JUSTIN VITIELLO, Labirinti e vulcani nel cuore della Sicilia, collana di narrativa «Memorie/Testimonianze», I.l.a. Palma Mazzone Produzioni, Palermo 2005.

Labirinti nel cuore della Sicilia. Un iter socio-culturale dell’isola 

A fine anno è stato pubblicato dall’I.l.a Palma l’ultimo volume dello scrittore italo-americano Justin Vitiello, di origine napoletana, docente di letteratura italiana all’Università di Philadelfia. In questi Labirinti e vulcani nel cuore della Sicilia, Giustino, così chiamato affettuosamente dagli amici siciliani, ci conduce, tra storia e cronaca, in un appassionante viaggio attraverso l’anima e il cuore di una Sicilia senza tempo, epicentro di una cultura universale. Una terra nella quale si percepisce da una parte un senso di attesa e di speranza di una possibile trasformazione e da un’altra, un’ansia, una paura per il proprio destino, per il proprio futuro. Cinquant’anni di passione civile, cinquant’anni di Sud civilmente seguito e osservato nella sua faticosa e contraddittoria crescita umana e storica, cinquant’ anni di speranze e di trasformazioni epocali. 

Giustino, con scrupolosa precisione documentaristica, accompagnata, a volte, anche da una pungente ironia, indaga, scopre e divulga i problemi civili e sociali in cui si imbatte in ogni angolo dell’isola. E lo fa attraverso un triplice approccio, costituito da uno sguardo attento al presente, che, però, non è piatta cronaca ma racconto dell’attuale, uno lanciato verso il futuro, che non è mai mera utopia bensì tentativo di intuire, in itinere, i processi evolutivi, e uno rivolto al passato che non è nostalgia o sterile filologia, ma impegnata ricostruzione storica. Dà così vita, in un linguaggio originale e in uno stile essenziale, a pagine che, pur leggendosi tutte d’un fiato, lasciano un segno indelebile, e ci fanno rimanere impresse le vite e le vicende di tanti individui altrimenti anonimi. 

Un mondo di contadini che lavorano da sole a sole, comunità baraccate investite dalla dinamica della società tecnologica e del consumismo, un popolo di volti e di anime che cercano di inscrivere la loro paziente esperienza nelle coordinate della contemporaneità, scongiurando il pericolo di rimanere per sempre fuori dalla storia. Un mondo oscurato dagli orrori della violenza, un presente su cui incombe sempre il pericolo di morte e di autodistruzione, minacciato dall’ apocalisse nucleare, ma nel quale affiora uno spiraglio di speranza: la possibilità di cambiare questa realtà, opponendo alla violenza l’educazione non-violenta e attraverso la dignità, il coraggio, la giustizia e forme diverse di resistenza e di impegno, portare dalle ombre alla luce il meglio dell’umanità e della cultura siciliana. 

Dora Maran

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pag. 53.




Francesca Incandela, Elide e le altre collana di narrativa «Meridiana»,Ila Palma Mazzone Produzioni, Palermo, 2005. 

 Nel segno di una rivolta interiore 

«Quando credi di esserti liberata dalle catene, esse te ne creano altre, più ostinate e radicate di prima. Non sono soltanto gli odori e gli aromi e, poi, i colori che mancano … Sono i volti cotti dal sole, le crepe sui muri… il gelsomino nei giardini nascosti tra le pieghe rugose di antiche strade… ed ancora l’abbraccio degli affetti e la pochezza delle parole quando il dolore colpisce e schianta.» 

La lontananza non approda a nulla, nella vita non si può sempre fuggire! 

Questo il messaggio forte e chiaro che ci viene trasmesso attraverso la voce narrante di Elide, la protagonista dell’ultimo romanzo della scrittrice e docente di materie letterarie nelle scuole medie superiori di Mazara, Francesca Incandela. Un romanzo tutto al femminile nel quale figlie e madre, cuori e volontà, si incontrano in un percorso esistenziale condotto sul filo della memoria, autentica fonte di interrogativi e di risposte. Una donna, Elide, e un caleidoscopio attorno. La sua storia si dipana a partire dall’infanzia trascorsa a Campofelice, terra insieme amata e odiata, ma fatta di odori e colori inconfondibili (fotografati da Francesca Incandela con una percezione speciale e una rovente capacità descrittiva) e prosegue verso la costante ricerca della libertà che è soltanto interiore, riscatto e sfida contro la sua isola ostile e immobile, alla ricerca della dignità che si smarrisce e non trova più posto. Un lungo viaggio simile alla fuga iniziato con t’errata convinzione che «bastasse salire su un treno per lasciarsi alle spalle secoli di oppressione mafiosa e di omertà e di sassi in bocca e di morti ammazzati e indifesi», per concludersi con un messaggio di speranza di un reale cambiamento del nostro Sud. 

Una sovrapposizione di piani narrativi dove immagini del passato e del presente si scompongono e ricompongono in un gioco mai placato, nel tumulto dei ricordi e delle situazioni. Una moltitudine di tessere colorate, emozioni celate, incomprensioni travagliate, vengono armoniosamente ricostruite dall’autrice in uno stile rapido e immediato. Così Francesca Incandela assembla il «mosaico»; un lunghissimo capitolo, senza pause e titubanze, scorre come un fiume in piena, dove la ricerca della libertà è vitale e non ingordigia scomposta, piuttosto un’aspirazione che è forse figlia di irrequietezza spirituale. 

Un romanzo che inevitabilmente coinvolge, perché mostra uno dei possibili percorsi per raggiungere la certezza dell’esserci, che non è una condizione data dell’ esistenza ma una conquista, una reimmersione illuminata da una consapevolezza nuova, nei rumori, nei colori, nei paesaggi familiari della propria città di sempre, della sua Sicilia «amara e amata» che ritornerà a lottare! 

Dora Maran

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 58-59.




 EMILIO GUASCHINO, Disegni e grafiche.  Antologia pittorica 1966-2004, collana «Prisma», Ila Palma, Palermo, 2004. 

Storiografia della sicilitudine attraverso il segno e il colore 

II pittore di origine piemontese, Emilio Guaschino, che ama definirsi «polentone con l’animo di terrone», ha pubblicato per l’I.l.a. Palma un corposo volume illustrato intitolato Disegni e Grafiche 1966-2004. Dalle 180 pagine in grande formato, affiorano immagini impregnate di luce e di calore, di tristezza e di drammaticità. Artista schivo e modesto, è costantemente spinto a migliorare la sua capacità interpretati va e usa il colore con struggente dolcezza, trasmettendo alle sue figure un grido di disperazione che lo porta a forme narrative irripetibili, gesti d’amore per la sua gente e la sua terra. 

Le condizioni difficili di tanta gente di Sicilia sono denunce gettate con impeto generoso, per cui i volti esprimono fortemente sentimenti di angoscia. Nelle opere di Guaschino i drammi di un popolo scaturiscono dai tratti incisi vi della sua grafica, ed ecco che i colori riescono a dare ancora più forza ad un linguaggio che è insieme documento e protesta. I soggetti dei suoi quadri esprimono immediatezza, gridano al vento i propri tormenti: fanciulli costretti al lavoro, donne stanche per il pensiero dei loro uomini lontani per lavoro, vecchi chiusi in una dolente rassegnazione. Tutto parla nelle opere di Guaschino, il mare e la terra intrisi di fatica e di sudore, le case isolate e quelle dei centri urbani carichi di fatalistico silenzio, le donne e gli uomini protagonisti di una coralità che stupisce e rende partecipi. 

Infatti può accadere che osservando le sue opere si rimanga incerti se è più importante ammirare il valore della sua arte oppure il modo sincero pulito e spontaneo con il quale l’autore rende cariche di realismo le sue figure e prepotentemente espressive le sue creature. 

Certo Guaschino esprime ciò che sente, «gettando l’anima sul piatto» come scrisse lui stesso in una lirica ad un amico poeta. Quello che riesce a far dire alle sue figure prorompe ‘impetuoso dalla sincerità del suo animo ma è la sua capacità di disegnatore, e la potenza del suo colore, che gli permettono di raggiungere certi risultati. Colore e disegno si compendiano in maniera mirabile, e pure nel dolore o nella protesta l’artista, attraverso i suoi quadri, lancia messaggi d’amore per commuovere e fare pensare. 

Dora Maran

Da “Spiragli”, anno II, n.2, 1990, pagg. 33-35.




ANTONINO G. MARCHESE, Comunismo nel latifondo siciliano. Giuseppe «Peppe» Russo e il movimento contadino del secondo dopoguerra a Giuliana, collana «Ministoria», I.l.a. Palma, Palermo, 2006.

 Giuseppe Russo da Giuliana, un eroe del quotidiano 

Pochi amano la propria terra come l’ama il siciliano e Antonino G. Marchese, medico e storiografo, con il suo ultimo lavoro, «Peppe» Russo e il movimento contadino siciliano, ha dimostrato ancora una volta di essere fortemente legato alle proprie origini giulianesi, di guardare affascinato al passato mai sazio di conoscere storie e aneddoti di ogni angolo del suo paese e di ogni uomo che ne ha solcato il suolo. Nonché del circondario corleonese tutto. L’autore, con una scrittura limpida e intensa, ripercorre il tempo del secondo dopoguerra in cui l’isola rosseggiava del sangue dei «compagni» che sfruttati e immiseriti hanno manifestato il loro malcontento contro un sistema dal quale si sperava giustizia, benessere, libertà. Una storia fatta di sudore e di sangue che vide organizzare le marce contadine; rivendicazioni e battaglie per le terre quando ancora si salutavano i nobili col «Voscenza sa, benedica». 

Una Sicilia di coppola e zappone quella tratteggiata dal Marchese, che in questo interessante volume si sofferma sulla figura di Peppe Russo, un combattente di paese, un attivista che ebbe un ruolo di rilievo nella grande azione dei contadini che conquistarono la riforma agraria varata, secondo la legge Gullo, dall’ Assemblea siciliana nel 1950, per trame una vera e propria biografia storica, cioè mirante a rappresentare la verità storica al di là delle interpretazioni di parte, ripercorrendo le fonti e le testimonianze, che sono minuziosamente documentate. Un libro dunque nato dalla memoria per preservare la memoria, che una colta e motivata prefazione, redatta dallo storico Giuseppe Carlo Marino, mette nella giusta luce. 

Dora Maran

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 59.




 Micha Van Hoecke:  «La danza scrive nell’aria la vita» 

La fiamma non fu uguale a un ‘altra fiamma, 
dicono, mai dall’aurora dei tempi 
di Anna Manna 

Mi vengono in mente i versi di Maria Luisa Spaziani, mentre aspetto nella hall di un albergo romano, vicino al circo Massimo, d’intervistare Micha, mito vivente della coreografia. L’aria è quella dei grandi incontri. Roma avvolta dalla sua bellezza. Come una signora, appena alzata, si scalda al sole della sua stessa bellezza, si rimira allo specchio, fa le fusa, prima di cominciare a danzare la danza della vita. C’è movimento attorno a me, ne avverto la leggiadria. Ma è un movimento discreto, come un ghirigoro nell’ aria. Quasi il volo impercettibile di una farfalla. Alzo gli occhi: forse ho avvertito il volo di una farfalla. Invece è una donna. E sono i suoi occhi che danzano nell’aria romana piena di primaverili promesse. È Carmela Piccione, specialista di teatro e di danza, biografa di Micha. Insieme a lui ha creato un libro che è un excursus nel mondo della danza, attraverso i ricordi di Micha. Una magnifica opera insieme che non riuscirei a definire bene, che hanno chiamata intervista, ma è molto di più. 

È uno scrigno prezioso, uno sguardo a ritroso nel mondo del movimento, forse anche un discreto e sotterraneo tratto di filosofia della danza. Di fatto il libro è un movimento vivente che ti prende mentre lo sfogli, mentre lo gusti. 

A Roma, in una giornata di avvento di primavera, un libro così si mescola con il risveglio della natura. E cominci a vedere i fiori, gli insetti, le nubi vaporose di aprile che occhieggiano, che promettono la danza della vita. Mi ricorderò di questo incontro di primavera con due artisti così diversi e così in sintonia. Micha, il grande Micha, che ancora non ho conosciuto ma che già ammiro attraverso la fama ed il libro che continuo a sfogliare. E Carmela, che di Micha ha saputo raccontare l’anima. 

Carmela è giornalista per eccellenza, ma in lei l’arte della scrittura è miscela di squisita femminilità e di forte tempra. Quando Micha compare, Carmela si fa da parte e diventa uno specchio. Un grande specchio dove il maestro può rispecchiarsi e trovare la sua dimensione fatta di musica, movimento, inventiva, fantasia. Micha è un artista vero, generoso, si spende per donare agli altri. La gioia dell’arte. Un presupposto questo che nel suo cuore è stabile, ferreo. Capisci che dietro la leggiadra persona che vivifica il mondo della danza si nasconde una ferrea disciplina di esercizi, di dedizione alla danza. 

«Quando si raggiunge il sublime nell’arte?» gli domando ammirata. E per sublime non intendo successo, ma molto di più. 

Risposta: «Il sublime? Che senso vogliamo dare a questa parola? Se vuol dire il massimo della perfezione, allora il sublime si raggiunge soltanto in un ripiegamento su se stesso, in un approccio narcisistico in qualunque forma d’arte. Ma per me il sublime vero si raggiunge nell’incontro con l’altro. Quando anche l’altro diventa, per esempio, danza, quando il movimento che ho dipinto nell’aria lo coinvolge e gli trasmette il messaggio di quella danza. Ecco, per me questo è il momento sublime.» 

Avevo intuito questa generosità della sua arte che supera e prescinde il momento della celebrazione per aprirsi agli altri in un abbraccio artistico, appunto sublime. Nei suoi spettacoli lo spettatore resta ammaliato, è come se riuscisse a dialogare con il grande coreografo. Intanto, in questi primi approcci dell’intervista, Carmela ci guarda, capisce che siamo entrati in contatto e silenziosamente si fa da parte, anche se i suoi grandi occhi neri continuano a danzare con noi. S’intrecciano ai nostri sguardi e cercano la domanda giusta, il momento della verità in questo incontro romano. 

«Io sono un poeta,» gli dico, «le mie domande sono un po’ diverse da quelle delle interviste che normalmente ti hanno fatto.» 

E Micha si avvicina col cuore, avverto che è compiaciuto di un’ intervista diversa. Le domande sulla sua vita, sulla sua arte, hanno già la risposta nel libro. «Un libro che ormai ci precede, arriva prima lui nei posti dove vado a danzare e poi noi. È diventato come un personaggio a parte, ha una vita staccata dalla nostra.» È sorpresa anche Carmela della vitalità della sua opera di paziente ricercatore delle verità di Micha. Ma Micha è movimento anche quando tace. 

Gli chiedo all’improvviso: «Le espressioni del viso sono una danza?» 

Risposta: «Nell’espressione del viso c’è lo sguardo che dona la dimensione della profondità. In funzione degli stati d’animo. Il viso fa parte dell’essere danzante. È la promessa, lo spartito musicale. Il corpo è una cassa di risonanza di questa melodia interiore. La musica vera è quella che entra dentro, quella capace di modificare lo stato d’animo, accenderlo di più. La vera musica crea movimento dentro di me e poi io lo porto fuori col mio corpo. Lo racconto agli altri con la mia danza. La vera cultura è andare verso l’altro. Anzi è proprio questo il senso della cultura. Ecco perché il nostro viso, il nostro sguardo, è un mezzo incredibile di comunicazione culturale. Il nostro corpo è una cassa di risonanza, culturale, psichica, è il pensiero, lo stato d’animo che diventa carne, gesto, vita nella realtà. Penso al grande Kazuo Ohno, ormai immobilizzato su una sedia a rotelle. Ho visto recentemente un suo video; il grande artista giapponese muoveva solo una mano. Eppure quanta intensità in quel semplice gesto. Assoluto, essenziale.» 

Domanda: «Come si fa ad educare veramente all’arte, a questa forma di comunicazione così vibrante?» 

Risposta: «lo non saprei come si possa fare rispetto a tutte le arti. Ma sono sicuro che si deve fare. Soprattutto per amore verso i giovani, verso un paese così ricco di tradizioni come l’Italia, è necessario rimboccarsi le maniche e lavorare sodo per riuscire ad educare la gioventù all’arte ed al rispetto per l’arte. Non possiamo lasciare i giovani in pasto ai falsi messaggi, ad una sottocultura che ci attanaglia, che ci distrugge dentro. La cultura dona solidità, l’amore è dedizione e rispetto. Verso la forma d’arte che sentiamo più vicina a noi! Questo deve essere il terreno in cui deve muoversi la gioventù. La danza della vita non può essere miseramente simile a pochi scialbi passi senza ascoltare le parole dell’ anima. La cultura deve darci respiro, deve renderci capaci di volare in un mondo di idee e di emozioni che raccontano i nostri progetti, le speranze. La comunicazione artistica vera può nascere soltanto in un terreno di rispetto e lavoro serio e consapevole. Non si può pretendere di chiamare arte lo scimmiottare questa o quella moda artistica, l’arte deve entrarti dentro, deve scoprire le parte migliore di te e portarla in superficie, deve riuscire a farti comunicare il meglio della tua anima. Non per te stesso, per una forma di autocelebrazione, ma per rendere un servizio agli altri, per educarli appunto.» 

«Ma non siamo tutti uguali. E di nuovo mi vengono in mente i versi di Maria Luisa Spaziani: E anche questo mare che ora senti / ruggire e sospirare, ha sempre suoni / diversi e altri fregi di correnti. Questa diversità, come può unirci, cosa può significare raccontarci gli uni agli altri?» 

Risposta: «È il fuoco dell’arte, questo vivificarci ogni giorno a nuovi messaggi, a nuove emozioni, ci rende vivi, rinnovati, nuovi sempre. Chiusi, ripiegati su di noi, anche nei nostri momenti migliori, anche nei risultati migliori… ebbene questa solitudine ci rende sterili. La comunicazione artistica scrive il futuro, la relazione artistica tra le persone apre spiragli insperati, rinnova la speranza e grida la volontà di esistere di nuovo. Io danzando scrivo nell’aria la vita, lo scrittore danza sui fogli le sue emozioni, il musicista fa danzare le note. Vede la relazione, il miscellarsi delle forme artistiche crea continuamente un lungo interminabile dialogo. Il dialogo per eccellenza, quello che muove l’umanità verso il continuo miglioramento. Non assaporare l’arte e l’espressione artistica ci allontana da noi stessi e dal futuro dell’uomo. L’importante è sentire ruggire questo mare, sentire i sospiri dell’ anima e comunicarci queste emozioni, questi ruggiti, questi sospiri. Per comprenderci, per accettarci, per migliorarci. Per amarci e per amare la vita.» 

«Lei quanto ama la danza?» 

Risposta: «Quanto amo me stesso, quanto amo il mondo ed il mio peregrinare nel mondo. In fondo ognuno di noi nella nostra esistenza è un pellegrino, in viaggio verso la conoscenza, 

da “Spiragli”, 2009, Argomenti 

l’assoluto, certezze che a volte non arrivano, ci sfuggono. E il nostro peregrinare esterno a volte riproduce e manifesta il nostro viaggio interiore. Sono un uomo profondamente religioso nel senso vasto del termine. Cerco il sacro che è in ogni essere umano. Ed in ogni manifestazione dell’umano. Il senso del sacro, del mistero, quella scintilla impercettibile che si accende in ognuno di noi in momenti inaspettati: ecco forse sono da sempre alla ricerca dell’anima.» 

«Micha, cos’è l’amore?» 

Risposta: «A volte, nella mia vita sempre in movimento, mi fermo e mi sorprendo a guardare, anzi a contemplare mia moglie. Ecco questo momento di contemplazione, questo incantamento che si ripete, penso sia l’amore. Certo poi l’amore si manifesta in gesti, azioni, dedizione all’altro. Ma il momento più alto è questo attimo di contemplazione che è così forte da fermare anche un danzatore come me; anche Micha si ferma davanti alla contemplazione dell’amore. Questa è l’emozione per eccellenza! E somiglia alle emozioni della giovinezza … Sempre l’amore somiglia alla giovinezza. Bisogna custodire gli entusiasmi, le provocazioni della giovinezza, sono un bene prezioso. Lo scrigno che ci portiamo dietro nel mondo, dove custodire i momenti migliori.» 

«Cos’è la creazione artistica?» 

«La creazione non è un lavoro contemplativo, ma una ricerca complessa e dolorosa. Non bisogna essere superficiali, ogni piccolo passo nell’aria attinge ad un grande bagaglio di esperienza e di lavoro dentro di noi. Siamo il risultato di tanti incontri, di tanti problemi superati, di tante esperienze. Ecco nella creazione di un artista c’è tutto questo. È un cavallo bizzarro da domare. La creazione non è un momento di arrivo ma un continuo lavorio dentro e fuori di noi.» 

«Micha, se lei dovesse descriversi, cosa direbbe di se stesso?» 

Risposta: «Non possiedo nulla, non ho conti in banca, palazzi o Ferrari fiammeggianti. Il teatro è la mia casa. Il mio unico lusso? Lo stretto indispensabile, il denaro necessario … Ma quanti legami forti con le persone, con le donne! Sono ricco di contatti umani. Sono la mia ricchezza. Se dovessi descrivermi, mi dipingerei in un giro di danza libero nell’aria per raccontare la vita!» 

Anna Manna

NOTA: 

Alcune risposte di Micha sono arricchite da affermazioni dell’ artista riportate nel libro di Carmela Piccione. I versi citati sono tratti dalla poesia Parapsicologia di Maria Luisa Spaziani. (Poesie, Oscar Mondadori, Milano, 1996). 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 39-42.




PINO GIACOPELLI, Quando verrà, Edizioni Fotograf, Palermo, 2008.

Quando verrà di Pino Giacopelli, un testo della maturità in cui confluiscono, amalgamate, in misure perfette, istanze poetiche di diversa germinazione e trovano un assetto espressivo efficace e denso. La poesia di Giacopelli ha sempre avuto più anime. Si è mossa in un andirivieni di accensioni che vanno dalle sperimentazioni labirintiche di Sanguineti e Pagliarani, fino alle sperimentazioni di Ezra Pound, ma non si è mai infossata nel gorgo morto che ha affidato ai soli significati il senso primo e ultimo del suo dire. Egli è poeta a tutto tondo, che sa discernere e valutare, riuscire a calibrare forti emozioni con rigore linguistico: «E adesso, come se un obliquo / pensiero avesse attraversato / improvvisamente la mia mente ormai / ròsa da false certezze / voglio capire essere sapere / e, soprattutto, non dimenticare che ogni / vera passione è senza speranza... » Ecco una dichiarazione di poetica: vuole capire, essere, sapere, cioè entrare per la via maestra dentro il senso riposto della vita, e per ottenere ciò non si deve passare dai circuiti consueti, ma cercare ciò che s’addensa dietro le facciate. 

In fondo, è la lezione dilatata di Baudelaire che serpeggia e riannoda Giacopelli ad una stagione felice della poesia, quella simbolista. Comunque, egli non si è adagiato in quel clima, ne ha tratto soltanto indicazioni da sviluppare ed è arrivato agli esiti odierni che sono soltanto suoi. A questo proposito, si leggano Perché tutto ricominci, E questo è il momento, Verso Nord, La leggerezza della parola, Siamo noi il futuro, testi emblematici di un percorso che ha saputo far tesoro della cultura e della vita per trarne il miele del canto fermo e robusto, capace di affrontare i temi più scabrosi, come quello della morte, con la serenità necessaria per guardarla in faccia e sorridere. 

Insomma, la saggezza si è congiunta con le passioni, i desideri si sono coniugati con la serenità e le parole ormai grondano di quelIa vita che occorre perché siano portatrici di messaggi alti, di inviti che travalicano la pura occasione e si fanno testimonianza dell’eternità. 

La poesia di Giacopelli, in altri termini, è consustanziata dalla necessità di squarciare il velo del rrustero e farlo diventare un incontro normale: «Da qui la mia aspirazione all’illimite / che si nutre di sguardi e si abbevera di assenze / in una sorta di tempo dell’anima / che mi riporta a maggio / nel suo fragare di odori sospesi nel!’ aria vuota / senza sconti sulla verità.» Giacopelli è poeta di grande tempra, rara oggi a trovarsi, poeta in pienezza, che sa maneggiare il verso con una perizia davvero invidiabile. 

Dante Maffia

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 65.




GIORGIA STECHER, Album, editrice «Il Vertice», Palermo, 2008.

 Di solito gli album, soprattutto quelli di famiglia, sono ingialliti dal tempo e a sfogliarli emanano odore di stantìo che respinge la curiosità e allontana l’interesse. 

Vi si accumula polvere e vi si abbarbica una patina rugginosa che smaglia le immagini e rende cupi i volti, sfuggenti le espressioni. 

Questo Album di Giorgia Stecher è riuscito a compiere un miracolo, ad annullare il tempo cronologico e ci dà ritratti che non hanno subìto contaminazioni. Pochi, essenziali connotati, qualche volta solo un particolare per focalizzare una persona che poi però è simbolo di un mondo, di un’epoca, di un clima. Forse perché «sono sempre con me! quelli che se ne andarono», come avvisa Giorgia in limine, le figure disegnate dal ricordo e dalla memoria appaiono vivi riflessi della poetessa che evita quasi sempre di raccontare senza ricorrere ad altri. 

Nella sua mente di artista le immagini si sono accumulate e adesso guardano idealizzando e partecipando, addirittura mitizzando taluni particolari che sembrano sfumature e sono invece il nucleo vitale delle esistenze. La zia Angelina che mette sette calze una sull’altra per difendersi dalla magrezza, zio Salvatore che inforca quattro lenti, sono elementi di rituali nei quali si risolveva la giornata, ma la poetessa non esalta e non s’identifica, la sua vita è interamente sua e non è proiettata nel passato e forse per questo il sapore che ne cogliamo è genuino e autentico, privo di finzione e di frustrazione. Per evidenziare ciò Giorgia mette a fuoco degli autoscatti, in modo che la sua vita si stagli nel suo percorso e non interferisca in quella degli avi e comunque delle persone che entrano a far parte dell’album. 

Il «vigile pudore» di cui parla Carmelo Pirrera mi sembra sia il tocco di finezza 

che regge queste poesie che sanno creare forti emozioni senza mai indulgere a false carezze o a momenti di nostalgia e sanno entrare nell’animo con forza e persuasione. Foto di Eufemio (ma anche Altra foto di mia madre) mi sembra compendii il volumetto nei suoi vari aspetti, aspetti che non restano nel loro limite e illuminano, con grande efficacia, anche ciò che sta dietro le cose, dietro l’apparenza delle forme. 

Dante Maffia

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 64-65.




MOMENTO INTIMO

 Io chiudo gli occhi e ascolto 
il silenzio che sa 
parlare all’anima. 
Così 
perdermi nell’ ardesia dei tuoi occhi, 
perdere 
nell’anima tua nuda 
il sogno mio, 
mia unica speranza per un giorno 
felice. 

Macaluso Piera

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 47.




LA MIA ISOLA FELICE 

Là, all’ orizzonte, 
dove il cielo si china e bacia il mare 
e l’azzurro dell’uno si confonde 
col blu dell’altro, 
vele spiegate corrono veloci 
senza una meta: 
vanno là dove le sospinge il vento 
leggere, ma fremendo, 
come il mio cuore quando vola a te.

Macaluso Piera

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 47.




 ALLO SPECCHIO 

Chi sei, 
tu che mi stai di fronte? 
Un viso non più giovane 
senza più l’ornamento dei capelli, 
con occhi spenti tra profonde rughe … 
È questo il segno 
della vecchiezza, il tempo 
spietato, inesorabile, è passato 
graffiando la tua pelle 
e cenere lasciando 
sul fuoco dei tuoi sguardi … 
Chi sei? Perché mi osservi? 
Sì, sono sempre io, ma mi chiedo 
perché ritorno 
a mettermi ogni giorno 
davanti a te, a guardarmi 
come a cercarmi senza ritrovarmi, 
specchio della mia vita? 

Macaluso Piera

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 47.