Giovanni Altamore, HYBRIS E FOLLIA NELLA STORIA DELL’OCCIDENTE, Caltanissetta, Terzo Millennio, 2004, pagg. 208. 

 È stato pubblicato, per i tipi di Terzo Millennio Editore, un saggio di Giovanni Altimore dal titolo: Hybris e follia nella storia dell’Occidente, con presentazione di Piero Barcellona, pensato e iniziato nel settembre del 2001, quando quel tragico giorno Il furono attaccate e distrutte le Torri gemelle di New York. Ma l’analisi che viene fatta prescinde dagli eventi che dal quel giorno si susseguono, anzi ne costituiscono la netta conferma, come lo stesso autore avverte nella postfazione. 

Già dall’ Introduzione, l’Autore parte da un dato di fatto: a prescindere se l’Occidente è, o ancora non, al suo tramonto, è finito il tempo di imporre e di imporsi. Se non si vuole il peggio, è tempo di cooperare e di ristabilire un equilibrio mondiale capace di garantire democrazia, libertà ed uguaglianza tra tutti i popoli, senza alcuna discriminazione tra quelli ricchi e i poveri, tra il Nord e il Sud del mondo, al momento, costretto a subire ingerenze e angherìe. La globalizzazione del mercato ha acuito ancor più il divario esistente, e più forte è l’esigenza di una giustizia distributiva che dia agli uomini pari dignità. Questo facilita « l’affermarsi di uno spirito comunitario di appartenenza … che, in alcuni paesi, sta alimentando tendenze fondamentaliste, foriere di violenze e di guerre» . 

Per evitare il peggio, occorre bloccare queste tendenze, dare un corso nuovo alla storia che non sia quello della violenza e della tracotanza, della superbia del più forte, il quale prepotentemente s’impone; cioè, dire fine alla storia che caratterizzò fin dalla sua nascita l’Occidente. È quello che l’Autore fa emergere dalla rivisitazione della filosofia e della storia dell’ antica Grecia. 

La I parte del libro evidenzia l’affermarsi della ci viltà orientale, in contrapposizione a quella orientale, e l’emergere di un nuovo modo di concepire lo Stato, ormai non più rapporto armonico di cittadini liberi, ma come potenza che s’impone, spesso per l’interesse dei pochi, sugli altri. È sempre qui il pericolo, e lo previde Eschilo, ma non sarà ascoltato, perché «è legge di natura che “i più forti esercitano il potere e i più deboli si devono adattare” e che “chi può ricorrere alla violenza, non ha bisogno di ricorrere alla giustizia”» . 

La realtà è che il più forte detta leggi, e questa è giustizia, nel cui nome opera e s’ impone, e pretende di essere seguito, perché, qualunque sia, il detentore del potere ha bisogno di consenso. Lo dimostra l’attuale situazione internazionale. Bush, benché abbia un potente apparato militare, cerca alleati, ma non tanto per essere aiutato nelle sue azioni di guerra, quanto per essere sostenuto e avere quanto più consenso per potere con più tracotanza estendere il suo impero. Anche nel nome della democrazia e della libertà. E in nome di Dio, aggiungiamo, parafrasando M. Cacciari, laddove scrive – il riferimento è all’America – che «Unico Dio è quello che in essa abita e che essa ha scelto per la propria autentica rivelazione» . 

Giustizia, equità, libertà, democrazia, sono le categorie che vengono argomentate nella II e III parte del libro, e vengono meglio a completare, anzi a sviluppare, il discorso iniziale. Grazie ad uno stile abbastanza chiaro e lineare, la lettura risulta avvincente, oltre che interessante, anche per chi non ha mai studiato filosofia. E questo è un pregio che persino i lettori più sprovveduti devono riconoscere. Ciò perché Giovanni Altamore segue con molto interesse ed attenzione le umane vicende e le partecipa con la sua stessa intensità di sentire agli altri. 

In tutto questo argomentare si coglie, comunque, una delusione che non è solo dell’autore, ma di quanti seguono con attenzione i fatti attuali. L’uomo, che nel corso dei secoli si è adoperato per coronare il sogno di uguaglianza, di democrazia e di libertà, con l’avvento della modernità tecnologica e globalizzante vede sminuite le sue conquiste, passando da uomo-cittadino ad uomo-massa; cioè, se nel tempo era riuscito ad esprimere se stesso come individuo, adesso sono i pochi detentori di potere ad esprimersi per lui. In sostanza, l’uomo-individuo serve nel momento di dare il consenso, poi basta; sono gli altri ad ergersi al di sopra delle leggi e ad esprimere la loro volontà. Ne deriva che qualsiasi categoria sopraccitata viene spogliata del suo significato originario (il diritto, ad esempio, o la giustizia, o la stessa costituzione), e l’uomo viene ad usufruire di una pseudo-libertà, continuamente in contrasto, ogniqualvolta cerca di ripristinare la sua dignità. 

Altamore termina il suo saggio con una espressione di M. Cacciari: «Non sappiamo dove andare, dove il Dio comanda di porre le nuove sedi. Ma il contraccolpo alla storia europea è stato dato» . Ma Dio ha lasciato l’uomo libero, e se il suo scopo è perseguire il bene, non gli resta che riprendersi il consenso dato e utilizzarlo per ricostruire un mondo a sua misura, in cui possa veramente manifestare il suo essere ed espletarlo nel migliore dei modi. Sarebbe ancor più deludente piangere la caduta, se non ci fosse la volontà di rialzarsi e di rifarsi una vita degna di essere vissuta. 

Salvo Marotta




Giacomo Bartolini, Voci riflesse (Album di traduzioni), Florence Art ed., Firenze, 2009.

 La traduzione come forma d’arte 

La traduzione, di prosa o poesia che sia, è considerata una forma d’arte, un genere letterario e, come tale, da sempre è stato praticato da poeti, quali Catullo, Foscolo, Leopardi, per citare alcuni. Questo a conferma che essa non ha niente da invidiare alle altre forme d’arte, se rispetta certi parametri propri di una traduzione e la personalità dell’artista. 

Giacomo Bartolini, in questo suo lavoro, tiene a precisare questo, e ritengo sia riuscito a dare una trasposizione poetica aderente ai testi poetici presi in considerazione. D’altronde, «la traduzione di una poesia è sempre un’opera creativa», scrive nella nota che premette alla silloge Voci riflesse. (Album di traduzioni), pubblicata da Florence Art lo scorso anno e, difatti, è una creazione a tutti gli effetti, è un ri-creare ciò che da altri è stato fatto, e non è facile, specie se si tratta di poesia, agire sui testi, senza alterare la personalità del poeta con cui ci si sta cimentando. Ma Bartolini, che è un poeta, riesce bene nel suo intento, proponendo con tanta sensibilità e altrettanta perizia tecnica autori consoni al suo modo di sentire, perché anche in scelte come queste è l’affinità elettiva che fa optare per un autore anziché per un altro. 

Il titolo, ben appropriato, dice il rapporto stretto che l’Autore stabilisce con i suoi “amici” interlocutori, anzi entra in simbiosi con essi e canta, perché di un canto si tratta, con la loro voce e gli stessi strumenti. Da poeta, conosce i ferri del suo mestiere e li usa a suo piacere e secondo le varie esigenze che gli si presentano. Sicché entrato in sintonia con i suoi poeti, rispetta non solo il loro modo di rapportarsi con i lettori, ma la struttura estetica, e se c’è anche la rima, ormai in disuso eppure sempre accolta con piacere, specie se non forzata e ubbidiente al loro sentire. 

Volendo fare un esempio, prendiamo “Le revenant / Lo spettro” di Baudelaire: Comme les anges àl’oeil fauve, / Je reviendrai dans ton alcôe / Et vers toi glisserai sans bruit / Avec les ombres de la nuit (Tornerò nella tua alcova, uguale / ad un angelo dall’occhio crudele, / accanto ti scivolerò taciturno / con le ombre del cielo notturno). Rispetto al testo francese, Bartolini ricorre a piccoli accorgimenti, anche a trasposizioni nella libertà che non stravolgono l’autore ma, semmai, l’avvicinano alla sensibilità dei moderni. Così si regola anche per gli altri poeti. 

Oltre a Baudelaire, è riportato anche Stéphane Mallarmé con un congruo numero di componimenti, ma ci sono altre presenze francesi che non sono da meno (T. Gautier, J. M. de Hérédia, T. de Banville, P. Verlaine, A. Rimbaud) e inglesi e tedeschi (Poe, Goethe, Kipling, Nietzsche). Sono poeti dell’Ottocento che, ciascuno a suo modo, hanno contribuito a svecchiare la cultura e ad aprire alla modernità col vento di libertà individuale che seppe contagiare le masse e portarle al rinnovamento politico-sociale che, nonostante la rivoluzione francese, non si era ancora concretato. Ma quelli erano altri tempi, quando – come scrive Giacomo Bartolini nella “Prefazione” – «la poesia, al di là di qualsiasi distinzione o approfondimento, è stata davvero il veicolo privilegiato delle idee e delle forme più interessanti e innovative». 

La poesia, pur essendo elitaria, aveva meglio consolidato la sua funzione educativa ed era un valido mezzo di informazione, e lo potrebbe essere tuttora, se la scuola e le altre agenzie formative le dessero più spazio e coinvolgessero i giovani, come avviene in tanti altri Paesi, forse meno progrediti del nostro, ma interessati a non disperdere valori e potenzialità che, alla lunga, contribuiscono alla loro crescita umana e sociale e a dare loro maggiore compattezza e unità. 

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 61-62.




Emanuele Navarro Della Miraglia, La fontana di Bakcisarai (Poemetto di A. Puskin, a cura e introd. di Piero Meli), Sambuca di Sicilia (Ag), La Voce ed., 2009, pagg. 54.

Puskin in Sicilia 

Un Navarro della Miraglia sconosciuto ai più è stato pubblicato di recente da Piero Meli che lo ha curato e introdotto con un agile e interessante saggio, chiarificatore di certi aspetti riguardanti la personalità del Sambucese e il suo interesse per la poesia. Si tratta di una versione o, meglio, di una rilettura poetica del poemetto di A. Puskin, La fontana di Bakcisarai, fatta su una traduzione letterale dal russo di Luigi Delâtre del 1856. 

Allora la Sicilia era aperta agli influssi d’Oltralpe, ma non immaginavamo che vi circolassero opere russe in un momento di grandi rivoluzioni. 

Noi rimandiamo, per la trama, alla lettura dell’opera, piacevole per il cuore e per la mente. Diciamo che è un tema tanto caro ai romantici del tempo e che l’intima sofferenza è capace di corrodere anche le grandi personalità che, a prima vista, potrebbero apparire insensibili ai sentimenti, e diciamo pure che ci troviamo dinanzi ad un gioiello di poesia, molto partecipato, perché ri-creato, e ben strutturato, secondo i canoni poetici dell’Ottocento. 

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 63-64.




A. VECCHIO, Sicilia (Intervista con Francesco Renda), Sigma, Palermo, 2005.

 

Fatti e personaggi della storia siciliana della prima metà del ‘900 

La Sicilia è come un vulcano che invita ad esplorare i lati oscuri della sua storia sempre movimentata e ricca di eventi, per essere conosciuti una volta per tutte e compresi, nell’ottica degli attori, nel tempo in cui si verificarono e nelle cause che li determinarono. 

Il libro di Angelo Vecchio, offre lo spunto a più di una riflessione su alcuni fatti e personaggi della storia siciliana della prima metà del secolo scorso. Per questo, l’autore, da buon cronista, fa bene ad intervistare lo storico Francesco Renda, perché visse da protagonista (attivista politico e deputato. fu molto vicino al popolo, quando rivendicava terra e migliori condizioni di vita) tanta parte di quella storia. 

Gli argomenti trattati non sono molti (Giuliano e la strage di Portella della Ginestra, il separatismo, mafia antica e moderna, Ioe Petrosino, la Sicilia degli scrittori siciliani), eppure, agganciati come sono alla storia del periodo, aprono ad una riflessione abbastanza variegata, con richiami storici che portano lontano, ma contestuali ai temi affrontati. Tema emergente è quello dci rapporto tra mafia e politica. tra Giuliano e i politici; e qui le cose cambiano, tutto diviene complicato, proprio perché l’implicazione di persone autorevoli non permette che la verità venga tutta allo scoperto e, perciò, il ricorso a depistaggi, a testimoni e notizie falsi e a tutto un meccanismo che distolga da come si sono effettivamente svolti i fatti. È il caso della morte di Giuliano, della strage di Portella della Ginestra e di tante altre vicende storiche siciliane coperte da un alone di mistero difficile da dissipare. 

Il libro di Angelo Vecchio ha la sua valenza ed è interessante perché mette a fuoco gli argomenti oggetto dell’ intervista e li presenta all’attenzione del lettore per verificarli e trovarsi d’accordo o dissentire. A proposito della Sicilia, ad esempio (pag. 25). Non era detto che essa doveva necessariamente entrare a far parte dell’Italia. Avrebbe potuto rimanere a sé, come era auspicio dei molti: la Sicilia nazione. Questo non si è verificato, ha cessato di essere nazione, passando così da una dominazione ad un’altra, quella dei Piemontesi. 

Viene anche affrontato l’apporto che gli scrittori siciliani danno alla conoscenza della loro terra. Vero è che contribuiscono a far conoscere certe realtà attraverso la loro arte, ed è altrettanto vero che «essi danno un’immagine della Sicilia che non è quella reale.» Va anche detto che molti scrittori non solo non la presentano nella sua realtà, ma danno un ‘immagine in negativo della Sicilia, distorta e controproducente, per cui tutto ciò che sa di siciliano è giudicato male, ed essere siciliano equivale a mafioso. Tanti scrittori sono direttamente o non responsabili di questa nomèa di mafiosità che va stretta alla stragrande maggioranza dei Siciliani, e non sono indenni scrittori citati nel libro, come Sciascia o Camilleri. 

Così è per gli altri argomenti trattati: essi offrono spunti di riflessione e suscitano l’esigenza di volerli approfondire. E questo è ammirevole nel libro. Lo stesso autore afferma di non voler essere esaustivo, ma lancia delle pietruzze nel grande stagno della storia siciliana, contribuendo ad allargare così la nostra conoscenza, che è anche acquisizione di consapevolezza dell’essere siciliani prima e italiani poi. 

Salvo Marotta

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 51-52.




 «DIO AMA IL MULTIPLO» 

Per una poesia di Neruda 
con un richiamo a J.B. Sayeg 
Dio ama il multiplo, 
uno stonno di passeri migranti, 
gli artropodi in classi e sottoclassi, 
api, fonniche, indigeni aggruppati, 
grappoli d’uva, liane aggrovigliate 
in infmite ramificazioni, 
moltitudini umane nel lavoro, 
e l’ «amatevi e moltiplicatevi» 
delle scritture, 
e gli animali 
ognuno con un codice di vita, 
le specie e sottospecie, 
sciami di pesci nel profondo mare: 
Iddio ama il multiplo 
con i cori degli angeli d’intorno 
e galassie, bilioni di galassie 
che esplodono e si accendono 
in anni luce. 

Marige Quirino Marchi 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 42




Addio Segesta.

Addio Segesta…
Parto solo
e mi guardo
nello specchietto retrovisore.
Ho una camicia nera
e disordine nell’anima
quanto nella sua stanzuccia
François Villon.
Mi sento colpevole
perché il cielo non è azzurro
come i tuoi occhi.
Sarei potuto partire
anche domani
e sarei rimasto a pernottare
sotto mandorli e arance.
Da lì il pensiero sarebbe potuto partire
profumato
come i tuoi seni.
Addio Segesta!
Voglio dire: Loredana.
Io sono morto
oggi per te.

Petre Dinu Marcel

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 55.

 




VINCENZO SCALIA, Reato estinto, la giustizia minorile italiana, collana di studi socio logici «Processi culturali», I.l.a Palma, Palermo.

 Una filosofia della tolleranza nella giustizia minorile italiana 

Le politiche di tolleranza zero degli ultimi anni hanno avuto nella giustizia minorile uno dei noccioli duri. Nel Regno Unito il governo laburista di Tony Blair ha puntato sulle nuove disposizioni in materia di giustizia minorile previste dal Crime and Disorder Act per accattivarsi le simpatie di quella porzione di opinione pubblica che invocava a gran voce speciali misure di legge. La Francia non è stata da meno, coi nuovi provvedimenti che abbassano l’imputabilità a 13 anni e coinvolgono la polizia nella gestione delle scuole, in particolare quelle dei quartieri a rischio. 

L’Italia sembrava immune da questa ondata di panico morale. «È vero, il nostro sistema giudiziario minorile non è immune da pecche.» Lo sottolinea Vincenzo Scalia, docente di Sociologia generale, presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Palermo, nel suo libro sulla giustizia minorile italiana, in tre capitoli: il primo, A Lesson in Tolerance? Juvenile Justice in ltaly, è sul numero di giugno 2005 della rivista inglese «Youth Justice»; il secondo è Sanzionare e sostenere. l minori stranieri presso il Tribunale minorile di Bologna; l’ultimo, La reazione alla criminalità minorile in una città del benessere, riprende studi apparsi su «Sociologia del diritto». 

L’autore inquadra il sistema giudiziario all’interno di una filosofia della tolleranza, che ispira l’implementazione di policies finalizzate a tenere i minori accusati o colpevoli di comportamenti illegali al di fuori del circuito penale. Dal suo punto di vista, incentivando l’uso della risorsa penale con pene più lunghe, si finirebbe per minare i delicati equilibri che regolano il sistema penale e minorile. I minori condannati a lunghe pene detentive, privati di contatti con la società o marginalizzati nel periodo più delicato della crescita, sarebbero più facilmente suscettibili di intraprendere una carriera criminale. In altre parole, ci troveremmo di fronte alla definitiva affermazione della sfera penale come strumento di regolamentazione di problematiche sociali che necessitano di altri tipi di risorse. Educatori e assistenti sociali diventerebbero figure residuali e il cerchio della tolleranza zero si chiuderebbe. La tolleranza del sistema si gioca, invece, attorno alla disponibilità dei minori devianti ad accettare il piano di sostegno proposto dagli operatori. Però è vero che la tolleranza della giustizia si arresta sulla soglia della nazionalità. Basti pensare alla sovra-rappresentazione di migranti e nomadi all’interno degli istituti penali minorili (attorno al 57%). Ciò accade non per razzismo, ma in seguito alla mancanza da parte dei minori stranieri di un’accurata conoscenza dei codici culturali italiani, nonché di una adeguata rete familiare e amicale. Il retro terra ideologico che alimenta le pratiche quotidiane del tribunale minorile bolognese appare costituito dalla scelta di limitare l’utilizzo della risorsa penale. Tale scelta non è però ispirata da princìpi di tipo giuridico, quanto da un approccio fondato sul senso comune rintracciabile nella cultura familistica italiana, che vede nel minore un soggetto che necessita di protezione e ammonimenti da parte degli adulti. 

Dora Maran

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 49-50.




ROBERTO VISCIONE & GIOVANNI VELLA, Amare per amare, collana Memorie / Testimonianze, I.l.a. Palma, Palermo.

 L’enigmatico mondo dell’amore esplorato attraverso un’esperienza di psicoterapia innovativa 

Nietzsche diceva: «L’animale si adatta al mondo; l’uomo crea il suo mondo nell’enigma del mondo.» Bisogna che l’enigma vada affrontato, indagato, esplorato, perché «una vita che non indaga come sostiene Socrate non è degna dell’uomo». Quest’ardua esplorazione è stata intrapresa dal giovane scrittore romano Roberto Viscione, nel libro Amare per amare. Viaggio dentro un’esperienza di psicoterapia (edito da I.l.a. Palma, Palermo, pp. 128), il quale racconta, sotto forma di dialogo in un linguaggio semplice ma non elementare, della sua esperienza vissuta nel contesto di un trattamento di psico-terapia. 

In realtà si tratta di un libro scritto a quattro mani, dato che Roberto e Giovanni Vella sono gli autori e insieme i protagonisti della storia, nella quale narrazione e ricostruzione degli eventi sono efficacemente intrecciati in modo quasi poetico. Giovanni esercita a Palermo e a Roma la professione di psicoterapeuta per la prevenzione dei disturbi emotivi, svolgendo attività di ricerca sugli aspetti corporei e psicologici del comportamento individuale. A lui si rivolge Roberto, «un ragazzo fra tanti – come egli stesso si definisce – con la passione delle amicizie e dell’amore», per pacificare il suo animo, tormentato da continue sofferenze amorose. Insieme esplorano l’enigmatico mondo dell’ essere umano e iniziano un cammino di autocoscienza, un vero e proprio itinerario esistenziale attraverso il quale Roberto elabora un suo percorso sentimentale, sociale e religioso. Emergono varie situazioni sia psicologiche che morali, ma il quesito principale attorno a cui ruota l’intero racconto è questo: «Come si fa ad amare senza rimanere incatenati dalla sofferenza, e come si può cancellare dalla vita il sentimento amoroso che ne è la linfa vitale?» Il problema di fondo sta nel fatto che l’uomo, in realtà, non sa amare, perché non avverte che l’amore è arte, testimonianza di vita autentica; ed è proprio attraverso la sofferenza che si riesce a 

vedere, ad accettare ciò che non si riesce a cambiare: «ecco che la ferita che era aperta e mai richiusa si può richiudere, ne resta solo la traccia storica, grazie all’osservazione delle esperienze stesse ». Roberto e Giovanni insegnano che l’amore è un sentimento vitale di cui ogni essere vivente non potrà mai fare a meno. Però, per amare occorre liberare la mente, spesso prigioniera di schemi di sofferta oppressione. Pitagora diceva: «nessun uomo è libero se non sa comandare 

a se stesso», e comandare a se stesso significa impegnarsi in un esercizio di libertà, perché i pregiudizi si abbarbicano nei cervelli non autonomi alimentando i conflitti tra desideri e paure, passioni e gelosie, che sono causa dei numerosi fallimenti di coppie. 

Interessante e curiosa è anche l’esperienza psicologica qui definita come «Navigator Therapy», attraverso la quale, in condizione di rilassamento, la strategia migliore, secondo l’analista, per liberare la mente da schemi e stereo tipi, si riesce a ricreare l’armonia tra corpo e mente e ritrovare quell’equilibrio che è essenziale per raggiungere lo stato di quiete. Una dimensione mistico-orientale non avulsa da una sensibilità narrativa scientifica. 

Insomma un libro che è insieme studio, racconto ed esperienza di vita e che può considerarsi un vero e proprio manuale d’uso per le persone che vivono il tempo dell’amore e che attraversano momenti di crisi con il proprio partner o per una storia di coppia appena finita. 

Dora Maran

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 49-50.




PIERO GRECO, Racconti per caso, per ragazzi di ogni età, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a Palma, Palermo.

Fare educazione raccontando storie e sfruttandone il potenziale pedagogico, catturando i ragazzi (e non solo i ragazzi) in una rete di vicende immaginarie che diventano specchio della vita quotidiana. Questo sicuramente l’obiettivo felicemente raggiunto da Piero Greco, studioso di problemi sociali, pedagogici e didattici, nonché fecondo narratore e saggista, nel suo ultimo lavoro letterario. In questi racconti l’istanza di un’attenta ricerca socio-pedagogica è sempre presente e costituisce il filo conduttore del tessuto narrativo. L’autore mette in atto la sua lunga esperienza maturata a contatto coi giovani di ogni età, dalle elementari al liceo, all’università, fino al difficile inserimento nel mondo del lavoro. 

I racconti nascono per caso, in modo estemporaneo, dapprima in forma verbale, 

poi scritta, in seguito a dibattiti spontanei con i ragazzi. Questo è sicuramente uno dei motivi per cui i racconti inducono il lettore ad una spontanea revisione e consapevolezza critica sul vissuto. Un viaggio inteso come fondamentale simbolo di crescita. Una scrittura che porta lontano, che affabula e fa pensare, e fa anche commuovere. 

Un vero percorso sull’importanza delle passioni, dalle più piccole e quotidiane alle più importanti, per trovare un significato nella costruzione della propria crescita. Incontriamo, infatti, i personaggi più vari, figure di una umanità defilata e senza pretese che emergono raccontandoci, nei fatti, una possibilità diversa di stare al mondo. Personaggi ritratti e raccontati con disincantata ironia, creati per divertire ma anche per indurci a riflettere. 

Ritroviamo quella ben nota scoperta sensualità esistenziale, non priva di sottile ironia e di affettuosa adesione, la capacità di cogliere il messaggio della natura, i suoi colori, i profumi, gli afrori, e anche piccole cose futili che danno il piacere della lettura. 

Dora Maran

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 56-57.




MARCELLA LA MONICA, La città degli spilli. Filosofia e arte nella prima rivoluzione industriale, collana «Athena», saggi e manuali di studio, I.l.a. Palma, Palermo – Sao Paulo.

Uno studio originale di storia e arte 

In maniera veramente originale si presenta il saggio di Marcella La Monica dal titolo: La città degli spilli. Filosofia e arte nella prima rivoluzione industriale. L’autrice, infatti, lega innovativamente, la riflessione filosofico-economica di fine Settecento e dei primi anni dell’Ottocento, con i principali fenomeni artistico-urbanistici e dell’ industrial design. Un metodo inusuale e certo singolare, che sta alla radice tanto della grandiosa ricchezza tematica e stilistica del volume quanto dell’audacia della sua visuale descrittiva, al tempo stesso sorprendente e intellettualmente stimolante. 

Il titolo del libro, La città degli spilli, da una parte, si spiega in riferimento al celebre esempio smithiano della lavorazione degli spilli e, dall’altra parte, in relazione alle implicazioni urbanistiche della nascente civiltà industriale. Si deve riconoscere all’ autrice il merito di sottolineare, altresì, l’incisività smithiana della suddivisione del lavoro sulla nascita del design industriale e dell’economia moderna. 

All’ interno del libro Marcella La Monica dà maggiore spazio alla letteratura smithiana sul rapporto tra la città e la campagna, collocandola all’ interno del fenomeno dell ‘ industrialesimo e alla nascita della città dell’ età industriale. Considerevole è l’ analisi della figura di Bentham e del suo Panopticon, la città nuova e la nuova architettura popolare e, infine, verso le città utopiche, per esempio, di Ledoux e di Fourier. 

Lo studio si sofferma sul passaggio dall’ artigianato all’ arte industriale e sul ruolo di Wedgwood. Significativi effetti dell’industrialesimo si hanno anche nelle pitture di Wright, di Vivares, di De Lourtherbourg e nel sublime industriale di Turner. Infine, ben articolato risulta essere il complesso dibattito sull’industrialesimo, a cui parteciparono Burke, Carlyle, Chateaubriand e Pugin. 

Dora Maran

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 46.