Santino Spartà, Mi sono innamorato, Roma, Ed. Dossier, 1994, pagg. 48.

 Imbattersi in un sacerdote-poeta non sarebbe un evento eccezionale, eccezionale lo è se di lui scrivono critici illustri come Mario Sansone, Giacinto Spagnoletti e tanti altri non meno illustri. E, allora, apri con rispetto questo recente libro di don Santino Spartà dal titolo già accattivante “Mi sono innamorato”. Un titolo sollecitante quando la profferta d’amore è rivolta alla “Divina Presenza”, “Divina Presenza”, caldamente invocata dalle quarantotto pagine di questo bel libro nel quale c’è tutta la storia di un’anima che tende all’assoluto e che continua a colloquiare ininterrottamente con il suo Dio pur non ricevendo risposta alcuna. Ma la forza delle invocazioni matura un rapporto che a volte porta allo sconforto. 

Il Poeta è innamorato del suo Dio e a Lui affida le proprie vicissitudini, le prorpie pene, le confessioni dei propri errori. A volte, leggiamo pagine così originali da spingerci a tornare sulle righe; e parliamo di quella lirica a pag. 46 dal titolo “Da quel mitico faraglione” che è un esempio eclatante della carica singolare di Santino Spartà: “Da tutti i luoghi ti telefono…” “Ho chiamato a un altro numero…” “È proprio così difficile parlare con te, Signore o i tuoi segretari non capiscono l’urgenza di un colloquio?” Mai avevamo letto qualcosa di così originale e l’intera poesia meriterebbe di essere chiosata riga per riga. 

Ma, a prescindere da questa nostra scarna notazione (non siamo dei critici) il nutrito curriculum del sacerdote-poeta Spartà ha precedenti risvolti abbastanza noti e riconducibili a nomi altrettanto noti come quelli di Rebora e di padre David Maria Turoldo, anche se con stili diversi ma pur sempre di intensa religiosità. 

Quel che distingue Santino Spartà è la sua spontaneità, la vivacità del suo dettato, il florilegio delle sue tante opere e, soprattutto, la sua spiccata personalità che a qualcuno potrebbe sembrare poco idonea alla sua veste talare. Ma è questione di esteriorità, “in interiore hominis habitat veritas”. 

Irene Marusso

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag. 61.




 “L’UTOPIA DI HANNAH ARENDT” 

L’ultima raccolta di poesie di Nino Contiliano 

Prendendo lo spunto dall’utopia di Hélllilah Arendt, così come riportato nel titolo del libro, questa nuova raccolta di Antonino Contiliano ci dà per certo la sua abilità di poeta dal non comune, del difficile, potremmo dire. Del difficile, insistiamo, perché questo è un libro per addetti ai lavori e non per coloro che tornano a ripetersi “l’albero a cui tendevi la pargoletta mano” del buon -leone Carducci. E anche se l’oculata presentazione del critico Domenico Cara può aiutare ad introdurre alla lettura, sono tante le sinestesie, le allitterazioni (vanire vivere venire- assenza assente), le diserzioni verso un linguaggio scientifico, materico, matematico, verso le citazioni in lingue vive e morte, che bisogna impegnarsi, e di buzzo buono, per enucleare da questa preziosa raccolta di versi il succo di una sensibilità spinta talmente al parossismo da sembrare spesso farneticamente, demenziale. 

Il transfert dall’utopia della Arendt avviene, diciamo, per una corrispondenza d’amorosi sensi. Contiliano è un “idealista”, un uomo spinto per sua natura verso una utopia sociale nella quale purtroppo non si ritrova per le contingenze della vita odierna. 

Un poeta, e un poeta come Contiliano non è influenzabile da sollecitazioni esterne, ma in esso scopre il tutto di sé, quel che gli preme dentro e che quasi lo soffoca se vi pone mente. E allo stupore delle scoperte si accompagna tutta una serie di excursus negli avvenimenti apparentemente esterni ma che hanno lasciato e lasciano tracce profonde, coaguli di dolore nella sensibile psiche. 

Ora, anche se nei precedenti libri di poesia di Contiliano c’erano già i prodromi di questo exploit poetico-narrativo, diario dei giorni nostri, oggi ci troviamo fra le mani una vera scatola a sorpresa dalla quale saltano fuori tutti i marchingegni di cui dispone il formato vocabolario del nostro amico, il quale vive, sì, nel suo tempo, ma anche al di là di questo tempo, in un cosmo tutto suo e tutto involuto nel quale dolorosamente si muove come il feto nel suo liquido amniotico, ansiosamente aspettando la sua proiezione alla luce, verso quella utopia che è poi l’utopia di tanti altri come lui che vivono e soffrono nello stesso tempo. 

L’aggancio alla Arendt ci sembra come una specie di ancora lanciata alla ricerca di un appiglio, un grido che attende la sua eco, una speranza per scansare i buchi neri: quelli dell’anima, s’intende. 

E così Contiliano sembra annaspare sempre fra quelle sabbie mobili che sono le catene dalle quali vorrebbe districare se stesso e il mondo circostante nel quale sono rimasti pure invischiati i ragazzi di Tian An Men, e quegli altri “stormi di rossi ragazzi” e quegli altri ancora figli del Sud del Nord dell’Ovest dell’Est “e tutti i morti della violenza geostorica” per i quali “la guerra non è più la guerra mercante / inutile feroce indicibile l’es / ma tempo-noviola di possibili pentagrammi / gioco di arazzi mondi fiamminghi sparati”. 

Un delirio nel quale le sabbie mobili vorrebbero avere ragione della sofferenza del Poeta, mentre la vita “castra anche le ali di Pegaso”. 

Un delirio che è rabbia per l’incenerimento delle speranze, per la terribile constatazione che la vita-sogno di Calderon è fuggita dall’esistenza degli uomini di oggi, si è fatta fantasma veramente inseguito con affanno “nel cuore che naviglia astrografie d’insonnia” mentre “senza riposo cerchiamo un traguardo atteso”. 

E, allora, non è un voler morire, un voler rinunciare a quel filo di speranza che sonnecchia al fondo di ogni creatura umana. Contiliano, con questa sofferta raccolta di versi che ha coinvolti nel magma del dolore, ma non per ciò tende a precluderei un desiderio di resurrezione. 

Irene Marusso

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 77-78.




A De Rosalia, Traduzioni di Ugo Foscolo da poeti classici, Estratto dagli Atti del Convegno su “La traduzione dei testi classici – Teoria Prassi Storia”, Napoli, M. D’Auria Ed., 1991, pagg. 315-337.

Dopo il Convegno, Antonino De Rosalia, dell’università di Palermo, ha dato alle stampe, per una diffusione più capillare, il suo intervento sulle traduzioni del Foscolo. 

L’estratto ci ripropone con capacità di sintesi l’attività di traduttore del Foscolo, iniziata fin dall’adolescenza e portata avanti in seguito attraverso un impegno che gli faceva prediligere gli scrittori classici a lui più congeniali, “sopratutto opere animate da calore di sentimento più che condizionate da freddezza di dottrina, insomma opere di poesia e non di erudizione”. 

Delle versioni da Tacito, Anacreonte, Teocrito, Catullo, Tibullo e Properzio (anche un’ode di Pindaro) eseguite da Foscolo nell’adolescenza, non vi sono tracce. Dice il De Rosalia che le più antiche traduzioni foscoliane rimasteci sono quelle da Saffo, e che “hanno un singolare valore di costanti nelle simpatie poetiche del Foscolo”, come asserisce il Bèzzola. E ancora il De Rosalia: “Il Foscolo, per dare veste moderna alla lirica della poetessa di Lesbo, ha interpretato con fine intuito e quasi con partecipazione i molteplici tratti della sua sensibilità, calandola certo nella temperie tipica dell’età romantica, ma evidenziandone anche, al tempo stesso e nonostante qualche enfasi del linguaggio, la perenne attualità umana. 

E procedendo da Saffo a Callimaco, attraverso la traduzione catulliana della “Chioma di Berenice”, per la quale il Foscolo entrò in polemica con alcuni suoi detrattori (anche lo stesso Foscolo riconobbe che quest’ultima non fosse opera di alto merito), il Nostro si dedicò ad Anacronte, “risentendo, però, dall’anacreontismo penetrato nella cultura del seicento e del Settecento europei, e delle sue tendenze”. Quanto a Lucrezio, è da notare l’evoluzione della personalità del Foscolo traduttore dei classici con progressi nella tecnica della versificazione e dell’espressione realizzando un lavoro di gran pregio, “degno di accompagnarsi tra le migliori traduzioni italiane da Lucrezio”. 

Questi e tanti altri i motivi che Nino De Rosalia pone all’attenzione degli studiosi del Foscolo traduttore, e che vale la pena di consultare nella preziosa plaquette di cui stiamo parlando. Plaquette che si chiude con un’appendice di versi da Saffo ad Orazio, a Callimaco, ad Anacreonte, a Lucrezio, e altri. 

Irene Marusso

Da “Spiragli”, anno IV, n.2, 1992, pagg. 67-68.




LA GATTA E LA PRINCIPESSA 

 Al numero 30 di Francis Avenue 
a Cambridge, Massachusetts, 
c’era un bel giardino, 
una casa bella. 
Il padrone di casa, John Kenneth, 
era molto alto. 
La padrona di casa, Catherine, 
era molto dolce. 
Peter, uno dei figli, era serio e simpatico. 
La gatta, lei, si chiamava Nounouche, 
amava la casa, amava il giardino. 
lontano, molto lontano, in India, 
e la gatta è andata a Parigi 
e lì è morta. 
E i padroni sono tornati 
al 30 di Francis Avenue. 
La casa era bella 
e bello il giardino. 
La principessa si chiamava Benazir. 
A Radcliffe, 
Benazir dimorava a Eliot Hall. 
A Harvard, Benazir abitava a Eliot House. 
La chiamavano Pinkie Bhutto. 
Amava il 30 di Francis Avenue, 
amava quella bella casa, 
le piaceva passeggiare in giardino. 
E poi un giorno se n’è andata lontano, 
molto lontano. 
E poi, un giorno è morta, 
lontano dal 30 di Francis Avenue. 
Morta assassinata, 
il 27 dicembre 2007. 

Jean-Claude Martin 

(trad. il. di Giovanna de Nola) 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 48.




Tore Mazzeo,  poeta dialettale trapanese 

Nel novero dei poeti dialettali trapanesi s’innesta Tore Mazzeo, poeta che non fa scalpore, consapevole che la poesia, se è vera, non ha bisogno di altro se non di tempo e di ascolto: l’uno, scavando, lava ed elimina ciò che poesia non è, l’altro l’imprime perché giovi e sia di gradimento a quanti le s’ avvicinano. La poesia di questo autore è un piacere sentirla, perché senza alcuna forzatura parla a chi con un minimo di sensibilità le si dà, facendosi condurre per i sentieri umani, che le sono propri. (Ne diamo una breve mostra qui in calce). 

Tore Mazzeo ha compiuto studi tecnici ed è un commercialista in riposo, eppure è buon conoscitore delle nostre lettere e si è interessato di Giuseppe Marco Calvino, di Bernardo Bonaiuto e di altri autori siciliani a noi più vicini. A parte le opere di narrativa, ha esordito giovanissimo nella poesia, di cui ha curato due edizioni, perché l’autore, attento e suscettibile alle pur minime variazioni di tono, di stile e di una lingua ancestrale ricca di fascino, quale è la parlata di Trapani, trascritta nel rispetto della sua fonetica. Ne risulta che Poesie trapanesi Baddhraronzuli… è opera di una vita, perché continuamente aggiornata nel sentire e negli umori che col passare del tempo cambiano, così come le cose della quotidianità e i luoghi che videro il poeta fanciullo. 

L’ originalità di questa poesia è tutta qui, ed ha fatto bene a patrocinarla l’Associazione per la Tutela delle Tradizioni popolari del Trapanese, presieduta da Salvatore Valenti. Essa è un bagaglio di vita e di cultura dei nostri padri sottratto all’oblio, con l’auspicio che sia letto e conosciuto dai giovani, perché niente passi inosservato, consapevoli che non si può comprendere la grande storia senza conoscere la minuscola, quotidiana, eppure ricca di sapienza e umana. 

L’opera, divisa in sei capituli (Amuri, Acquareddhri, Duluri, Gastrunumia, Travagghiu, Scherzu e Irunia), riprende uomini e cose nella loro quotidianità, senza cadere nella banalità, e li fissa, anche con lievi tocchi e linguaggio di tutti i giorni, in quadri di vita vivaci e familiari. Si legga Didascalia r’un cinema mutu o ‘U cori è picciottu. In entrambi i componimenti è l’amore al centro del discorso; nel primo colto come scoperta nell’età bambina, a cui s’accede a piccoli passi, a mo’ di rito, l’ altro come sentimento semprevivo e palpitante, che, al pari della poesia, non risente dell’ età ed è capace di far compiere la qualunque, pur di esserne fedeli servi tori. 

Nel secondo capitolo il poeta si fa pittore di pennellate leggere, ricche di colori della propria terra, come in Tramuntu (U russu cari / Pitta lu mari / L’acqua lu lava. Rresta ‘na vava / Lèggia di rosa / Chi s’arriposa / Tra cielu e mari. // Poi ‘nfunnu cari.) o in Virginali, ove il mare e il cielo di Trapani creano un’atmosfera di sogno che fa accettare, pur con le sue amarezze, la vita e la fa amare. 

In Duluri predominano la sofferenza e il dolore propri della condizione umana (Turmentu), o quello provocato dalle ingiustizie e dalle guerre che martoriano e distruggono. Così è in Tri jorna dopu, dove il poeta riferisce dei bombardamenti americani a Trapani con la distruzione di interi quartieri, come quello di San Pietro. Ma il componimento che più tocca la sensibilità del lettore è dato dalle tre quarti ne che riprendono una povera mendicante (Puvireddhra), seduta sui gradini di una chiesa, costretta a stendere la mano per fame. Il poeta ne disegna la figura con un bimbo in braccia ravvolta in uno scialle, da cui fuoriesce solo un volto macilento che guarda a terra e una mano tremolante. (L’occhi calati ‘nterra sta figura / Viri sulu ‘i scarpi ri li genti / Mentri o’ so pettu stringi ‘na creatura / Chi di sucari mancu si la senti). Sembra vederla questa poveretta e muove ancora a pietà, perché la piaga della miseria è più che mai aperta. 

Sono oggetto di poesia anche i piatti tipici del trapanese (Gastrunumia), quasi che il poeta li voglia preservare dal logorio del tempo e dalla modernità, che tutto avvolge e cancella, e in Travagghiu, i lavori tradizionali messi in crisi dall’avvento delle macchine. Il calzolaio, lo stagnino, il vignaiuolo, il tonnaroto, il pittore decoratore, sono disegnati nell’ atteggiamento usuale, contornati spesso da una fine ironia che evidenzia il disagio di chi ha difficoltà a riconoscersi col mutare dei tempi e delle mode, come è per ‘u scarparu, costretto a ridimensionare bottega e lavoro, riparando scarpe, lui che le scarpe faceva con tanta maestria, e non accetta lo stato in cui è caduto, preferisce abbandonare tutto, dopo aver fatto per sé un paio di scarpe (Mi li mittiti quannu vaju via: l’Un cci fu nuddhu chi mi fici ‘i scarpi), perché in vita nessuno poté fargliele. 

Nell’ultimo capitolo (Scherzu e irunia), tra il bonario e il faceto, il poeta mette in caricatura con straordinaria capacità persone e ambienti della sua terra, come è in A sciuta p u passiu, in cui fa rivivere la passeggiata di due fidanzati, accompagnati a vista dalla mamma di lei, pronta a richiamarli, se si fossero dati a effusioni non consentite, anche se poi provava gusto a vederli innamorati, tanto che alla fine li invita al bacio. Era una consuetudine e guai a non rispettarla, se si voleva finire sulla bocca di tutti. E c’è anche l’arrivista (Panza parata), pieno di boria e ignorante, un tipo che non attiene solo alla Sicilia, ma troviamo ovunque, eppure urta la suscettibilità degli onesti che si vedono spesso scalzati da uno così tronfio e arrogante. 

Anche qui non manca il riferimento alla tradizione, e mi riferisco alle ricette che Mazzeo ripropone, quasi a voler preservare la buona sana cucina dei padri. C’è qui l’attaccamento alla sua terra, e forte è in lui il richiamo della memoria che lo proietta nel passato, presentando come vive persone e cose che ormai non sono più. Sarebbe tempo della nostalgia, che qua e là riaffiora, se il poeta non fosse consapevole dell’ineluttabilità di ciò che appartiene agli umani. 

Poesie trapanesi (Baddhraronzuli) è un’ opera, interessante per l’uso del dialetto, sempre fluido, puntuale e genuino, come è il parlare del popolo, ed efficace, pronto a tradurre lo stato d’animo dell’autore che lancia questi innocui baddhraronzuli (il termine sta a significare i pallini di diversa dimensione, costituiti di un misto d’alghe e sabbia, lasciati dalle onde sul bagnasciuga per dire che bisogna essere operosi, a contatto con gli altri, propensi allo scherzo, ma con garbo, per non urtare la suscettibilità altrui, immergendoci in un mondo ormai lontano, eppure ricco di richiami e di nobile sentire. 

Salvo Marotta

da “Spiragli”, 2009, Profili 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 47-49.




Salvatore Valenti, Matrimonio (Usanze e costumi antichi e recenti in provincia di Trapani), Trapani, 2010.


Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 60-63.




Romano Cammarata poeta 

Romano Cammarata ha esordito nella poesia con la fortunata silloge Per dare colore al tempo (1), anche se egli nasce alla poesia con la prosa di Dal buio della notte (2). Era da poco uscito da un labirinto di dolore fisico, aveva cominciato a rigustare il sapore della vita e, di qui, il magma, che gli era rimasto a lungo dentro, si sprigiona per prendere forma e ridare fiducia a quanti nel dolore navigano. 

Possiamo inoltrarci nella poesia di Romano Cammarata partendo, perciò, dalla sua prosa e anche dai lavori in rame sbalzato o, ancora, dalla fotografia, che tanto vuoto gli avevano riempito durante le lunghe degenze e le noiose convalescenze. Solo allora possiamo bene comprendere l’uomo e il poeta. 

Poeta, secondo la filologia sperimentale di Davide Nardoni, è «colui che qualifica». Romano Cammarata è un gran qualificatore di sé per gli altri. Altrimenti, non avrebbe senso la poesia. Sarebbe sempre qualcosa di bello, ma fredda, e non direbbe niente; l’impegno, invece, le dà vigore e l’infiamma. E se questo lo riscontriamo in tutta la produzione artistico- letteraria, tanto più lo notiamo nei suoi ultimi componimenti poetici, che costituiscono di certo il più bel testamento umano e spirituale che abbia potuto lasciarci. 

Nelle poesie apparse in «Spiragli » nel 1992 (3), e mai prima d’ora raccolte in volume (Un sogno, Magellano ’90, Chi sono? Tempo presente, Ho sognato i miei sogni, Fantasmi a Milano, che nella registrazione Cammarata intitola Via Commenda, a Milano), c’è un sentito bisogno di evasione, ma anche il richiamo ad una realtà sempre più grigia. 

Il poeta vive le aspettative d’un mondo di pace nella concordia e nel rispetto di tutto e di tutti, anche se non è possibile realizzarle per una serie di situazioni che condizionano e mortificano, nonostante si faccia in lui insistente il bisogno di credere e di sperare. Come in Ho sognato i miei sogni, dove evidenzia questo stato d’animo e, al tempo stesso, l’esigenza di creare presupposti al suo sperare, pur sapendo che il dubbio che tutto possa cadere nel vuoto non lo lascia per niente tranquillo. · 

Tempo presente rende certo quel dubbio. A niente vale la bellezza della sua terra e il mare · che «traduce l’azzurro del cielo». Sono realtà i morti ammazzati, e i giovani, che non hanno più esempi a cui modellarsi, non sono che «fantasmi della nostra coscienza»! 

Sono qui a guardare 
diamanti sparsi nell’acqua 
Solo il rude profilo dei monti 
nudi di roccia 
nasconde una città che piange 
i suoi morti. 

La natura si fa partecipe dei sentimenti del poeta, e anch’ essa, come lui, appare pietrificata dinanzi a tanto spargimento di sangue. Siamo nel 1992, anno in cui c’erano state le stragi di Falcone e Borsellino. Cammarata, come tutti noi, era rimasto sconvolto, e lottato interiormente, da un lato, dall’amore per la terra d’origine, dall’ altro, per la sofferenza e il dolore di cui essa è scenario. 

Se rileggiamo Tempo presente, non notiamo che questo: uno sconforto che si fa esso stesso coscienza ammonitrice, perché il poeta, come la natura che vede vanificata la sua bellezza, subisce e piange nel chiuso del suo io la realtà del momento, nonostante vorrebbe fosse diversa. Egli si rende conto che niente o poco può fare, se non c’è la collaborazione di tutti e, allora, è portato a constatare, impotente, la malvagia bruttura voluta da uno sparuto gruppo di suoi simili. Da qui prende significato, che si carica di particolare pregnanza, il termine «fantasma», tante volte usato da Cammarata, quando, aristotelicamente, dice questa triste realtà, a malincuore accettata. 

I motivi, che in queste poesie affiorano, sono tutti ricollegabili alla produzione precedente, sia in prosa che in versi. La sofferenza, l’ accanirsi dell’ingiustizia, il bisogno di ritrovare in sé e negli altri il senso di un’umanità più profonda che dia luce ai nostri giorni, l’amore, la denuncia sociale, l’attaccamento alle proprie radici, sono tutti motivi profondamente sentiti, poeticamente ben sviluppati e resi in Dal buio della notte, Per dare colore al tempo e Violenza, oh cara! 

Il tema del dolore, seppure presente, è vissuto ormai come un ricordo, affidato al passato, ma presente e vivo in quello degli altri, che soffrono e disperano. 

Cari fantasmi del vecchio cortile! 
Via Commenda ancora ci unisce 
per come eravamo coi segni sul viso 
per quelli che siamo 
coi segni nel cuore. 
Viviamo lontani un giorno diverso. 
Stasera tornato tra voi 
col volto bagnato da lacrime 
e pioggia 
grido nel buio la mia redenzione. 
Vi lascio leggero con ignoto sorriso. 
Appeso a quel muro 
c’è l’altro fantasma di quel che ero io. 

Ma Via Commenda, a Milano non è soltanto un ricordo della via crucis subita. Anche se il poeta dice: «grido nel buio la mia redenzione», egli non ha smesso di dimenticare e con partecipazione vive la sofferenza altrui. 

Notate i versi («per come eravamo coi segni sul viso / per quelli che siamo coi segni nel cuore») uniti dall’anafora, una figura retorica ricorrente nella poesia di Cammarata, proprio perché lo aiuta a marcare certi aspetti del suo stato d’animo che diversamente potrebbero non essere evidenziati, e notate anche l’altro verso («Vi lascio leggero con ignoto sorriso»), dove, se l’aggettivo «leggero» dice la sua liberazione dal peso della malattia, l’altro che segue, «ignoto», riferito al sorriso, evidenzia la sua meraviglia per il nuovo che è in lui, per il sorriso, da cui da tempo era stato privato e, incredulo, ancora non si spiega. Sono versi che dicono la sofferenza del poeta per il dolore altrui, ma niente può fare, se non essere vicino a loro. 

Le poesie, che vengono pubblicate nel libro Romano Cammarata e che pure registrano un continuum con le opere sopra citate, si caratterizzano per una maggiore presa di coscienza e per una marcata apertura agli altri. Ecco, ad es., Sotto la mia finestra e Piazza di Siena. Il poeta, alla primavera che avanza, vede aprirsi il cuore ed è portato a sperare ancora; oppure, pur essendo fisicamente lontano, sa ricrearsi «con gli occhi della mente» un posto di Roma a lui caro, ma per poco, perché il richiamo al reale è più forte e pressante. Per questo, si notino le accumulazioni dell’inizio (i luoghi, il verde, la folla, gli agili puledri, i cavalieri) e della fine (la sporcizia, il lavandino, i bidoni, la sedia). 

Il sogno poi si spezza 
come uno scheggiato specchio 
e torno nell’angusto cortile 
della Milano vecchia. 
Ritrovo la sporcizia 
il lavandino rotto 
i bidoni della spazzatura 
la sedia sgangherata su cui siedo 
ma anch’io pago mi sento 
e senza invidia. 
C’è in queste poesie una piena consapevolezza, ma anche una determinazione 
che diviene ancor più risoluta, come in Roma non far la stupida stasera: 
E quando tornerò, 
perché io tornerò, 
sarò sul Gianicolo la sera 
ad abbracciarti 
con sguardo d’amore 

Allora il dolore apre meglio alla vita e la fa amare ed apprezzare, pur con le ombre, che sono molte. A leggere questi versi c’è – dicevamo – consapevolezza, ma non accettazione passiva. Si legga Incontro con la luna. In qualche modo il poeta richiama Leopardi nell’atmosfera che sa creare e nel tono del suo discorrere (al pari del Recanatese, Cammarata discorre, e il discorrere è esso stesso un canto), non certo nel pensiero, perché il Nostro è corroborato da sano ottimismo. 

Eppure, il motivo della morte è presente in Cammarata; è una presenza accetta, naturale, da cui nessuno è esente, che non annulla ed anzi è vista in una luce diversa, dato che gli uomini che hanno bene operato continuano a vivere nel ricordo degli altri. Concetto caro al Foscolo e ai romantici ottocenteschi, ma qui si colora di moderna sensibilità. Anche l’uomo comune, non solo l’uomo dotato di particolari doti, l’umile che vive dignitosamente nel rispetto degli altri e che è stato elargitore di nobili sentimenti, questi vivrà nel tempo («Vivo è chi sta nel cuore / nella memoria nostra»), ad onta degli incapaci, pur potenti, che già vivono la loro vita terrena nell’oblìo. 

Il riferimento va a Ogni qualvolta torno, dove questo motivo riaffiora come sorgiva che tonifica la vita, mentre in altri componimenti è presente come realtà che accomuna i viventi. Come ne Il vischio. 

Odoletta gioiosa, che ti specchi 
nel sole del primo mattino, 
guarda anche me 
che nato sono a nuova vita 
Dai anche a me 
senza temere agguati 
il tuo trillo festoso 
Qui il poeta vuole essere partecipe della gioia che è nel creato, e viverla con intensità, fino a quando «il tempo cacciatore» glielo permetterà. 
Altro motivo ricorrente è quello dell’ infanzia, di pretesto per ricordare luoghi, persone care o semplici oggetti che lo proiettano in quel mondo passato per sempre lontano e che solo la memoria, a sprazzi, riesce a recuperare. 

Quale primavera fu la mia […] 
Allora, nel cielo azzurro 
oltre le nubi bianche c’era Dio 
e a casa vicino al mandorlo 
l’amore di mamma. 

Basta un niente (una altura, la sconfinata campagna, il silenzio intorno) perché venga al poeta tutta una folla di pensieri che lo riporta, ma per un po’, ad un tempo ormai lontano. Eppure il ricordo è preciso, fermo, colto nell’atto di pascolare, di studiare la storia (e quale storia!) o nel rivedersi sul «mandorlo grande». E qui c’è da sottolineare una nota nostalgica: non è tanto quel mondo che l’Autore rimpiange, bensì lo stato innocenziale per sempre perduto e, ancora, la vigile presenza della madre, elargitrice di quella sicurezza che ora non ha. 

Certo è che alla sua infanzia Cammarata lega sempre l’immagine della madre. In Ricordi in un cestino è il ricordo del cestino dei bottoni, che gli riporta la figura materna intenta a cucire, mentre lui bambino le giuoca accanto. Solo più tardi, quando non vedrà più il cestino, si renderà conto che lei se n’è andata «per non tornare più». 

Se si considera il tenue filo che dà corpo a questo’ componimento e l’ effetto che esso raggiunge, dobbiamo dire che, padrone degli strumenti, il poeta abilmente ha saputo gestire la materia grezza, l’ha plasmata e le ha impresso una vita palpitante di luci e di colori che difficilmente dimenticheremo. 

Ti ricordo, mamma, 
seduta a rammendare 
mentre a te vicino 
ti stavo ad ascoltare 
Era un cestino tondo 
di paglia ricucita … 

L’agilità, che è propria del verso breve (il componimento è costituito di senari e settenari con pochi quinari), qua e là qualche rima, le assonanze interne, le riprese delle immagini, raggiungono un risultato sorprendente che non sa né di barocchismo né di sentimentalismo, perché Cammarata esprime ciò che sente con spontaneità e, al tempo stesso, con sofferto distacco. 

Altrove, come in Non ho radici, il ricordo della madre morta gli serve d’aggancio per ritornare idealmente alla terra di appartenenza. In questo componimento, come in altri, il poeta è preso dalla nostalgia, dal senso della lontananza, ma in ogni caso è sempre coerente nelle manifestazioni del suo animo, le quali ci appartengono, perché, filtrate dal fuoco vivo della poesia, non sono più manifestazioni d’un singolo individuo, ma patrimonio spirituale, in cui tutti ci rispecchiamo. 

Non ho radici si rifà agli anni dell’infanzia, quando, per esigenze di lavoro, il padre, che era maestro, dovette portare con sé in Sardegna la famigliola. Sradicato dal suo ambiente, il piccolo Romano ne risentì tanto, cosa che si portò dietro per 
sempre e che lo faceva gioire di una gioia che trasmetteva a chiunque ogni qualvolta doveva tornare in Sicilia. 

Un albero può vivere senza radici 
senza l’abbraccio caldo della terra? 
Eppure non ho radici 
ho la scorza cresciutami con gli anni 
ho i rami contorti dal pensiero 
ho le foglie che cadono coi sogni 
Non ho radici 
àncore nere affondate 
tra la gente che è mia per stirpe 
sulla terra che i miei avi tiene. 
L’attacco, che di per sé presume una risposta negativa, sconfessato dall’avversativa «eppure», che, a sua volta, viene rafforzata dall’anafora, escluderebbe ogni legame, se non fosse per gli affetti profondi che legano 
il poeta alla terra di appartenenza. Perciò, a ragione, dice: 
In quei momenti 
quando più s’aspira 
a trovar pace e a dimenticare 
sento che in fondo anch ‘io sono 
vincolato 
e lo sono ad un luogo che è lontano 
tra i monti della Sicilia antica 
dove attende un fiore 
una parola cara 
il corpo senza vita di mia madre. 

Qui è la sicilianità di Romano Cammarata. Non qualcosa di astratto, non vuota dichiarazione di appartenenza che serve solo ad attestare su certe posizioni o ad imporre la propria opinione per l’autorità di cui si è investiti. La sicilianità di Cammarata è intrisa di sentimenti veri che gli vengono dettati dalla vicinanza spirituale che stabilisce con la sua isola e dall’essere partecipe degli eventi che, nel bene e nel male, fanno parlare della terra di Sicilia e la connotano rispetto alle altre. 

Cammarata amò la Sicilia e la seguì, senza trascurare niente, nel suo evolversi, positivo o negativo che fosse; e questo fece sì che ne parlò e scrisse con distacco e competenza, dando la precedenza alla ragione più che a sentire le corde del cuore. In cambio, pur essendo lontano per ragioni di lavoro, egli s’interessò della Sicilia per farla uscire dal suo stato di chiusura secolare e per contribuire a migliorarla con la prassi e la parola. 

Le liriche La miniera, La ballata del minatore, Il lavoro, se esaltano l’opera dell’uomo, frutto di mani incallite che «avanti le tende a mostrarle / con rabbia orgogliosa», denunciano lo sfruttamento a cui è sottoposto e rivendicano una giustizia che allevi la sofferenza e restituisca il sorriso a quanti lavorano nella 

precarietà, ma anche dia loro la dignità di essere umani che, alla pari di altri, hanno diritto alla vita. Questo reclamano gli umili, e questo evidenzia Cammarata ne La miniera, dove uomini annaspano «della terra nelle viscere / a respirare silicio / a scontare di nuovo l’eterna pena», mentre i loro «bambini consapevoli di tutto / ora stavano lf piccoli adulti / a guardar fisso il pozzo della morte». Così, la poesia di Cammarata, denunciando, tende al riscatto sociale e si carica di una tensione che ridà voce ai più deboli nel nome del rispetto e della solidarietà umana. 

Un motivo nuovo della poetica di Romano Cammarata è la guerra nei suoi aspetti più crudi. La prima guerra del Golfo, con le sue immagini di sterminio che entravano nelle nostre case per televisione, scioccò un po’ tutti e fece temere il mondo. Da qui prende spunto il lungo componimento Nato da un mistero, che, con un’andatura dialogica, rinnega ogni guerra, annullatrice di progresso, strumento di sterminio e di giustificazione «per altre guerre folli». 

Invochi anche il progresso 
ma ancora con convinzione 
ancora per dominare 
lasci morire di fame 
milioni di persone 
per poi sprecare ricchezze 
per appagare da folle 
un sogno di potenza. 

Il poeta Cammarata, come Quasimodo e tanti che la guerra vissero, smette di cantare. Come si fa, dinanzi a tanta atrocità, a cantare? Qui il poeta, in tono dimesso, si appella al buon senso e alla ragione, pur rendendosi conto che a niente vale il raziocinio, se vengono a mancare i saldi principi che danno veramente senso alla vita. 

Romano Cammarata è un osservatore attento, e la sua interlocutrice è la vita nelle sue sfaccettature. Questo gli permette di calarsi nella realtà e vederla con gli occhi di tutti per qualificarla e additarla per quella che essa è, senza sentimentalismi, che non sono della poesia, la quale, per essere tale, deve parlare al cuore di ogni uomo e in essa farlo riconoscere. Il poeta, con uno stile che è frutto di tante letture e di un intenso lavorio umano e spirituale, ha saputo darci con la sua opera una poesia che, prendendo linfa dalla migliore tradizione poetica italiana e straniera, è capace di suscitare fantasmi buoni per lenire la sofferenza ed aprire alla speranza quanti ad essa si accostano. 

NOTE 

1. R. Cammarata, Per dare colore al tempo, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1985. 
2. R. Cammarata, Nel buio della notte, Armando Roma, 1983. 
3. «Spiragli», A. IV, ottobre-dicembre 1992. Cfr. S. Vecchio, Romano Cammarata, Terzo Millennio, Caltanissetta, 2002.

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 25-31.




 Nur o Un sogno di una notte d’estate

Presentiamo un brano tratto dal 1° capitolo del romanzo Nur o Un sogno di una notte d’estate di S. Marotta. 

Il libro è nella fase di rielaborazione finale. Ci auguriamo che venga dato alla stampa quanto prima, perché sia apprezzato e letto. 

È la storia di un incontro dove l’amore, giuocando un ruolo di straordinaria importanza. permette di scandagliare gli angoli più reconditi dell’animo umano, ma è anche la storia di due persone molto diverse per mentalità e formazione, per cui tutto lascia prevedere un’insanabile rottura. 

Cara Nur, 

è notte fonda ed io non ho sonno. La tua partenza ha lasciato un vuoto incolmabile e mi ha reso triste e scontroso. 

Oggi, non ricordo cosa volesse, ho sgridato la bambina perché la smettesse di chiamarmi e si rivolgesse a sua madre. Persino Fufy, il cane bastardo, intuisce che qualcosa non va e se ne sta alla larga, limitandosi a scodinzolare la coda. 

Non so cosa mi prende. So solo che tu sei lontana ed io soffro. Soffro perché mi manca Nur, la mia luce, l’angolo che un giorno d’estate s’impossessò prepotentemente di me, prendendosi l’anima e il corpo. 

Ora che avevo cominciato ad accarezzare l’idea di stare con te, tu sei partita, così, tutto ad un tratto, lasciandomi solo. «Ritornerà», mi dico, «ritornerà»; e, facendomi forza, ricordo i giorni passati insieme, i tuoi riccioli, il tuo volto, le tue carezze. 

Quando ritornerai? Se lo sapessi almeno, se almeno ti facessi sentire… 

Oh, potessi fare un sogno veritiero … No, no, meglio di no, alla larga dai sogni. Ieri notte ne ho fatto uno bruttissimo. Eravamo insieme, gioivamo quando tu, d’un colpo, senza dirmi niente, senza niente in corpo, cominciasti ad allontanarti. Ti chiamavo, avrei voluto correre. ma non potevo. come se una forza demoniaca mi tenesse legato sul letto. Gridavo: «Nur .. , Nur…». ma tu, incurante, seguitavi ad andare, ad andare lontano… 

Mi ha svegliato la bambina, chiedendomi acqua. Poi, non avendo preso sonno, sono uscito in giardino, promettendomi che al mattino avrei composto il tuo numero telefonico per udire, per lo meno, la voce registrata, e sentirti viva nel mio cuore. 

Fufy mi è venuto incontro e l’ho dovuto carezzare, povera bestia! Per tutto il tempo che sono rimasto fuori, mi ha fatto compagnia. Non c’erano stelle in cielo, e quelle poche che intravedevo erano come punti impercettibili, distanti tra di loro. Sono andato di nuovo a letto che era già l’alba. Non ho preso sonno, e avrei voluto gridare il mio sconforto. Ma a chi? Chi avrebbe voluto ascoltare i miei lamenti? L’amore è crudele quando è vero amore: ti fa temere di perdere chi ami, soffrire quando ti ritarda a venire, sentirti solo quando non ti sta vicino! 

È veramente brutto. Se tu potessi provare per un momento solo la mia pena, se tu mi amassi, non a parole – come sembra -, ma con la mia stessa intensità d’affetto, certamente non saresti andata via come una sconosciuta, e ti avrei qui, accanto a me, colma di carezze e di baci. Ma io non capisco o, meglio, capisco tanto bene che vorrei non capire, e tu giuochi bene la tua parte e rimani impassibile, come se niente fosse mai successo, pronta a chiamarmi al momento opportuno («Amore, sono qui, come stai, vieni, ho bisogno di te e non posso farne a meno …») e a voltarmi le spalle col primo venuto. No … non credo, mi ostino a non credere una cosa simile. Credo, invece, che la mia Nur sia andata via per ritornare ancora, che sia andata per guardare come il mondo è fatto. 

Se mi telefonassi, almeno, se ti facessi viva per un secondo, sono sicuro che riacquisterei fiducia e direi tra me: «Se Nur mi ha pensato, vuol dire che non sono morto del tutto nel suo cuore». E mi farei coraggio, troverei la forza di insistere nel mio amore. Ma questo non lo fai, e resti sorda ad ogni mio richiamo. Così soffro terribilmente la mia pena e non posso sfogare con nessuno il mio dolore! 

Ieri, preso dal pensiero di te, sono andato alle “Tre Sirene”, la spiaggia di S. Giorgio, vicino a Sciacca, la ricordi? Ricordi quel giorno che vi trascorremmo insieme? Solo, mi sono spinto fin dove mi è stato possibile, perché il mare era così agitato che invadeva ogni cosa. Le orme dei nostri passi erano state cancellate, e non si vedeva più, sommerso dalle onde, lo scoglio su cui rimanemmo seduti a lungo. Di là guardavamo il mare e ci st.upiva la sua calma, simile a quella di un bambino in dormiveglia. I nostri occhi andavano lontano e, per un attimo, ricordando i tuoi genitori, t’invase la nostalgia. Fu allora che, stringendoti, dissi che avrei fatto di tutto perché potessi rivederli. 

Ricordo che mi abbracciasti forte senza parlare, ma i tuoi occhi sprizzavano una gioia immensa. 

Il cielo era limpido, non c’era vento. Solo all’orizzonte qualche nuvola sembrava posarsi leggermente per inabissarsi chissà dove. Attorno tutto era gioioso e allegro. Il verde della vegetazione, sfumato dalla calura, s’intonava benissimo al colore oro dell’erba secca e del grano mietuto. Che meraviglia! Non c’erano rumori, e l’aria era così satura di odori che riempiva a fondo i polmoni e dava la sensazione di trovarci in qualche angolo di paradiso. Di tanto in tanto ci giungeva da lontano il canto monotono dei contadini che sfogliavano le viti. Più spesso, invece. venivamo attratti dalle voci dei bambini che sulla spiaggia si divertivano a costruire castelli e cinte murarie ben fortificati. Ma quando sembrava che stessero per completare l’opera, crollava tutto. Allora le voci e le grida si facevano più intense e si attutivano solo quando riprendevano un altro lavoro. 

Giorni felici, dove siete? Era immaginabile che i nostri sogni sfumassero come rugiade al sole? Ricordo che mi prendevi in giro perché nuotavo male e tu, con aria spavalda, mi facevi tante di quelle capriole attorno da farmi stancare. «In cambio, sono bravo in altre attività», ti dicevo, e tu sorridevi e beavi, mentre ti carezzavo il volto e i riccioli d’oro. Ed eri felice. I tuoi occhi erano colmi di una felicità che non sempre manifestavi parlando, e gioivi di una gioia intensa: ed eri sincera, almeno allora, nelle manifestazioni di affetto. Ricordo che, senza aspettarmelo, mi saltavi addosso e mi colmavi di baci: ti stringevo senza parlare e sentivo di amarti come non avevo mai amato. 

Cara, alle “Tre Sirene”, il ricordo di te e il saperti lontana mi hanno talmente sconfortato che, sapendolo, avrei fatto a meno di andare. Io volevo sentirti viva e respirare quell’aria che respirammo insieme. Ma i tonfì della mareggiata mi hanno stordito al punto di fuggire gridando il tuo nome. «Nur … Nur … ». gridavo, «Nur, dove sei …». Correvo come un forsennato, e avrei voluto annullarmi e scomparire per sempre. 

Perché tutto questo? Perché i sentimenti, i nobili sentimenti spesso sono infranti e calpestati? L’uomo cade in uno stato angoscioso miserevole, e diviene vuota la vita, senza senso, quando gli vengono a mancare d’un colpo questi fili 

sottilissimi che lo legano agli altri e lo fanno sentire qualcuno. Allora, cade l’interesse per il mondo, crollano i sostegni su cui aveva basato le sue forze e per cui aveva vinto le tanto insistenti battaglie quotidiane. Per quanto all’apparenza possa sembrare estroverso e creativo, venuti meno gli affetti che sino a poco tempo prima lo avevano sostenuto, l’uomo si rivela fragilissimo e non sempre reagisce e supera l’angoscia in cui è caduto. 

È ciò che sto sperimentando sulla mia pelle in questi giorni così lunghi e interminabili. Il mio pensiero è rivolto a te, a te che sei lontana, e soffro maledettamente, anche perché non ho più quella tranquillità d’animo che ci vuole per portare avanti il mio lavoro. Sono rimasto fermo dal giorno della tua partenza e vani sono risultati i tentativi di ripresa, vano è risultato lo sforzo di apparire normale, perché chiunque s’accorge che c’è qualcosa che non va. Ieri la bambina, dopo avermi osservato, pur avendo bisogno di me, ha preferito chiamare la mamma. «Posso aiutarti io, se vuoi». le ho detto. «Ma tu sei intrattabile. Sei adirato con me? Ti ho fatto qualcosa?», Le sono andato vicino e l’ho abbracciata e tranquillizzata. La cosa più certa è che faccio fatica ad essere me stesso. «In questo periodo mi sento poco bene», le ho risposto. «Ma non è niente. Vedrai che fra non molto mi sentirò meglio, e allora ritorneremo a giuocare e ad essere buoni amici». Elisa mi ha guardato dolcemente, ma il suo sorriso non era il solito giulivo sorriso che si sprigiona dal suo volto innocente. 

Q uesta, però, non è vita. No. Nur cara, non possiamo continuare così. A lungo andare la corda, resistente per quanto sia, si spezza. Faccio difficoltà a dirlo. Lo so io come ti ho ancora nel cuore, lo so io che fatica faccio ad accettare la realtà delle cose. Come è brutta, a volte, la realtà, come è deprimente! Dio, perché l’uomo deve sentirsi così prostrato, perché deve essere interiormente tanto travagliato da mettere in forse la sua esistenza? 

Non ti chiedo altro, non ti dico niente. Se così hai deciso, sia pure (sarebbe inutile e controproducente l’insistere), se hai deciso così, vai, vai pure, non voglio trattenerti. L’amore non può essere mai unilaterale, e ben poca cosa è la finzione. Prima o poi la verità viene allo scoperto, e la realtà, nostro malgrado, ci si mette prepotentemente dinanzi per essere guardata in faccia. Allora non possiamo farne a meno e l’accettiamo con risolutezza. 

Nonostante tutto, sappi che non nutro alcun rancore. 

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 32-36




Manfredo Bertazzoni, La terra è un luna park (uss’ fà accsé par scòrrar – si fa per dire -) Bologna, Girardi ed., 2007.

 “Si fa per dire” o, meglio, temi e problemi della vita di tutti i giorni
L’Autore, romagnolo, nato a Faenza, porta nel cuore i colori, gli odori, i sapori e, persino, gli umori e i rumori della sua terra e della gente che vi abita. È veramente un fiume in piena che minaccia di straripare ma si contiene, trascinando verso il mare ciò che gli capita lungo il tragitto. Questa è l’impressione che dà a primo acchito, la lettura del libro La terra è un luna park (uss’fà accsé par scòrar – si fa per dire -), un caleidoscopio di discorsi che abbraccia tutto, filosofia e storia, società e costume, divagazioni varie e, poi, argomentazioni rientranti tutte nell’attualità Anche quelle che apparentemente sembrano molto lontane, per l’arco di tempo a cui si riferiscono, esse fanno da ponte per risalire a riflessioni che toccano da vicino l’uomo. 

Il libro, più che un saggio, è una raccolta di scritti che rotea attorno al luna park che effettivamente è la terra. Azzeccato nel titolo, esso consiste nell’«organizzare una serie di pensieri in maniera un poco organica – scrive Manfredo Bertazzoni – o un po’ meno casuale, ha costanti riferimenti alla cronaca spicciola, alla politica e alle istituzioni, all’uomo con i suoi pregi e difetti, tutti riflessi sull’attuale, e per lo più letti in scenari a noi vicini, Bologna e la Romagna». Evidentemente, per cognizione di causa, si riferisce a Bologna e alla Romagna che è la sua terra, così come uno di Palermo può riferirsi alla Sicilia. Non c’è campanilismo, perché il discorso verte sull’uomo e come potrebbe cambiare in meglio la società in cui vive. In questo Bertazzoni ha fiducia; esamina la realtà con le difficoltà che presenta, ma non trascura le potenzialità che possono aiutare al cambiamento e al miglioramento. 

Già nel sottotitolo c’è l’argomentare che costituisce l’ossatura del libro, ed è l’argomentare della gente che nei vari momenti del giorno affronta i temi e i problemi della vita di tutti i giorni con semplicità e tanta spontaneità senza pretese, ma con quella sapienza propria di chi la vita la conosce e la pratica. Perciò non c’è da parte del suo autore, un voler prevenire; egli scrive come parla, a ruota libera, così come i tanti altri anonimi che capita di veder parlare o sentire e che ricorrono spesso al “si fa per dire”. Che, poi, è un modo rilassante di fare e di vedere le cose e il mondo, con un distacco che aiuta ad affrontare la vita e ad avvicinarci alla verità. 

Il libro, composto di sei sezioni (“Gente”, “Storie”, “Bologna”, “Costume”, “Società”, “Prospettive”) che sono ampiamente sviluppate, affronta temi vari che sono sotto gli occhi di tutti, dove l’Autore espone aspetti e punti di vista molto condivisibili per la gran parte, oggetto di discussioni e di approfondimenti per tanti altri. Tanto per fare un esempio, il capitoletto dell’inizio, ha una verità di fondo, ben visibile e palpabile; cioè la microstoria ha un peso fondamentale nella storia vera e propria, anzi è quella che la determina, senza darlo a vedere, perché non ha altri scopi ed è per questo, obiettiva; mentre quella che di solito è conosciuta, spesso è orientata da interessi di parte che la condizionano. Ma più avanti, quando parla di Bologna e della Romagna in genere, il pensiero va all’Impero d’Occidente che in questa terra ebbe il suo fulcro centrale e che qui lasciò tracce indelebili. 

È normale che dietro tutto c’è l’amore per la propria terra, e valorizzarla più di quanto si fa significherebbe darle il dovuto lustro che la storia le ha riservato. Scrive Bertazzoni: «Bologna utilizza poco il suo motore per se stessa e per gli estranei, fatto di piccole scoperte che appaiono ad ogni angolo a chi presta un poco di attenzione; occasioni che avrebbero il dono di vivacizzare un patrimonio disperso ed ignorato. […] Una piccola città come Bologna avrebbe bisogno di maggior contributo partecipativo, senza la trappola inutile del “fare per poi disfare” dove a rimetterci è sempre il vanagloriato e poco applicato concetto del “ciò che è di tutti». Un’osservazione che richiama all’uso che si dovrebbe fare del bene pubblico, spesso in balì e depredato dai cattivi amministratori che sono spesso i nostri politici di turno. 

Discutibili – dicevamo – sono, invece, altre considerazioni e affermazioni, come, per esempio, quelle a proposito di Oriana Fallaci e delle posizioni assunte nei confronti dell’Islam e del fondamentalismo. Questo è il volto bello della democrazia, quella vera, che dà a ciascuno l’opportunitàdi dire e di esprimere le sue idee e convinzioni per un aperto dialogo con gli altri che possono condividere o rigettare, ma in ogni caso è sempre un momento di confronto e di crescita nel rispetto di tutti, frutto di quella che i Greci chiamavano “politèa”, di cui lo Stato e la popolazione si facevano forti. Proprio quel sistema politico a cui Manfredo Bertazzoni guarda fiducioso, perché possibile, solo se l’uomo riacquisti la capacità di pensare con la propria testa e di agire con la forza della razionalità. È questo il filo conduttore del libro che ha una forte valenza umana e culturale che il lettore non può non rilevare e apprezzare. 

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 53-54.




H. F. Winnington-ingram, H. DuranD- Brager, Lo sbarco a Marsala. Un af- faire internazionale raccontato da due testimoni, Marsala, 2010.

 Il racconto di due stranieri

Sono stati pubblicati, per l’occasione dello sbarco e dei 150 anni dell’unità d’Italia, il diario di bordo di Winnington-Ingram, relativo ad alcuni mesi che precedettero e seguirono l’occupazione della Sicilia da parte di Garibaldi e dei suoi, e un opuscolo, sempre relativo a quei mesi, di H. Durand-Brager. Il titolo è: Lo sbarco a Marsala. Un affaire internazionale raccontato da due testimoni; la traduzione è di Vita Maria Montalto e di Nuccia Clarkson che hanno saputo bene ri-creare i testi, calandosi nel modo di vedere e di dire dei due autori, i quali, trovandosi per l’occasione a Marsala, riportano fatti e circostanze attinenti allo sbarco e all’avanzata garibaldina in Sicilia. Da ciò che emerge dalla lettura, questi stranieri erano a conoscenza dell’impresa; e gli Inglesi ne erano accondiscendenti, minacciati dalla concorrenza del Regno dei Borbone nei loro commerci. Ma lasciamo stare!

La sua lettura è piacevole; dal punto di vista letterario sono generi differenti, anche se rientranti nell’ambito della prosa, essendo diario il primo e testo di narrativa il secondo. La narrazione dei fatti si conosce, cambia nella forma ma non nella sua sostanza. Sarebbe auspicabile che si pubblicassero altri documenti e scritti che non siano una continuazione della retorica che ormai ha fatto il suo tempo. Conoscere per come realmente sono andate le cose, non potrà intaccare di certo l’unità d’Italia (ciò che è stato fatto, è fatto!), significa rendere giustizia alla storia che reclama la verità. Che poi al vincitore vadano tutti gli onori, è cosa risaputa!

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 63-64.