Attore e personaggio: valenze e pratiche sceniche nel teatro di Pirandello

Pirandello si affaccia nel panorama letterario italiano scrivendo poesie, saggi, romanzi e novelle. È sotto l’influenza del Verismo che egli matura i temi propri della sua produzione narrativa. Quegli stessi temi che si incontrano nelle sue novelle, nelle quali, però, si riscontrano anche elementi che assumono già valore simbolico particolare. Si assiste, infatti, in questo periodo, ad un contrasto dei personaggi che generalmente vivono esperienze contraddittorie tra realtà esterna ed interiorità1. Le ambientazioni, poi, di certe novelle vengono decisamente rivissute dai personaggi in chiave psicologica, come, ad esempio, in Ciaula scopre la luna, dove il paesaggio esprime un’angoscia esistenziale di valenza universale.

Parallelamente a questa produzione narrativa, Pirandello comincia a porsi degli interrogativi sull’arte e sulle tecniche di esecuzione dei moduli artistici, narrativi o teatrali che siano. Già nel saggio L’azione parlata, l’autore agrigentino riconosce la specifica differenza tra narrazione e azione scenica. Pirandello, in questa fase, pur intuendo (ma non definendo) una teoria del teatro, è già consapevole dei limiti degli autori di teatro che, a quel tempo, concepivano la scena in termini romantici. Da qui ha origine il suo atteggiamento polemico nei confronti della «letteratura» nel teatro, di cui era caratteristica quella unità di linguaggio tra i vari personaggi che smentiva l’ «azione parlata», cioè il dialogo/contrasto tra situazioni, sentimenti e caratteri diversi e persino opposti.

Parlando dell’arte, Pirandello la identifica con la vita: «Non il dramma fa le persone, ma le persone il dramma»2. Chiara è la polemica nei confronti del teatro di D’Annunzio, costruito come una finzione, laddove i personaggi sono trasportati dall’opera narrativa nella dimensione del teatro, perdendo in questo modo la loro «identità drammatica». Pirandello trova l’identità artistica dei personaggi fuori da ogni retorica precostruita. Successivamente, solo attraverso le esperienze teatrali, svilupperà il concetto della dicotomia personaggio/attore, mostrando, però, di avere scelto definitivamente il teatro come forma d’arte necessaria alla verifica di quella che era stata soltanto un’impostazione teorica. Attraverso la prassi teatrale, avrebbe cercato di risolvere anche il problema dell’interpretazione del dramma da parte degli attori.

Nel saggio del 1908, dal titolo Illustratori, attori e traduttori lo scrittore manifesta la sua disapprovazione nei confronti della figura dell’attore, appunto, il quale opera una mediazione necessaria, ma «illecita», tra autore e pubblico. L’attore viene definito come «una soggezione inovviabile»: «Sempre, purtroppo, tra l’autore drammatico e la sua creatura, nella materialità della rappresentazione, si introduce necessariamente un terzo elemento imprenscindibile: l’attore» 3.L’attore, secondo Pirandello, non potrebbe giudicare veramente l’opera che interpreta e non riuscirebbe, poi, a dare piena vita al suo personaggio; dovrebbe, infatti, spogliarsi della propria individualità e sentire il personaggio come l’autore lo ha sentito, l’autore che, già, di per sé, ha dovuto compiere uno sforzo per immedesimarsi nel personaggio da lui creato. Pirandello, in sostanza, vorrebbe che non l’attore fosse il protagonista del dramma, ma il personaggio variamente interpretato, che, in questo modo, potrebbe vivere di una sua multiforme vita, secondo le diverse situazioni ed «emozioni».

Egli ritornerà sull’argomento nel 1922, nella conferenza dal titolo Teatro nuovo e teatro vecchio, tenuta a Venezia. Citando l’esempio di Goldoni, ribadisce il concetto della perenne attualità del teatro, quando esso si richiami alle mutevolezze e all’umanità perenne della vita. Goldoni, appunto, allontanandosi dai moduli delle maschere della commedia dell’arte, ancorava i personaggi strettamente ai caratteri umani e alle loro vicende, mostrando di fare «teatro nuovo».

Pirandello, dal 1916 in poi, inizia la vera carriera teatrale e abbandona ogni postulato teorico per dedicarsi, quasi unicamente, alla prassi del lavoro scenico e alla composizione drammatica. Le resistenze che in un primo tempo mostrò di avere nei confronti del teatro (al quale «fu tirato per i capelli», come scrisse Diego Fabbri) testimoniano tale atteggiamento critico per una forma d’arte che, pur sempre, aveva variamente rappresentato l’etica del mondo borghese. Poi, invece, riscoprì il teatro come il luogo più adatto per rappresentare la frantumazione dei miti che reggevano la morale borghese.

Egli continuerà, da questo momento, a proporre e riproporre, in modo a volte martellante e ossessivo, la problematica riguardante l’identità/opposizione tra personaggio e attore: identità/opposizione che poi è rimasta irrisolta. A proposito di tale contraddittorio rapporto tra autore ed interpreti, il Nostro introduce, nel saggio sopra citato, l’idea della tecnica come parte vitale del processo creativo. Soltanto con la tecnica gli attori possono avvicinarsi al livello dei personaggi.

Pirandello traspose le sue teorie sulla recitazione della produzione teatrale, specialmente nei Sei personaggi in cerca d’autore, in Ciascuno a suo modo e in Questa sera si recita a soggetto, opere queste che rappresentano la trilogia del «teatro nel teatro». Attraverso le numerose didascalie, poste a commento dei vari intermezzi e atti teatrali, «suggeriva» ai possibili registi (ovvero capocomici. come si chiamavano in quel tempo) il modo concreto migliore per resuscitare il testo scritto e rivitalizzare il dramma che in esso era racchiuso. Se il teatro è dinamismo e contraddizione. il testo scritto dell’autore (testo che ormai risultava essere un fatto compiuto) non poteva essere riprodotto sulla scena senza quei necessari cambiamenti di natura tecnico-scenica ed interpretativa che avrebbero dovuto consegnare il dramma alla dimensione propria del teatro, alla vita.

Il problema che Pirandello sollevò, rivolgendosi soprattutto al pubblico, fu quello di spezzare le barriere artificiose della comunicazione teatrale (la cosiddetta «quarta parete») per coinvolgere il pubblico e restituire al teatro il senso della rappresentazione, «mettendo in scena» la vita e i suoi multiformi aspetti.

L’attore, così facendo, si viene a trovare in una condizione di inferiorità nei confronti del personaggio, come appare chiaramente in Sei personaggi, finisce con l’essere esso stesso un personaggio, come avviene in Questa sera si recita a soggetto. Così assistiamo ad una vera e propria sopraffazione operata sugli attori, i quali si trovano coinvolti in mezzo a due forze dispotiche: i fantasmi deipersonaggi che pretendono di impadronirsi di loro e il regista che li invita ad essere aperti e ricettivi.

È nel «personaggio» che Pirandello mostra di ricercare la chiave di volta del suo sistema di simbolizzazione della vita. Dichiarandosi contrario al concetto di «arte simbolica», intesa come rappresentazione allegorica e quindi «favola che non ha per se stessa alcuna verità né fantastica, né effettiva», Pirandello intende liberare il personaggio dalla struttura realistica, cioè dalla vita = finzione, che è una condanna esistenziale e, perciò, limita resistenza piena del personaggio4. In questo modo, cioè, la «vita» rappresenta un ostacolo all’esplicitarsi della «forma del personaggio» come piena e compiuta realizzazione della «fantasia dell’autore».

È chiaro che siamo di fronte ad un vero e proprio annientamento della funzione teatrale intesa come rappresentazione mimetica del personaggio: egli, lungi dall’essere .manipolato» o reinventato dalle tecniche teatrali dell’attore, è, invece, restituito integralmente alla sua forma artistica, alla fantasia che lo ha creato rendendolo autonomo da ogni azione predeterminata, da ogni «movimento» imposto.

Nella distinzione tra personaggio e autore c’è, comunque, l’implicita dissoluzione del ruolo dell’attore, tradizionalmente utilizzato come intermediario tra personaggio e autore. È, quindi, logico pensare che non c’è più posto per l’attore, in una situazione di questo tipo, se non nel caso in cui esso diventi personaggio, cioè annienti se stesso, il suo ruolo, per dissolversi nel personaggio. Questo è, in fondo, ciò che Pirandello vuole significare quando nella prima scena, gli Attori della Compagnia col Direttore Capocomico, col suggeritore e i macchinisti, vengono allontanati dalla scena, traendosi in disparte. I Sei Personaggi non debbono essere confusi con gli Attori della Compagnia.

Nelle didascalie, introdotte dall’autore nella commedia, si precisa, infatti, che la disposizione degli uni e degli altri dovrà essere indicata «come una diversa colorazione luminosa per mezzo di appositi riflettori. Ma il mezzo più efficace ed idoneo, che qui si suggerisce, sarà l’uso di speciali maschere per i Personaggi maschere espressamente costruite d’una materia che per il sudore non s’afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle… s’interpreterà, così, anche il senso profondo della commedia. I personaggi non dovranno, infatti, apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori»5.

È interessante, soprattutto, la figura del Capocomico che, secondo Pirandello, non deve essere più considerato come un capo degli attori, ma un intermediario tra l’autore e gli attori stessi: in questo caso, egli tiene a sottolineare l’assoluta fedeltà che richiede la parte, soprattutto per quanto riguarda i suggerimenti didascalici dell’autore. Mentre gli Attori sono, in fondo, degli automi (anche se ambiscono ad interpretare la loro parte, in un certo modo, ma sostanzialmente condizionati dalle loro stesse vocazioni drammatiche, o addirittura dai loro limiti artistici), il Capocomico è l’elemento della coscienza artistica, o quanto meno dell’«intelligenza del testo», in quanto, di fronte alle banali prevaricazioni degli Attori, e alla loro sostanziale inscienza del testo, egli si preoccupa di individuareciò che è vivo liberandolo da ciò che è ripetitivo e, quindi, privo di ogni vitalità. Se si confrontano, infatti, le didascalie, poste con una certa dovizia nel testo, e le decisioni o i suggerimenti che il Capocomico viene assumendo nella sua opera di «regista» nei confronti degli Attori, si potrà capire come, in realtà, Pirandello giudichi il Capocomico come l’unico capace di «mediare» l’Autore e quindi di fare realizzare il dramma pienamente.

Da ciò emerge chiaramente il fatto che Pirandello ha inteso privilegiare e «rappresentare» la psicologia dei personaggi, a scapito della figura dell’attore. In seguito, però, come ho accennato prima, l’autore agrigentino ripenserà al ruolo dell’attore e lo individuerà nella pratica del suo teatro, ritrovando l’attore, appunto, come personaggio vivo e autonomo (autonomo persino dal suo autore). Solo così l’attore può rientrare con piena legittimità nel suo ruolo: diventa personaggio, cioè inventa se stesso di fronte alle stesse macchinazioni fisse e irripetibili dell’autore.

La cosiddetta trilogia pirandelliana del «teatro nel teatro», già citata, è imperniata su questo concetto dell’attore/personaggio e del teatro/vita. Mi piace, però, a questo punto, soffermarmi un po’ sull’opera teatrale che, più delle altre, nella Trilogia, sottolinea tale interessante scoperta, operata da Pirandello, sul ruolo dell’attore nel suo teatro. Mi riferisco a Questa sera si recita a soggetto, del 1930. La rappresentazione prende origine da un pretesto scenico (l’asserita anonimità dell’autore della commedia), dal quale si sviluppa un dialogo, piuttosto vivace, tra il Capocomico e il pubblico.

Dopo avere precisato il senso vero del «recitare a soggetto» e formulato il concetto di «fissità artistica», il Capocomico introduce l’esile trama dell’opera, nella quale si assiste alla rappresentazione di un sacrificio doloroso e ineluttabile. Si tratta, infatti, del sacrificio e del martirio cui sono condannati i personaggi di Pirandello, i quali hanno tutti bisogno di un luogo chiuso, di prova, in cui essere giudicati e, sovente, massacrati6.

Gli attori, dunque, recitando a soggetto e, verso la fine della rappresentazione, senza più neanche servirsi delle direttive del Capocomico, vivono realmente il dramma dei personaggi da essi interpretati, fino a sentirlo come il proprio dramma, quasi fino a morirne (vedi la Prima Attrice, nel ruolo di Mommina). Attraverso la rappresentazione del tema della gelosia e dell’onore intaccato, la scena finale del dramma, si sviluppa come in un tribunale, perché il vero teatro, come dice Giovanni Macchia, è un tribunale dove si ascolta e poi si giudica.

Pirandello riesce, inoltre, mirabilmente ad eliminare lo «spazio» ed il «luogo» propri del teatro, annientando i ruoli e dilatando lo spazio teatrale fino al coinvolgimento del pubblico («rappresentazione simultanea nel ridotto del teatro e sul palcoscenico»)7. L’azione viva e vitale degli attori e del pubblico, che con essi interagisce, contrasta, così, con l’azione formale del teatro. Sembra quasi che Pirandello raccolga l’intuizione shakespereana per cui «tutto il mondo è teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori»8. Si assiste, in definitiva, a questa nuova possibilità scenica per l’attore che, da un lato, rappresenta se stesso e, dall’altro, rimuove l’opera d’arte dalla fissità artistica, sciogliendone la forma in movimenti vitali e dandole una vita diversa e varia a seconda della rappresentazione e dell’attore stesso. La vita del teatro è, per Pirandello, la vita stessa dei personaggi rigenerati nell’azione teatrale.

Il vecchio teatro, in Questa sera si recita a soggetto, ne esce a pezzi. La finzione, che era tutto, si frantuma sul volto di un attore che simula la morte, mentre prova una gran voglia di ridere. «Il teatro appare per quello che è: un luogo dove recitare una parte»9.Che questa problematica pirandelliana sia, ancora oggi, fertile di sviluppi sul piano tecnico e rapresentativo lo dimostra il fatto che diversi registi del nuovo teatro novecentesco (da Reinhardt a De Lullo, da Castri a Patroni Griffi) hanno ben inteso il suggerimento di Pirandello reinventando la vita del suo teatro, o modificando alcune parti dello stesso testo per scoprirne invenzioni e situazioni nuove, per sottrarre i drammi dall’archivio della memoria, prolungandone l’esistenza attraverso l’esperienza diretta della vita.

Laura Montanti

1 R Alonge, Pirandello dalla narrativa al teatro, In «Comunità», XXII, 1968.

2 L. Pirandello, L’azione parlata, ne «Il Marzocco», Firenze, 7 maggio 1899; ora In Saggi e scritti vari, Milano, Mondadori, 1960, pagg. 981-984.

3 L. Pirandello, Illustratori? attori e traduttori. in «Saggi e scritti vari», op. cit., pagg. 209-214.

4 L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in «Maschere Nude», vol. I, Milano, Mondadori, 1958, pagg. 6-7.

5 Ibidem, pag. 29. da “Spiragli”, 1990, n. 1 – Saggi e Ricerche

6 G. Macchia, Il personaggio sequestrato, in «Pirandello: l’uomo, lo scrittore, il teatrante», Milano, Mazzotta 1987, pag. 106.

7 L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, in «Maschere Nude», vol. I, Intermezzo, Milano, Mondadori, 1958, pagg. 260-261.

8 W.Shakespeare, Il mercante di Venezia, in «Tutte le opere», a cura di Mario Praz, Firenze, Sansoni 1964, pag. 417.

9 I. Farina, Il «foyer e la platea». Tematica e tecnica della finzione in «Questa sera si recita a soggetto», «Rivista italiana di drammaturgia», nn. 15-16, Roma, Istituto del dramma italiano, pagg. 77-78.

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 36-42.




 Tempo pagano e tempo cristiano nella copia  corleonese dei Fiori di Pindo di G. B. Marino 

In una raccolta di poemetti mariniani che si intitola Fiori di Pindo (Venezia, G, B, Ciotti, 16161. la copia che si conserva presso la Biblioteca comunale di Corleone reca, su tre delle pagine bianche del piccolo ma denso volume, due sonetti scritti a mano, a firma di Nicolò Piranio, contraddistinti l’uno come “Proposta”, l’altro come “Risposta”, Si tratta di due sonetti sullo stesso argomento, che, come allora si usava, “si rispondono per le rime”, e ciò in omaggio ad una tradizione che durava da secoli nelle dispute o tenzoni fra poeti1. 

Tuttavia, la singolarità di questi due componimenti è che essi, all’interno di una silloge mariniana, vengano presentati con due termini (proposta e risposta, appunto) che vorremmo definire mariniani2. 

Infatti nell’avvertenza “Ai Lettori” premessa alle Poesie di diversi al cavalier Marino, pubblicate come appendice alla Parte III de La Lira (Venezia, Ciotti, 1614, pp. 310-371), il Marino indica con la parola proposta ciascuno dei componimenti di lode a lui indirizzati, e si giustifica di non far seguire “risposta alcuna” ad essi “perché son tanti che si disegna di fame un volume particolare e distinto”3. 

È pur vero che i due sonetti manoscritti non sembrano avere, a prima vista, alcun riferimento né con il Marino né con i poemetti e gli idilli contenuti nella silloge, per cui si può dire che Nicolò Piranio, il quale in effetti era il proprietario del volumetto4, abbia voluto soltanto tramandar meglio ai posteri il sonetto di proposta e la relativa risposta inserendoli in un libro che giudicava di gran pregio e valore; ma non si può non osservare, dopo tutto, che i due sonetti hanno una singolare affinità con il tema del tempo, quale viene sentito e registrato in un buon numero di poesie dirette al Marino ed inserite. esse stesse, nella raccolta dei Fiori di Pindo. 

Ma forse si potrebbe trovare molto di più nelle letture poetiche, edite o inedite, dell’Accademia dei Ricoverati di Padova e di quella degli Olimpici di Vicenza, in seno alle quali nel 1601 Francesco Contarini elaborò le sue 20 Amorose proposte alle quali dovevano seguire le Risposte (anche poetiche, si supponel) dei soci: da leggere e “difendere” … “per tre giorni pubblicamente sotto il Principato dell’illustrissimo et reverendissimo signor Abbate Agostin Gradenico / Et per tre altri nell’Accademia Olimpica di Vicenza sotto il Principato del molto illustre signor Girolamo Porto” (F. CONTARINI. Amorose Proposte, Venezia, G. B. Ciotti, 1601, c. 7r)

Se prescindiamo, infatti, dalle prose introduttive, i Fiori di Pindo si aprono proprio con due sonetti ed una canzone di poeti lodatori, che celebrano il poeta napoletano come il nuovo astro della Poesia che assicurerà l’immortalità ai più valorosi fra gli uomini del tempo, salvandone il ricordo contro la legge della morte e dell’oblio, alla quale il Tempo, nel suo inesorabile trascorrere, assoggetta tutti. Queste composizioni sono: il sonetto S’orni le carte d’amorosi affetti di Francesco Contarini, il sonetto Mentre, Marino, ogni castalio rivo dello “eccellentissimo sig. Nicolò Zarotti” e la canzone Mar che ‘n suo grembo accoglie del “M. R. P. Don Crisostomo Talenti, monaco di Vallombrosa”. 

Più avanti invece troviamo il sonetto del genovese Pietro Petracci Con scalpello canoro un tempio ergesti ed infine, nella parte introduttiva al panegirico Il Tempio, ben 16 componimenti di amici ed ammiratori del Marino, così distinti: 2 sonetti di Ludovico d’Agliè dei conti di S. Martino (O che bella, o che rara, o che gentile e Spade, penne e pennelli o con qual arte), 2 di Ludovico Tesauro (In bel teatro e spatiosa scena e Mentre il gran Carlo con la mano ardita), e ancora 2 di Francesco Aurelio Braida – omonimo di quell’Ettore Braida che fu ferito in conseguenza dell’attentato del Murtola al Marino – i quali iniziano con i versi Veggio ben io, Marin, veggio che tinge e È de l’eternità tromba sonora: a cui seguono alcune composizioni in versi latini di Giovanni Botero, Antonio Borrini, Scipione di Grammont, Ludovico Porcelletti, ed infine altre in lingua francese dello stesso Scipione di Grammont, di Pierre Berthelot e di Onorato Laugier, signore di Porcières, anch’egli notabile piemontese, che viene lodato proprio nel Ritratto, insieme a Ludovico d’Agliè e a Giovanni Botero. 

Ora, a proposito di questa discreta raccolta di poeti piemontesi inneggianti al Marino, pur non brillando i testi per particolari pregi poetici, chi si trova a leggerli tutti insieme non può fare a meno di notare qualcosa che li accomuna tutti e rende la loro poesia in certo senso esemplare. E ciò è che il culto della poesia è inteso soprattutto come lotta dell’uomo contro il Tempo e la Morte. 

D’accordo. Il motivo della caducità della vita umana e degli umani destini non è nuovo. L’uomo è stato forse da sempre consapevole che “quanto piace al mondo è breve sogno”. Ma proprio questa consapevolezza aveva portato nel passato a staccarsi maggiormente dalla terra, o per lo meno ad attaccarsi a un al di là, a una fede. Nel Seicento, invece, pare che questa fede venga a mancare; e ciò a dispetto di ogni inquisizione. Mentre apparentemente si è nella più stretta ortodossia, è proprio la religiosità quella che manca; ed in questo brancolare cieco nel mondo delle fuggevoli parvenze umane, si afferma per reazione uno sconsolato carpe diem da cui nascono il sensualismo, il concettismo come a1Termazione delle capacità e dell’intelligenza dell’uomo, la moda-mania dei miti letterari e degli idilli, evasori da una realtà resa più squallida dalle guerre, dalle ingiustizie, dalle sopraffazioni, il mito infine della poesia come unico sbocco ed unica salvezza per un’esistenza che aveva perduto ogni senso e ogni certezza che non fosse quella dura, oppressiva dell’esistenza di tutti i giorni. 

In questa chiave sono da leggere non solo i componimenti poetici dei cortigiani piemontesi che fanno, in certo senso, da presentazione a Il Ritratto, ma anche le composizioni proemiali precedentemente indicate del Talenti, dello Zarotti, di Francesco Contarini. 

Né diverso è l’atteggiamento del Marino circa l’ufficio della Poesia. Chè se già nelle ottave introduttive allo Adone dice di volere “ordir testura ingiuriosa agli anni” (c. I, 4,2), nel panegirico Il Ritratto si dichiara addirittura convinto che, dei tre mezzi che l’uomo ha per lottare contro il tempo e per conseguire fama imperitura (spade, penne e pennelli., per dirla con il D’Agliè), le penne, cioè la gloria poetica è quella che dà maggiore affidamento. Per ciò, dopo tanta celebrazione del pittore e amico Ambrogio Figino cui è dedicato Il Ritratto, il Marino arriva a dirgli di mettersi da parte quando si tratta di passare a descrivere le virtù e i sentimenti di Carlo Emanuele di Savoia. Infatti – per il Marino – la pittura non può aspirare a rappresentare i moti intimi del cuore o la personalità complessiva dell’eroe, ma solo gli aspetti esteriori di comportamento, di decoro, di maestà. 

Figin, l’aria gentil del regio aspetto 
e l’eroica sembianza a te ben lice, 
con tutto quel ch’è de la vita oggetto, 
rappresentare altrui, fabro felice. 
Ma formar la miglior parte gentile 
apra questa non è da muto stile. 

[ …………………………………] 

Così la forma esterior del volto 
a pieno effigiar ti si concede 
Ma se ‘l valor, ch’è sotto il vel raccolto 
e quel lume immortal ch’occhio non vede 
ritrarre industre man tenta ed accenna, 
qui convien che il pennel ceda a la penna5. 

In effetti il Marino è convinto che, come la gloria militare, fondata sulle stragi e sul sangue. ha bisogno per vivere dell’arte rappresentativa del pittore, allo stesso modo la vera immortalità si consegue con la poesia che può trasformare in diamante inattaccabile ad ogni erosione il ferro delle armi e i colori della pittura: 

Ma ritorniamo ai due sonetti manoscritti della copia corleonese. In essi il rovesciamento della prospettiva è vistosissimo ed innegabile, chè, se anche qui il tempo fa da protagonista. il punto di vista è interamente cristiano. Anzi si può dire che i due sonetti rappresentino i due diversi modi che ha il credente di rapportarsi con l’attesa del giudizio di Dio, secondo che prevalga in lui il terrore della sua giustizia o la fiducia nella sua misericordia. 

Entrambi i sonetti sono giocati infatti sui significati molteplici delle parole “tempo” e “conto”, che costituiscono la rima obbligata ed “equivoca” dei 14 versi di ciascun componimento. Né il risultato è poeticamente disprezzabile, per quanto fondato sul rischioso impegno di far comparire le due parole chiave non solo alla fine di ciascun verso ma spesso anche nel contesto dello stesso. 

Il virtuosismo di Guido Cavalcanti nel celebre sonetto degli spiritelli o le bravure dell’autore di Eo viso e da lo viso son diviso sono nulla dinanzi alle capacità metrico-stilistiche di questa 

PROPOSTA 

Richiede il tempo di mia vita il conto; 
rispondo: il conto mio richiede tempo. 
né di tanto si può perduto tempo 
senza tempo e terror rendere conto. 
Non vuole il tempo differire il conto 
perché il mio conto ha disprezzato il tempo 
e perché non contai quand’era tempo 
in quan[to], tempo dimando a render conto.7 
Qual conto conterrà mai tanto tempo, 
qual tempo basterà per tanto conto 
a me che senza conto ho perso il tempo? 
Mi preme il tempo e più m’opprime il conto; 
e moro senza dar conto del tempo 
perché il tempo perduto è fuor del conto.8 

 

Il motivo pagano e tipicamente seicentesco (o marinistico) del tempo distruttore, diventa qui mito cristiano del .giorno in cui dovremo reddere rationem a Dio, dargli conto del bene e del male compiuto in vita, del modo in cui avremo trascorso il tempo che Egli ci ha concesso: se “perdendolo” perché abbiamo preferito i piaceri del secolo, tenendo in dispregio l’idea del “conto” cui alla fine saremo chiamati, oppure se saremo vissuti in attesa “di quel “rendiconto”. 

Il primo sonetto sviluppa tutto ciò nella prospettiva di un dio giustiziere e di un uomo naturalmente incline al peccato, il quale, anziché mirare a procurarsi la salvezza eterna, vuole assaporare le gioie della vita ed opera come se fosse .possibile “differire” senza alcun limite il giorno del giudizio. Il che, in definitiva, porta l’uomo a “perdere il proprio tempo”, a perdersi, anzi a trasformare la propria vita in morte/e moro senza dar conto del tempo), in una scelta che sta fuori del “conto” che Dio faceva di noi (perché il tempo perduto è fuor del conio). 

Ma al timore, anzi al terrore della giustizia di Dio, ecco che si oppone, nella Risposta, la speranza cristiana e la certezza che, anche se peccatori, anche se ci saremo trastullati per tutta la vita rimandando sempre la nostra conversione, potremo essere salvati se il Signore rinuncerà a sorprenderei con una morte repentina. Infatti, essendo egli somma Misericordia, basterà un pentimento in extremis per fare breccia nella sua clemenza. Donde, nella Risposta, un sillogizzare che sa quasi di gesuitismo, di bivalente moralità, ma è anche sincera ammissione del fatto che solo il tempo, o l’attimo, trascorso e affrontato dall’uomo al cospetto di Dio è quello che ha un valore in sé assoluto. 

RISPOSTA 

Poco tempo volerei ho falto conto 
per render conto del perduto tempo. 
Basta dolersi un punto sol di tempo: 
un cor pentito, ed è saldato il conto. 
D’ogni altro tempo Iddio non tiene conto, 
un punto sol che dona Dio di tempo. 
Mi preme di poter aver di tempo 
il punto in cui, dolente, io rendo il conto. 
Questo punto val più che tutto il tempo 
e di questo rifò così gran conto 
che darei, per averlo, assai di tempo. 
Signor, a render del mio tempo il conto, 
se mi nieghi tal punto è perso il tempo; 
ma se quello mi dai, già è reso il conto! 

Vincenzo Monforte

(1) Per i caratteri interni ai due componimenti è abbastanza verosimile che essi siano opera di un solo autore, e cioè del Piranio. Il che è comprovato dal fatto che, per un terzo sonetto manoscritto inserito nel volumc e volto a satireggiare l’ordine dci Cappuccini, il Piranio ha cura di annotare: “Questo sonetto fu fatto in vituperio delli Cappuccini dal Sig. Salomone di Butera”, Va tuttavia segnalato, per la precisione, che nelle pagine manoscritte, la firma è apposta solo al termine del secondo sonetto. 
(2) In verità, chi volesse andare alla ricerca delle ascendenze più o meno remote di quella terminologia nel costume poetico delle Accademie cinquecentesche e nelle “corrispondenze” fra poeti, qualcosa troverebbe certamente esaminando la produzione madrigalesca anteriore al Marino, nonché le antologie poetiche promosse dalle accademie letterarie. Per quanto è a nostra conoscenza, i termini “preposta” o “proposta” e “risposta” nel significato di cui si discute, sono abbondantemente usati nelle Rime dell’Accademie degli Accesi, stampate a Palermo da Giovan Matteo Mayda nel 1571 (vol. 1) e nel 1573 (vol. II). 
(3) Come è noto il Marino, per il quale quella promessa aveva solo la funzione di una captatio benevolentiae, non attuò mai quel disegno. E al riguardo si veda anche quanto egli dichiara nella lettera inviata da Torino a Fortuniano Sanvitale nel 1614 (cfr. G. B. MAR]NO, Lettere a cura di M. GUGLIELMINETTI, Torino, Einaudi, 1966, p. 177). 
(4) Il Piranio appone in diversi punti del volumetto l’attestazione del suo possesso annotando “ex libris Nicolai Piraneis”, ed in un luogo aggiunge anche una data certamente preziosa per eventuali future indagini: 1694.
(5) Il Ritratto, st. 87 e 89.
Così la dea del sempiterno alloro, 
parca immortal de’ nomi e degli stili. 
a le fatiche mie con fuso d’oro 
di stame adamantin la vita fili 
e dia per fama a questo umil lavoro 
viver fra le pregiate opre gentili, come farò che fulminar tra l’armi 
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi6 
(6) Adone. c. I, 8. 
(7) In quanto sono uno che chiede sempre tempo, quando si tratta di rendere il conto. “In quan”, congiunzione poco leggibile nel testo, sta per “in quanto”, ed appare in forma tronca innanzi alla parola “tempo” per una storia di crasi fra le due sillabe inizianti con dentale. Del resto, anche nell’italiano moderno il fenomeno continua a sussistere in espressioni come “un gran discorrere”, con l’unica differenza che, nell’alternanza gran/grande la forma sincopata dell’aggettivo si è estesa a molti altri casi, fino a diventare quasi sempre compatibile con l’aggettivo maschile singolare. 
(8) Per la verità nel testo autografo l’ultimo verso è così trascritto: “perché il tempo perduto è fuor del tempo”. Ma si tratta quasi certamente di un banale errore di ricopiatura, perché è impensabile che, dopo tanto strenuo lavoro metrico, l’alternarsi delle rime nelle due terzine finali, si concluda con i due versi a rima baciata.

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 31-37.




 Sicilia e Italia, aspettando il 1992 

Consentitemi di dire che il 1992 è per il momento il più grosso successo di pubblicità e di commercializzazione. 

Vi confesso che ho lungamente riflettuto su questo successo pubblicitario e devo dire di essere pervenuto alla conclusione che il 1992 non è un evento tanto sconvolgente; solo bisogna attrezzarsi per essere pronti al suo arrivo. 

Nel nostro Paese, dove tanto si sta pubblicizzando questa data, ci auguriamo che a furia di parlare finalmente si faccia qualcosa, non per il 1992, ma per quello che avremmo dovuto fare sin dal 1958, data di entrata in vigore dei trattati di Roma. Se alle tante parole spese per enfatizzare questa data seguissero i fatti, ci sarebbe da essere contenti e quasi soddisfatti, ma il nostro è il Paese in genere delle molte chiacchiere e dei pochi fatti. 

La data del 1992 ha finito con l’assumere in riferimento a taluni settori (attività industriale, agricoltura, artigianato, commercio, libere professioni) molta importanza, sicché l’Europa del 1992 non è soltanto un traguardo verso cui stanno muovendosi spontaneamente e senza bisogno di alcun intervento le istituzioni del paese Italia e degli altri paesi membri; è piuttosto un grande impegno sociale, la cui completa realizzazione deve convincere e fattivamente coinvolgere operatori, semplici cittadini e professionisti. 

Questa partecipazione significa conoscenza, cultura, ma soprattutto coscienza serena ed entusiasta dei risultati che abbiamo a portata di mano. In un mercato di 330 milioni di individui, con il metro, talvolta spietato ma sempre terribilmente obiettivo, della qualità, dell’efficienza e del rispetto dell’uomo, dovremmo confrontarci con altre realtà nazionali, sociali ed intellettuali. Altri Paesi sono molto più avanti di noi, ma il tempo e la capacità di recuperare li abbiamo assolutamente intatti; basta volerli. 

L’ampliamento della Comunità alla Spagna, alla Grecia ed al Portogallo, ha fatto aumentare i Paesi inefficienti, ma sempre più ha unito il vecchio continente; 12 Stati non solo hanno tradizioni diverse, ma hanno anche condizioni economiche e sociali che non sono assolutamente equiparabili ed omogenee. 

Bisogna adeguare le scelte politiche nazionali in modo tale che l’Italia si adegui all’Europa e non pensare che l’Europa possa adeguarsi all’Italia. In merito desidero fare una riflessione che interessa in particolare il Mezzogiorno d’Italia, e la nostra Isola. Sento sistematicamente dire, quando si parla delle norme del regolamento del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, che l’Europa non tiene conto dei nostri problemi, oppure che le norme sulla concorrenza non ne tengono conto. Allora viene chiaro chiedersi: cosa ha fatto, o sta facendo, il nostro governo per salvaguardare le parti più deboli del Paese? 

L’Atto Unico europeo avrebbe dovuto emendare il Trattato di Roma per permettere al Mezzogiorno di godere dei benefici e adeguarlo alla realtà europea. Anche in questo il nostro governo è stato debole, perché la Germania ha fatto in modo che l’Atto Unico europeo si dimenticasse di modificare l’art. 92, paragrafo 2, del Trattato, in base al quale Berlino e le zone di confine delle due Germanie sono zone rispetto alle quali la Germania può assolutamente erogare tutti gli aiuti possibili e immaginabili alle imprese. In effetti, questa era la realtà del 1957, ma nel 1986, al momento dell’Atto Unico, Berlino, certo, non era da paragonare alla Calabria, alla Sicilia o alla Tracia. 

In un’Europa in evoluzione, cosa diventa la «questione meridionale» nel momento in cui le distanze non si misurano più con Roma, ma con Francoforte? 

Con il 1992, secondo me, esploderà la vera natura della gestione meridionale che non consiste soltanto nel divario dei redditi e dei consumi, quanto nella qualità dell’ambiente sociale, istituzionale,· scientifico, culturale. Dobbiamo operare e lottare perché il Meridione sia parte integrante dell’Europa e non zona emarginata e i meridionali siano cittadini e non sudditi. 

I veri problemi, perché il nostro Paese scavalchi le Alpi, sono l’occupazione e il Mezzogiorno. A questo punto mi permetto di dire che ovunque nel nostro Paese si parla della scadenza posta per il 1992 dall’Atto Unico europeo, ma pochi si sono accorti che il primo problema da affrontare, per accogliere appieno le opportunità della nuova fase di costruzione dell’Europa, è proprio quello della diffusione su larga scala di più alti livelli di cultura e, quindi, dell’efficienza del sistema scolastico. 

La scuola deve dare agli studenti una qualità formativa più elevata e, comunque, allineata agli standard internazionali più avanzati; essa deve, perciò, rispondere alla sfida della qualità di massa, cioè, assumere come punto critico della propria gestione il problema della produttività, e quindi dell’efficienza. 

Fino ad oggi il sistema Italia si è caratterizzato per un vivere alla giornata, senza programmazione, senza quella elevazione culturale che un Paese deve mettere al primo posto per una concorrenzialità bisognosa non solo di innovazione tecnologica, ma di un principio democratico e funzionale, perché oggi la competizione si svolge tra sistemi, più che tra singole imprese. 

Ci sostiene in questa affermazione quanto ha detto l’ing. De Benedetti: «I nostri concorrenti tedeschi e giapponesi si muovono su i mercati internazionali avendo accanto a loro le istituzioni, le grandi infrastrutture, i grandi programmi pubblici; in una parola tutto il Paese. 

Secondo me, quelle forze che spingono per un ingresso indolore in Europa, 

«meno Stato più mercato», sottintendono spesso «niente Stato niente regole» per poter meglio affermare i propri interessi individuali e corporativi, accelerando così i processi di disgregazione sociale ed economica. 

Mi sento di affermare che il liberalismo non è una risposta come non lo è il vecchio statalismo. 

Da oggi al 1992 l’Italia, se non vuole arrivare dimezzata o in tono minore, deve prendere decisioni grosse, rivolte a una serie di riforme che garantiscano il salto di qualità; il vecchio metodo d’intervento clientelare, e a pioggia, deve trasformarsi in un intervento finalizzato, tenendo presenti le peculiarità delle scelte territoriali del nostro Paese. Bisogna prima di tutto superare l’inefficienza di una Pubblica Amministrazione che si è appropriata sino a tutti gli anni ’70 di nuovi compiti; volendo dare al nostro sistema il definitivo carattere di uno Stato amministrativo, ha messo in moto un processo che ha favorito il rafforzamento dei maggiori gruppi industriali. 

Una conferma è offerta dall’analisi dei settori produttivi italiani. Il sistema presenta posizioni di forza nella produzione di beni finali (vestiario, pelletteria, calzature, mobili, attrezzature per la casa, automobili, motocicli, turismo), e nelle produzioni di base collegate alle produzioni di macchine ed a quelle dei prodotti finali (es. acciai ed altre leghe speciali). Questo evidenzia come una parte del Paese è quasi pronta ad entrare in Europa, ma il Sud no, in quanto ha un’industria fatiscente ed un’agricoltura che non è in grado di competere con gli altri Paesi. 

La contropartita del processo di sviluppo produttivo e sociale del Nord è costituita dall’incremetnto del debito pubblico e dall’arretratezza del Mezzogiorno. 

Entro il 1992 quasi tutte le tecniche adoperate in Italia per il sostegno alle imprese e al Meridione sono destinate a scomparire o perché non compatibili con i principi del grande mercato o perché produrrebbero, nel nuovo ambiente giuridico ed economico dell’Europa, effetti diversi o persino opposti. 

In questo quadro i grandi gruppi vertono in condizioni favorevoli, certamente migliori di quelle del passato; parecchie difficoltà si frappongono invece alle medie e piccole imprese. Rischio di cambio, pratiche valutarie, elevati tassi d’interessi sono i loro nemici. Esse sentono la necessità di puntare sul dinamismo e la flessibilità, in quanto quasi tutte ancora a controllo familiare. 

Elemento essenziale, allora, è quello di attrezzarci con nuove regole fiscali. Quella della riforma del fisco è una fondamentale battaglia di giustizia sociale ed una chiara battaglia europea, perché un grosso problema è armonizzare i prelievi fiscali. «Meno imposte e più giuste» è il nuovo slogan C.E.E. per il 1992, e la Comunità nel lanciare questo slogan sa che è uno dei passaggi nodali per l’unificazione, in quanto in Europa si passa dalla grande rigidità alla colpevole permissività. 

Non possiamo come italiani continuando a ‘colpi di decreto’ risanare la «barca fiscale» che fa acqua da tutte le parti. Ormai per chi non evade o non può evadere le aliquote e i continui balzelli (ultima la TASCAP), stanno diventando insopportabili. Nei limiti in cui queste osservazioni sono esatte, lungi dal creare condizioni effettive di eguaglianza, si rischia di accrescere il divario tra le regioni più ricche e quelle più arretrate. Il che, secondo me, sarebbe di danno non solo per le aree arretrate, ma per l’intera Comunità sotto molti profili: perché disparità sostanziali impedirebbero le ottimali localizzazioni dei fattori, le singole aree territoriali non sarebbero reciprocamente in grado di valorizzare al meglio le loro vocazioni naturali e si determinerebbero controspinte all’ulteriore integrazione. 

Si rende perciò indispensabile sin dall’origine, ad evitare errori storici che sono stati commessi e continuano ad essere commessi come, ad esempio, in Italia, nei rapporti nord-sud dopo l’unificazione e sino ai giorni nostri, un cambiamento di rotta: bisogna affermare il principio che l’equalizzazione della capitalizzazione sociale, con riferimento ad ogni parte del territorio della Comunità, è interesse proprio ed obbligo della Comunità stessa. 

Solo in tal modo si creerebbero le premesse per un suo sviluppo armonico e libero e si realizzerebbero condizioni di effettiva eguaglianza per tutti i 330 milioni di cittadini comunitari. Il principio enunciato è tutt’altro che semplice sul piano dell’attuazione; esso presuppone una forte ed efficace volontà politica, e questa non si esprime se non attraverso forme organizzative adeguate agli obiettivi e non attraverso continui litigi all’interno del governo e delle maggioranze, e a colpi di voto di fiducia. 

Noi dobbiamo scontrarci con una grande realtà, che è l’Europa del ’92, quella Comunità europea che oggi copre il 38% del commercio contro il 15% degli Stati Uniti ed il 9% del Giappone. Dinanzi a questa fortezza e a questi aspetti positivi e negativi, come si presenterà – dal punto di vista geografico – l’ultima regione italiana? Una risposta non è facile, né ho la presunzione, nei limiti delle mie modeste capacità, di dare risposte esaurienti; mi sforzerò solo di fare delle riflessioni. 

La prima grande difficoltà viene dal fatto che oggi non possiamo partire da fotografie statiche, ma dinamiche. In questi ultimi anni la nostra Sicilia è cresciuta nei suoi aspetti negativi e positivi; in alcuni settori è diminuita e in altri è aumentata la distanza dall’Europa più avanzata. 

Il mercato unico europeo propone tempi duri per il negozietto sotto casa, molto diffuso nella nostra regione. La realtà sovranazionale e le possibilità offerte alla grande distribuzione spingeranno verso un aumento di centri commerciali al dettaglio, quelli con formula «shop in shop», a scapito anche del grande magazzino popolare. 

Sino ad ora la data dell’apertura delle frontiere è stata scarsamente considerata con riferimento alle implicazioni ed alle problematiche che scaturiranno per le libere professioni; ma non solo, uno stimolo va fatto agli ordini professionali, perché senza dubbio c’è il rischio di venire condizionati sul mercato da una massiccia presenza di professioni. La realizzazione del mercato unico comporterà numerose modifiche strutturali e innovazioni politiche e istituzionali, ma comporterà necessariamente anche il superamento di squilibri e inefficienze, ed in questo i liberi professionisti forti e qualificati avranno indiscutibilmente un ruolo di primo piano, in particolare in una regione come la nostra che ha bisogno di attrezzarsi ed adeguarsi al passo europeo. 

Teniamo, inoltre, in considerazione che il principio del mutuo riconoscimento legislativo comporterà che ogni Paese membro dovrà riconoscere come legittimo e lecito nel proprio ambito ogni atto originato in un altro Paese C.E.E. e che risulti legittimo e lecito secondo la legislazione del Paese d’origine. 

Nel campo dell’agricoltura, come meridionale, ma soprattutto come siciliano, ritengo vi debba essere una maggiore attenzione, visto che l’elemento trainante dell’economia di questa Regione è l’agricoltura. L’ingresso nella C.E.E. della Grecia, della Spagna, del Portogallo mette a dura prova la nostra economia agricola, in quanto diretti concorrenti ai nostri prodotti ed in particolare a quelli della Sicilia, specie ora che viviamo una crisi del vino, dei serricoli, dei cereali, delle olive. 

La Regione Siciliana piuttosto che affrontare una politica strutturale del settore agricolo ne ha portato avanti una assistenziale e contingente che sicuramente ci farà impattare con un’Europa più evoluta e razionale in uno stato di assoluta inferiorità. 

Per ovviare a ciò, necessita migliorare la ricerca scientifica, l’assistenza tecnica e i servizi, bisogna mettere l’università al servizio delle produzioni agricole. 

In un mercato per 330 milioni di abitanti non possiamo presentarci solo con il vino da taglio o con una bottiglia di vino per ogni cantina, perché faranno la parte del leone nel mercato europeo, con i loro vini pregiati, i francesi, che sono riusciti ad imporsi nella cultura e nei gusti dell’Europa e del mondo, i nostri connazionali del Settentrione con i loro vini, gli Spagnoli e i Portoghesi, i quali lotteranno per un loro spazio ancora più ampio, mentre alla Sicilia e al trapanese sarà sempre più richiesta l’estirpazione del vigneto. 

Ho detto un po’ prima che il tempo e la capacità di recuperare ci sono; bisogna solo che i nostri Governi nazionali e regionali pratichino una politica diversa per evidenziare i pericoli e i rischi che l’unificazione del mercato può contenere per noi, soprattutto per il Mezzogiorno e per le parti meno sviluppate del Paese, e che nel contempo questa unificazione può rappresentare un’occasione da non perdere per rinnovare l’Italia e la Sicilia. L’Assemblea Regionale deve battersi per una legge organica del settore vitivinicolo, deve adottare una linea progressista e di alternativa che voglia una Sicilia non il Sud del Sud Europa, ma una regione che colga l’occasione per recuperare i ritardi storici. Bisogna creare sostegno e immagine al vino siciliano per un rilancio della sua commercializzazione e per un suo effettivo riconoscimento in campo europeo. 

Secondo me, è finita l’epoca dell’intervento a pioggia, e della sussistenza; bisogna creare trasporti più agevoli, i nostri aeroporti, e in particolare quello di Trapani, a proposito di vino, non possono essere manufatti belli a guardarsi, ma centri vitali per la vita economica e commerciale della nostra Isola. 

Lo zuccheraggio del vino non deve essere praticato in Europa, ancora siamo in tempo; altrimenti ogn{ sforzo troverà un nemico difficile da combattere. Il vino di Trapani, l’uva da tavola di Canicattì, le arance del palermitano o del catanese devono poter disporre delle più alte tecnologie che non possono essere il frutto dei singoli, ma l’impegno della Regione e dello Stato. Per le culture specializzate bisogna non affidarsi più alla sola intelligenza ed esperienza del coltivatore; bisogna un importante laboratorio di analisi (terreni, anticrittogamici, fitosanitari) per consentire agli agricoltori di autocontrollare l’inquinamento e garantire ai consumatori italiani ed europei un prodotto sano, migliore e concorrenziale. Per questo, ripeto, è vitale un aeroporto al servizio della nostra economia. 

Noi siciliani, oltre a essere la prima Regione vitivinicola della C.E.E., siamo il primo porto peschereccio d’Italia, ma non riusciamo a trasformare quest’altra grande risorsa naturale in una ricchezza per l’intera popolazione. Anche questo settore si trova in crisi per la mancata politica degli accordi internazionali e per il continuo impoverimento delle risorse naturali determinato dall’eccessivo prelievo, e non basta il solo riposo biologico. C’è bisogno di una seria attività di programmazione e di una ricerca scientifica e tecnologicamente avanzata, come quella che praticano i Giapponesi. Sicché, anche in questo settore, impatteremo con l’Europa senza avere quel minimo di infrastrutture che sono ormai indispensabili per una visione europea del mercato. 

Nel campo dell’industria le realtà della nostra Isola, nei confronti dell’Europa evoluta e del nord Italia, sono in grande difficoltà permanente per la crisi della commercializzazione del prodotto. Non ci sono stati sufficienti interventi esterni che per alcuni aspetti, secondo una mia valutazione, e per lo più sono solo serviti a penalizzare di più i nostri prodotti per agevolare quelli del Nord del Paese. Anche per questo settore in Europa arriveremo in crisi. 

Il settore marmifero, presente in provincia di Trapani, ha bisogno di adeguare le proprie strutture a questo nuovo grande mercato, e per far ciò deve colmare le differenze che ci sono con Verona e Carrara: ma senza una legge regionale snella, che permetta di lavorare a chi ne ha voglia e capacità, è un settore che almeno nella parte astrattiva va verso la fine, lasciando languire la parte di lavorazione che in questi ultimi tempi ha cercato di adeguarsi alla più moderna meccanizzazione e commercializzazione. Senza il supporto della materia prima in loco, questo tentativo vedrà vanificare gli sforzi per l’inadeguatezza dei mezzi di trasporto, e in questo caso, il porto, struttura che va valorizzata come testa di ponte per il terzo mondo. Il ritorno ad un certo splendore commerciale di Trapani, secondo me, dipende molto dal porto, non come struttura fatiscente, ma come struttura moderna e snella in grado di competere con i più attrezzati porti di seconda grandezza d’Europa. 

Il marmo è una ricchezza anch’essa naturale della Sicilia, e di Trapani in particolare, che potrebbe benissimo concorrere al mercato europeo, solo che non può essere lasciato nel più assoluto abbandono, e necessita di apporti tecnologici e programmati che lo facciano diventare, come potenzialmente lo è, una forza trainante dell’economia isolana. A questo punto, mi chiedo: ma è possibile, in un’Europa grande potenza economica mondiale e tecnologicamente evoluta, che non ci sia lo spazio per la nostra Sicilia che possiede grandi potenzialità naturali (agricoltura, pesca, marmo, turismo), e quindi non dipendenti da fattori internazionali, come le industrie di trasformazione? Ritengo che la risposta stia nel modo di governare dei nostri Governi regionali e nazionali che non hanno saputo portare avanti una politica meridionale per l’Europa, affinché tutta l’Italia entri a pieno titolo nell’Europa. 

Proprio per questo chiediamo ai nostri governanti delle risposte concrete e che non ripercorrano, in questi anni che ci separano dal ’92, la politica del fallimento pratico di un indirizzo che ci ha allontanati dall’unificazione europea. Non possiamo come siciliani passare dall’illusione dell’industrializzazione del passato a questo tipo di sviluppo. Perciò ritengo oggi di spronare tutte le forze politiche nazionali e regionali, affinché si dica no ad una industrializzazione inquinante, che non trova spazio in Europa, ma ci si batta assieme per un’industria di trasformazione delle nostre risorse ed un’industria ad alta tecnologia che possano trainare la nostra economia e portarci in Europa con il resto del Paese. 

La nostra Regione porta in Europa un’immensa ricchezza di beni culturali e ambientali che l’intero mondo ci invidia. Devono essere solo ricchezze da menzionare su libri specializzati e riservate a ristrette comitive di amatori, oppure grandi risorse da utilizzare per il grande pubblico dei 330 milioni quanto è la popolazione europea? 

Ritengo che, a quanto detto poc’anzi, vadano aggiunte le bellezze delle località costiere e delle nostre isole. Potenzialmente potremmo diventare un grande polo di attrazione turistica per l’Europa, dal punto di vista balneare, naturale, culturale, archeologico, monumentale, antropologico. In questo campo, però, senza le necessarie infrastrutture e le dovute azioni promozionali, non si arriva al grande pubblico. Quindi bisogna agire, e subito, affinché il più bel parco storico naturale d’Europa venga valorizzato e possa diventare volano di sviluppo economico per l’intero territorio nazionale. 

Gli enti locali svolgano un ruolo non secondario in questo avvicinamento all’Europa della nostra Regione. Non siano centri di certificazione o elargitori di una politica clientelare, ma profondi sostenitori di una politica di programmazione che veda la spesa pubblica e gli indirizzi politici finalizzati a creare i servizi e le infrastrutture capaci di accogliere tutte le iniziative pubbliche e private al fine di accelerare ravvicinamento all’Europa. Nell’Europa unita la Sicilia vuole un ruolo degno della sua storia, della sua tradizione, della sua cultura. 

In varie parti del mondo si sono affermati o si stanno affermando Stati continentali:U.S.A.,U.R.S.S.,Cina, Giappone, Brasile,India.Altri probabilmente ne sorgeranno nell’aria asiatica. L’Europa è uno spazio continentale. Il conseguimento di una dimensione istituzionale continentale s’impone, e con urgenza, anche per noi. Se fosse diversamente, l’Europa potrebbe subire la stessa sorte delle città-stato italiane che persero la loro indipendenza quando vennero a confronto con gli Stati nazionali. L’Atto Unico assegna la data del 31-12-1992 quale termine per la sua completa attuazione, entro quella data dovranno essere limitate le dogane e con esse dovranno scomparire tutti gli istituti limitativi dei movimenti. L’attuazione dell’Atto Unico è già in corso e sono da attendersi delle accelerazioni. 

Fattori propulsivi saranno in particolare il principio del mutuo riconoscimento delle legislazioni e la direttiva sulla liberalizzazione dei capitali. Tutti i Paesi membri avranno il compito di accompagnare le rispettive collettività perché si trovino nelle migliori condizioni al nastro di partenza. Questo richiamo va sollecitato politicamente per il nostro Paese a tutte le forze politiche. L’Europa comunitaria sarà vitale se potrà contare su tutte le energie della collettività che la formano. Come elementi cardine in questo lasso di tempo 1’Italia e i suoi governi dovranno: 

a) opporsi a qualsiasi nuova legge che crei disparità in danno dei fattori produttivi nazionali; 

b) salvaguardare nel modo più attento l’ambiente giuridico-sociale che ha favorito il fiorire della nostra media e piccola industria e dell’artigianato, che sono una delle doti che l’Italia porta in Europa. 

Per fare ciò è essenziale che si introducano meccanismi adatti perché rimanga salvaguardata l’autonomia delle piccole e medie imprese e si renda compatibile il loro sviluppo con la permanenza del controllo familiare. Se le più fiorenti imprese piccole e medie venissero acquistate da grandi gruppi, specie non italiani, potrebbero venire meno parecchi dei benefici che si attendono dall’Atto Unico e si potrebbero ottenere risultati opposti. 

Si apre, dunque, non solo per la comunità, ma per tutti i Paesi membri, una fase quasi costituente. 

L’Italia oggi si avvale di un sistema particolarmente rigido: ciò richiede tempi più lunghi e grande volontà politica. È quindi necessario partire con anticipo. In questa fase occorre una grande convergenza tra le imprese, i sindacati, i cittadini e le forze politiche. 

Oggi la nostra funzione di uomini liberi è quella di spingere per portare tutta l’Italia, compresa la Sicilia, in Europa con l’apporto di tutte le forze autenticamente democratiche ed europeiste. 

Certo che non sarà una semplice passeggiata. 

Si richiedono ferma determinazione, analisi attente, comportamenti coerenti. 

Non resta che metterci al lavoro e guardare al futuro con fiducia come europei, come italiani, e come siciliani. 

Enzo Miceli 

da “Spiragli”, Anno I, 1989, n. 1, pagg. 37-46.




Virgilio Titone  Uno degli ultimi maestri 

 Il 27 febbraio 1989 è morto Virgilio Titone, grande scrittore, storico, critico, sociologo: uomo onesto, coraggioso, generoso, schivo, veramente libero. 

Era nato a Castelvetrano (Trapani) il 15 marzo 1905. Già nei primi scritti, del 1923 o del 1924, rivelava la sua forza decisa, energica dello stile. Fra i suoi primi libri Critica vecchia e nuova (Firenze, 1932), nel quale mostrava che l’ammirazione per il De Sanctis aveva fuorviato il giudizio dei critici, non avendo quell’autore fatto se non «in moltissimi casi che della psicologia». Seguirono La poesia del Pascoli (Roma, 1933), Retorica e antiretorica nell’opera di Alfredo Oriani (Milano-Napoli, 1933), che il senatore Cian considerò uno scritto eretico, «incredibile, ma titonicamente vero»; allora difese il Titone Benedetto Croce, condannando severamente la denunzia di quel servo del regime fascista (La Critica, vol. XXXIII. 1935, p. 188). In varie circostanze il Croce espresse la sua stima per il giovane Titone e lo incoraggiò; gli scrisse manifestandogli il suo consenso, quando fu sequestrato il libro Espansione e contrazione (Trapani, 1934), con il quale Titone mostrava la contraddizione tra una politica di espansione imperialistica e la fase di contrazione che allora si attraversava. Di quegli anni è anche il volume Giovanni Boccaccio con un’appendice su ser Giovanni fiorentmo (Bologna. 1936), con cui il Titone dimostrava che il Boccaccio era nato a Certaldo, non a Parigi. 

Negli anni quaranta il nostro autore pubblicò Cultura e vita morale (Palermo, 1943), Teoretica della rivoluzione (Palermo, 1944), Il teatro di Racine (Palermo, 1945), Economia e politica nella Sicilia del Sette e Ottocento (Palermo, 1947), La Sicilia spagnola (Mazara, 1948), La politica dell’età barocca (Palermo, 1949). In La Sicilia spagnola fu sottolineato un atteggiamento troppo personale, ma per la sua originalità il libro poté screditare certe idee che per circa due secoli, a partire dall’illuminismo, si erano passivamente accettate sul rapporto Spagna-Sicilia e pertanto ebbe il merito di stimolare a una revisione e a nuove ricerche. Il nome di Virgilio Titone restava legato anche alla Spagna. per i suoi viaggi e fondamentali studi di storia e letteratura, che hanno soprattutto indicato molti elementi del carattere della sua gente, spiegandone così il comportamento, gli atteggiamenti, le relazioni, la politica. Con La Sicilia spagnola aveva inizio una nuova fase nella storiografia siciliana sulla Spagna, che continua fino ai nostri giorni, soprattutto con i contributi degli studiosi dell’Università di Palermo, nella quale il Titone fu per molti anni ordinario di storia moderna e maestro, uno degli ultimi maestri. 

Sebbene egli abbia collaborato come apprezzato elzeverista ai più autorevoli quotidiani italiani, dal Corriere della sera, nei suoi tempi migliori, al Tempo, e alle riviste più prestigiose e particolarmente al Mondo di Pannunzio e alla Nuova Antologia, molte delle sue cose più significative si trovano nelle tre riviste palermitane da lui fondate e quasi interamente scritte, La nuova critica, L’Osservatore, Quaderni reazionari. 

Degli altri libri del Titone ricordiamo: L’Italia oggi (Mazara, 1951), Politica e civiltà (Palermo, 1951), La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (Bologna, 1955), Origini della questione meridionale. Riveli e platee (Milano, 1961), Storia, mafia e costume in Sicilia (Milano, 1964), Storia e sociologia (Firenze, 1964), Il conformismo (Milano, 1966), Introduzione alla rivoluzione francese (Milano, 1966), Machado e Garda Lorca (Napoli, 1967), La storiografia dell’illuminismo in Italia (Milano, 1969), Commento al nostro tempo (Roma, 1972), libri che non poco hanno contribuito alla formazione di molti giovani di diverse generazioni. 

Negli anni 1971-72, in più edizioni, Mondadori pubblicò le Storie della vecchia Sicilia; nell’Avvertenza il nostro autore scrive che quei racconti, o come egli li chiama, le sue storie, «vogliono essere un contributo alla storia dell’isola: una testimonianza della sua anima antica e vera». E questo gli è stato riconosciuto anche dai critici: Indro Montanelli sottolineò nel libro il vigore degli squarci di vita; trovò quei racconti .scritti più con lo scalpello che con la penna» e dichiarò che «per trovare pezzi di Sicilia altrettanto densi e compatti bisogna risalire a Verga», dal quale si dovrebbe fare discendere Titone «in linea retta» (Corriere della Sera, 30 aprile 1971, p. 3). Il solito vizio di classificare e di ricondurre qualsiasi autore ad un altro autore! Da Verga Titone è lontanissimo e ciò risulta evidente proprio dal fatto che narrano entrambi la Sicilia, con uno stile del tutto diverso. L’originalità di Virgilio Titone, riconosciuta nei suoi vari scritti e di diversi periodi, emerge anche e soprattutto dalle sue Storie. 

Negli anni successivi il Titone pubblica Il pensiero politico italiano nell’età barocca (Caltanissetta-Roma, 1975), Dizionario delle idee comuni (Milano, 1976), La società siciliana sotto gli Spagnoli e le origini della questione meridionale (Palermo, 1978), Il libro e l’antilibro (Palermo, 1979), La Sicilia e la questione settentrionale (Caltanissetta-Roma, 1981), La festa del pianto (Caltanissetta-Roma, 1983), Scritti editi e inediti 1924-1945 (Palermo, 1985). Fra i temi ricorrenti ne ricordiamo almeno uno: la critica all’intellettualismo: «Un vero poeta, un vero pittore, scultore, architetto, un medico, un fisico, un biologo, un filosofo, uno storico non possono classificarsi tra gl’intellettuali. Rappresentano la cultura del loro tempo. L’intellettuale infatti è il parassita di questa cultura e lo è per due motivi essenziali, perché dal suo prestigio deriva il proprio prestigio e perché nessun avanzamento della scienza e nessuna opera di scienza o di arte può da lui farsi o pensarsi. Potrà fare il mezzo poeta, il mezzo politico, storico, economista e così via, ma nessuna di queste cose egli farà seriamente e professionalmente. Non cerca la verità, che per altro non lo interessa. Il suo solo interesse si riferisce a se stesso: al suo bisogno di apparire intelligente, originale, spregiudicato. Perciò le sue formule, le sue sistemazioni dell’universo, le sentenze definitive sugli uomini e le cose che lo circondano ci appaiono altrettanto vuote e irreali quanto aggressive» (Dizionario delle idee comuni, vol. I, pp. 233-34). 

Nel 1987 sono usciti, a Palermo, i due ultimi libri di Virgilio Titone, Vecchie e nuove storie siciliane e Le notti della Kalsa di Palermo, dei quali si è occupato fra gli altri Helmut Koenigsberger nel Supplemento letterario del Times del 18-24 dicembre 1987. Scritti del Titone sono stati tradotti in inglese e in spagnolo. 

Tema ricorrente dell’opera narrativa del Titone è la solitudine virile e la ricerca religiosa del passato, qualunque esso sia, anche triste. Alla solitudine e alla ricerca del passato si accompagna la struggente ansia del futuro: «…noi custodiamo i nostri ricordi, lettere ingiallite, lontane fotografie, mute reliquie di coloro che non sono più. Ma un giorno tutto questo sarà distrutto e qualcuno verrà a sgombrarne frettolosamente la nostra casa» (Storie della vecchia Sicilia, p. 101). 

Calogero Messina

da “Spiragli”, Anno I, n. 1, 1989, pagg. 10-12. 

 




EREMO DELLA QUISQUINA

Naufrago nella solitudine 
antica 
e guardo le stelle 
che guardano al buio i loro millenni 
e raccontano le storie umane. 
Ritrovo molti mirarle 
come io le miro 
e nel silenzio 
doloroso 
parlare con esse. 
Questa quiete mi appartiene 
e non mi sento solo. 

Calogero Messina

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 9.




 PER UNA LAPIDE 

 

«Pigliami il vestito più elegante 
ché dovrò uscire», 
chiedevi l’altro ieri 
a Pina, dopo che avevi perso 
a letto le forze; non di più. E ieri 
ti abbiamo preso il vestito più elegante 
fatto dalle tue mani 
abili e fini. 
Ma noi ti abbiamo riportato qui 
nella placida terra sotto il pizzo 
di San Calò delle Grazie, oggi col velo, 
calcata da Giordano da Santo Stefano 
che tu pregavi col tuo violino, 
e dal venerabile Fra’ Vincenzo. 
Avrai sempre la loro protezione 
e della Romita della Quisquina 
che pure invocavi con la tua musica. 
Insieme, o padre, abbiamo fatto 
da Palermo l’ultimo viaggio 
e rivisto gli stessi luoghi 
rifioriti di verzura che coglievamo 
con te e non cercheremo più senza di te. 
Di fronte hai il Calvario, 
laggiù il paese, 
nel suo centro la tua casetta 
dove sospiravi gli ultimi giorni. 
Non sei solo: ti benedicono i Santi 
e qui c’è tua madre e tuo padre, 
i tuoi fratelli, i tuoi nonni e gli zii, 
l’arciprete Abella, tua guida, gli amici 
e ritorneremo noi e la tua Erina 
fedele, che sposasti, come ieri, 
mercordì di San Giuseppe intercessore, 
il sette febbraio del quarantacinque, 
con l’altro vestito più elegante. 
A presto. Chi legge preghi per te. 

Calogero Messina 

S. Stefano Quisquina, 8 febbraio 2007

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 49.




 Helmut Koenigsberger e Virgilio Titone 

I due scritti che Helmut Koenigsberger ci ha voluto regalare e che oggi si pubblicano, A Homeric encounter e A journey to Benedetto Croce, ci riportano a tempi lontani, molto diversi da quelli attuali: sono preziosi documenti di umane relazioni molto rare, la testimonianza di un grande storico e di un grande scrittore. Hanno un significato particolare per ritrovare l’anima di Virgilio Titone: da parte mia, vi rivedo l’uomo che ho conosciuto e del quale sento la mancanza. 

Era il 1947 quando il giovane Koenigsberger venne la prima volta in Sicilia, per esplorare gli archivi per la sua tesi di dottorato: l’argomento “La Sicilia durante il regno di Filippo II”, lo stesso del suo libro, ormai classico, uscito a Londra nel 1951, The government of Sicily under Philip II of Spain. Studente all’Università di Cambridge (1937-40), era rimasto colpito da un corso sul Rinascimento italiano, come egli stesso ricorda: «Probabilmente già predisposto ad essere affascinato dal tema, giacché ero stato allevato con il culto dell’Italia, di Roma antica e del Rinascimento da mio padre (che ne subiva il fascino, come tutti i tedeschi della sua generazione, e ancor più in quanto architetto), decisi di continuare: ma in che settore? (Le confessioni di uno storico, in “Il pensiero politico”, gennaio-aprile 1990, p.93). Fu il suo professore C. W. Previté-Orton a suggerirgli la Sicilia del Cinquecento: il giovane fu attratto soprattutto dall’idea di un viaggio nella nostra isola: .Mi sembrava una bellissima regione da visitare. Ben presto mi resi conto che la storta della Sicilia nel Cinquecento era tanto spagnuola che italiana». 

Dai primi giorni della sua permanenza a Palermo, lo studente di Cambridge cominciò a frequentare Virgilio Titone, che conosceva di fama: gli aveva inviato un suo articolo sulla rivolta palermitana del 1647 (The revolt of Palermo in 1647, pubblicato in “The Cambridge Historical Journal”, III, 3, 1946) e il professore tanto esigente vi aveva apprezzato soprattutto la conoscenza delle fonti, non nascosta al giovane la sua convinzione che anche a lui fosse sfuggito il vero carattere di quei moti: era abituato a dire quello che pensava. Né poteva accettare certi suoi giudizi, come ebbe a scrivere nella recensione che pubblicò nella “Nuova critica” (II, 1) e ripubblicò nel libro La Sicilia spagnuola (Mazara 1948, pp.145-153): dopo avere ricordato gli studiosi di quella rivolta, mostrandone l’inadeguatezza dei giudizi. e proposta la sua interpretazione di quei moti. Titone così concludeva:
Questi gli avvenimenti cui il Koenigsberger si riferisce. E la sua ne è una analisi acuta e bene informata, che non solo tiene conto di tutte le fonti finora conosciute e dei risultati degli studi più recenti. ma aggiunge ancora a qualche testimonianza ignorata dai nostri studiosi, come le lettere del cardinale Mazarino, considerazioni degne di rilievo: e ciò sebbene debba osservarsi che il vero carattere di quei moti gli sfugga, come è sfuggito ai precedenti studiosi. E si potrebbe anche notare che chi sappia quanta parte le maestranze ebbero nel governo delle nostre città, e più nel fatto che nel diritto, non potrebbe accettare giudizi come questo: “The mass of the people, as artisans in the whorks… , were without political rights”. Spesso invece ne avevano più del necessario». 

Ricordiamo che nell’appendice III della stessa Sicilia spagnuola, riportando il testo delle Istruzioni al vicerè Maqueda, Titone così ringraziò il giovane studioso (p. 221): «Debbo qui ringraziare il sig. H. Koenigsberger, che gentilmente ha trascritto per me a Simancas questo documento». 

A Palermo Koenigsberger sperimentava la generosità, l’umanità di Virgilio Titone: ne possono parlare tutti coloro che lo conobbero: la testimonianza di Koenigsberger : «Titone era stato molto generoso riguardo ai miei sforzi di studente. A Palermo si occupava di me, indicandomi libri e manoscritti e aiutandomi anche a trovare un posto poco caro e sicuro dove vivere nella Palermo postbellica» (A journey to Benedetto Croce; mi si perdoni la traduzione: potrà servire a chi meno di me ha dimestichezza con l’inglese). Chi ha conosciuto Virgilio Titone sa quanto fosse difficile familiarizzare con lui, ma quei pochi che vi riuscivano avevano tanto da lui, molto più di quello che possono dare le relazioni di parecchi individui messi insieme. 

Titone dovette vedere che in molte cose Koenigsberger gli rassomigliava. Chi fosse quel giovane straniero risulta evidente dai due scritti che si pubblicano; leggendo A Homeric encounter, ho ripensato a quello che il mio maestro mi raccontava. di quando scendeva le balze del monte Pellegrino, per andarsi a bagnare nel mare azzurrissimo, ora in tanti tratti precluso, per il gran numero di ville abusive a strapiombo sulla spiaggia: se ne rammaricava quando attraversavamo la strada per andare a Mondello. Anche lo studente di Cambridge era affascinato dal mare e dal cielo della nostra Sicilia; aveva la stessa carica di un giovane meridionale, desideroso di vivere, di scoprire, di amare, incurante dei pericoli. Ma prima il dovere. Passava le sue giornate in una stanza buia, umida, come sempre, dell’Archivio di Stato di Palermo, utilizzando al massimo il suo tempo: lo tentava l’aria soleggiata delle splendide giornate di novembre, alle quali siamo abituati noi siciliani e che non conoscono in Inghilterra. Ma doveva trovare una giustificazione per uscire da quell’Archivio. Non gli era difficile trovarla: «Mi giustificavo dicendomi che dovevo ‘immedesimarmi’ del paese sul quale stavo lavorando, oltre a leggere documenti governativi del sedicesimo secolo». La stessa cosa è capitata anche a me: quando sono stato nelle fredde sale degli archivi, ho sempre sentito più forte il bisogno di uscire al sole, tuffarmi nei vicoli, nelle piazze, nei mercati, per vederli in faccia gli uomini, dei quali nelle carte generalmente si parla come entità numeriche, buone per i patiti delle statistiche. 

E uno di quei giorni, di quella che si chiama l'”estate di S. Martino”, il giovane studioso prende a piazza Verdi (alloggiava li vicino) un autobus per Monreale: un viaggio incantevole, che non ha potuto dimenticare, attraverso gli aranceti e i limoneti, che lasciavano intravedere a distanza il mare splendente. Ripensò Koenigsberger a Goethe, che venne in Sicilia nella primavera del 1787: anche dalla lettura dell’Italienische Reise era stato alimentato il suo desiderio di visitare l’Italia. Ma per lo studente di Cambridge fu una travolgente scoperta il Duomo di Monreale con i suoi mosaici: «Goethe, che cercava solo l’arte classica, non se ne interessava minimamente e nemmeno menzionò la cattedrale di Monreale quando scrisse il suo ltalienische Reise trent’anni più tardi». E sottolinea Koenigsberger come un altro viaggiatore, lo scozzese Patrick Brydone, del quale Goethe aveva letto il Tour through Sicily and Malta, fosse solo colpito dall’ “incredibile spesa” dei mosaici. Tante volte che mi sono trovato con gli spagnoli, mi ha disturbato il fatto che davanti ad un’opera d’arte, anche i più colti e studiosi di storia dell’arte, per esprimere la loro ammirazione, non trovano aggettivo più efficace di precioso, che non può non far pensare al precio (prezzo) e alla maledetta ossessione degli spagnoli per il denaro. 

Ma torniamo alla gita di Koenigsberger. Pranzò in una piccola trattoria: decise di salire ancora sulla montagna, per potere ammirare la Conca d’Oro. Ne fu dissuaso dal padrone della trattoria, che gli ricordò come tutta quella montagna fosse infestata dai banditi. Il giovane rise di quelle paure: che poteva temere uno studente straniero senza denaro? Il padrone voleva metterlo in guardia: non conosceva il paese. Ma vedendo la sua determinazione, mostrò ancora la sua sollecitudine, offrendogli una possibilità, di andare in compagnia di un suo cognato, che si doveva recare proprio da quelle parti. Non poté non pensare Koenigsberger ancora al Brydone, affidato da un principe ai banditi e da essi scortato per i sentieri della Sicilia. Finì con l’accettare, per l’insistenza. Si avviò dunque con quello sconosciuto, un suo bambino, tre muli e un cane. Ma ad un certo punto volle continuare per conto suo, per andare più in alto. Si arrampicò per la montagna “felicemente”, con la disinvoltura che si può avere quando si è ragazzi. Cominciò a fare freddo; si allungavano le ombre della montagna. Senti la tromba di un autobus, ma non vedeva la strada. Meno male che incontrò un capraro! Un capraro, che parlava francese, inglese e greco (era albanese). Invitò lo straniero smarrito a casa sua, per aspettare l’autobus per Monreale: «La sua casa era una piccola capanna, molto semplice e pulita, molto diversa dalla capanna dei contadini che avevo visto qualche settimana prima alle falde dell’Etna, dove la gente, le capre e le galline dividevano allegramente l’unica stanza abitabile. Il mio nuovo amico teneva rigorosamente gli animali fuori. Volevo del latte di capra o delle arance? Fui contento di due magnifiche arance, molto apprezzate dopo la mia gita attraverso le montagne senza bere». Quando arrivò l’ora, n capraro accompagnò lo straniero alla fermata e fece segno all’autobus di fermarsi. Koenigsberger apprezzò molto quell’ospitalità, espresse la sua gratitudine, diede al nipote del capraro n pacchetto di Chesterfield che aveva ottenuto dal consolato britannico a Palermo, al capraro n libro di Agatha Christie che leggeva quando pranzava da solo, come faceva Virgilio Titone. 

Ripensò Koenigsberger a quell’incontro: «ora capivo meglio perché Omero avesse chiamato Eumeo “n divino porcaro”. Il mio “divino capraro”, ne ero sicuro, sarebbe stato leale come Eumeo con Ulisse. Forse la famiglia veniva da Itaca?» Ma la Sicilia è stata sempre la terra dei più sconvolgenti, lancinanti contrasti. E l’incanto subito si rompe. Da quell’idillio il giovane sognatore fu scosso due giorni dopo, quando apprese che il bandito Giuliano e i suoi uomini erano scesi a Palermo e avevano rapito un medico e sparato al figlio che cercava di resistere. E ripensò all’avvertimento del padrone della trattoria di Monreale. 

Lo studioso continuava a dialogare con Virgilio Titone. 

«Magari andiamo insieme a Napoli il lunedì, per visitare il Croce»: queste parole che Titone gli rivolse in quel lontano dicembre del 1947, Koenigsberger le ricorda perfettamente, in italiano, come si può leggere all’inizio di A Journey to Benedetto Croce. Quel “magari” suonò strano al giovane straniero, che ne chiese la spiegazione al professore; mi torna all’orecchio e al cuore, quando ripenso alla mia conversazione con Virgilio Titone: era uno dei termini del suo linguaggio ed esprimeva la sua infinita discrezione, la coscienza dell’imprevedibile, della precarietà delle iniziative e di tutte le cose umane. Avevano parlato più volte di quel viaggio; Koenigsberger doveva vedere gli archivi napoletani, ma trovava soprattutto allettante dover viaggiare con Titone ed essere presentato al suo maestro, nientemeno a Benedetto Croce. 

Lo storico ricorda i particolari del viaggio: «Lunedì eravamo in treno, almeno due ore prima che partisse, per trovare posti ad angolo. Anche la seconda classe aveva soltanto sedili di legno spogli, in quegli austeri giorni postbellici, e la carrozza si riempì presto. Nelle carrozze di terza classe la gente era già seduta sulle valigie e sugli scatoloni nei corridoi. Io vivevo con una borsa di studio del governo britannico e l’ultimo pagamento non era arrivato. Ero a corto di denaro, ma ero ugualmente contento che Titone avesse insistito per la seconda classe per il viaggio di ventiquattro ore. 

Appena ci fummo seduti nei nostri sedili, uscì una lettera per me da parte di mio fratello ch’era in India, al quale avevo dato l’indirizzo del professore dal momento che non sapevo dove sarei stato a Palermo e le lettere dall’India ci mettevano circa sei settimane. Con mio grande stupore la lettera era quasi marrone e accartocciata agli angoli. “L’ho messa al forno per sterilizzarla”, spiegò Titone. “In India c’è un’epidemia di colera”. 

Dopo un po’ una ragazza venne dove eravamo seduti. “Professore, sono così contenta di averla trovata. All’Università mi hanno detto che doveva partire e lei mi aveva promesso di aiutarmi per la mia tesi”. “Sì, certamente” rispose con faccia impassibile ma con un piccolissimo accenno a me. 

“Questo è il signor Koenigsberger da Londra. Mi ha invitato in Inghilterra e adesso sto andando con lui”. Per un momento sembrò delusa, ma poi capì e ci fece un sorriso brillante. “Una ragazza affascinante, non è vero?” disse dopo che se n’era andata rassicurata del fatto che il suo professore sarebbe tornato entro la fine della settimana». 

Durante quello scomodo, freddo, interminabile viaggio, parlarono della teoria di Titone, dell’espansione e contrazione. Koenigsberger scrive di essere stato stimolato da quanto egli gli diceva, ad occuparsi del Rinascimento e del barocco, anche se non era in tutto d’accordo con lui. Arrivarono a Napoli finalmente, il martedì, un mattino freddo e buio: c’era molta miseria: «Le conseguenze della guerra, la povertà e la miseria apparivano anche più grandi che a Palermo. Una donna con un bambino stava seduta per terra, appoggiata ad un pilastro della stazione, e mendicava. “Ricatto morale” disse Titone: ma notai che le diede una banconota di taglio piuttosto alto. Mi sistemò in una casa dove conosceva la padrona, forse dai giorni in cui era studente. La vecchia donna era in cucina e stava cucinando della pasta. La stanza era pulita e poco cara e la pasta della padrona di casa, quando la servì la sera, era eccellente». 

Titone andò a trovare in un convento di Posillipo un sacerdote ch’era stato suo alunno. Anche il mio maestro mi parlava di quel viaggio e di quella visita: me ne parlava il pomeriggio dell’8 marzo 1985, a casa sua, come leggo (ora, per la prima volta) nel mio diario di quelle conversazioni; osservai che cose del genere non dovevano restare sconosciute, note solo a me o a qualche altro (alla conversazione di quel giorno era presente l’amico Nicola Di Lorenzo), che erano più importanti di tante notizie che si cercano affannosamente negli archivi. Titone mi fissò con i suoi occhi di fulmine e mi disse: «Tu, le scriverai». D’allora, mi diceva, la sua amicizia con Koenigsberger divenne saldissima. Ma sentiamo lo stesso Koenigsberger, testimone della sollecitudine del professore per il giovane sacerdote che si preparava all’abilitazione all’insegnamento: «”Fu richiamato e mandato a combattere in Russia durante la guerra. Adesso merita un po’ di aiuto” mi disse Titone più tardi. Ormai avevo capito che andava subito al cuore di un problema umano. Questo da parte sua era proprio voluto. “In Inghilterra voi avete virtù civiche ed è per questo che avete libertà politica. Noi troviamo ciò difficile, però, noi siamo più umani [anche questo è in italiano nel testo)”». 

Titone accompagnò Koenigsberger alla fermata del tram e gli promise che lo avrebbe richiamato nel pomeriggio del giorno dopo. Il giovane passò la giornata negli archivi e andando in giro per Napoli, che ora gli appariva molto più attraente di prima, piena di vita, brulicante di gente. Arrivarono le 18, lo ricorda preciso Koenigsberger, l’ora in cui Titone doveva chiamare. Ma non chiamava: passarono due, tre ore e il giovane naturalmente cominciò a preoccuparsi che fosse successo qualcosa al professore: «Il suo modo di attraversare una strada trafficata lo rendeva molto probabile. Prendeva un giornale, lo teneva decisamente davanti alla faccia e s’infilava nel traffico senza guardare né a destra né a sinistra. Lo faceva ancora all’età di ottant’anni, quando lo vidi per l’ultima volta, nel 1985. Forse in realtà era questa la maniera migliore di affrontare il traffico?» Un altro atteggiamento tipico, indimenticabile di Virgilio Titone. Non concepiva che uno non s’interessasse degli avvenimenti del mondo. Ogni giorno comprava quattro – cinque giornali. del Sud e del Nord, del mattino, del pomeriggio e della sera; ricordo quelli che leggeva più spesso: il “Giornale di Sicilia”, “L’Ora”, “La Sicilia”, il “Corriere della Sera”, “Il Tempo”, “Il Giornale” di Montanelli, “Il Giornale d’Italia”. E non voleva aspettare un solo minuto per leggerli; era tutto preso da essi, mentre camminava, mentre viaggiava, mentre mangiava: quando mangiava, mi diceva, leggeva spesso le storie dei paesi e gli pareva di visitarli. 

Nessuno poteva immaginare fin dove arrivasse l’imprevedibilità di Virgilio Titone: non amò mai ndeterminato, l’immutabile. Lo studente di Cambridge a Napoli cominciò a sapere anche questo, si spiegò quel “magari”: «Si fece vedere la mattina seguente. Era stato troppo stanco e c’era stato troppo freddo per avventurarsi fuori di nuovo, ma sarebbe certamente venuto la sera e avremmo cenato insieme e poi saremmo andati a far visita a Croce, che riceveva visite la sera. Alle 18 non c’era traccia di lui e due ore dopo rinunciai ad aspettare e andai al cinema, all’ultimo spettacolo. 

«La mattina dopo si fece vedere di nuovo. Nessuno al convento aveva avuto n tempo di accompagnarlo al capolinea del tram ed era troppo pericoloso andare da soli per la strada buia e solitaria. “Ci sono banditi”. Ma si sarebbe rifatto. Saremmo andati a Sorrento e dopo, la sera, da Croce». 

Andarono a Sorrento; era una giornata piovosa, ma fra le nuvole ogni tanto faceva capolino n sole. dietro di esse appariva e spariva il Vesuvio; il mare era in tempesta. Spettacolo particolarmente suggestivo per il giovane Koenigsberger. singolare sfondo alla gita dei due. ma Titone non se ne mostrava soddisfatto: «Titone mugugnò: “Un panorama classico con un tempo romantico! Tutto sbagliato!”. In effetti, penso che lo apprezzasse quanto me, anche se, come sapevo. avrebbe voluto mostrarmi la Baia di Napoli con un tempo classicamente sereno». 

A Sorrento pranzarono e bevvero vino in abbondanza, e camminarono per ore lungo le scogliere, fino a sera. Arrivarono tardi a Napoli. troppo tardi e troppo stanchi per andare a far visita a Croce. Lo avrebbero visitato sicuramente n giorno dopo! Ma la mattina del giorno dopo, era ormai venerdì, Titone disse che non era il caso di andare allora da Croce, dato che aveva saputo che non aveva ancora letto lo scritto che gli aveva mandato qualche settimana prima: non voleva sembrare insistente; aggiunse che doveva tornare a Palermo e avrebbe preso n treno della sera, ma che lui sarebbe potuto restare a Napoli e andare solo da Croce, ché “il grande vecchio era sempre contento d’incontrare giovani studiosi. Ma Koenigsberger decise di tornare a Palenno con Titone: era molto soddisfatto della sua prima visita a Napoli, così com’era avvenuta. 

Titone appariva a Koenigsberger un po’ mortificato per la mancata visita a Croce. Ad una fermata del treno sali un individuo, che attaccò subito discorso con i due viaggiatori, informandoli che aveva inventato un metodo per imparare qualsiasi lingua, anche quelle che ancora non erano state decifrate, anche l’etrusco. Titone lo stuzzicava. Scendendo alla stazione successiva, l’individuo annunziò anche che stava pubblicando un libro dal titolo Ho parlato con Marte. Koenigsberger scrive che di questo libro non ha trovato traccia in nessuna biblioteca. Arrivarono a Palermo il sabato pomeriggio: trovarono barricate in alcune strade: le macchine della polizia correvano veloci e rumorose. «Ripensando alla visita a Napoli, era stata molto serena» conclude Koenigsberger. 

Alla distanza di tanti anni, Koenigsberger ha scritto di Titone anche nelle sue Confessioni di uno storico (“Il pensiero politico” cit., pp. 97-98): «In Sicilia, durante quella prima visita, incontrai Virgilio Titone, grandissima personalità, allievo di Benedetto Croce, vecchio liberale ed antifascista, che era da poco divenuto professore di Storia all’Università di Palermo. Siamo rimasti amici fino alla sua morte, avvenuta pochi mesi fa, all’età di ottantaquattro anni. Era un uomo singolare, “an eccentric”, come si dice in Inghilterra, e tuttavia eccellentissimo storico, uomo di lettere e giornalista, autore di più di venti libri, fra i quali storie siciliane nella tradizione di Verga, ed una novella picaresca, Le notti della Kalsa di Palermo (Palermo, Herbita Editrice, 1987), che a me pare superiore a quelle del più celebrato Sciascia». 

Di Sciascia Titone non ebbe una buona opinione; leggeva i suoi libretti – perché amava documentarsi – e li trovava insignificanti, mentre venivano accolti con giudizi straordinariamente entusiastici da tanta critica. Ma Titone era abituato ad andare contro corrente. Per lui Sciascia era rimasto un maestro elementare, men che mediocre; era un esibizionista, e Titone non concepiva la teatralità o gli atteggiamenti femminei in un uomo, tanto meno in uno scrittore. Nei libretti di Sciascia vedeva il bisogno dell’autore di apparire intelligente, originale, brillante, la volgarità appunto dell’esibizionismo (si legga l’articolo del Titone Su alcuni indirizzi della letteratura italiana contemporanea, in “Nuova Antologia”, marzo 1976). Io ero d’accordo col mio maestro; molte circostanze hanno contribuito a fare considerare Sciascia quello scrittore che non è stato. Non è il caso che qui mi soffermi sull’argomento; per altro me ne sono occupato una quindicina di anni fa. Anche Guglielmo Lo Curzio, un autore pur tanto influenzato dalle mode e dalle opinioni correnti, in un suo libro, introvabile, Scrittori siciliani (Palermo 1989, pp.260-64), si chiede il perché della “favolosa celebrità” di Sciascia e si sofferma sul carattere saggistico della sua opera e sull’impegno dell’autore; considera Le parrocchie di Regalpetra e Il giorno della civetta le sue “due opere di assoluto rilievo” e “fuori da idolatrici abbagli di critici e comuni lettori”, pensa che “si possa riconoscere che lungo una trentina d’anni la fama di Sciascia narratore viva ‘di rendita’ ” su di esse. Effimere fondamenta! Potrà rendersene conto chiunque si provi a leggere quelle opere con un po’ di libertà dai condizionamenti della moda, della critica e della propaganda, oggi purtroppo, quasi sempre, una sola cosa; né si dimentichi il tipo di cultura e di politica editoriale degli anni in cui Sciascia pubblicava le prime sue opere. 

Varie volte Koenigsberger ha scritto su Titone: sul suo Il libro e l’antilibro (Palermo 1979), che considera «una magnifica interpretazione della storia culturale dai Greci ai nostri giorni» (Le confessioni cit., p. 981, e anche prima sullo stesso libro e su La Sicilia e la questione settentrionale (Caltanissetta-Roma 1981), in “European History Quarterly”, vol.15 [1985] (ricordò fra l’altro le difficoltà di Titone nel periodo fascista, quando fu sequestrato il suo libro Espansione e contrazione: la condanna fu il silenzio in cui il regime lasciò l’autore); sulle Vecchie e nuove storie siciliane e sulle Notti della Kalsa di

Palermo (Palermo 1987), nel prestigioso Supplemento letterario del “Times” del 18-24 dicembre 1987, dove sottolineò il verismo «fatto della persuasa malinconia di uno scrittore, che comprende le ragioni storiche per le quali le caratteristiche attitudini dei siciliani derivano da un’opprimente realtà a loro superiore […] fatto di simpatia e di comprensione della condizione umana- e l’assenza dei falsi sentimentalismi anche oggi di moda, più di quanto non si voglia far credere (rimando al mio articolo apparso nel “Giornale di Sicilia” del 22 gennaio 1988 e nell”‘Amico del Popolo” del 7 febbraio 1988). 

Koenigsberger parte dai presupposti che lo sviluppo politico e istituzionale di un paese europeo va visto sempre nel contesto europeo e che la storia culturale non si può separare dal contesto sociale e politico; a forgiare queste sue idee, non poco contribuirono i suoi viaggi in Spagna e in Sicilia, come egli stesso dichiara (Le confessioni cit., p. 93). Studiando la storta di Sicilia, meditò sull’orgoglio dei siciliani per il loro Parlamento, da essi ritenuto il più antico d’Europa. Koenigsberger, è noto, alla storta dei parlamenti ha dedicato studi fondamentali; dal 1955 al 1975 è stato segretario generale e dal 1980 Presidente dell”’International Commission for the History of Parliaments and Representative Institutions”. 

Molti i punti in comune nelle esperienze e negli interessi di Koenigsberger e Titone, di convergenza nelle loro idee, ma vi sono anche, ovviamente, le opinioni diverse. 

Koenigsberger iniziò la sua carriera accademica insegnando Storia economica nelle università di Belfast e di Manchester: a quegli anni risale il suo studio sull’evoluzione della proprietà nel Quattro e Cinquecento, in Piemonte e nell’Hainaut. Insegnò Storia moderna nell’Università di Nottingham, poi nell’Università Cornell; dal 1973 al 1984 nel King’s College di Londra; nel 1984 fu chiamato come “stipendiato” all’Historisches Kolleg di Monaco. Numerosi i corsi da lui tenuti in varie università americane. Uno storico di fama internazionale: non occorre che qui mi soffermi a ricordare le sue opere, dovunque note, tradotte in diverse lingue, anche in italiano; nel 1966 cominciò a pubblicare con l’Elliott gli esemplari Cambridge Studies in Early Modern European History; notevole anche la sua collaborazione alla New Cambridge Modem History. 

L’altro grande interesse di Koenigsberger è stato sempre rivolto alla storia culturale, nel senso più comprensivo: non trascura, per esempio, la musica, generalmente ignorata dagli storici italiani; lo dimostrano i suoi originali studi sul Rinascimento. Koenigsberger ha sostenuto l’interessante teoria dell’avvicendamento culturale, per cui non si deve parlare di una decadenza del genio italiano alla fine del Rinascimento, ma di uno spostamento di interesse delle forze creative dalle arti figurative, letteratura e filosofia politica, alle scienze naturali e alla musica. Lo storico basa la sua teoria su due sue ipotesi di fondo: l’uguaglianza biologica dei talenti in tutti i gruppi etnici e il legame psicologico tra individui e società. Si rivela un profondo conoscitore dell’uomo, studioso della mentalità. 

Virgilio Titone cominciò giovanissimo a scrivere saggi su diversi autori della nostra letteratura, contrastando le opinioni più diffuse; ebbe l’approvazione del Croce. Nel 1934 pubblicò Espansione e contrazione, in cui esponeva la sua teoria sulla storia: l’alternarsi dei periodi di espansione e contrazione, in tutti gli aspetti 

della vita. Seguirono diversi altri libri, fra i quali ricordiamo Cultura e vita morale (Palenno 1943); La Sicilia spagnuola (Mazara 1948). che stimolò la nuova ricerca sul rapporto Spagna-Sicilia; La politica dell’età barocca (Palermo 1949); La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (Bologna 1955); Storia, mafia e costume in Sicilia (Milano 1964); Storia e sociologia (Firenze 1964); nconformismo (Milano 1966); La storiografia dell’illuminismo in Italia (Milano 1969). 

Per molti anni insegnò Storia moderna all’Università di Palermo. Fu apprezzato elzevirista dei più autorevoli quotidiani italiani, dal “Corriere della sera” al “Tempo”, e collaborò alle riviste più prestigiose, dal “Mondo” di Pannunzio alla “Nuova Antologia”; fondò e diresse tre riviste palermitane: “La nuova critica”, “L’Osservatore”, “Quaderni reazionari”, quasi interamente scritte da lui. Degli ultimi suoi libri ricordiamo: Dizionario delle idee comuni (Milano 1976), Il libro e l’antilibro (Palermo 1979), La festa del pianto (Caltanissetta-Roma 1983). Scritti di Titone sono stati tradotti in inglese e spagnolo. 

Anche Virgilio Titone rivolse il suo interesse all’economia (è del 1947 Economia e politica nella Sicilia del Sette e Ottocento, del 1961 Origini della questione meridionale. Riveli e platee). La storia per Titone non è solo l’avvenimento, ma l’immagine di un popolo in tutti gli aspetti della vita. Ogni generazione eredita la sua storia da quelle che l’hanno preceduta; accanto a questa eredità storica ce n’è un’altra: «un’eredità biologica, che, se non può negarsi per i singoli individui, per lo stesso motivo non è possibile negare per i popoli. Se ci sembra evidente ammettere che i figli ereditino in tutto o in parte il carattere, le attitudini, l’aspetto o la costituzione fisica dei genitori o di un avo anche lontano, non si vede perché questa stessa ereditarietà fisica e morale a un tempo, del resto scientificamente dimostrata, debba negarsi per quell’insieme di individui, comunque politicamente organizzato, che è un popolo» (Dizionario delle idee comuni, vol. II, p.124). Fra i temi più ricorrenti nell’opera di Titone la critica all’intellettualismo di moda. 

Le Storie della vecchia Sicilia (pubblicate da Mondadori in più edizioni negli anni 1971-72; ripubblicate con altre “nuove storie” da Herbita nel 1987; tradotte anche in spagnolo, Editorial Fundamentos di Madrid, 1989) hanno rivelato a molti le capacità dello scrittore Virgilio Titone, narratore credibile e veridico della sua Sicilia, la sua solitudine virile e la ricerca religiosa del passato. Il vero storico è un vero scrittore. Storici, critici e scrittori sia Koenigsberger che Titone. 

Più che dai libri ho cominciato a conoscere Helmut Koenigsberger dalla frequente conversazione che ho avuto il privilegio di avere, per anni, con Virgilio Titone. Di lui mi parlava sempre più negli ultimi tempi. Nell’autunno del 1988 mi mostrava sue lettere di più di quarant’anni fa, che andava ritrovando. Era molto contento per la presentazione che doveva fare all’edizione italiana del libro di Koenigsberger sulla Sicilia, che sembrava finalmente imminente, e per l’introduzione che dovevo fare io, su segnalazione dello stesso Koenigsberger. E ancora il 7 gennaio 1989, col solito entusiasmo che lo rendeva incredibilmente giovane, mi mostrò un nuovo libro, in tedesco, che Koenigsberger gli aveva mandato con dedica e una cartolina di auguri. Di Helli e della sua moglie Dorothy mi parlava come dei suoi più grandi, pochi amici; mi parlava dell’umanità di Koenigsberger, della sua cultura, dei suoi libri: “Ha la capacità” mi diceva “di dire tutto in poche parole”. Me ne parlò fino all’ultima volta che l’andai a trovare, nella casa di via Giusti. Nella sua prediletta solitudine, sentiva il calore dell’amicizia di Helli e Dorothy, voleva che anch’io divenissi amico con loro e l’amicizia continuasse dopo la sua morte, che sentiva imminente. 

Fra le carte che scrisse negli ultimi suoi giorni, ho trovato la presentazione per l’edizione italiana di The government of Sicily under Philip II of Spain. La intitolò Ricordo di un vecchio amico e sottolineò la “straordinaria estensione” degli interessi di Koenigsberger a tutti gli aspetti della storia, da quelli economici alle manifestazioni artistiche e alla componente estetica, sessuale, morale dei giudizi. e la sua “capacità di comprendere, talvolta in poche righe, lo spirito, l’anima, il carattere proprio di un’istituzione o di un costume, di poeti, principi, governanti, avventurieri”. 

Helmut Koenigsberger e la gentilissima Dorothy, anche lei sensibile studiosa del Rinascimento e del barocco (in particolare della storia dell’arte), amavano ritornare a rivedere Virgilio Titone in Sicilia. Koenigsberger poteva confrontare la Palermo che conobbe negli anni Quaranta, con la nuova, deturpata dalla selvaggia edilizia. 

Non potrò mai dimenticare quel marzo del 1985 in cui doveva venire lo storico. Col professore Titone pensammo insieme cosa si dovesse scrivere nel biglietto d’invito alla conferenza che Koenigsberger doveva tenere alla Storia Patria, organizzata dallo stesso Titone. Mi diceva il professore che se il tempo fosse stato buono, avrebbe portato l’illustre ospite e la moglie alla Triscina; voleva che vi andassi pure io. Si preoccupava che tutto fosse preparato a puntino e insieme telefonavamo continuamente. 

Arrivò quel lunedì 25 marzo. Con la mia macchina giungemmo all’hotel Politeama, con mezz’ora di anticipo rispetto all’appuntamento con Koenigsberger. Aspettammo in via Amari, ovviamente, parlando, come sempre: degli Ebrei, popolo di grande genio; della conferenza (Titone m’informò di quello che avrebbe detto nella presentazione). Il professore diede uno sguardo all’edificio del Politeama: non gli piaceva lo stile; chiedeva il mio parere. Arrivò l’ora stabilita; girammo intorno al teatro, scese il professore per andare a chiamare Koenigsberger. C’incontrammo con gl’illustri ospiti, ai quali mi presentò il professore; ci mettemmo in macchina e ci avviammo alla Storia Patria. 

Era un marzo molto freddo; pareva che la primavera non volesse tornare. Il professore diceva che la Sicilia senza sole non è Sicilia; chiedeva a Helli e a Dorothy se volevano andare a Selinunte il giorno dopo: avrebbe dato loro le chiavi di due sue ville della 1ìiscina e avrebbero potuto sceglierne una; vi avrebbero trovato del vino, il miglior vino d’Europa: solo di questa sua produzione, aggiunse, era orgoglioso. Helli e Dorothy si mostravano grati di tanta affabilità e promettevano che avrebbero bevuto sicuramente quel vino. TItone parlava delle ricchezze dell’Italia, del reddito pro capite degli italiani, fra i più alti del mondo, secondo le ultime statistiche. Volle parlare di me, dei miei versi in greco, dei miei lunghi viaggi, e parlammo di diverse nazioni, dalla Spagna ai Paesi del Nord, alla Grecia. Koenigsberger diceva di aver visto quella mattina due scioperi a Palermo, uno al Comune, l’altro al Palazzo dei Normanni; Titone parlò del primato italiano degli scioperi; io ricordavo quello che i greci dicevano quando vedevano un italiano: ò’m:p’)ia (sciopero). 

Arrivammo a piazza San Domenico. Ebbe inizio la conferenza. Prese la parola il professore per la presentazione ufficiale. Esordì ricordando la difficile giovinezza di Koenigsberger: «Helmut Koenigsberger, nato a Berlino, a sedici anni, nel 1934, è costretto a fuggire per non finire nei campi di sterminio nazisti. 

In quegli anni si era rifugiato in America Alberto Einstein, con due altri ebrei, Marx e Freud, uno dei fondatori del pensiero o della scienza moderna, anche se talvolta quest’ultima degeneri, non però nel grande fisico, in una creduta o falsa scienza. Ma ad Einstein dovremmo aggiungere molti dei più illustri rappresentanti della cultura contemporanea, né soltanto tedeschi o, piuttosto, nati in Germania. Nessun popolo è stato in ogni tempo tanto oppresso e perseguitato. Pochi popoli hanno tanto contribuito al progresso umano in ogni campo». 

Ricordò le tappe salienti dell’attività di Koenigsberger, le sue opere, e si soffermò in particolare su quella sulla Sicilia: «Non ho ancora parlato dell’opera sua che come siciliani più da vicino c’interessa. Il governo della Sicilia sotto Filippo II di Spagna, pubblicata a Londra nel 1951, tradotta in spagnolo nel ’75. purtroppo non ancora tradotta in italiano. E non fa certo onore alla nostra cultura che un libro sulla Sicilia sia stato tradotto in Ispagna e non ancora in Sicilia. Di questa traduzione con l’editrice Sellerio si è occupato il prof. Giuffrida. Me ne sono occupato anch’io. Ciò nonostante la traduzione ancora non l’abbiamo, sebbene quel libro resti il solo che, tra l’altro, tratti compiutamente dei rapporti tra la Sicilia e l’impero spagnolo e delle teorie che li hanno ispirati o regolati». 

Continuando a scandire le parole con la sua energica, incisiva, inconfondibile voce, così concluse: «Ma più che per tante sue opere egregie e famose ricorderò il Koenigsberger per un episodio, che forse egli ha dimenticato e che si può considerare come un documento della sua anima. Le opere degli studiosi muoiono. “Che fama avrai tu più”, ripeterò con Dante…… pria che passin mill’anni?”. L’anima non muore. Una sera di molti anni fa ci trovavamo a Napoli per le nostre ricerche. Stavamo nello stesso albergo. Mi aveva chiesto di esser presentato a Benedetto Croce. Gli dissi che gliel’avrei presentato. Ma prima dovevo fare una visita a un gentilissimo sacerdote, che si era laureato con me e dirigeva a Posillipo una comunità religiosa con una scuola e un convitto di orfani. Mi aveva scritto e sapeva che in quei giorni dovevo andare a Napoli. Posillipo non era stato ancora coperto dai casermoni costruiti nell’ultimo ventennio e la villa del mio amico era in aperta campagna. Non riuscii facilmente a trovare la stradetta campestre che dovevo fare. Perciò perdetti più tempo di quello che avevo previsto. Era già sera. In quei luoghi e a quell’ora Napoli, per chi va solo, non era meno pericolosa di quello che è oggi. È nella tradizione, una tradizione plurisecolare. Koenigsberger si preoccupò del ritardo. A mezza strada del ritorno lo vidi che mi era venuto incontro. Dopo tanti anni trascorsi lo rivedo e lo rivedrò sempre in quella sera, in quella stradetta buia di Napoli». 

Titone fu a lungo applaudito; molti rimasero sorpresi della sua riapparizione e della sua forza: da tempo non si faceva vedere alla Storia Patria. Ringraziò Koenigsberger, ricordò i suoi amici siciliani, in particolare Carlo Alberto Garufi, per il quale ebbe parole sentite di apprezzamento, e soprattutto Virgilio Titone. Iniziò dunque il suo discorso sui Parlamenti italiani nell’età moderna, con la sua competenza indiscussa; parlò per quasi un’ora. Dopo concesse un’intervista ad un inviato del “Giornale di Sicilia”; nel mentre mi congratulavo col mio maestro, ci sedemmo vicini: era contento, mi fece vedere un elegante, monumentale libro sul barocco, regalatogli dall’autrice, la signora Dorothy, e mi fece leggere la sua dedica. 

Quella sera Dorothy, Helmut Koenigsberger, il professore Titone e io, andammo a cenare insieme, al Charleston. Ci avviammo verso il piazzale Ungheria con la mia macchina bianca, sotto la pioggia (si appannavano i vetri, non ci si vedeva), parlando di tante cose. 

La conversazione continuò a tavola. Ad un certo punto Titone chiese a Koenigsberger se ricordava quell’episodio di Napoli; Koenigsberger non solo lo ricordava, ma aggiunse qualche particolare. «Vedi!» mi disse il mio maestro. Capivo perché, tanto schivo e solitario, amasse stare in compagnia di Dorothy e di Helli. Accompagnandolo a casa, gli mostravo il mio compiacimento nel constatare ch’era stato per cinque ore ininterrotte sul campo, senza dare segni di stanchezza. “E ho ottant’anni!” mi disse quella sera, prima che scendesse davanti al suo portone. 

Calogero Messina 

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 25-39.




 Lo scrigno 

Miniracconto di Aluysio Mendonça Sampaio 

Nella penombra della stanza (o del passato?) uno scrigno di madreperla con fregi dorati. Del nonno era lo scrigno, chiuso a sette mandate. 

Non una, mille volte aveva tentato di scoprire il tesoro gelosamente custodito. 

Chiese la chiave, ma il nonno non rispose. La chiese alla madre ma lei fece una smorfia. Lo scrigno del nonno, lo scrigno del nonno … Ah l’infanzia perduta … 

Solo quando fu cresciutello, il nonno lo chiamò: «Voglio farti un regalo.» Era il suo compleanno. Lo prese per il braccio, teneramente, e lo trasse nella penombra della stanza. Si avvicinò al comodino dov’era lo scrigno. 

Sorriso sulle labbra, prese la chiave dalla tasca del gilè. Lentamente l’ accostò alla serratura. 

Il cuore del ragazzo batté come il trotto d’un cavallo. 

Quando lo scrigno si aprì, guardò dentro, trattenendo il fiato. Era tutto vellutato, con bordo di cordoncino dorato. 

Guardò il nonno sorpreso, come a dirgli: «Dove sono i gioielli, i brillanti, le monete? Dov’è il tesoro?» 

Sguardo malizioso, il nonno capì la domanda fatta con l’avido, impaurito linguaggio del silenzio. Con la sua voce di vecchio (molto vecchio) rispose: «Qui è custodito il bene più prezioso del mondo: il tempo.» 

Aluysio Mendonça Sampaio

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 41.




 SENZA NESSO / NON SENSO 

La macchina passa urtando contro il tempo. E investendo la vita, il tempo corre. 

L’uomo, fermo a un angolo di strada, fissa la donna carina che avanza. Forse immagina che la strada sia una passerella. Immagina un amplesso, il sesso, ma tra l’uomo e la donna non c’è un nesso. L’uomo resta fermo al suo angolo, indeciso, rosicchiando le unghie, in un monologo complesso: un roditore ha roso il manto del re di Roma e non ha una rosa o una prosa da offrire alla dama. Nel transito stradale, l’amore è diventato intransitivo. Sparisce la donna e il desiderio perisce. 

L’uomo alza il braccio per fare segno all’autobus. Il veicolo e il tempo che rotola nello spazio. Ma urtando tra le idee arriva alla conclusione che, fermando ma macchina, non fermerebbe la vita. 

Felice, si sente re di Roma, senza il roditore a rodergli le vesti. 

(Rei sem nexo, «L.B.» n. 46, Sao Paulo) 

Mendonca Sampaio Aluysio

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 53.




 L’OROLOGIO 

Lungo è il silenzio della notte insonne, 
ha l’orologio i battiti del cuore. 
Tic tac, tocco incessante 
metallico dell’ attimo che passa, 
la cadenza marziale verso il nulla. 
Eppure 
è ridente il fluire della vita 
lo sbocciare di un fiore 
festa di luce il sorgere del sole. 
Nel suo ventre la vita 
ha il germe della morte, silenziosa 
lama che il tempo affila. 
Vorrei fermare il cuore delle ere, 
il nostro istante eterno, il nostro amore
perenne … Maledetto 
orologio, coscienza dell’ effimero, 
perché non la finisci di segnare 
il ritmo monocorde, 
del minuto che passa? 
Lasciami consistere nell’istante 
ch’è la mia eternità. 

Aluysio Mendonça Sampaio 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 47.