Il caso del tacchino 

novella di Aluysio Mendoça Sampaio 

Di là fuori risuonò forte il bussare a mano aperta. Si udì la voce ferma, stridente: «Ohè di casaaa …» 

Quasi imprecando, posò di lato il merletto che stava lavorando e si avviò alla porta. 

In piedi, reggendo a braccia un tacchino che faceva glu-glu-glu, un giovane bruno e spalluto, lo sguardo fermo e il gesto sicuro. Si era appena avvicinato alla soglia, che si udì la sua voce: «Donna Zeferina, suo marito mi ha chiesto di venire a prendere la sua macchina da scrivere e portargliela in ufficio per aggiustarla …» 

Donna Zeferina non nascose la sorpresa per il messaggio inaspettato. In merito, il marito non le aveva detto nulla, né aveva mai visto il messaggero. Con voce incerta rispose: «Ma lui niente mi aveva detto, niente di niente, andando al lavoro.» 

Con un sorriso a mezza bocca, il giovane disse: «Mah, vede come sono le cose? Nemmeno io potevo venire, poiché devo portare questo tacchino a casa del senatore … Ma suo marito mi disse che potevo lasciare qui il tacchino per portargli la macchina e di tornare poi a prenderlo. Così, non potevo negare il favore al signor Torquato …» 

Non ebbe più dubbi donna Zeferina. Prese l’uccello e si diresse al cortile per metterlo nel pollaio (le galline fecero in coro co-ro-cocò). Strusciando le ciabatte rientrò dalla cucina, si affrettò allo studiolo del marito, prese la macchina e tornò all’ingresso. 

Prima di andarsene, il giovane disse: «Poi vengo a riprendere l’animale. Se non non mi sarà possibile, manderò il mio amico Zé. Lo potrà consegnare a lui.» 

Si ritirò donna Zeferina nella sua stanza a sferruzzare col suo merletto. Così indaffarata, si scordò della vita, sinché l’orologio della sala sciolse i dodici rintocchi del mezzodì. E subito dopo avvertì i passi del marito che rincasava. 

Il signor Torquato non si era ancora seduto a tavola per il pranzo che lei si affrettò a domandargli: «Tutto a posto per la macchina?» 

«Che macchina?» 
«Quella da scrivere, che hai mandato a prendere.» 
«Ma io non ho mandato a prendere macchina nessuna … » 
«Ma se il ragazzo ch’è venuto a prenderla ha perfino lasciato un tacchino, che dovrà poi consegnare a casa del senatore … » 
«Tacchino? Macché! Sarà stato un malandro di strada. E vado subito a denunciarlo …» 

Si alzò deciso, malgrado la moglie insistesse: «Almeno mangia prima qualcosa 

Nossa Senhora, Madonna mia, com’è che ho potuto dare la macchina?» 

Torquato non stava a udire, nella foga. 

Non passò mezz’ora e donna Zeferina udì bussare alla porta là fuori. Era un picciotto con un testone mal sostenuto da un collo fino. Pareva confuso e rovesciò le parole. 

«Il signor Torquato manda a dire alla signora che il ladro della macchina è stato preso. E manda a dire che pure il tacchino era rubato. Perciò la signora me lo deve dare per portarlo alla polizia, ora stesso.» 

Con un sospiro di sollievo, donna Zeferina corse al pollaio (con le galline che 

fecero co-ro-cocò) ed ebbe un po’ da fare per prendere il tacchino (che faceva glu-glu). E fu quasi di corsa fino al portone. Consegnò l’uccello al ragazzo magro col suo testone e si applicò al suo ricamo per tutto il pomeriggio. 

Era già sera, la bocca della notte, quando il marito rincasò. 

La donna si stranizzò vedendolo a mani vuote e si premurò a chiedere: «Dov’è la macchina?» 
E lui: «Meno male ch’è rimasto il tacchino … » 
«Ma non l’hai mandato a prendere?» esclamò la donna, lasciandosi cadere sulla sedia. 

Aluysio Mendonça Sampaio

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 34-35




 HAIKU PER UNA PRORA IN MARE 

Naviga la mia nave solitudini 
nel mare senza fine 
verso orizzonti che non hanno approdi. 

Aluysio Mendonça Sampaio

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 63.




 CANZONE DEL QUOTIDIANO 

 

Può cadere la notte ed oscurarsi 
lo splendore degli astri … 
L’onda del mare 
continuerà a baciare l’arenile 
e le turgide dune della bionda 
sabbia. 
Si avrà sempre un’aureola 
a cingere di verde la montagna 
e ci sarà qualcuno nella notte 
sempre a sciogliere un canto, 
un ubriaco che alzerà il bicchiere 
e svestirà di senso le parole. 
Il fischietto del vigile notturno 
sarà un filo sottile dentro il buio. 
Ci sarà come ieri 
una scalea. di marmo e tra i gradini 
corpi distesi al freddo. 
Ci sarà un savio curvo sopra un libro 
ed una prima al cinema e a teatro 
e il pulcinella stretto 
al petto del bambino addormentato. 
Può calare la notte ed oscurarsi 
lo splendore degli astri … 
ma è tutto come prima il quotidiano. 
L’orologio non ferma il suo pulsare, 
come non ferma i battiti il mio cuore 
per te, 
che sei nel mio pensiero 
ornamento e sostanza, carne e sangue, 
sei luce, 
sei musica e parole del mio canto 
quotidiano. 
Può calare la notte 
ed oscurarsi il luccichio degli astri 
ma l’orologio 
là, sarà sempre a misurare il tempo 
anche dopo che il sole avrà lanciato 
saette sulla luna. 

Aluysio Mendonça Sampaio 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 47.




Un movimento per l’educazione

Solo chi ha un interesse teorico o pratico per le materie educative può volere che nasca un movimento per l’educazione. Esso è da moltissimi anni in embrione, ma stenta a venire alla luce per mancanza di sinergie e innanzitutto di idee chiare. Se ne avverte l’esigenza dalle conseguenze umane della politica di uno Stato che genera pericoli e richiede rimedi in se stessa. Ma questi non vengono attuati se non c’è una pressione sociale che spinga ad attuarli.

La politica culturale

La politica economica di uno Stato produce diverse forme di occupazione che incidono sullo status sociale del lavoratore: quando l’occupazione consiste in un lavoro subordinato notiamo uno squilibrio nelle relazioni ed un’alterazione della spontaneità e dell’autodeterminazione. Non c’è da meravigliarsene. La politica sociale ha, tra i suoi compiti, quello di riequilibrare le relazioni nel valore della comune civiltà e di incidere sull’atteggiamento politico in modo che questo si attui in forma spontanea secondo i valori civili. Tutto ciò non si realizza senza la debita arte. La politica sociale ha bisogno della politica culturale. Non c’è da meravigliarsi di questa organicità dell’azione.

La politica culturale si distingue in quella della ricerca ed in quella della Un movimento per l’educazione istruzione-educazione: la ricerca, sia pura che applicata, può considerarsi come un prolungamento della politica economica nella sua tensione verso le innovazioni tecnologiche e produttive; l’istruzione-educazione fa parte della politica economica – nella sua tensione ad educare per occupare – che della politica sociale per porre rimedio ai difetti  e alle insufficienze della politica. Nonostante queste interdipendenze, essa mantiene una vitalità e una connotazione autonome.

La politica culturale persegue lo scopo di far esercitare professioni e mestieri secondo requisiti lavorativi elevati e adatti, di far tenere rapporti sociali improntati al senso della dignità, proprio del valore sociale preminente, e di suscitare un atteggiamento politico consapevole ed autodeterminantesi nel valore della civiltà.

 

Nello specifico, la politica dell’istruzione- educazione si serve di una gamma di docenti che, nella loro didattica, attuano un metodo educativo che produce conseguenze intellettuali e morali sugli allievi: abbiamo una diversità di contenuti didattici ed un grado diverso tra i docenti a seconda delle diverse fasce degli allievi da educare; così la politica culturale a seconda dell’evoluzione di età deglli allievi, esige che i docenti attuino una didattica in forma ora di pedagogia, ora di meiragogia, ora di neoagogia. È logico che l’insegnamento avvenga in modi differenti adattandosi a differenti tipi psicologici dovuti all’età. Così abbiamo la pedagogia (dal greco παῖς παιδός, fanciullo) e ἄγειν (guidare) che attiene ai bambini; la meiragogia (da μείραξ, ragazzo) e ἄγειν che riguarda gli adolescenti e consiste nella pedagogia liceale; la neoagogia (da νέος, giovane) e ἄγειν che si qualifica come pedagogia universitaria. Sotto queste scienze non può non esservene una che le sussume e le accomuna; questa è la scienza generale dell’educazione che le unifica.

Essa deve essere conosciuta dal governante che deve indirizzare questi tipi di attività didattica secondo le fasce d’età degli studenti, ma essa è intuita dal legislatore quando deve legiferare sulle differenti didattiche per lo sviluppoo il rinvigorimento di una civiltà.

La politica dell’istruzione-educazione si manifesta in diverse forme che incidono gradatamente sulla personalità degli allievi tendendo a svilupparne intelligenza e volontà per inserirli adeguatamente nel lavoro e nella società.

 

La teoria dell’educazione

La scienza dell’educazione, con la sua specifica gamma di problemi, già esiste nella mente del legislatore quando legifera sull’attività didattica; già esiste quale specificazione dei problemi di filosofia generale in quelli educativi, ma anche quale coordinazione di scienze intorno a quella gamma di problemi; è esistente nel sostrato più o meno consapevole del buonsenso pedagogico che gli insegnanti applicano nella prassi educativa. Se volessimo descriverla, dovremmo individuare ciò che hanno in comune le discipline: pedagogia, meiragogia e neoagogia.

Alla base c’è la figura dell’allievo che possiede sue attitudini e tendenze naturali e si colloca in rapporto ad un ambiente sociale e familiare con le loro esigenze: l’ambiente sociale con una stratificazione socio-economica, una cultura fatta di idee diffuse e relativi valori, una sua organizzazione ed abitudini di chi vi appartiene. La famiglia si inserisce in una classe sociale, ha una mentalità che può essere identica o diversa da quella dell’ambiente sociale, educa secondo peculiari criteri e finalità formando soprattutto moralmente. Così l’allievo si affaccia ad una scuola portando con sé interessi teorici e pratici, che sono frutto di attitudini e tendenze naturali ma anche di esperienze di vita, di una conseguente mentalità fatta di idee e valori via via acquisiti anche da esperienze scolastiche precedenti che orientano la sua attenzione e il suo carattere.

La scuola, sia inferiore e media che universitaria, è rivolta agli interessi pubblici il cui contenuto è pedagogico ed è illuminato dalla scienza stessa dell’educazione. È organizzata su un’autorità che coordina i docenti e diverse classi o corsi di allievi verso scopi formativi sia intellettuali che morali. Le classi e i corsi sono disposti gradualmente verso un fine particolare, in modo da conseguire fini più generali che sono sia di formazione intellettuale e morale degli studenti sia di influenza sull’ambiente familiare e sociale.

L’attività didattica si articola essenzialmente nella lezione e nella valutazione, in quanto i compiti a casa e il ricevimento degli studenti non sono altro che forme di prolungamento della lezione: la didattica deve essere improntata da un metodo efficiente che consiste nello sviluppare e trattare la materia d’insegnamento in funzione degli interessi degli allievi. Bisogna stimolare gli interessi conoscitivi e pratici degli studenti; suscitare interessi, quando non siano presenti in modo da poterli poi stimolare; ciò costituisce l’essenza del metodo pedagogico che si deve trasporre a quello meiragogico e neoagogico.

Un altro aspetto della didattica, complementare a questo ed ugualmente importante, è il mantenimento della disciplina: si attua nel tenere tutti gli allievi costantemente impegnati nell’applicare coerentemente le norme. Ciò permette di far percepire e assimilare norme di condotta agli studenti e presuppone la comunicazione di valori tratti dallo studio della materia insegnata e dall’esempio di coerenza di comportamento. Nella singola lezione ci deve essere la spiegazione di principi generali, coordinati organicamente in tutta la materia studiata, e di fatti concreti, illuminati dai principi generali: bisogna permettere la discussione sulle diverse questioni, e cioè sulle difficoltà che sorgono in modo da far assimilare l’oggetto della spiegazione.

La valutazione attiene alla maturità dell’allievo, e cioè alla sua capacità raziocinante e alla sua preparazione, e cioè all’assimilazione della organicità e sistematicità di nozioni della materia: si attua attraverso l’esame della preparazione settoriale ossia di argomenti particolari; dai risultati evidenziati su ogni domanda, si fa la media e si attribuisce, quale risultato finale, un voto ovvero un giudizio standardizzato. Questa è una procedura frequentemente praticata. Essa si applica sia nelle interrogazioni durante l’anno scolastico, per sondare il grado di preparazione  dell’allievo e porre rimedio a sue eventuali lacune, sia negli esami finali dove bisogna valutare la preparazione globale ed assegnare un giudizio definitivo.

I fini proposti si concretizzano nel produrre conseguenze intellettuali e morali sull’allievo, ma anche nell’incidere sull’ambiente sociale. Si deve allenare, nello studente, la capacità raziocinante e di conoscere con metodo scientifico. Si deve far sviluppare il suo interesse su oggetti che siano congeniali alle sue attitudini e farlo applicare in essi. È opportuno che la sua preparazione sia composta da conoscenze scientificamente rigorose e costituita non da semplice nozionismo. Bisogna tendere alla sua autonomia di giudizio.

 

L’educazione non è solo intellettuale ma si protende anche in campo morale. L’allievo deve assimilare norme di condotta e cioè principi d’azione che siano in armonia col suo temperamento e con i valori sociali. Così è indotto all’autodisciplina, a radicare in sé abitudini attive in modo da affrontare coerentemente gli ostacoli della vita e riuscire ad inserirsi nella società.

Le conseguenze intellettuali e morali del metodo educativo sugli allievi hanno ulteriori risvolti: nella classe e più latamente nella comunità scolastica tende a generarsi un affiatamento, una reciproca comprensione, simpatia umana, tolleranza; si tende alla collaborazione verso un fine comune da raggiungere con lo sforzo di ciascuno.

Passando dall’ambiente scolastico a quello sociale, notiamo la tendenza ad ulteriori trasformazioni: si incide positivamente sull’ambiente sociale attraverso la qualità delle persone che lo compongono e lo si dirige conformemente ai valori della civiltà.

Tutti questi elementi sono costituda tivi di una teoria generale dell’educazione. Così vediamo l’influenza positiva sull’ambiente sociale generata dalle conseguenze intellettuali e morali sull’allievo prodotte da un metodo educativo praticato da un docente impegnato in una scuola saggiamente organizzata: a questi concetti si contrappongono quelli di una scuola disorganizzata, di docenti senza preparazione ed impegno, di una didattica priva di metodo che sviluppa la personalità degli allievi e, conseguentemente, non influisce sull’ambiente sociale, ma lo lascia evolversi in situazioni negative. 

Tutte queste idee, nella loro dialettica contrapposizione, sono costitutive della teoria generale dell’educazione: essa conferisce afflato ai pedagogisti nella loro immaginazione innovativa di metodi educativi e costituisce il sostrato ideativo del buonsenso pedagogico, illuminando l’applicazione coerente di principi ed alimentando l’entusiasmo. degli insegnanti nella prassi educativa.

 

Il movimento per l’educazione

Da anni esiste in fase embrionale un movimento per l’educazione che trae ispirazione quasi esclusivamente dalla pedagogia e si basa su di essa. La situazione è mutata dopo che sono state fondate la meiragogia e la neoagogia ed è stata formulata una teoria generale dell’educazione. Ora il movimento può aspirare a nascere basandosi su una scienza generale e su scienze specifiche. Esso deve mirare ad influenzare consapevolmente sia le norme di costume che quelle giuridiche: la sua influenza dovrebbe espandersi non solo sulle norme giuridiche formali, emanate dal legislatore, ma soprattutto sulle norme giuridiche realmente praticate dalle istituzioni scolastiche.

Un movimento per l’educazione deve essere teorico e pratico: l’aspetto pratico non può essere che stimolato da genitori, allievi e docenti, i quali si rendano consapevoli delle loro esperienze ed intendano affermare le loro esigenze entro finalità più ampie, mantenendo stretti rapporti con la teoria.

Tutto ciò non può non contribuire ad elevare docenti e studenti nella loro personalità. Conduce a portare ad un livello superiore la stessa nazione, nei suoi componenti e nella sua volontà. Dovrebbe riuscire a diventare guida cosciente del legislatore conferendogli maggiore consapevolezza dei problemi educativi e maggiore autorevolezza delle norme emanate. Dovrebbe orientare il governante nella sua politica di riequilibrio delle relazioni sociali dei cittadini, in presenza di rapporti economici negativi, facendoli adeguare ai valori della civiltà.

In pratica, l’impegno di genitori, allievi e docenti non sia inferiore a quello dei ricercatori che vi profondono la loro attività.

Giuseppe Melis

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 37-40.




 La scienza dello Stato nella Costituzione italiana 

di Giuseppe Melis 

Nella nostra Costituzione la volontà dei costituenti si mostra impegnata a chiedere al diritto quanto di meglio si potesse realizzare, nello Stato, in un determinato momento storico: in ciò dimostrano un’intuizione della scienza dello Stato, pur essendo inconsapevoli della sua reale esistenza1. È logico che fosse così. C’è uno stretto rapporto tra scienza del diritto pubblico, con le sue prescrizioni formalistiche, e scienza dello Stato, che si concentra in realizzazioni determinate con loro caratteri specifici2: la realtà, tra i suoi elementi e aspetti diversi, ha connessioni ineludibili. Così notiamo, nella nostra Costituzione, che il legislatore si comporta come se conoscesse la scienza dello Stato. 

La civiltà si concreta in una nazione guidata dai valori del pieno sviluppo della persona umana e del dovere congiunto al diritto del lavoro per conseguire il progresso materiale e spirituale della società3: il lavoro appare uno strumento di sviluppo della persona soprattutto nella ricerca scientifica e tecnica, nella diffusione della cultura fino a culminare in una elevatezza morale fatta di coerenza coi propri principi d’azione4; tutti questi valori, tra loro organicamente connessi, costituiscono un sostrato comune per amalgamare e unificare gli animi al di sopra delle distinzioni sociali e delle fedi religiose. 

I governanti devono essere omogenei allo scopo dello Stato, che ha per contenuto i valori della nazione: così la Costituzione prescrive che coloro, cui sono affidate funzioni pubbliche, rappresentano la Nazione e sono al suo servizio esclusivo; nell’espletare le loro funzioni hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore5. Altra forma di omogeneità si rileva nei limiti posti al legislatore nel suo potere di legiferare: la legge è limitata dal rispetto della persona6 e dalle esigenze associative e religiose7; assumono una dignità che si impone alla stessa legislazione. 

La giustizia distributiva viene postulata con l’espressione di «giustizia nell’amministrazione»8 e viene prescritta col carattere di i mparzialità9, che deve essere il piedistallo su cui si basa il buon andamento amministrativo. Si guarda anche ai presupposti umani perché la giustizia si attui e cioè al fatto che i funzionari non sentano di restare impuniti per le loro azioni inique: perciò i funzionari pubblici sono riconosciuti direttamente responsabili per gli atti commessi in violazione dei diritti10. 

Questo è un mezzo per prevenire gli abusi: conseguentemente si può proporre azione giudiziaria contro tutti gli atti della Pubblica Amministrazione – senza restringimenti a determinate categorie di atti o a particolari mezzi di impugnazione – per tutelare diritti e interessi legittimi11. Nelle controversie o davanti a reati, la giustizia dovrebbe attuarsi mediante il «giusto processo»: qui il giudice deve essere terzo e imparziale, le parti devono essere poste in condizioni di parità e tra loro in contraddittorio specialmente nella formazione della prova, mentre va assicurata la ragionevole durata dei processi12. 

Da una linea politica improntata alla giustizia distributiva dovrebbe sorgere, alimentarsi, mantenersi il carattere dell’uomo civile. Egli ha innanzitutto il diritto alla salute che è riconosciuto di interesse della collettività ed è fondamentale per l’individuo13. Importantissimo è il diritto al lavoro: va curata la formazione e l’elevazione professionale, mentre la retribuzione deve essere proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto e, in ogni caso, sufficiente per un’esistenza libera e dignitosal4. 

Spetta a tutti il diritto di frequentare la scuola e ai capaci e meritevoli quello di raggiungere i più alti gradi degli studil5. La scienza e l’arte sono libere e libero ne è l’insegnamento, mentre sono promossi la ricerca scientifica e tecnica e lo sviluppo della cultural6. 

Così i diritti di libertà e uguaglianza non sono solo riconosciuti formalmente, ma devono realizzarsi con l’impegno a rimuovere gli ostacoli, in modo da conseguire lo sviluppo della persona umana e la partecipazione all’organizzazione complessiva del Paese17. 

La meta ultima, cui tutto si volge, è il progresso materiale e spirituale della società, mediante cui si mantengono elevati i valori della nazione. 

La realizzazione dei diritti è compito dell’indirizzo politico e amministrativo del governo: i suoi componenti ne sono responsabili e per tale scopo sono investiti delle loro carichel8. 

Così la nostra Costituzione cerca di realizzare i principi della scienza dello Stato: si sforza di costituire un tipo di uomo civile, di attuare la giustizia distributiva, di postulare l’omogeneità dei governanti allo scopo dello Stato, il quale coincide con i valori della civiltà e della nazione. I costituenti intuirono una tale scienza anche se non la conoscevano: la loro intuizione si fondava sulla conoscenza dell’affine scienza giuridica e sul contatto con la realtà, la quale si impone con la sua organicità totale. 

Giuseppe Melis 

NOTE 

1 La Costituzione è stata redatta tra il 1946 e il 1947: la scoperta ufficiale della scienza dello Stato è del 2005, con la pubblicazione dei Lineamenti di scienza dello Stato. 
2 Il rapporto tra scienza del diritto pubblico e scienza dello Stato viene messo da J.J. Rousseau nel famoso articolo Economia politica, pubblicato quale voce dell’Enciclopedia nel 1755: il rapporto si pone non specificamente tra scienze, ma nel descrivere organicamente la società, lo Stato, l’esercizio del potere, la situazione del cittadino. 
3 Cfr. specialmente art. 3 co. 2 e art. 4. 
4 La libertà di manifestare il proprio pensiero attraverso stampa e spettacoli (art. 21 co. 6) e di professare la propria fede religiosa con l’esercizio del culto (art. 19) trova il suo limite nelle norme sul buon costume. 
5 Artt. 54 co. 2, 67, 98 co l. 
6 Cfr. soprattutto l’art. 32 co. 2: è importante l’art. 13 co. 4 che, anche se non attiene direttamente alla legge, la implica. 
7 Cfr. specialmente l’art. 20. 
8 Art. 100 co. l. 
9 Art. 97 co. l. 
10 Art. 28. 
11 Art. 113. 
12 Cfr. art. 111 co. 1-5: questi commi non sono originari della nostra Costituzione, ma sono stati introdotti con legge cast. 23-11-1999 n. 2. 
13 Art. 32 co. l. 
14 Art. 35 co. 1-2 e art. 36. 
15 Art. 34. 
16 Art. 9 co. l, art. 33 co. I. 
17 Art. 3 co. 2. 
18 Art. 95. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 31-32.




L’antifemminismo di Federico De Roberto in una recensione inedita per Anna Franchi

Il 20 gennaio del 1903 esce a Napoliil primo fascicolo della rivista di Benedetto Croce “La Critica”, alla quale
dà notevole apporto Giovanni Gentile. 

Come spesso avviene in questi casi, l’attenzione dei due filosofi è particolarmente desta a registrare commenti, consensi e reazioni che possano riguardare la neonata rivista. Sicchè da Marinella (presso Castelvetrano), dove si trova in vacanza, il 17 agosto 1903 Giovanni Gentile segnala a don Benedetto «Avete visto un giornale letterario di Catania, fondato ora, recante un articolo di De Roberto intitolato La Critica?».

Simona Giannantoni, curatrice delsecondo volume delle Lettere a Benedetto Croce (Firenze, Sansoni, 1974), nel quale si legge la lettera in parola, a questo punto crede opportuno rimandare il lettore alla consueta nota esplicativa:«Probabilmente Federico De Roberto (1866-1927)». Nient’altro, tranne l’errata data di nascita dell’autore dei Viceré (1861 e non 1866). Per cui tocca a noi aggiungere che si tratta del giornale “La Giostra”, rivista mensile di Lettere e d’Arte diretta da Guglielmo Policastro. Che la lettera gentiliana si riferisse a “La Giostra” non c’è alcun dubbio ma l’articolo di De Roberto sulla Critica crociana non c’è
proprio: è solo il frutto d’un equivoco L’antifemminismo di Federico De Roberto in una recensione inedita per Anna Franchi di Piero Meli o per meglio dire d’una intuizione pura del filosofo di Castelvetrano. La Critica è infatti il titolo d’una rubrichetta, dove, per l’occasione, Federico De Roberto recensisce brevemente nel primo numero della rivista (agosto 1903) un libro di Anna Franchi, Avanti il divorzio, prefazione di Agostino Berenini, ed. Sandron, 1902. Evidentemente Gentile non lesse neanche l’articolo, però ebbe cura di informarne frettolosamente Croce.

 

Il clamore suscitato dal romanzo della femminista ante litteram Anna Franchi fu tale e tanto da spingere De Roberto a scriverne una recensione, un anno dopo la sua pubblicazione. Ma, evidentemente all’oscuro delle vicende biografiche della scrittrice livornese, l’illustre autore dei Viceré non riuscirà a coglierne tutta la disperazione d’una dignità offesa che è all’origine del romanzo. In Avanti il divorzio Anna Franchi raccontava senza veli il suo burrascoso ménage matrimoniale col musicista Ettore Martini (Ettore Streno nel romanzo), uomo cinico, vizioso e depravato, dal quale aveva chiesto la separazione per via delle violenze e turpitudini subite. Una dolorosa esperienza autobiografica che spingerà la coraggiosa scrittrice a una battaglia, attorno al Partito Socialista, a favore d’una legge sul divorzio.

Federico De Roberto, soppesando il suo giudizio col bilancino del canone dell’obbiettivismo e dell’impersonalità, si dichiara alquanto deluso del lavoro della Franchi, trovando nel romanzo un intento propagandistico che soverchia l’intento artistico, tanto da nutrire addirittura seri dubbi sull’autenticità d’un personaggio come Ettore Streno. E perfino sul piano della finalità che il romanzo si prefiggeva, quello di scuotere la società sulla necessità di sciogliere le catene del vincolo matrimoniale, lo scrittore catanese si mostrerà scettico, attribuendo al romanzo della Franchi il solo merito di aver provocato appena un semplice dibattito nel quale trovano uguale cittadinanza i fautori del divorzio e gli antidivorzisti. Motivo? La protagonista del romanzo, la sedicenne Anna Mirello, anche se ancora
ragazzina aveva avuto per tempo qualche avvisaglia della «pessima indole» del fidanzato e tuttavia lo sposò lo stesso «in uno stato di mezza incoscienza e quasi d’automatismo». Ergo deve prendersela con se stessa, con la sua leggerezza, e «non con le leggi della famiglia». Per la stessa ragione i fautori del divorzio, «appunto perché gli uomini e particolarmente le donne, da giovani, possono essere incoscienti come Anna Mirello, appunto perciò la società deve dar loro la possibilità e il mezzo del rimedio». Sottolineiamo particolarmente le donne per evidenziare il sentimento antifemminista che è al fondo di questa partigiana recensione derobertiana che spiega anche la «delusione» dello scrittore catanese.

Delusione maggiore ebbe a provare sicuramente Anna Franchi, forse anche rabbia, nel leggere che il cultore di «documenti umani» aveva giudicato la sua dolorosa vicenda personale un’esposizione di un caso romanzesco («Ora, a provocare un dibattito utile è lecito credere più adatta l’esposizione dei casi reali e non dei romanzeschi»). Sono queste le ragioni che ci inducono a proporre qui integralmente la recensione finora inedita del De Roberto (la segnalammo per primi nell’articolo Capuana nella “Giostra” in “Biologia Culturale”, Roma, marzo 1976), per più di trent’anni sepolta tra appunti e scartoffie.

Piero Meli

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 31-33.




 DUELLO FINALE 

In questa notte 
lotto con la mia ombra 
e la respingo 
colpo su colpo 
in un angolo buio 
e taglio 
i fili che mi legano alla vita 
in questo mio confronto decisivo. 

Jorge Medauar

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 44




 STUDIO PER UN INVERNO 

Inverno è la tristezza degli addii, 
la confusa ricerca dei perché, 
fra le ceneri calde 
della parola fine 
o forse (chi lo sa?) 
d’ un nuovo incontro. 
Mariazinha Congflio 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 54.




 SEMPLICEMENTE 

Semplicemente 
i fiori sono stati condannati 
a non fiorire 
e le specie animali condannate 
semplicemente a estinguersi. 
Il cielo ha smesso 
il suo mantello blu 
semplicemente 
quando ha visto sparire le sue stelle. 
Anche il chiaro di luna più lucente 
semplicemente 
s’è perso al buio. 
E accade 
semplicemente che vien meno l’aria 
viene meno la terra 
ci manca il mare 
ci manca un focolare 
e il bisogno di amare … 
Senza più luna, senza più brillìo 
di stelle 
è un deserto l’amore 
semplicemente. 

Maria de Lourdes Alba 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 51.




 RITORNO IN PAESE 

Intorno a me si scheggia una granata 
di ricordi che sanguinano 
e bruciano la pelle, 
s’ infilano nei pori 
sino al midollo: 
ma chi ha cambiato 
quest’angolo di strada 
dove ho fatto o non fatto
quel che volevo? 
La nostalgia mi dà una stretta al petto: 
la vita 
poteva andare per un altro verso … 
senza cambiare il mondo. 
Dei miei amici 
uno è uscito di senno 
l’altro si è dato all’alcool 
e il terzo non si sa dov’è finito 
da quando la sua donna l’ha lasciato. 
E quelle fanciulline così linde 
che suonavano il piano 
ora saranno sfatte più di me: 
una si sposò tardi 
l’ altra per sbaglio 
la terza non riuscì a sposarsi affatto 
e sta a suonare ancora 
il pianoforte, 
le mani a carezzare la tastiera 
bianca e nera. 
È come se da anni mi aspettasse: 
mi invita 
a prendere un caffè, 
caffè e biscotti … 
Qui ha fermato il tempo l’orologio, 
c’è un buco 
nel muro, che nessuno 
ha riparato. 

Levi Bucalem Ferrari 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 50.