudoterapia proposta dai costruttori di bare poetiche e cioè che la poesia, per esser tale, debba tenere sempre e necessariamente almeno un piede – tanto meglio, poi, se ce li tiene tutti e due – nel surriscaldamento del delirio lirico, nella allucinazione onirico-visionaria, nel furore della eversione linguistica fine a se stessa, nel congedo illimitato da ogni ordine mentale, negli eremitaggi della incomunicazione, nell’autoghettizzazione dell’afasia – tuttavia piena di presuntuosi ammicchi per dare ad intendere che ha in corpo cose troppo grosse da poter dire con le possibili parole dell’uomo -, nella boscaglia intricata delle metafore che si rincorrono sempre più impervie e oscure, perché il buio più buio del buio fa tanto ambiguità e intelligenza, questa terapia, diciamo, è l’esatto contrario del rimedio necessario, perché, lo ripetiamo, propone messaggi in profezie senza futuri. Il diritto del poeta a sognare irragionevolmente? Sì. anche questo diritto, contro ogni possibile censura. Ma, volerlo, il poeta, sempre e soltanto consacrato e sfinito in questo ruolo? Come ci svoglia, questa idea, e immalinconisce e spinge al sorriso, non cattivo, che è più irrimediabile! 

Né meno esiziale, per portata di effetti primari e collaterali, è quella pretesa terapia d’urto che volendo combattere e sconfiggere il pateticume va a deragliare nella caccia all’ultimo sentimento. Con la conseguenza di una poesia prosciugata fino alla disidratazione di ogni umore vitale, alla scomparsa dalla letteratura dei figli, dei padri, delle madri (uccidendo le madri per uccidere il mammismo), di ogni pur piccola traccia di pathos, ignorando, o fingendo di ignorare vergognandosene, i visceri, le molecole, gli ormoni, le scariche elettriche che passano per i neuroni al cuore, fisiologicamente presenti nell’uomo con la stessa necessità e, perciò, inestirpabilità, dei sentimenti, cui danno vita. E l’elogio di certa geometrica impotenza di fuoco poetico di un poetare androgino, le cotte di scapigliati ex seminaristi per i Céline, gli esibiti (in pubblico) distacchi dalla debolezza del sentimento in recita di forza d’animo e di intelletto, le poetiche della flemma (Poesia e Flemma!). ogni principio di ardere spento con gli estintori della ragione. E poi in casa? Togliersi la maschera, svestire i paludamenti degli eroi di carta per una febbre di figlio, per un venir meno di vecchio padre o di vecchia madre, per un affacciarsi cupo di futuro. E il tragico pathos dell’esistere se appena l’intelligenza vi scruta dentro? 

È anche questa della guerra al sentimento una conseguenza di sessantottesche deviazioni (dal buono, dal nuovo, dal veramente vitale e dirompente che pure il sessantotto propose). Pensiamo al radicalismo di certo femminismo ammazzasesso, rancoroso e punitivo e autopunitivo, alla figura posticcia del rivoluzionario tutto Mao e rivoluzione, che si atteggiò a trascurare e disprezzare, come mollezze del vivere borghese, impulsi sacrosanti in natura, alle pseudofilosofie che ignorano che niente inizia a filosofare che non inizi dalla vita, ai socialismi scientifici che ignorano che niente c’è di meno scientifico nell’operare a tradurre in atti idee del non tenere in conto ciò che di individuale non è estirpabile dall’individuo per costante testimonianza antropologica, alle strategie che non seppero essere se non impastate di sangue come il tragico donchisciottismo dei partiti armati. 

Un rivolere, allora, i prati sempre fioriti di speranze o innaffiati delle lacrime del pathos? No. Fare anche entrare nei sentimenti, com’è nella vita, il soffio freddo della verità e della ragione, la misura, ma non l’astinenza, perché i sentimenti non siano vaneggiamenti né pretendano di trascinare anche il logos nei manifesti di vitalismi miopi e ottusi o nella sfrenata sarabanda dei loro inni e nelle lunghe e inconsolabili loro trenodie del perduto e del rimpianto, ma, ciò, entro i limiti che neghino anche alla ragione ogni pretesa di razionalizzare gli impulsi e snaturare la natura. 

Mario Ortu 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 11-21.




 IL POETA 

Ho nell’anima 
un gomitolo 
di mille lane intrecciate. 
Ogni tanto 
ne tiro fuori un filo 
(oltre il capo non so come sia), 
una poesia. 

Alessandro Orlando

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 47.




 COME SI INNAMORA UN UOMO 

Nella notte severa 
c’è un cane 
che dà un po’ del suo piscio 
ad ogni albero che trova … 
A quelli che gli piacciono, di più … 
Così, senza logica: 
come s’innamora un uomo. 

Alessandro Orlando

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 47.




 POEMA ALLA MUSICA 

Il grembo delle femmine assomiglia 
al fondo dei pianeti, 
che fermenta ed esplode 
in nuove essenze, 
magia del Verbo, musica del Cosmo 
che in note intense plasmano gli dei. 
È il suono ciò che resta e ricomincia 
nel colore, in un bacio 
o nella con-fusione del pensiero 
e ogni attimo 
di questo mio incantesimo 
è musica divina, 
recondito vibrare.
Quante note compone la natura 
nella sua sinfonia? 
Con il linguaggio degli illuminati 
per gli angeli si creano universi 
egli uomini 
si fanno incontro all’intima scintilla. 
Il liquido che brucia nelle vene 
ha il brusÌo delle api 
sul polline dei fiori 
e somiglia alla musica creativa 

Elizabeth Oliveira 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 42.




La radice psico-sociale della responsabilità in B. Croce 

 Parlare di radice psico-sociale della responsabilità in Benedetto Croce, potrebbe far pensare a qualcosa che contrasti frontalmente con il suo noto antipsicologismo. In realtà non è così se si tiene bene presente l’esatto significato dell’antipsicologismo emergente nel pensiero crociano. Al riguardo sembra particolarmente illuminante quanto lo stesso Croce ha modo di puntualizzare in Filosofra della pratica: «Nel rifiutare ripetute volte… il metodo psicologico, siamo stati bene attenti ad aggiungere le frasi di cautela: “metodo filosofico-psicologico”, “metodo speculativo-descrittivo” e simili, perché si avvertisse che la nostra ostilità era contro quel miscuglio, ossia contro l’intrusione di quel metodo nella filosofia, ma non contro la Psicologia stessa»l . 

Come si può agevolmente rilevare, la polemica del Croce non è contro il “metodo psicologico” o la psicologia senz’altro, ma contro la confusione che a volte si tende a fare tra psicologia e filosofia o, per usare la stessa espressione del Croce, contro il loro indebito “miscuglio” emergente ogni volta che si giudica possibile un «passaggio dall’empiria (nel caso la psicologia) alla filosofia»2 , quasi che l'”empiria” possa essere «affinata…a filosofia»3. 

Per quanto si voglia “affinare” la psicologia (giusto per stare a ciò che qui particolarmente ci interessa), questa non potrà mai tramutarsi in filosofia, per il semplice motivo che appare finalizzata ad un obiettivo specificatamente diverso da quello della filosofia: ha per scopo infatti, secondo il Croce, «di ordinare e classificare in qualche modo le infinite intuizioni e percezioni…e di ridurle a schemi pel più facile possesso e maneggio»4, non di risalire alla loro intrinseca ultima scaturtgine, e quindi «di investigare i principio»5. La filosofia, invece, si propone proprio quest’ultima cosa6 : ha, infatti, per oggetto lo stesso Spirito universale concreto, inteso come principio immanente del reale, “omnirappresentativo” e “ultrarappresentativo”7 insieme, «autocoscienza che genera e regge la conoscenza»8, ossia come ciò che, una volta intravisto nella sua intrinseca vitalità, consente di intendere il reale storico concreto come progressiva 

attuazione di questa sua vitalità, e più segnatamente delle categorie (=estetica-logica-economia-etica) che ne scandiscono le varie direzioni. 

Insomma, si potrebbe dire sinteticamente che, mentre la filosofia abborda il reale alla sorgente (e cioè lo indaga a partire dalla sua intrinseca scaturigine), la psicologia (come ogni altra scienza empirica) lo abborda alla foce (limitandosi a “ordinare e classificare” quanto da quella sorgente emana), conseguentemente con finalità teoretiche (la filosofia) e pratiche (la psicologia). Si tratta, pertanto di due discipline ugualmente giustificate, distinte però per natura e, in quanto tali, irriducibili l’una all’altra. 

Questa distinzione, tuttavia, non significa, né può significare l’esclusione di reciproci e complimentari influssi tra le due discipline: esse, infatti, se da una parte appaiono distinte e inconfondibili tra loro, dall’altra non possono non rivelarsi strettamente connesse nella circolarità dello spirito di cui esprimono due diverse e ineliminabili esigenze vitali. 

L’analisi crociana della responsabilità rappresenta un significativo e concreto esempio di questa distinzione e, insieme, complementarietà tra filosofia e psicologia: si tratta, nel caso di un’analisi in sé tipicamente psicosociologica, subordinata, però, a un “tutto” altrettanto genuinamente filosofico. 

Ciò precisato, possiamo tentare di puntualizzare brevemente l’atteggiamento crociano sul problema della responsabilità. In Etica e politica il Croce, nell’intento di chiarirci il suo pensiero al riguardo, dopo avere accennato alle discussioni circa la libertà di arbitrio da parte dei deterministi e dei difensori di tale libertà, sottolinea l’inutilità di una simile polemica in quanto verterebbe circa un problema mal posto e come tale inesistente. L’errore qui, secondo il Croce, sta nel contrapporre come inconciliabili tra loro libertà e necessità, con l’ovvia conseguenza di negare o la libertà (è il caso dei deterministi) o la necessità (è il caso dei difensori del libero arbitrio): elementi ugualmente caratterizzanti dell’atto volitivo in sé considerato. 

Libertà e necessità – precisa il Croce – non sono due elementi contrapposti, inconciliabili tra loro, ma al contrario sono a tal punto collegati che, se esaminiamo a fondo la cosa, dobbiamo concludere con l’identificarli. La libertà coincide con la necessità, e consiste nell’agire conforme a quello che si è momento per momento. «Azione libera – così il Croce – è quella che il nostro spirito crea perché non potrebbe crearne altra, l’azione pienamente conforme all’essere nostro nella situazione determinata»9. Ciò «è comprovato – soggiunge – dalla forma perfetta del conoscere, il conoscere storico, nel quale le azioni sono spiegate, qualificate e intese, ma non lodate o condannate, e non vengono riportate agli individui come a loro autori ma al corso storico, del quale sono aspetti»10, cioè queste azioni «non vengono lodate o condannate» appunto perché, in ultima analisi, esse trovano la loro scaturigine in qualcosa che è al di sopra dei loro autori, e cioè precisamente in uno stato di necessità a cui questi ubbidiscono. 

Del resto la «stessa cosa – sottolinea ulteriormente il Croce – traluce nella tante volte notata molestia dei grandi, consapevoli di essere stati strumenti di qualcosa che li supera»11 e addirittura «nella candidezza di certi scellerati, che affermano che hanno dovuto fare quello che hanno fatto e non potevano non fare, ubbidendo a una necessità»12. 

Ma se la libertà coincide con la necessità, come si può parlare di responsabilità? «La risposta – dice Croce – è semplicissima: non si è responsabili, e chi ci fa responsabili è la società, che impone certi tipi di azione e dice all’individuo: Se tu vi ti conformi, avrai premio: se vi ti ribelli, avrai castigo; e, poiché tu sai quello che fai e intendi quel che io ti chiedo, io ti dichiaro responsabile dell’azione che eseguirai»13. 

 

Una situazione analoga si verifica nel nostro intimo «quando poniamo un ideale o un fine» da aggiungere, e cioè quando agiamo non in rapporto a ciò che siamo momento per momento, ma a ciò che ci proponiamo di diventare: «in quell’atto stesso, ci facciamo responsabili di non adempierlo o di non averlo adempiuto» 14. Da qui il rimorso che consiste nel prendere coscienza dello stacco tra ciò che abbiamo fatto e ciò che avremmo dovuto fare in base all’ideale propostoci. Se però «dall’atteggiamento pratico, dallo sforzo di volontà intento a creare il mondo», e cioè a realizzare un cambiamento in noi e nelle cose (e quindi un “fine”, un “ideale” che ci poniamo) ci fermiamo «al puro atteggiamento teoretico»l5, ossia a ciò che siamo momento per momento, ci renderemo conto dell’irragionevolezza del rimorso su tale piano, in quanto il nostro agire, di cui «ci addoloriamo», non poteva non essere quello che è stato. Esso, infatti, corrisponde a ciò che eravamo in quel momento: «quel che abbiamo fatto – precisa appunto il Croce – rappresenta l’essere nostro»l6. 

Di responsabilità, pertanto, non si può parlare in rapporto all’atto volitivo in sé, ma solo al dovere essere: in altre parole – come il Croce spiega ulteriormente – la responsabilità «è un momento della dialettica del fare»17, cioè nasce per “fini pratici”, perché ci sia responsabilità in concreto si richiede che l’individuo «abbia la capacità di intendere quel che ha fatto e quel che da lui si chiede e si pretende»18, perché solo se «è in grado di comprendere e ragionare, ha in sé la condizione per un cangiamento volitivo»19. 

In termini alquanto diversi, si potrebbe dire che noi non siamo responsabili in rapporto al volere in sé, perché questo, considerato nella sua intrinsecità, si presenta come coincidenza di libertà-necessità e perciò come creatività, sottratta, in quanto tale, ad ogni deliberazione (proprio come analogamente avviene per l’espressione estetica in rapporto al sentimento su cui nasce20. Siamo. però, responsabili in rapporto a quella che è la base di questo nostro volere (e cioè il nostro essere concreto), in quanto è nelle nostre possibilità modificarla, incanalandola in una direzione consona all'”ideale”, al “fine” che ci viene imposto dalla società o anche da noi stessi (che siamo poi società immagazzinata), in modo che il nostro volere possa risultare opportunamente orientato nella sua creatività21 . 

Questa scaturigine psico-sociale della responsabilità, secondo il Croce, non può non gettare una luce più giusta su quello che dovrebbe essere fondamentalmente l’atteggiamento della società verso il colpevole. Anche il delinquente ha agito in conformità a ciò che è. Si tratta di portarlo (attraverso un’azione di recupero) a diventare diverso da quello che è. Il dovere della società, di conseguenza, non è tanto di punirlo, ma quanto di metterlo in condizione di cambiare se stesso. e questo tanto più che quel “se stesso” trova proprio nella società gran parte della sua spiegazione. Certo, con questo non si vuol dire che non sia giustificata la pena. Oltretutto, se di responsabilità non si può parlare in rapporto al singolo atto volitivo in sé considerato, in quanto espressione necessaria di ciò che si è, se ne deve normalmente parlare in rapporto alle eventuali manchevolezze passate che hanno consentito le attuali deformazioni di chi agisce: «la verità – dice, infatti, al riguardo Croce – è che dal cuore viene anche tutto quel male che sembra prodotto di falso vedere, perché quel falso vedere essi se lo sono foggiato coi loro sofismi»22. Anche in tal senso, però, la pena, perché sia ragionevole, non deve essere mai fine a sé: deve avere di mira di «disporre diversamente la volontà dei componenti di un complesso sociale», o, ciò che è lo stesso, deve avere «un valore energetico sulle coscienze»23. Insomma, anche nel caso della giusta pena non ci si deve mai dimenticare che – non siamo responsabili, ma siamo fatti responsabili». 

L’analisi crociana sulla scaturigine del sentimento di responsabilità non si limita solo a gettare una luce nuova sul modo più giusto di intendere la pena, ma, come è facilmente intuibile, si presenta ricca di significativi riflessi anche sul poblema psico-pedagogico concreto, specie per quanto concerne lo sviluppo della coscienza morale nel fanciullo. L’intuizione crociana, infatti, qui può significare (un po’ in analogia a quanto in grande viene affermato con la positività della storia, «mai giustiziera, ma sempre giustificatrice»24 una forte motivazione in più per sdrammatizzare gli errori di percorso del fanciullo, sgombrare il suo animo da pericolosi accumuli psicologici negativi, in modo da favorire, così, il massimo equilibrio nella formazione del suo io etico-sociale. A conclusione di questo breve accenno all’atteggiamento crociano sul problema della responsabilità, sembra opportuno sottolineare che, qui, ciò che rende meritevole di particolare attenzione il discorso crociano non è tanto quello che esso si sforza di mettere in risalto, ma tanto il fatto che ciò che viene affermato, oltre che frutto di attenta analisi psico-sociologica dei fatti di esperienza, si presenta supportato dalla luce di fondamentali intuizioni filosofiche (quale, ad esempio, la positività della storia), alle quali il discorso crociano appare subordinato. 

Alberto Nave 

1.B. Croce, Filosofia della pratica, Bali, Laterza, 1973, pag. 69.
2.  Ibidem, pag. 78. 
3.  Ibidem. 
4.  Ibidem, pag. 69. 
5. Ibidem, pag. 78. 
6.  Cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia. Bari, Laterza, 1973, pag. 141. 
7. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza, 1971, pag. 16. 
8. B. Croce, Filosofia e storiografia, Bari, Laterza, 1969, pag. 40.
9. B. Croce, Etica e politica, Bari, Laterza, 1973, pag. 102. 
10. Ibidem. 
11. Ibidem. 
12. Ibidem, pag. 103. 
13. Ibidem. 
14. Ibidem. 
15. Ibidem. 
16. Ibidem. 
17. Ibidem. 
18. Ibidem. 
19 Ibidem. Circa il sottofondo teoretico su cui si delinea l’atteggiamento crociano sulla “responsabilità”, tra gli altri, cfr. anche: D. Soleri, Ubertà e moralità nella filosofia di Benedetto Croce, Reggio C., Tip.”Fata Morgana”, 1944, pagg. 11 e ss.; G. A. Roggerone, Croce e la fondazione del concetto di libertà, Milano, Marzorati 00.,1966, in particolare, pagg.220 e ss.; L. Dondoli, Benedetto Croce: intuizione, conoscenza storica e panteismo etico, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1984, segnatamente le pagg. 43-71; V. Vitiello, Etica e liberalismo nel pensiero di B. Croce, Napoli, 1964. 
20. Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1965, pagg. 57-59; come pure, sempre dello stesso Croce, Problemi di estetica, Bari, Laterza, 1966, pagg. 17-30.
21 Non è superfluo sottolineare, qui, che la libertà affermata dal Croce come coincidente con la necessità è la libertà intesa rigorosamente come spontaneità: essa non ha nulla a che vedere con la cosiddetta libertà di arbitrio o di scelta, di cui il Croce non mostra interesse a discutere direttamente, sia per la nausea provocata al riguardo dalle vuote polemiche del recente passato, e sia, soprattutto, perché la presuppone cosa troppo ovvia (altrimenti non si potrebbe neanche essere “fatti responsabili”). A differenza della prima, che caratterizza l’agire in sé considerato (ossia, l’agire in quanto espressione di ciò che siamo momento per momento), la libertà di arbitrio è qualcosa che caratterizza l’agire rapportato a ciò che dovremmo essere, o anche (giusto per essere più aderenti al contesto crociano) l’agire rapportato alla dialettica del fare. 
22 B. Croce, Filosofia della pratica, cit. pag. 46 
23 B. Croce, Etica e politica, cit., pag. 104. 
B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., pag.79. 

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 19-24.




 L’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico* alla luce di alcune involuzioni  presenti nello storicismo crociano 

l -Il problema del fondamento epistemologico e la crisi contemporanea dei valori 

Parlare dell’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico nel nostro tempo potrebbe significare (almeno da una certa ricorrente angolazione) un indebito accostamento di realtà culturali troppo diverse tra loro per poter avere qualcosa in comune da dirsi. E invece, se riflettiamo bene su quella che sembra emergere come una delle cause di fondo (se non come l’unica vera causa) della crisi di valori nel nostro tempo, e cioè sulla frattura, presente in larghi strati del pensiero contemporaneo, tra le istanze dell’essere e del divenire, della trascendenza e dell’immanenza, non sarà difficile intravedere come questa frattura si concretizzi prossimamente nell’impossibilità di assegnare un fondamento solido al conoscere in modo da sottrarlo al logorio del tempo, un fondamento solido che invece rappresenta il punto fermo di tutta l’impostazione agostiniana del problema della conoscenza, Il positivismo, lo storicismo, il neopositivismo e l’empiriocriticismo sono tra le espressioni più tipiche di questa frattura in atto nel pensiero contemporaneo e del conseguente naufragio della ragione teoretica, concretizzatosi, poi, a sua volta nel problematicismo in filosofia 

e in pedagogia, o più genericamente nel cosiddetto pensiero “post-moderno”. 

Venendo a mancare una base sicura all’attività conoscitiva, è evidente che tutto finisca, pressoché inevitabilmente, per avvolgersi nella fitta foschia di un relativismo a sfondo scetticizzante, rendendo precario in partenza ogni possibile discorso sui gravi interrogativi a cui direttamente o indirettamente appare collegata la vita umana nella molteplicità delle sue manifestazionil. 

L’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico emerge drammaticamente proprio dalle insanabili contraddizioni o involuzioni (con conseguenze a tutti i livelli) in cui una considerevole parte del pensiero contemporaneo, a causa del suo rigido immanentismo, finisce, suo malgrado, 

per sfociare. 

Particolarmente sintomatiche al riguardo alcune involuzioni emergenti (sempre a proposito del problema del fondamento epistemologico) in uno dei massimi teorici della filosofia dell’immanenza del nostro tempo: B. Croce. 

2 – Alcune significative analogie tra le posizioni agostiniana e crociana sul 

problema epistemologico 

Allo scopo di intravedere meglio l’indiretto risalto che queste involuzioni finiscono per dare all’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico, sembra particolarmente opportuno iniziare col porre in evidenza una certa significativa analogia facilmente riscontrabile tra alcune tipiche affermazioni crociane circa il problema epistemologico e la nota posizione agostiniana al riguardo2. 

S. Agostino, come sappiamo, pone nell’autocoscienza il punto di partenza dell’attività conoscitiva: “iudicamus… , così infatti egli in uno dei tanti passi significativi al riguardo, secundum illas interiores regulas veritatis quas communiter cernimus: de ipsis vero nullo modo quis iudicat”3. Analogamente sembra fare il Croce nell’accennare a questo stesso aspetto del problema epistemologico: “Lo spirito è … autocoscienza che genera e regge la conoscenza”4, sottolinea infatti in FilisoJìa e storiograjia, soggiungendo più oltre che “i logici predicati”, grazie ai quali si realizza il “giudizio”, e quindi la conoscenza, “sono nient’altro che l’autocoscienza dello spirito nella dialettica delle sue eterne distinzioni”5. Per l’uno e per l’altro, poi, la conoscenza vera non solo trova nell’interiorità del soggetto il suo punto di partenza, ma anche quello di arrivo, ossia si attua essenzialmente in questa stessa interiorità del soggetto. Così S. Agostino al riguardo in un passo particolarmente sintomatico: “Conceptam rerum veracem notitiam, tamquam verbum apud nos habemus, et dicendo intus gignimus; nec a nobis nascendo discendit. Cum autem ad alios loquimur, verbo intus manenti millitrerium vocis adhibemus, aut alicuius signi corporalis, ut per quandam commemorationem sensibilem tale aliquid fiat etiam in animo audientis, quale de loquentis animo nos recedit”6. Nel De Magistro, ricollegandosi alla stessa tematica, ribadisce con particolare incisività: “Verba… admonent tantum ut quaeramus res, non exhibent ut noverimus”7. Insomma, talmente la verità si realizza nell’interiorità del soggetto che essa non può essere direttamente comunicata ad altri con le parole: si può solo provocare con il linguaggio uno stimolo a che essa nasca nell’altro, come è nata in chi parla, ossia nella sua propria interiorità. Proprio come, a sua volta ribadirà il Croce, dopo aver affermato anch’egli, e a più riprese, che la conoscenza vera si realizza unicamente nell’interiorità del soggetto, per cui “l’oggettivo” nel giudizio viene a coincidere con il “soggettivo”8: “Il vero, pensato che sia da noi, è già bello e detto (detto a noi.. .ma, quanto a dirlo o comunicarlo agli altri, l’affare è serio, tanto serio che è disperato. Il vero non è una merce che passi di mano in mano… In effetto noi non 

2. Come è risaputo, il discorso agostiniano sulla conoscenza (come per altre analogie tematiche) parte dalla filosofia e si prolunga sul piano della teologia. Noi, qui, in ottemperanza all’indole della presente breve indagine, ci proponiamo di richiamarlo in causa solo per quel tanto che esso rientra nell’ambito della ragione meramente filosofica. A scanso,poi, di pericolosi equivoci, forse non è superf1uo sottolineare che dire “analogia” non è dire “identità”, tanto meno poi annullare la radicale contrapposizione delle angolazioni da cui si guarda al problema epistemologico in S. Agostino, c nel Croce. comunichiamo mai il vero, e solamente… foggiamo e adoperiamo una sequela e un complesso di stimoli per porre gli altri in condizione… di ripensare quel ver che pensammo noi. .. il problema del comunicar con altrui, del parlar…non è quello di dire o non dire il vero, ma di operare su di altrui perché operi”9. 

Questa certa analogia tra la posizione agostiniana e quella crociana su alcuni aspetti del problema epistemologico si può cogliere fino all’ammissione di un fondamento atemporale del conoscere, in grado cioè di sottrarre questo al divenire. È però nella diversa collocazione logica di questo fondamento che l’analogia svanisce per dare luogo ad una contrapposizione radicale tra i due atteggiamenti di pensiero. 

3 – La collocazione teoretica del fondamento epistemologico nell’ottica agostiniana 

S. Agostino, sulla base della sua filosofia libera da ogni pregiudiziale immanentistica, non solo ha modo di affermare con sicurezza l’esistenza di un fondamento atemporale del conoscere, ma anche di dare un supporto logico coerente a tale affermazione, agganciando l’atemporalità del fondamento a un ordine ontologico trascendente. 

“Intima scientia est qua nos vivere scimus”10, così S. Agostino nell’iniziare a scavare questo fondamento trascendente del conoscere a partire dal superamento dello scetticismo accademico. Quindi, altrove, entrando più direttamente nel merito della presente tematica, dopo aver ribadito a proposito della “verità dei numeri” che essa “non è di pertinenza del senso, ma permane idealmente immutabile ed è universale nella conoscenza per tutti i soggetti pensanti”1l, soggiunge: ” cum multa alia possunt occurrere, quae communiter et tamquam publice praesto sunt ratiocinantibus et ab eis videantur mente atque ratione singulorum quorumque cernentium, eaque inviolata et incommutabilia maneant”12. 

Nel De Trinitate, ricollegando in maniera più esplicita il problema del fondamento a un ordine ontologico trascendente, ribadisce: “sublimioris rationis iudicare de istis corporalibus secundum rationes incorporales et sempiternas; quae nisi supra mentem humanam essent, incommutabiles profecto non essente” (13). Analogamente nelle Confessioni: “Quaerens, undeiudicarem.. .inveneram icommutabilem et veram veritatis aetemitatem supra mentem meam commutabilem”14. 

S. Agostino, però, non si limita solo a sottolineare questo stretto legame del fondamento epistemologico col trascendente, ma cerca anche di scandire i termini logici secondo cui intendere rettamente la cosa, senza indebita confusione tra i due presupposti piani del reale (l’immanente e il trascendente). È quanto in sintesi si può cogliere nel seguente brano, che fa seguito al rifiuto della dottrina della reminiscenza sostenuta da Platone e da Pitagora: “potius credendum est mentis intellectualis ita conditam esse naturam, ut rebus intellegibilibus naturali ordine, disponente Conditore, subiuncta sic ista videat in quadam luce sui generis incorporea, quaemadmodum oculos carnis videt quae in hac corporea luce circumadiacent, cuius lucis capax eique congruens est creatus”15. Si potrebbe dire con parole meno impegnative, ma più semplici, che l’uomo, come ha ricevuto da Dio l’essere, così è stato da Lui equipaggiato, nella parte spirituale, di una capacità conoscitiva tale da consentirgli di incamminarsi con sicurezza sulla strada della verità, sfuggendo in ciò alla capricciosità del divenire. 

Data questa collocazione teoretica del fondamento epistemologico, si può facilmente capire quanto S. Agostino ha modo di decantare circa la “bellezza della verità e della sapienza”: “illa veritatis et sapientiae pulchritudo”, così in uno stupendo brano del De libero arbitrio, “tantum adsit perseverans voluntas fruendi, nec multitudo audientium constipata secludit venientes… nec nocte intercipitur, nec umbra intercluditur, nec sensibus corporis subiacet… nullo loco est, nusquam deest; foris admonet, intus docet… nullus de illa iudicat, nullus sine illa iudicat bene”16. 

Come si vede, nel pensiero agostiniano si delinea un fondamento epistemologico sottratto con sicurezza al flusso del divenire in quanto strettamente collegato alla scaturigine antologica trascendente dell’essere umano. Non altrettanto, invece, è dato rilevare, come presto vedremo, nell’atteggiamento crociano al riguardo. 

4 – L’ambiguità della posizione crociana sul fondamento epistemologico 

Posizione ambigua quella del Croce, perché, mentre da una parte perviene all’affermazione di un fondamento atemporale del conoscere, dall’altra non riesce a fornirne una convincente giustificazione logica all’interno della sua tipica filosofia. Per dirla in parole più esplicite, non si può affermare un fondamento epistemologico sottratto al divenire e nello stesso tempo concludere che esso non è nulla al di là del reale immerso nel divenire. È quanto il Croce, lo ribadiamo dall’insieme sembra sostenere. Ma a questo punto conviene accennare più direttamente ai termini specifici essenziali in cui la cosa si presenta nel pensiero crociano. 

È noto come tutta la filosofia del Croce parta da un rifiuto, pressocché radicale, di ogni apertura al trascendente, un rifiuto che trova nell’affermazione dell’identità di storia e filosofia la sua affermazione teoretica più significativa: “filosofia e storia – così il Croce in uno dei passi più sintomatici al riguardo – non sono già due forme, sibbene una forma sola, e non si condizionano a vicenda, ma addirittura si identificano… Né la storia precede la filosofia né la filosofia la storia: l’una e l’altra nascono a un parto”17. In questa asserita identità di storia e filosofia trova la sua prossima scaturigine il tipico storicismo crociano, con la conseguente affermazione della non definitività di ogni filosofia: “nessun sistema filosofico è definitivo (così il Croce nella Filosofìa della pratica), perché la Vita, essa, non è mai definitiva”18. 

Se la filosofia si identifica con la storia, e quindi si rapporta essenzialmente al divenire immanentistico del reale, è evidente che non ci potrà essere più posto per una verità che si sottragga al logorio del tempo, in modo da rimanere come saldo punto di riferimento per l’ulteriore cammino del pensiero umano e, insieme, come sicura base per la fondazione di una morale che sfugga ad ogni rlativismo individualistico. Affermare,però, una cosa del genere avrebbe significato la vanificazione in radice di qualsiasi approccio al vero. Al Croce una cosa del genere non poteva certo sfuggire. Ed è per questo che, di fronte alla prospettiva di un inevitabile sbriciolamento del mondo della conoscenza nelle sabbie mobili del divenire, il Croce è indotto a fare delle precisazioni (al riguardo del presente problema) che, per certi aspetti, non possono non configurarsi come un chiaro (anche se implicito) ridimensionamento del suo abituale immanentismo. 

Nella Storia come pensiero e come azione, dopo aver precisato a proposito della “necessità storica” che si tratta di una necessità di ordine logico, consistente in ciò che il “giudizio, nel pensare un fatto, lo pensa quale esso è, e non già come sarebbe se non fosse quello che è… secondo il principio d’identità e contradizione, e perciò logicamente necessario”19 (il che, come è ovvio, già equivale ad ammettere qualcosa di ben più saldo al di là del divenire, in grado di giustifìcare questa necessità logica), più oltre, riferendosi più direttamente al presente problema, sottolinea significativamente: “La polemica contro la trascendenza, trascorrendo oltre il segno, ha portato a negare la distinzione delle categorie del giudizio, considerate anche esse una trascendenza”20. Quindi soggiunge senza possibilità di equivoci per quanto concerne un fondamento epistemologico sottratto al divenire: “Né le categorie cangiano, e neppure di quel cangiamento che si chiama arricchimento, essendo esse le operatrici dei cangiamenti: ché, se il principio del cangiamento cangiasse esso stesso, il moto si arricchirebbe. Quelli che cangiano e si arricchiscono sono non le eterne categorie, ma i nostri concetti delle categorie, che includono in sé via via tutte le nuove esperienze mentali, per modo che il nostro concetto, poniamo dell’atto logico, è di gran lunga più ammaliziato e più armato che non fosse quello di Socrate o di Aristotele, e nondimeno dell’atto logico, se la categoria ‘logicità’ non fosse costante e ritrovabile in essi tutti”21. 

 

Subito dopo, allo scopo di spiegare meglio la cosa, riprendendo il discorso iniziale a proposito della “polemica contro la trascendenza”, prosegue: “quella polemica mostra aperto di essere trascorsa oltre il segno nella sua incapacità di rendere ragione del motivo di verità che… , in rapporto alla filosofia della trascendenza, consisteva appunto nell’esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali (buono, giusto, vero, ecc.)”22. 

Lo stesso atteggiamento si può riscontrare, sia pure in maniera per lo più solo indiretta, in numerosi altri passi. Quelli citati, però, sono senza dubbio tra i più sintomatici per la presente indagine. 

Come si può facilmente constatare, anche nel Croce emerge come indubitabile l’affermazione di un fondamento epistemologico sottratto al divenire: si parla infatti di “eterne categorie”, dell’ “esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali”… Quello che però lascia perplessi è come conciliare questo fondamento epistemologico sottratto al “flusso della realtà” con la chiusura sistematica al trascendente, alla quale, sia pure con toni diversi, il Croce rimane costantemente legato. Basti pensare che perfino nel paragrafo in cui emerge il discorso circa le “eterne categorie” si parla come di qualcosa di scontato, di “errore della trascendenza”, nel quale, proprio come “in fondo ad ogni errore”, si anniderebbe pur sempre qualche “motivo di verità”, che nel caso specifico consisterebbe “nell’esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali”23. 

È proprio per questo che abbiamo voluto parlare di “involuzioni” o di “ambiguità” nel pensiero crociano a proposito del fondamento epistemologico. 

Esula naturalmente dal nostro compito seguire fino in fondo queste involuzioni crociane. Quello che, però, preme qui ribadire è che sono proprio queste involuzioni la conferma indiretta più significativa dell’attualità della posizione agostiniana sul problema del fondamento epistemologico. Mentre infatti, da una parte, l’affermazione crociana di “eterne categorie”, e cioè “dell’esigenza di mantener saldo nel flusso della realtà il criterio dei valori spirituali”, rappresenta a distanza di secoli una significativa riprova della perenne validità dell’istanza agostiniana di un fondamento atemporale del conoscere, dall’altra parte, la mancanza di una convincente giustificazione logica di questo fondamento all’interno della filosofia crociana conferma come la direzione seguita da S. Agostino al riguardo si riveli sempre più priva di vere alternative. 

Da questi brevi accenni, pertanto, possiamo concludere che l’affermazione 

agostiniana di un fondamento trascendente dell’attività conoscitiva, il riferimento all’ultimo “sole”24 dal quale emana la flebile luce grazie a cui gli uomini sono posti in grado di impadronirsi delle sparse briciole di verità nel vortice del divenire, si configurano, oggi più che mai, come l’unica ed irrinunziabile prospettiva teoretica in grado di consentire alla ragione filosofica di sfuggire ad uno smarrimento fatale nell’interminabile notte del tempo e seguitare, così, ad assolvere alla sua funzione di illuminatrice delle umane vicende. 

Certo, si potrà discutere sul modo di calare in un linguaggio filosofico più aderente alla realtà culturale contemporanea il discorso agostiniano, ma non sulla direzione indicata dal filosofo di Tagaste per la soluzione del problema cardine della filosofia (il problema, cioè, del fondamento epistemologico): non basta, infatti, solo affermare l’atemporalità del fondamento epistemologico (come in qualche modo si può rilevare nel pensiero crociano), ma è necessario supportare questa atemporalità con il riferimento a un ordine ontologico che si collochi al di là del contingente… Almeno che non ci si voglia rassegnare ad un inevitabile frantumarsi del fondamento ipotizzato sulle sabbie mobili del divenire25. 

Alberto Nave 

L’attualità del problema agostiniano del fondamento epistemologico alla luce di alcune involuzioni presenti nello storicismo crociano 

(Traduzione dei passi in latino) 

Nota 3 (De lib. arb., p. 255): “si esprime il giudizio mediante le regole interiori della ideale verità che universalmente si intuiscono, ma di esse non si giudica assolutamente”. 

6 (De Trin., p. 379): “la conoscenza vera che grazie ad essa (l’eterna verità) noi concepiamo l’abbiamo come verbo presso di noi, un verbo che generiamo dicendolo al di dentro di noi e che nascendo non si separa da noi. Quando parliamo ad altri, restando il verbo a noi immanente, ricorriamo all’aiuto della parola o di un segno sensibile per provocare anche nell’animo di chi ascolta, mediante una evocazione sensibile, un qualche cosa di somigliante a ciò che permane nell’anima di chi parla”. 

7 (De Mag., p, 783): “le parole … ci stimolano alla ricerca dell’oggetto, non ce lo rappresentano alla conoscenza”. 

10 (De Trin., p. 657): “È con una scienza interna che noi sappiamo di vivere”. 

12 (De lib, arb., p. 241): “Molte altre nozioni possono presentarsi che universalmente e quasi di pubblico diritto si rendono accessibili ai soggetti pensanti e sono intuite con atto di puro pensiero da tutti coloro che sanno intuirle, sebbene esse permangono inderogabili e fuori del divenire”. 

13 (De Trin., p.465): “è compito della ragione superiore il giudicare di queste cose corporee, secondo le leggi incorporee ed eterne. Se queste non fossero al di sopra dello spirito umano, certamente non sarebbero immutabili”. 

14 (Confess., p. 207): “nel ricercare dunque la formulazione dei giudizi che formulavo giudicando così, scoprii al di sopra della mia mente mutabile l’eternità immutabile e vera della verità”. 

15 (De Trin., p. 497): “Bisogna piuttosto pensare che la natura dell’anima intellettiva è stata fatta in modo che, unita, secondo l’ordine naturale disposto dal Creatore, alle cose intellegibili, le percepisce in una luce incorporea speciale, allo stesso modo che l’occhio carnale percepisce ciò che lo circonda, nella luce corporea, essendo stato creato capace di questa luce e ad essa ordinato”. 

16 (De lib. arb., p. 261): “la bellezza della verità e della sapienza, purché ci sia la volontà di fruirne, non esclude i nuovi arrivati, anche se assediata da una moltitudine di uditori, …non si interrompe con la notte, non è intercettata dall’ombra, né soggiace ai sensi… Non è nello spazio e non manca in alcuno spazio; avverte dall’esterno, insegna dall’interno… nessuno può giudicarla, nessuno senza di essa giudica bene”. 

* L’aggettivo “epistemologico” nella presente indagine viene usato secondo la sua più estensiva accezione semantica. 
(1) Una significativa analisi delle catastrofiche conseguenze che possono derivare sul piano esistenziale, nell’era atomica, dalla mancata contemperanza delle istanze dell’essere e del divenire si può cogliere nel volume di Angela Marta Jacobelli, La responsabilità individuale nell’era atomica (Bulzoni editore, Homa, 1970), segnatamente nelle pagine dedicate all’atteggiamento jaspersiano sull’argomento.
(3) Aug., De 1ibero arbitrio, 2, 12, 34, in Opere di S. Agostino. III/2: Dialoghi, Città nuova editrice, Roma 1976, p.254. Al riguardo, degno di particolare mensionc è anche il celebre passo che si trova nel De vera religione: “Noli foras ire. In interiore homine habitat veritas” (39,75). 
(4) B. Croce, Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1969, p. 40. 
(5) Cfr. Ibidem. 
(6) Aug., De Trinitate, 9, 7, 12, in Opere di S. Agostino, IV, Città nuova editrice, Roma 1976, p. 378.
(7) Aug. De magistro I l, 37, in Opere di S. Agostino, cit., p.782. 
(8) Cfr. B. Croce, Problemi di estetica, Laterza, Bari, 1966, p. 153. Inoltre: Teoria e storia della storiografta, Laterza, Bari, 1973, p. 76: Il concetto della storia, Antologia a cura di A. Parente, Laterza, Bari, 1970, pp. 77-79. 
(9) B. Croce, Etica e politica, Laterza, Bari 1973, pp. 32-33. 
(10) Aug., De Trinitate, 15,12, 21, in Opere di S. Agostino, IV, cit., p.656. 
(11) Aug. De libero arbitrio, 2, 8, 24, in Opere di Agostino, III/2, cit., p.241. 
(12) Ibidem, 240. 
(13) Aug. De Trinitate, 12, 2, 2, in Opere di S. Agostino, IV, cit. , pp. 464-466. 
(14) Confess., 7, 17, 23, in Opere di S. Agostino, I, Città nuova editrice, Roma 1956, p. 206. Cfr. anche De ordine, 2, 8, 25. in Opere di S. Agostino. III/I: Dialoghi, Città nuova editrice, Roma 1970, p. 320.
(15) Aug., De Trinitate, 12, 15, 24. in Opere di S. Agostino, IV, cit., p. 496. 
(16) Aug., De libero arbitrio, 2, 14, 38, in Opere di S. Agostino, IlI/2, cit., p. 260. Nei Soliloquia, dopo aver precisato che “la verità e vero sono due tcrmini distinti” (Soliloquia, 1, 15, 27, in Opere di S. Agostino, IlI, ciI. p. 425), ribadiscc nella stessa direzione : “Est autem vetitas, et non est nusquam” (Ibidem. 1, 15, 29, p. 426).
(17) B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Laterza, Bari 1971, p.192. 
(18) B. Croce, Filosofia della pratica, Laterza, Bari 1973, p. 406. 
(19) B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1970, p.18. 
(20) Ibidem, p. 28. 
(21) Ibidem.
(22) B. Croce, La storia come pensiero e come azione, cit., pp. 28-29. 
(23) Cfr. Ibidem, p.29. 
(24) Cfr. Aug., De libero arbitrio, 2. 9, 27, in Opere di Sant’Agostino, III/2, cit., pag.245. 
(25)A riguardo della presente tematica (tra i vari studi) cfr. anche: C. Boyer S.J., L’ideé de vérité dans la philosophie de Saint Augustin, Paris 1915, pp.198 ss.; C. Boyer, Sant’Agostino filosofo, pp.97-130; J. Hessen, Augustin Metaphysik der Erkenntnis, Berlin und Bon 1930, segnatamente le pagine 208-212; B. Bubacz, St. Augustin’s Theory of knowledge: A contemporary analysis, The Edwin Mellen Press, New York and Toronto 1981, pp. 133 ss.; F. Piemontese, La veritas agostiniana e l’agostinismo perenne, Marzorati editore, Milano 1963, in particolare le pagine 189-211; G. Di Napoli, Essere e verità in S. Agostino e in Heidegger, in AA.VV., S. Agostino e le grandi correnti della filosofia contemporanea (Atti del Congresso italiano di filosofia agostiniana), Edizioni agostiniane, Roma 1954, pp.287-296; L. Bogliolo, Significato e attualità dell’interiorità agostiniana, in AA.VV., cit, in particolare, p.322; G. Capone Braga, Il significato della teoria dell’illuminazione di S. Agostino, in AA.VV., cit., pp. 306-331; G. Bonafede, Interiorità e immanenza. in AA.VV., cit., pp. 312 ss. 

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 50-58.




The homeric question or the experimental methodology

The homeric question or the experimental methodology

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 17-35.




The Experimental Philology’s Manifesto

The Experimental Philology’s Manifesto

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 15-28.




“Qu’est-ce qu’on veut de la Philologie?” 

La demande peut tout-à-fait apparaître vaine dans l’ineptie de son insolente insolence mais elle pour les hommes de lettres cache la force de la vérité pour tous ceux qui avaient force et importance à lavérité. 

Qu’on n’a pas encore trouvé complet accord sur la semeiotique du mot: “Philologie” et sur la méthodologie qui la soutient on le sait clairment de toute la longue histoire des études philologiques et des laborieux travaux et de toutes les tentatives pour definir l’ample éventail semantique de la philologie et de sa méthodologie(1). Toute tentative est échoué! Umberto Albini à ce propos écrivait:”Basta unsemplice sguardo alle più accreditate “storie” e “introduzioni” alla filologia, classica e non, per rendersi conto di quanto sia difficile una precisa definizione del suo concetto. Un concetto che forse più di ogni altro, nel terreno del conoscere, è gravido di sfumature e implicazioni, di ambiguità e polivalenze…[il filologo] al momento di aprire lo scrigno del suo sapere per farne l’inventario è colto da dubbi e da perplessità, si trova intimidito di fronte a una realtà composita, intricata, non schematizzabile, quale la disciplina cui si è votato”(2). 

Nous qui ne sommes pas dans les petits papiers d’Umberto Albini, tout de même le remercions pour l’hardiesse et l’humilité qu’il a montré quand il a dit “discipline” la philologie que tous les autres avec allant appellent “science“, mais aucun n’a demontré que la Philologie est une science. Le même Albini mis au pied du mur et ne sachant à quel saint se vouer, déclarait: “La Filologia è quanto, detratta l’erudizione, rimane nel filologo: una “forma mentis“, dunque, una impronta attenta e sensibile soprattutto al valore della parola, ma non solo a quello” (3). 

Nous sommes de tout autre avis: pour nous la Philologie est une science, une science expérimentale et nous l’avons demontré (4). Nou savons mené à bonne fin toutes les recherches qui avaient son but dans la demonstration que la “Philologie”, mot greco presente deux aspects comme une medaille à double face:1) ”1’amour des paroles”, 2) “l’amour de l’histoire”, si ça veut dire le mot grec chez Hérodote, le père de l’histoire occidentale (5). 

Seuls deux savants osaient s’appeler:”Philologue“; un érudit greco un érudit allemande qui enfin peu convaincu de ce titre changea de choix et preferait être appelé: “Altertums swisenschajtler“, tout en refusant le épithète de “Philologue” (6). 

La Philologie ainsi etendue et rangée parmi les autres sciences expérimentales oblige, bongré malgré, à cantonner toute la philologie grecque, toute la philologie romaine, toute la philologie hûmaniste et toute a grande foule des philologies modernes qui toutes ensemble voyaient de la Philologie seulement une face: la face de “l’amour des paroles“, de la même medaille ignorant la seconde face: “l’amour de l’histoire” parce-qu’on ne voyait pas dans les “paroles” et dans la “langue” le vrai, l’unique et l’objectif vehicule de l’histoire de l’homme sur la face de la terre. 

Tous les Philologues experts de la première face et ignorants de la seconde face de la medaille philologique nous les rangeons dans la grande armée de la Philologie Statique: ces savants abusant de leur excellent acabit, abutissaient à faire de la vaine et de l’asthmatique rhetorique et tous en blocus nous les condemnons comme coupables de “lèse-parole“; les philologues qui acariàtrement refuserent d’appuer leur oeil au “cannocchiale” de Galileo Galilei, nous les condemnons les deux fois criminels: coupable de “lèse-paroles“, coupables de “lèse-histoire“; crimes impardonnables! 

Galileo inventa de toute spièces la Physique Expérimentale et depuis lors la Physique et toutes les Sciences soeur sont fait des progrès inouis tandis que la Philologie Statique dans sa miserable misère et petitesse ayant perdue sa primauté, continuait à balbutier bégayant seulement dróles des fariboles et se réjouissant dans de sottes blagues elle perdait sa force, sa valeur et son importance si nous voulons faire crédit de secoureur de la vérité au philosophe Seneca qui écrivait: “Philosophia facta est quae Philologia fuit!“(7). 

Ayant autrefois demontré que la Philologie èst sûrement une Science et tout à fait une Science Expérimentale, ayant declaré qu’on peut faire l’honneur de se faire nommer: “Philologue” seulement aux savants qui seuls sont capables en reconstituant l’histoire de la “parole” de reconstituer l’histoire de l’homme si la “parole” et l”’histoire” sont les deux créatures dumême homme qui parle, qui fait: “Factum et verum convertuntur!”. 

Qu’est-ce qu’on doit demander à la Philologie Expérimentale? A la Philologie Expérimentale on doit sûrement demander ce qu’on demande à toute Sciente Expérimentale: la vérité qui se cache dans les ”paroles”, qui est cachée dans les pages de l'”histoire“. 

La vérité philologique, la vérité historique moulent à leur tour les deux faces de la même medaille; seulement quand la Philologie Expérimentale arrive à trancher le “rhematogramme” de la ”parole”, alors et seulement alors le Philologue Expérimental a à la portée de ses mains l’aisance de pénétrer les secrets de la “parole“, les secrets de l'”histoire” comme l’astronome qui dans le “spectrogramme” a le moyen puissant pour tirer au clairles éléments des astres et l’histoire des étoiles. 

C’està nous maintenant demontrer la PhilologieExpérimentalevraieet riched’inopinées conclusions que laPhilologie Statique ne pouvait pas même soupçonner. 

LaPhilologie Expérimentale célébrera son triomphe et fêtera sa gloire lorsqu’elle résoudra desproblémesque laPhilologie Statique pour lemanque d’une adroiteméthodologieàlaissé sanssolution du sort ouavecdes solutions pitoyables sinonindigestes. 

Parmi les autres graves problèmes qui ont travaillé les Philologues de toutes les époques, nous nous comptons la:”Vergilius geburtsorifrage“, c’est à-dire: la question du lieu natal du Poète Publius Vergilius Maro, fils de “Magia Polla” et de “Vergiliomarus“, un celte de la tribus des “Andes“. 

Il y a désormais plus de mille ans qu’on prêche et annonce des chaires universitaires et des jubés culturels: le poète Vergile né dans le village alors nommé “Andes” à nos jours: “Pietole” et à present “Virgilio”, C. Tamagni et F. D’Ovidio dans leur Litérature Romaine écrivaient: “Publio Virgilio Marone nacque in Andes presso Mantova” (8). 

Dans la “PeWeKa” à propos du nom “Andes” on peut lire: l) Ortsname “Andes” olksname: la chose impossible pour ceux qui sont convaincus que dans la “langue“, chaque “parole” indique une sole idée, ayant un seul significat. “Andes“: nom de pays ou nom de peuple? “Andes“: nom celtique indiquait la tribu: “tuàth” des “Andes” et le territoire occupé par cette tribu dans la Gaule et dans la Hautepadanie deMantoue, comme les “Alpes” indiquait le tribu montagnarde des “Alpes” et la chaine des montagnes qui separent l’Italie de la France (9). 

Les braves humanistes ignoraient Alpicus” et croyaient que “Alpinus” Indiquait le gens des Alpes; de cette erreur dans la langue italienne est disparu “Alpicus” et maintenant “Alpinus” indique la population des Alpes. Parmi les “Andes” et dans le territoire des “Andes” Crassus passait l’hiver avec ses légionnaires (10): le peuple de “Andes” se groupaient à Vercingétorix dans la grande révolte contre Rome et contre César (l1). 

Le nom “Andes” aboutit in: “-es ” presque comme les autres noms des tribus celtiques (12): dans la langue celtique il n’y a pas cité ou village terminant in: “-es” (13); ça pour ôter et cantonner la force de la tradition sur laquelle on justifie l’équivalence: “Andes=Pietole=Virgilio” qui n’a pas de mur d’appui dans les références anciennes. 

Pour enforcer l’exclusion de l’équivalence: “Andes=Pietole=Virgilio” qui a de sa part seulement des références préhumanistiques et humanistiques, nous tirerons des oeuvres de Vergile tous les points de repère avec la naissance du Poète, avec la ville de Mantoue, avec le territoire de Mantoue. De Vergile nous avons: l) Mantua quod fuerat quodque Cremona prius (14); 2) Sive Mantuam/Opus foret volare sive Brixiam (15); 3) Superet modo Mantua nobis (16); 4) Infelix amisit Mantua campum (17); 5) Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae (18); 6) Referam tibi, Mantua, palmas (19); 7) Matrisque dedit tibi, Mantua, nomen (20): 8) Mantua me genuit (21). 

Nous rassemblons les références vergiliennes en trois groups: l) n. l, 3, 4, 5; 2) n. 2; 3) n. 6, 7, 8; nous étudierons les trois groups séparément.Lesréférences du premier group nous comuniquent la notice de la pertedes terres que l’aieul du Poète, que la mère du Poète, que le père du Poètepossedaient dans le territoire de Mantoue qui s’enlargeait tout près des confins avec le territoire de Crémone: “ager Mantuanus“, “ager Cremonensis“. 

Vergile regrettait la terre perdue de Mantoue et avec la perte de sa ferme tous les maux qui s’accompagnaient à la guerre civile: “En quo discordia cives/Produxit miseros” (22) sur le territoire au temps jadis occupé par les Etrusques qui furent supplantés par les Celtes à leur tour supplantés par les Romains. 

Déplorant la triste expropriation de ses terres dans l”‘ager Mantuanus” contigu à l”‘ager Cremonensis“, le Poète ne fait pas allusion à Mantoue et à Crémone come lieu de sa naissance et Vergile sans doute savait bien ouil étaitné: dans le territoire de Mantoue. 

Les références du second group nous parlent de l’histoire de Mantoue. Vergile dans ses vers célébre l’ancienne gloire de Mantoue qu’il avec toute bonne raison dit étrusque mais ne pouvait pas célébrer celtique la ville de Mantoue qui à son temps était romaine comme romain était aussi le même Poète. 

Dans l’épitaphe sur lefunèbre monument élevé au Poète dans la routequi courait de Naples à Pouzzoles, “ad tertium lapidem”, on lisait: “Mantua me genuit“; l’expression génante pour tous ceux qui ignorent la langue latine, n’entrave pas ceux qui veritablement sont maitres de toutes les finesses du “sermo forensis” qui était des hommes érudits, des hommes des lettres et pour eux dans le cas en question le nom: “Mantua” peut signifier: l) “la ville de Mantoue“, 2) “le territoire de Mantoue” et clairment Virgile voulait dire: “On m’a engendré quelque part du territoire de Mantoue” s’il n’a jamais fait allusion à Mantoue comme son lieu natal et le Poète savait bien, sûrement ou il était né dans le “Magianum” ou ferme des “Magii Mantuani” qui étaient proches parents ou parents éloignés des “Magii Cremonenses“. 

Vergile usait le nom de “Mantua” comme Marcus Tullius Cicéron parlait de la ville d'”Arpinum” qui était le “municipium” de la zone et l’orateur savait bien qu’il n’était pas né dans la ville d”‘Arpinum” s’il était né dans la fermede sa famille qui occupait la terre de l’isle du fleuve “Fibrenus” tout près de Sora. 

Des références du Poète noustirons sans crainte de doutes ou d’équivoques que Vergile n’est pas né à Mantoue ou à Crémone mais quelque part du territoire de Mantoue: “ager Mantuanus” touchant au territoire de Crémone: “ager Cremonensis“. 

Si des références du Poète nous apprenons que Virgile: l) était né dans le territoire de Mantoue qui s’enlargeait tout de près et tout le long du territoire de Crémone, des références du Poète il n’est pas possible defixerla terre natale de Vergile dans le territoire de Mantoue: “ager Mantuanus“. 

Clarté à percer les l’obscucité tenébreuse nous vient d’un petit poème écrit par Vergile qui paraphrasant le catullien: “Phaselus ille“, prônait les grands hauts faits du muletier Sabinus qui avec son mule allait à la volée jusqu’à Mantoue, jusqu’à Brixe. Le Poète nomme les deux villes come le “terminus ad quem” des envolées de Sabinus et de son mule brave et vaillant mais il ne donne pas de renseignement sur le “terminus aquo“; le point de depart des courses du mule et du muletier. 

Sabinus était connu dans toute la Haute Padanie de Mantoue et tout le monde savait que s’ilallaitindifféremmentàMantoue et àBrixe,ildevaitindefféremment partir d’un point àdemie-distancedeBrixe et deMantoue. 

À ce point de la recherche si nous sommes en état des avoir que la ferme: “vicus” du Poète se trouvait à demie distance de Mantoue et de Brixe, nous ne sommes pas à même de fixer ces terres dans la mappe de Mantoue pour la ténuité de l’information. 

En résumant, du Poète nous pouvons tirer que: l) il n’était pas né à Mantoue; 2) il était né quelque part du territoire de Mantoue; 3) cette part du territoire de Mantoue bordait le territoire de Crémone; 4) la terre et la ferme du Poète étaient à demie distance de Mantoue et de Brixe. 

Ayant revisité les références de Vergile et d’eux ayant tiré les necessaires consequences, nous passons à revisiter les références de la source indirecte: les anciens commentateurs de Vergile; d’eux nous tirons: l) Vico Andico qui abest a Mantua milia passuum XXX (23); 2) In pago qui Andes dicitur et abest a Mantua non procul (24); 3) In pago qui Andes dicitur et abest a Mantua haut procul (25): 4) Vico Andico qui abest a Mantua milia passuum III (26); 5) Civis Mantuanus quae civitas est Venetiae (27); 6) Mantua Romuleae generavit flumina linguae (28); 7) A rure Mantuano Poeta (29). Les réferences qui nous viennent des commentateurs nous les groupons en rangées differentes: l) dans la première rangée le n. l, 2, 3: 2) dans la seconde rangée le n. 4; 3) dans la troisième rangée le n. 5, 6, 7. 

Le n. l, 2,3 ont faite place à une querelle interminable que la Philologie Statique n’est pas encore reussie à calmer; à present est encore ouverte la discussion et toute le monde savant et érudit se montre divisé par deux: les uns croyant à la mesure de”trente milles romaines“, les autres croyant à la mesure de “trois milles romaines“. 

La Philologie Expérimentale, qui réfuse catégoriquement le prèncipe d’authorité et accepte la tradition seulement si accompagnée de preuves valides et inconstestables, procéde avec ordre pour preuver quelle de deux mesures acceptable ou refusable. 

Nous traçons sur la mappe du territoire de Mantoue une circonference avec rayon de “trois milles romaines” et centre dans la ville de Mantoue. Tous les “vici” circonscrits dans la dite circonference se trouvant à la distance de “trois milles romaines” de Mantoue peuvent validement se porter candidats à l’honneur d’avoir vu naitre le Poète. Mais ici il y a une grosse difficulté: tous les “vici Andici“circonscrits dans la circonference avec rayon de “trois milles romaines” n’ont pas le droit de s’emparer de cette gloire parce-qu’ils sont tous en bloc exclus de cette illustre compétition si à bon escient ils ne confirment pas la parole du Poète qui écrivait que ses terres, son village ou sa ferme étaient près du territoire de Crémone: “ager Cremonensis“; ça nous obligeà couper en deux la circonference avec rayon de “trois milles romaines” et la part à l’est de Mantoue c’est loine de Crémoneet la part à l’ouest de Mantoue c’est trop voisine à Mantoue et trop loine de Crémone. 

Qui a donné et continue à donner raison et crédit à Egnatius et ajoute foi et credibilité au manuscript perdu de Bobbio, sans doute et sans cesse il foule à ses pieds les références de Vergile qui savait ou était situé le village ou la fermede sa naissance et n’aurait pas pu accepter cette distance de “trois milles romaines” que le maitre Merula ou son disciple Egnatius, tousles deux en bonne foi, croyaient l’unique, la vraie distance du “vicus Andicus” de la ville de Mantoue. 

L’inacceptable distance de “trois milles romaines” si pousse hors du concours tous les “vici Andici” circonscripts dans la même circonference,elle pousse horsde la joute “Andes=Pietole=Virgilio“, village qui se trouve circonscript dans la circonference de “trois milles romaines” et dans le territoire de Mantoue opposite au territoire de Crémone. 

La Philologie Statique ayant fait echec et mat, la Philologie Expérimentale ne démordre pas et cantonnant la formidable référence des autres manuscripts qui portent la distance de “trente milles romaines” que Egnatius et ses fauteurs ont nié et combattu jetant mille cris de joie “veluti invento Api in Padania“. 

Nous traçons une autre circonference sur la mappe du territoire de Mantoue mais avec rayon de “trente milles romaines” et centre dans la ville de Mantoue. À circonference tracée, tous les “vici Andici” circonscripts dans la dite circonference peuvent justement se glorier d’avoir vu la naissance du Poète; parmi tous ces “vici” seulement un peut avoir cette gloire et cet honneur. 

Pour atteindre la vérité et pour “donner à César ce qu’est de César” nous signons quattre cadrans dans la circonference de “trente milles romaines” avec le centre en Mantoue; nous numéroterons les quattre cadrans en manière anti-horaire: contre le mouvement des aiguilles de l’horloge:1, 2, 3, 4 et pour faire déférence au Poète nous devons cantonner le cadrans n.1 et 2 parce-qu’ils dans l’ancienne mappe de Mantoue occupaient celle partie du territoire qui s’allongeait à l’orient de la ville et bien loin du territoire de Crémone qui exproprié sous ordre d’Auguste causa au Poète la perte de ses terres et de sa ferme justifiant le douleureux et pénible cris: “Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae“(30). 

Nous demeurent les cadrans n.3 et 4 et le choix entre les deux est surement difficil parce-que les deux touchent au territoire de Crémone: “ager Cremonensis“, comme disait Vergile quand il parlait de sa ferme: “Rus Magianum“, qui occupait les terres du territoire de Mantoue: “ager Mantuanus” tout près du territoire de Crémone. 

Bien, tous les “vici Andici” qui se trouvent dans les cadrans n. 3 et 4 peuvent avancer la 

candidature pour avoir la gloire et l’honneur d’avoir vu la naissance de Vergile. De ce grand nombre à nous le choix! 

Nous avons déja fixé que le lieu natal du Poète devait se trouver: 1)distant de Mantoue “trente milles romaines“; 2) dans celle partie du territoire de Mantoue: “ager Maniuanus” qui bordait la frontière du territoire de Crémone: “ager Cremonensis“; 3) à demie distance de Mantoue et de Brixe; tout ça nous porte dans les terres de Castel Goffredo et de Casalpoglio qui repondent entièrement aux trois requises et conditions appuyées du Poète. 

Les références de la source directe et de la source indirecte sont confirmées par trois inscriptions trouvées dans le territoire contenu dans le cadran n.3 et précisément à Castel Goffredo, Casalpoglio et Calvisano: un autel votif trouvé à Castel Goffredo avec l’inscription dédicatoire: “P. MAGIUSIO VI V. S. L. M. QUINTUS EUBULUS ET PETRONIANUS PRO SE ET SUIS; une stèle funèbre trouvée à Casalpoglio avec l’inscription: “P. MAGIUS MANI (us) SIBI ET ASELLIAE M. F. SABINAE UXORI ET SATRIAE M. F. TERTIAE CASSIAE P. F. SECUNDAE MATRI”; un ex-voto trouvé à Calvisano avec cette inscription dédicatoire: “MATRONABUS VERGlLIA C. F. VERA PRO MUNATIA T. F. CATULLA V. S.L.M.”. 

Les trois inscriptions (la première est perdue, la seconde et la troisième sont conservées dans le Muséum de Brixe) sont toutes particulières et pour deux raisons:1) elles portent noms qui rappellent la famille du Poète; 2) elles ont été trouvées dans les pays ou portent toutes les requises et les conditions suffisantes et nécessaires pour fixer le lieu natal de Vergile dans le territoire de Mantoue. 

A la fin du travail obligés à cantonner avec le du respect tous ceux qui ont defendu la tradition plus que millenaire, tous ceux qui ont déplacé ailleurs la place natale du Poète, nous tenons à déclarer le Poète de Rome, des Romains et de toute la Romanité né dans les terres de Calvisano, de Castel Goffredo et de Casalpoglio et qui nie la tradition confirme son inébranlable croyance dans la Philologie Expérimentale et réfuse la Philologie Statique qui accuse echec et mat devant les résultats inouï de la Nouvelle Philologie. 

Davide Nardoni

1) D. Nardoni, The Experimental Philology’s Manifesto, “Spiragli”, A. I, n. 3, luglio-settembre, pp. 15-28, Marsala, 1989. Id., The Homeric Question or The Experimental Methodology, Spiragli”, A. I, n. 1, gennaio-marzo, pp. 17-35, Marsala, 1990. 
2) U. Albini, Quale Filologia? Atene e Roma, Firenze, 1985, pp. 22-25. 
3) Id. 
4) D. Nardoni, The Experimental Philology’s Manifesto, art. cit. 
5) À notre avis, Hérodote en écrivant les “Histoires” donnait ampie espace à la Philologie vue dans ses deux face: I) Philologia“: amour de la parole; 2)”Philologia“: amour de l’histoire, faisant compte des langues des peuples et de l’histoire des peuples qu’il avait visité. 
6) Eratosthénes de Cyrène amait être appelé “Philologos”; “Wolf was the second in the long arch of time to employ the name: Philologia” in his registration’s demand: “Studiosus Philologiae” in the Gottlngen University.Wolfinasecond time, to the name: “Philologia” preferred the german compound name: “Alter thumwissenschaft” (D. Nardoni,The Homeric Question or the Experimental Philology, art. cit., p. 26). 
7) Sen. in G. Penzo, Invito al pensiero di Nietzsche, Milano, Mursia, 1990, p. 30. 
8) C. Tamagni- F. D’Ovidio, Storia della Letteratura Romana, Milano, F. Vallardi, 1874, p. 352. 
9) La langue latine présente deux adjectif: l) “Alpicus” à indiquer la population des “Alpes“, tribu, “tuàth” montagnarde qui vivaient dans les Alpes; 2) “Alpinus” à indiquer le lieux montagneux de la chaine des Alpes.10) César, De Bello Gall., II, 35; III, 7. 
11) César, De Bello Gall., VII, 4, 6. 75, 3. 
12) Ex. gr.: “Allobroges“, “Alpes“, “Anartes“, “Ancalites“, “Andes“, “Bigerriones“, “Bituriges“, “Brannovices“, “Carnutes”, 
Caturiges”, “Cenabenses“, “Ceutrones“, “Cocosates“, “Coriosolites“, “Druides“, “Eburones“, “Eburoviees“, “Elutes“, “Gates“, 
Harudes“, “Lemovices“, “Lingones“, “Namnetes“, “Nantuates“, “Nemetes“, “Nitiobriges“, “Pictones“, “Redones“, “Senones”, 
Sibuzates“, “Sotiates“, “Suessiones“, “Tarusates“, “Tectosages“, “Tolosates“, “Trinovantes“, “Vangiones“, “Veliocasses“, 
Vocates“. De ces noms de tribus aboutissants en: “-es” dérivaient deux adjectifs: l) in “-icus” pour indiquer la tribu, 2) in”-inus 
pour indiquer le territoire occupé par la tribu; ex. gr.: “Santonicus” ad Santones pertinens; “Turonicus” ad Turones pertinens; 
“Bigerronicus” ad Bigerrones pertinens etc. Les umanistes qui préféraient la forme: “Andinus” à la forme: “Andicus” en la 
considerant barbare se trompaient et forgeant l’erreur il sont forgé tous ceux les ont suivi dans cette préférence; à propos, nous 
colportons le passage suivant: “Ma è un fatto che la tradizione umanistica – come ha reagito a lungo andare al falso, grossolano, 
barbarico “milia passuum XXX” della “Vita”-così non ha voluto inchinarsi alla tradizione manoscritta della “Vita” per questa forma 
“Andicus” forse anch’essa barbarica e ha proclamato la regolarità della forma “Andinus” (E. Paratore, Una Nuova Ricostruzione 
del “De Poetis” di Suetonio” Bari, Adriat. Editr., 1949, p.133). “Andicus“, “Andinus“; les deux formes sont parfaitement régulières 
et elles indiquent choses bien différentes, inconnues aux Humanistes et aveugles disciples et fauteurs. 
13) “Admagetobriga”, “Agendicurn”, “Alesia”, “Atuauca”, “Avaricurn”, “Bibracte”, “Bibrax”, “Bratuspantium”, “Cavillonum”, 
“Cenabum”, “Decetia”, “Durocurtorurn”, “Genava”, “Gergovia”, “Gorgobina”, “Lutetia”, “Matisco”, “Narbo”, Noreia”, 
“Noviodunum”, “Ocelum”, “Octodurus”, Sa-marobriva”, “Tolosa”, “Vellaunodunum”, “Vesontio”. 
14) Kataleptòn VIII. 6. 15)KataleptònX,4-5. 
16) Verg. Eclog.IX.27. 
17) Verg. Georg.Il.198. 
18) Verg. Eclog.,IX.28. 
19) Verg. Georg.III.12. 
20) Verg. Aen.,X.200-20l. 
21) C. Hardie,op.cito,p.32. 
22) Verg. Eclog.l,71-72. 
23) C. Hardie, op. cit., p. 32. 
24) C. Hardie, op. cit., p. 3. 
25) C. Hardie, op. cit., p. 32. 
26) “P. Vergilii Maronis, Opera: Bucolica, Georgica, Aeneis“, ed. I. B. Egnatius, Venetiis, 1507. 
27) C. Hardie, op. cit., p. 17. 
28) C. Hardie, op. cit., p. 26. 
29) Macr. Sat. V, 2.

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 22-31