10 anni di militanza poetica 

I Tizzoniani nella vita e nell’arte (a cura di A. Arcifa), suppl. de «Il Tizzone», Rieti, A. X, n. l, marzo 1989. 

Vorrei mettere tra le mani di tutti quelli che sono interessati alla poesia, non alla paludata poesia dei poeti «laureati» ma alla poesia che scaturisce in mille fonti nel nostro Paese, questa antologia dei collaboratori di «IL TIZZONE» di Rieti, pubblicata nel decennale della Rivista. 

Vorrei vederli a contatto con gli autori che il curatore, Alfio Arcifa, con immensa pazienza e attenzione ci presenta, ad uno ad uno, fornendoci la data di nascita,1’indirizzo e una breve bibliografia: spesso, e opportunamente, le brevi, telegrafiche annotazioni critiche sono tratte dalle stesse autopresentazioni degli autori. 

Il curatore è pienamente consapevole delle difficoltà che oggettivamente scaturiscono nel costruire un volume in cui sono «raggruppati, in rigoroso ordine alfabetico per autore, scritti di vario genere e di varia natura, dalla poesia alla prosa d’arte, dalla novella o racconto al saggio critico, dall’articolo di informazione alla cronaca; ognuno, insomma, che ha voluto figurare in questo volume è presente con qualcosa di proprio…» (dalla Presentazione p. 7). Ed aggiunge, a doveroso chiarimento ed indirizzo del lettore: «Non è nemmeno un’antologia, anche se di questa ha le caratteristiche formali, ma una miscellanea d’idee e di sentimenti, d’impegni e di spirituali intenti, di cose viste e fantasticate, di sogni e di intuizioni, di punti di vista e di osservazioni, di critiche e di scrupolose verità… ». 

Proprio perché «non è nemmeno un’antologia», mi sento di raccomandarne la lettura. La freschezza, la sincerità, le ingenuità a volte di queste autopresentazioni sono disarmanti e coinvolgenti ad un tempo. Le note che introducono i vari autori ci offrono uno spaccato interessantissimo delle scelte di vita di questi scrittori e fanno di questa «antologia. non solo un prezioso luogo di esperienze di lettura ma anche un documento fondamentale per elaborare un primo abbozzo di una indagine sugli «individui poetanti». 

Sono convinto che vale la pena richiamare, per frammenti, questo lampeggiare di critica e autocritica ed esperienze di vita nello scorrere degli autori, dei versi e delle pagine. Vado solo per accenni, lasciando ai lettori del volume di completare, se lor piace, l’opera. 

Le notazioni critiche che introducono ogni autore tendono ad individuare i caratteri essenziali, sottolineando a volte la giovinezza e l’esperienza breve, a volte la lunga militanza nel campo della scrittura e degli interventi culturali. 

Leggiamo così, ad esempio: «è poetessa d’istinto»; «donna di squisita sensibilità e di spontaneo istinto»; «coltiva la passione della poesia»; «coltiva (la poesia) con l’istintiva passione di chi ne è fortemente preso»; «la sua aspirazione deriva da moti e da sensazioni istintuali, da vibrazioni interiori profonde…»; «è poetessa di chiaro, fresco e spontaneo intuito, dalle schiette e suadenti immagini di breve e romantica fattura»; «da qualche tempo è stato preso dal divino fuoco della poesia ed ha cominciato a produrre i suoi spontanei versi». 

Qualcuno è molto più preciso e deciso. Un giovane ventiduenne, nativo di Siena «perito in telecomunicazioni, professa l’arte e fa il pizzaiolo», dice di sé: «…un tentativo impossibile: descrivere attraverso le parole un mondo invisibile, inconcepibile alla mente e quindi intraducibile per mezzo di vocali e consonanti. Esprimere l’inesprimibile. Cercare di fare ciò che non si può fare in nessun modo». 

Qualche altra ci stupisce, con i suoi risultati da Guiness dei primati: «Direttrice di scuola, diplomata in pianoforte… inizia la sua attività nel 1984… in soli 4 anni ha ottenuto ben 280 premi, di cui 30 premi assoluti». Ci gira quasi la testa a pensare a questa media indiavolata di un premio ogni cinque giorni e sette ore, circa. 

Abbiamo anche il «forbito conferenziere e fondatore del dimensionismo» e il «docente universitario specializzato in farmacia industriale» e il «dirigente di una grande Azienda Commerciale Nazionale. per il quale «La poesia è stata il suo amore segreto fin da ragazzo» e il tizio che si interessa di estetica e di oscologia e che pubblica il suo «Decalogo dell’estetica per valori» di cui, tanto per solleticare i palati di chi mi sta leggendo, cito il punto 3: «Per il problema estetico bisogna anche avere una larga conoscenza della problematica della ricerca della fenomenologia della conoscenza storica dell’essere». Non vorrei trascurare la «pluriaccademica», nata nel 1903 e residente a Napoli, che «ha speso tutta una vita per la famiglia, l’insegnamento e la poesia dimostrando di avere spesso doti di equilibrio, di squisita intelligenza e di sentimento in tutti i campi, specie in quelli che le sono particolannente congeniali». 

Un altro aspetto interessante che contribuisce ulteriormente a qualificare questa antologia dei «Tizzoniani» come un valido spaccato degli italici produttori di versi è la dislocazione geografica degli autori: da Palermo a Sondrio, tutta l’Italia è presente a conferma che il lavoro decennale di Alfio Arcifa ha suscitato fiducia e scambi culturali ben al di là dell’ambito regionale, in cui, tra l’altro, egregiamente opera. 

Giovanni Lombardo 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 70-72.




Siciliani alla Corte piemontese nel ‘700,  Don Emanuel di Valguarnera 

 

La signoria di Vittorio Amedeo n in Sicilia, fra il 1713 ed il 1720, rappresenta uno spazio di tempo assai breve rapportato alle secolari vicende del Piemonte e della Sicilia, periodo che da parte degli isolani la propaganda della Corte pontificia, di Spagna e d’Austria ed i commenti di storici non sempre obiettivi hanno fatto considerare del tutto negativo, e da parte dei Piemontesi fu visto come un’ esperienza da dimenticare. Il tempo e gli eventi della storia hanno poi cancellato molte tracce di questo passaggio e non viene quasi mai citato il fatto che furono numerosi i Siciliani che seguirono Vittorio Amedeo II in Piemonte e lì rimasero al servizio dei Savoia per moltissimi anni. Fra i più illustri di costoro Don Emanuel Valguarnera dei principi di Valguarnera, uno dei tre fratelli della famiglia che servirono nell’esercito sabaudo e furono investiti di importanti incarichi dai sovrani piemontesi. 

I Valguarnera, di origine spagnola, erano giunti in Sicilia nel 1282, al seguito di re Pietro d’Aragona, dopo il Vespro, ed erano stati fra i suoi capitani nella guerra contro gli Angiò. Circa un secolo dopo, a questo ramo se ne era aggiunto un altro, venuto al seguito di re Martino I e della regina Maria, costituito dai due fratelli: Simone e Vitale, al quale appartenevano i tre fratelli di cui di Alberico Lo Faso di Serradifalco si è fatto- cenno. Ricoprirono incarichi importanti nell’isola, fra i quali quello di presidente o di vicario generale del regno e di pretore di Palermo; numerosi gli incarichi militari che li portarono a battersi per i re di Spagna per terra e per mare dal XV al XVII secolo. La famiglia, investita nel 1517 della contea di Assoro, nel 1627 ebbe il titolo di principe di Valguarnera e nel 1652 di Gangi. 

Don Emanuel era il terzogenito del principe Giuseppe e di Maria Antonia Gravina dei principi di Gravina, prima di lui erano nati Francesco Saverio e Pietro che furono anch’ essi per molti anni al servizio di Casa Savoia. Nato nel 1695, era stato avviato alla carriera delle armi e, all’ atto della cessione del regno da Filippo V a Vittorio Amedeo II, fu uno dei pochi ufficiali che ebbero il permesso di passare al servizio del nuovo re di Sicilia. Malgrado gli accordi di pace, il sovrano spagnolo non aveva autorizzato la cessione dei reggimenti isolani al nuovo sovrano né sciolto gli ufficiali siciliani dal vincolo di giuramento di fedeltà alla sua persona. 

Nel 1714, durante la sua permanenza a Palermo, Vittorio Amedeo costituì due nuovi reggimenti di fanteria e la compagnia siciliana delle Guardie del Corpo che andava ad affiancarsi alle due esistenti, la savoiarda e la piemontese. Al comando dei reggimenti, che presero il nome dai rispettivi comandanti, furono posti D. Ottavio Gioeni dei duchi d’Angiò e Francesco Saverio principe di Valguarnera. Il principe Giuseppe Alliata di Villafranca assunse il comando della compagnia delle Guardie del Corpo, nella quale entrò col grado di cornetta (sottotenente) Don Emanuel. La formazione di questa unità di élite era un riconoscimento ai nuovi sudditi ed un primo tentativo d’ integrazione fra due realtà, la siciliana e la piemontese. 

Ammettere un consistente numero di appartenenti alla nobiltà, cioè della classe dirigente isolana, a frequentare la Corte e il sovrano costituiva un primo passo in questa direzione. Se gli avvenimenti non consentirono lo sviluppo dell’integrazione a livello dei due popoli, questa azione tuttavia ebbe i suoi effetti a livello personale. Molti di coloro che furono ammessi al reparto, giunti in Piemonte, vi rimasero anche quando la Sicilia fu perduta per i Savoia. Affascinati dalla personalità di Vittorio Amedeo II, riconoscenti per l’interessamento che per loro ebbe Carlo Emanuele III, dimostrarono un profondo attaccamento a Casa Savoia. 

La compagnia delle Guardie del Corpo siciliana aveva il compito della salvaguardia della famiglia reale, in pace e in guerra e nel corso di campagne militari costituì l’ élite della cavalleria. L’ unità, costituita da illustri nomi della nobiltà isolana, passò la sua prima rivista il 9 maggio del 1714 a Palermo, fu alloggiata fuori le mura, vicino al Palazzo Reale, sulla strada per Monreale, e quando nell’ottobre del 1714 il sovrano sabaudo rientrò nei suoi stati di terraferma lo seguì a Torino ed ebbe la sua sede a Venaria Reale. Il giovane Emanuel si fece ben presto notare dal re, che lo prese a ben volere, come i suoi due fratelli: Francesco Saverio, che comandava il reggimento Valguarnera stanziato a Valenza ed Alessandria, e Pietro comandante di una compagnia. 

Il comportamento di gran parte della nobiltà isolana durante l’invasione spagnola del 1718, che al ritorno dei vecchi padroni si schierò con loro, per passare un anno dopo dalla parte degli Austriaci, quando le sorti della guerra volsero a loro favore, irritò profondamente D. Emanuel, che ruppe i contatti con l’isola, nella quale, al contrario dei fratelli, non mise mai più piede. Quando Vittorio Amedeo, a seguito del trattato di Londra, fu costretto a cedere la Sicilia in cambio della Sardegna, liberò dal vincolo di fedeltà i siciliani arruolati nel suo esercito, e forse con sorpresa vide che oltre la metà di essi, coi tre fratelli Valguarnera in testa, chiesero di rimanere al suo servizio. 

Nel 1721 il principe Alliata di Villafranca, comandante delle Guardie siciliane, fu costretto a lasciare Torino; l’imperatore Carlo VI gli aveva imposto di rientrare nell’isola, pena la perdita di tutti i beni feudali. Vittorio Amedeo lo lasciò libero, raccomandandolo al principe Eugenio perché intervenisse in suo favore. In effetti il Villafranca fu ammesso nell’esercito imperiale con lo stesso grado che ricopriva in quello sabaudo. Al comando delle Guardie subentrò il fratello di Emanuel, Francesco Saverio, ed egli fu promosso luogotenente al posto di D. Carlo Requesens dei principi di Pantelleria destinato governatore di Chieri. Recita la patente di nomina: «Non sento minore la stima che facciamo delle doti singolari che spiccano nella persona di D. Emanuel Valguarnera, già cornetta della terza Compagnia delle nostre Guardie del Corpo, di quel che sia il desiderio ch’abbiamo di fargliene risentire gli effetti siamo determinati di promuoverlo al carico di luogotenente della d.a Compagnia, vacante per la promozione del Cavag.re Requescens ad altro impiego. […] Dat’ in Torino li dieci nove marzo, l’anno del Sig.re mille sette cento vent’uno e del n.ro Regno 1’ottavo. Vittorio Amedeo.» 

Seguirono, nelle vicende del Piemonte settecentesco, alcuni anni di pace, durante i quali D. Emanuel ebbe 1’occasione di assumere più volte il comando della compagnia per le frequenti assenze del fratello Francesco Saverio, lasciato libero di andare in Sicilia per curare i propri feudi. 

Nel marzo del 1732, a seguito dell’abdicazione di Vittorio Amedeo II, vi furono nel governo piemontese numerosi cambiamenti; il più vistoso fu quello del marchese d’Ormea, divenuto primo segretario agli affari esteri, di fatto primo ministro; fra quelli di minor rilievo furono interessati ai mutamenti d’incarico anche il principe di Valguarnera e suo fratello Emanuel. A proposito di quest’ultimo, recitava la patente del sovrano: « … La lunga servitù, che con tutta 

distinzione di zelo ed attentione ci presta il Cavagliere D. Emanuel Valguarnera della terza Compagnia delle nostre Guardie del Corpo, e la stima singolare che facciamo delle commendabili qualità che in lui concorrono pienamente corrispondono alla nobiltà de suoi natali invitandoci a farli vieppiù sentire gli effetti della nostra propensione ai suoi vantaggi, ci siamo compiaciuti di destinarlo al carico di capitano della sud.a Compagnia delle nostre Guardie del Corpo in vece del Prencipe Valguarnera passato ad altro impiego … Dat’ in Torino li ondeci di marzo, l’anno del Sig.re 1732 e del Regno nostro il terzo. C. Emanuele.» 

Francesco Saverio aveva lasciato il comando delle Guardie del Corpo per passare a comandare la Guardia Svizzera, col grado di generale. Non era mai accaduto un fatto simile, ma era una straordinaria dimostrazione di stima di Carlo Emanuele III. Val la pena di ricordare che delle Guardie del Corpo facevano parte personaggi scelti fra la più alta aristocrazia degli Stati sabaudi, quindi il riconoscimento dato a lui e agli altri ufficiali, tutti siciliani, era segno dell’ alta considerazione del sovrano. 

L’anno successivo scoppiava la guerra di successione di Polonia. Prima di partire da Torino per raggiungere l’esercito che si stava concentrando, unitamente alle truppe francesi, fra Vercelli e Mortara, Carlo Emanuele III promosse D. Emanuel al grado di brigadiere. Recita la patente: «Per dare al Cavagliere D. Emanuel Valguarnera [ … ] un positivo contrasegno della grata memoria che conserviamo degli assidui e fedeli serviggi quali con tutto zelo ci ha il med.o fin ora prestati, ci siamo con piacere disposti a promoverlo al carico di Brigadiere di Cavalleria nelle nostre Armate … Dat’in Torino, li 21 del mese di ottobre, l’anno del Sig.re 1733 e del Regno nostro il quarto. Carlo Emanuele.» 

Il Valguarnera prese parte al conflitto al seguito del sovrano, era con lui nel maggio ’34 in occasione dell’imboscata austriaca alla Martinara, quando il reggimento delle Guardie fuggì e Carlo Emanuele III e pochi audaci si aprirono la strada combattendo; così pure il 14 settembre all’attacco austriaco sulla Secchia, quando i franco-sardi ripiegarono su Guastalla, e il 19 novembre alla omonima battaglia. Sul finire della guerra, venne promosso maresciallo di campo. Testimonianza della stima del sovrano sono le parole con cui gli fu conferito l’avanzamento di grado: «Tutto che dai raguardevoli impieghi di capitano della terza Compagnia delle nostre Guardie del Corpo, e di brigadiere di Cavalleria nella n.ra armata, co quali abbiamo in ultimo luogo decorato il Cavall.e D. Emànuel Valguarnera siasi resa assai palese la stima che facciamo della sua persona, [ … ] abbiamo determinato di promoverlo al carico di maresciallo di Campo di Cavalleria nella n.ra armata … Dat’ in Torino, li quatro del mese di marzo, l’anno del Sig.re 1735, e del n.ro Regno il Sesto. C. Emanuele.» 

Nel successivo novembre si ebbe la fine delle ostilità, con la pace di Vienna e l’acquisto per il Regno di Sardegna del Novarese e del Tortonese, poca cosa, tenuto conto che Carlo Emanuele teneva con le armi tutto il ducato di Milano. 

Ripresa la vita di Corte dopo la parentesi guerresca, il 17 marzo 1737, D. Emanuel fu creato Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, e due giorni dopo suo fratello, il principe Francesco Saverio, Cavaliere dell’Ordine della SS. Annunziata. A maggior riconoscimento della stima del re, Emanuel, poco più di un mese dopo, era promosso luogotenente generale: « … Abbiamo motivi così giusti di sempre ramostrare al Cav. re Gran Croce dell’Ordine nostro Militare de SS.ti Maurizio e Lazaro D. Emanuel Valguarnera, [ … ] quanto ci sono grati li serviggi che da lungo tempo ci presta sempre con egual zelo, [ … ] che non potiamo fare a meno di fargliene in queste congiunture sentire gli effetti nel promoverlo al carico di Luogoten.e G.le di Cavalleria in dette nostre armate … Dat’ in Torino li 22 Ap.le 1’anno del Sig.re 1737 e del n.ro Regno l’ottavo. C. Emanuele.» 

Nell’ottobre del 1739 fu nominato ambasciatore presso la Corte di Madrid. Nelle Memorie Istoriche del Regno di Carlo Emanuele terzo Duca di Savoia e primo di questo nome Re di Sardegna, dall’anno 1730 sino al 1751, si trova scritto: «1739, ottobre. Addì quindici del medesimo mese fu nominato da S.M. per ambasciad.e alla Corte di Madrid D. Emanuele Valguarnera, capitano delle Guardie siciliane del Corpo, di nazione parimenti siciliano, cavaliere per la nobiltà de’ suoi tratti, e per l’aggiustatezza in tutte le sue operazioni universalmente da ogni genere di persone stimato oltre ogni credere, ed amato.» 

Ricevuta la notizia, si portò, secondo il cerimoniale, nel Gabinetto del re per il bacio della mano, ma prestò giuramento per il nuovo incarico solo il 10 marzo del 1740. La funzione di ambasciatore non comportava la cessazione dalle funzioni di capitano delle Guardie del Corpo, così, pur lasciando il Piemonte, rimase comandante della 3a Compagnia. 

Nella capitale spagnola rimase sino allo scoppio della guerra di successione d’Austria, che vide ancora una volta contrapposte Spagna e Francia ad Austria e Sardegna. Non fu una missione facile: all’insorgere del problema, Francia e Prussia si erano schierate contro la figlia di Carlo VI, dichiarando di non accettare la Prammatica Sanzione. Dopo le vittorie prussiane in Slesia anche la Spagna si era schierata con loro, sperando di riacquistare terre in Italia. La politica di Carlo Emanuele III era invece orientata a favore di Maria Teresa d’Austria. Un’ulteriore espansione dei Borboni di Francia o di Spagna nella penisola avrebbe stretto il Regno di Sardegna in una morsa pericolosa. Così la missione del Valguarnera si svolse fra molte difficoltà ed ebbe termine, dopo meno di due anni, quando ricevette la lettera del 13 marzo 1742 con cui il re lo informava di aver ordinato all’ambasciatore di Filippo V di lasciare Torino. 

Del suo rientro in Piemonte si trova scritto nel Cerimoniale Salmatoris: «1 luglio 1742 … Giunse pure di ritorno da Madrid Dn Emanuel Valguarnera siciliano, ove fece soggiorno in qualità di ambasciatore del n.ro Sovrano presso il Re Cattolico delle Spagne.» Comunicato il suo arrivo, ricevette da Carlo Emanuele III una lettera in data 7 luglio’ 42 che recita: «Riceviamo con singolare piacere la notizia del vostro arrivo in Torino pervenutaci colla vostra lettera del 1° corrente, e nell’accertarvi di quello che ci faremo altresì nel rivedervi in circostanze opportune, e di darvi sempre più a conoscere il perfetto nostro gradimento del zelo che ci avete manifestato nel corso della vostra ambasciata, vi rinnoviamo intanto le disposizioni in cui siamo di darvi prove ulteriori della speciale nostra protezione e preghiamo che Iddio Vi conservi.» 

Nell’agosto di quell’anno l’infante Don Filippo, cui i francesi avevano lasciato libero passaggio, invase la Savoia e il sovrano sabaudo rientrò a Torino ove l’ attendeva il Valguarnera, che lo seguì, nella temporanea riconquista del ducato. Carlo Emanuele III però, nel dicembre di quello stesso anno, fu nuovamente costretto a sgomberare i territori d’oltralpe, sia per l’assottigliarsi del suo esercito a causa delle diserzioni e delle malattie, sia per la mancanza di fortificazioni e di accantonamenti per le sue truppe nel periodo invernale. Non è questa la sede per far la storia del nuovo conflitto; ci limitiamo agli episodi cui partecipò il Valguarnera. 

Nei primi giorni dell’ ottobre del 1743, i gallo-ispani superavano le Alpi in 

corrispondenza della Val Varaita, gli spagnoli passando per il colle dell’ Agnello ed i francesi per quello di S. Verano, e con 30 mila uomini giungevano a Chianale. Ad essi si contrapponeva, schierato a Bellino, il marchese d’Aix con 8 battaglioni di fanteria, sostenuto, nella zona di Verzuolo, dalla cavalleria piemontese al comando del conte della Manta. L’8 ottobre, gli spagnoli, dopo essersi impossessati del villaggio di Ponto, attaccarono Bellino, da dove, dopo due giorni di lotta, vennero respinti. La loro ritirata si trasformò, per le condizioni del tempo, in rotta. Carlo Emanuele, volendo rendersi conto della situazione, il 10 novembre partì in ricognizione da Torino. Recita il Cerimoniale Salmatoris: «Parte da questa città sulle sette ore di Francia di questa mattina in sedia di posta la M.S. con S.A.R. per andare a visitare le piazze di Demonte e Cuneo, oltre altre quattro sedie pure di posta al seguito, sedendo nella prima il Re, ed il Duca di Savoia; nella seconda il Principe di Carignano col Marchese di Breglio aio di S.A.R.; nella terza Dn Manuel Valguarnera capitano delle Guardie del Corpo col Marchese Cassinis primo scudiere di S.M.; nella quarta il Cavaliere Solaro sotto-governatore di S.A.R. col Conte Provana di Leinj suo scudiere e finalmente nella quinta ed ultima il generale Hinder Alemano, e destinato dalla Regina d’Ongara per aiutante di Campo appo S.M, con uno dei scudieri di S.A.R.» 

Più volte il Valguarnera accompagnò il sovrano in ricognizioni nello scorcio di quel 1743 e l’anno successivo, a Susa, al forte dell’Exilles e a Casteldelfino. Nel luglio del 1744, i gallo-ispani, lasciata la contea di Nizza, penetrarono in Piemonte dalla valle di Stura e nell’agosto, presa la fortezza di Demonte, ponevano l’assedio a Cuneo. Per contrastarli e liberare la città, Carlo Emanuele si portò con le sue truppe nel Saluzzese e nel Saviglianese. Con lui le Guardie del Corpo e il Valguarnera. 

Il 30 agosto, il sovrano sabaudo attaccò gli avversari nei pressi di Cuneo, alla Madonna dell’Olmo. Fu un combattimento aspro, in cui i fanti piemontesi diedero più volte l’assalto ai trinceramenti franco-spagnoli, non riuscendo però a superarli. Carlo Emanuele si batté come un soldato in mezzo ai suoi, cercando, senza successo, di trascinarli alla vittoria. Accanto a lui il nostro che, per il comportamento tenuto in battaglia, venne promosso al grado superiore. Recita la patente di nomina: « … Quei sentimenti di stima e propensione che a favore del Cavaliere [ … ] D. Emanuel Valguarnera, [ … ] si sono a tal segno accresciuti per le continuate prove che in appresso ci ha date della singolare sua attenzione, e vivissimo zelo pendente massime l’or scorsa campagna, in cui lo abbiamo avuto a noi vicino ne’ cimenti a’ quali presenti ci trovammo agl’attachi de Trinceramenti della Madonna dell’Olmo, che ci sentiamo portati a maggiormente distinguerlo cogli atti della singolare nostra beneficienza elevandolo al carico di G.nle di Cavalleria nelle nostre armate … Dat’in Torino li 8 del mese di maggio anno del Signore 1745 e del nostro Regno il decimo sesto. C. Emanuele.» Si trattava del massimo grado militare nell’esercito del re di Sardegna. 

Il 24 agosto 1748 fu nominato Viceré di Sardegna, in sostituzione del marchese di Santa Giulia. La patente del sovrano, gli riconosceva alti meriti personali: « … Uomo illustre e famoso, non meno ammirabile per stile di vita che per la fama e la generale estimazione, che dotato dalla natura di raro ingegno e doti eccelse conformi alla nobilità dei tuoi natali, mostrasti sempre tanta prudenza, forza e saggezza, equità e perizia in tutte le cose» e seguitava ricordando come fosse asceso ai più alti gradi militari e diplomatici. Prestò giuramento nella cattedrale di Cagliari il 27 di settembre e il giorno dopo ricevette i maggiorenti dell’isola. Recita il racconto dell’avvenimento: «1. Trovandosi S.E. nella stanza detta del 

Carteggio in piedi vicino al baldacchino con il capitano e il tenente della Guardia, viene il Sig.e generale con l’ officiali, et entrando in detta stanza, S.E. senza dar nessun passo, si avvicina d.o S.r generale a S.E. facendoli riverenza fà doppo in piedi il suo complimento, e ringratiando S.E. a d.o S.e Generale trattenendosi un poco doppo li licenzia, restan così d.o generale et officiali nelle stanze innanzi a quella del Carteggio sino a tanto che S.E. havrà ricevuto altri complimenti. – 2. Viene appresso il R Consiglio facendosi trovare S.E. in detta Camera del Carteggio innanti la sua sedia in piedi, et entrando detto Re Consiglio S.E. senza dar nessun passo, si avvicina il Sig.e regente doppo haverli fatto riverenza, S.E. si siede et al medemo tempo fa segno a detto Re Consiglio di sedersi e d.a E.S. si mette il cappello e fa segno a d.o Re Consiglio di mettersi il cappello, incomincia il S.r Regente il complimento e finito il complimento S.E. lo ringratia e li licenzia subito con alzarsi. – 3. Vengono doppo due cavalieri per parte del Estamento Militare, alli quali si ricevono della medema maniera come d.o Re Consiglio e con l’istessa cerimonia. – 4. Segue la Città e se le fa la medema cerimonia. – 5. Viene il Magistrato degli Studi. – 6. Manda il Capitolo della Chiesa Maggiore di Cagliari due canonici, e se li fa la medema cerimonia. – 7. Viene il giudice delle Contenzioni e se li fa il medemo. – 8. Vengono gli amministratori e se li fa il medemo. – 9. Alla fine viene l’Arcivescovo di Cagliari con zocchetto, il quale è ricevuto da S.E. alla metà della prima stanza vicina a quella del Carteggio e prendendo S.E. la dritta entrando pure prima vanno a sedersi, sedendo S.E. dalla parte della muraglia vicino un tavolino con suo tappeto sopra il quale vi sarà una campanella et in faccia di d.o Sig. vicerè si siede detto arcivescovo restando ad arbitrio di S.E. di mettersi il cappello, e facendo d.o arcivescovo suo complimento S.E. lo ringrazia, e trattenendosi alquanto, S.E. lo licenzia e prendendo S.E. la dritta lo accompagna sino alla metà del salone, si salutano e S.E. vi resta sino intanto che detto arcivescovo è vicino alla porta di detto salone si volta e si salutano un’altra volta. L’istesso si fa con l’arcivescovo di Oristano et il vescovo di Ales e tutti li altri vescovi.» 

La nomina fu molto apprezzata dai sardi. Il fatto di essere siciliano, isolano anch’egli, e secoli di comune dominio spagnolo gli facevano comprendere mentalità, usi, costumi e problemi locali, fra questi, quello del banditismo, che combatté con vigore. A questo proposito mette conto riportare alcuni suoi dispacci al S.t Laurent, ministro degli interni, che consentono di valutare l’azione svolta e le condizioni dell’isola. 

«Cagliari, 30 ottobre 1748 … Quanto ai banditi [ … ] il numero d’essi va giornalmente aumentando in maniera che presentemente si computa, […] a 300 uomini poco più o meno, quali non è facile poter superare sin dall’arrivo di rinforzo di truppe che S.M. si è degnata di farmi sperare unitamente a felucconi o galeotte per investirgli anche per mare e toglier loro in tal modo la comunicazione colla Corsica.» 

«Cagliari, 13 dicembre 1748 … In ordine ai mezzi suggeriti nelle mie istruzioni per la più facile estirpazione de’ banditi mi occorre dire all’E.V. ciò che si va praticando, specialmente quello di concedersi la grazia a coloro che dessero nelle mani della giustizia alcun altro di più grave, o ugual delitto, sendo stati per quest’effetto pubblicati alcuni pregoni [ … ], per tentare sempre più vivamente l’estirpazione, massimamente col mezzo di tre bastimenti, che ho fatto provisionalmente, e frattanto che mi giungeranno quelli, che stò aspettando da terraferma, armar in corsa per costeggiar le spiagge della Gallura, affine d’intersecare il passo e il rifugio in Corsica.» 

«Cagliari, 26 marzo 1749 … Quanto all’oggetto che ho avuto l’onore di trasmettere alla Corte concernente la persecuzione de’ banditi, lo stato deplorabile in cui si trovava il Regno, non avendo potuto soffrire maggior delazione per aspettar le provvidenze, che si credeano necessarie, m’ha fatto risolvere di mandarle all’esecuzione anche prima d’averne rapportata l’approvazione di S.M. Dal qui unito proseguimento di relazione, che ho continuato ad esporre al Sig. Conte Reg.te De Castellamont, l’E.V. si compiacerà d’osservare i progressi, che si sonI) fatti in vantaggio della publica tranquillità, che si può dire presentemente quasi ristabilita, restando sicure le strade, e tutto il Paese, sebbene non ancora interamente purgato, libero per altro dall’infestazione de’ malviventi. Un tal cambiamento dovendo in gran parte attribuirsi non meno ai zelanti, e savj suggerimenti di d.o Sig. Conte di Castellamont e degl’altri Ministri de’ quali mi valgo, che dell’indefessa attenzione, e costante vigilanza de commissari Valentino e Dettori, non voglio omettere di rendere a tutti quella giustizia che gli è dovuta avendo intanto già prima d’ora notificato a quest’ultimi il permesso accordato dalla M.S. di pagaresi dalla Regia Casa le spese, che potranno occorrere in dipendenza della loro commessione, affine di magiormente impegnarli» (lettera che gli rende onore per la volontà di dare il giusto merito ai dipendenti). 

«Cagliari, 31 ottobre 1749 [ … ] ed essendo per inteso, che alcuno de’ questi mercanti, o cavalieri moderni aspirino all’attuale di lui impiego di tesoriere generale, che con venir egli provveduto di qualche nuovo posto che si renderebbe vacante, e che per conseguirlo abbiano in idea di fare qualche offerta alla regie finanze, non crederei in alcun modo conveniente al Real Servizio che quello cadesse in favore di essi, sendo che una tal scelta non sarebbe applaudita dalla nobiltà, la quale, avendo per l’addietro veduto sempre detta carica esercitata da Cavalieri di sfera, la vedrebbe ora con molto rincrescimento passare in persone di condizione inferiore massimamente in circostanza d’essere già stati soppressi alcuni impieghi del Regno, che soleano conferirsi a soggetti di qualità, onde, qualora venisse ancor questo ad occuparsi da altri di nascita non distinta, vi è tutta l’apparenza che non riporterebbe la solita universal soddisfazione. Questo è il mio debole sentimento, ed anzi se V.E. mi permette di parlarle confidentemente, sarei pur del parere che S.M. in occasione del matrimonio di S.A.R. si degnasse tenere presenti alcuni di questi Cavalieri per qualche piazza di Gentiluomo di Camera …» 

Quest’ultima lettera mostra la sua sensibilità nei confronti della nobiltà isolana e la necessità di unirla in modo più stretto alla Casa regnante, cogliendo l’occasione delle nozze del futuro Vittorio Amedeo III con l’Infanta di Spagna. Il sovrano fu sensibile alla richiesta del Valguarnera e a dimostrazione della fiducia che riponeva in lui, gli inviò quattro viglietti di nomina a Gentiluomo di Camera, firmati in bianco, affinché scegliesse egli stesso le persone. I quattro prescelti, due del Capo di Cagliari e due di Sassari, furono don Ignazio Zatrillas marchese di Villaclara, don Lorenzo Zapata barone di Las Plasas, don Pietro Amat barone di Sorso e Stefano Manca marchese di Tiesi. Fu ignorato invece dalla Corte l’altro elemento segnalato, l’opportunità di lasciare ai Sardi gli incarichi nell’isola, fonte primaria del loro sostentamento. Già vedeva il Valguarnera i mali che sarebbero potuti sorgere da una politica che non tenesse conto di questa aspirazione degli isolani, e che esplosero quarant’anni dopo, con la cacciata dei Piemontesi dalla Sardegna, la quale pur dichiarando la propria fedeltà al re non voleva più accettare funzionari piemontesi o savoiardi. 

Nel corso del suo mandato ottenne 4 posti per giovani studenti sardi nell’Istituto delle Province di Torino e riuscì, pel tramite del carlofortino don Giuseppe Porcile, a concludere col Bey di Tunisi le trattative per la liberazione di 230 tabarchini coi quali incrementò la popolazione di Carloforte; fece costruire il Conservatorio della Provvidenza, destinato ad accogliere le fanciulle orfane o povere, che fu poi aperto dal suo successore, il conte Cacherano di Bricherasio. Per la sua opera, Carlo Emanuele III, il 23 maggio del 1750, lo nominò Cavaliere della SS.ma Annunziata. 

Al termine del suo mandato, malgrado i Sardi avessero chiesto la sua conferma (non era mai accaduto prima), tornò a Torino, dove fu chiamato a ricoprire un’altra importante carica: « … Ora poi ch’egli ha così ben corrisposto alla nostra aspettazione nell’esercizio di detta carica, da cui lo abbiamo richiamato per averlo più vicino alla nostra persona, ci siamo determinati di dargli un ben autentico e pubblico contrassegno della singolare stima, e confidenza, che di lui abbiamo, con elevarlo all’onorevolissimo impiego di nostro Gran Ciamberlano. [ … ] Dal’ in Torino li 20 9mbre 1751 e del n.ro Regno il 22. C. Emanuele. » 

A dimostrazione della stima che lo circondava basta citare quanto scrisse al ministro degli esteri, appresa la notizia, il conte Solaro di Monasterolo, gentiluomo di Camera, in quel momento ambasciatore alla Corte di Napoli: «Godo che S.M. abbia rimunerato il merito del Sig.r D. Emanuel Valguarnera coll’averlo destinato a capo del nostro Corpo, in prova di che ne avanzo con l’annesso foglio al detto Signore le sincere mie congratulazioni.» 

Il 27 novembre, alla presenza del re, giurò fedeltà nel nuovo incarico nelle mani del notaio della Corona e ministro degli Interni, il conte Vittorio Amedeo di S.t Laurent, avendo come testimoni il commendatore di Cumiana e il conte Giuseppe Agostino Solaro di Moretta. 

Nel 1752 fu deputato dal re all’ispezione dei feudi del principe D. Giovanni Andrea Doria Landi e all’esercizio dell ‘ autorità e della giurisdizione previste dalle leggi emanate dal Senato di Milano. Si trattava del feudo di Grumiasco e sue pertinenze, già affrancato ed appartenente allo Stato di Milano, passato al Piemonte a seguito del trattato di pace del 1748. Quando il principe Doria venne Torino per rendere omaggio a Carlo Emanuele III, fu lo stesso Valguarnera che lo introdusse dal sovrano e fu testimone del suo giuramento. 

La vita di Corte era scandita da una serie di cerimonie cui si aggiungevano quelle per solennizzare eventi lieti o tristi, nascite o morti, o l’arrivo di ambasciatori e di principi stranieri, la concessione di cappelli cardinalizi, i giuramenti di fedeltà di feudatari … 

Fra le cerimonie cui si riservava una scenografia spettacolare era il «funeral teatro», di moda all’epoca, come la messa d’anniversario della morte di Vittorio Amedeo II. La descrizione che ne fa il cav. di Piozzo, mastro del Cerimoniale, ci restituisce un’immagine straordinaria di un mondo scomparso: «In questa mattina si celebrò il funerale di re Vittorio Amedeo di sempre gloriosa memoria, per la quale la sera precedente suonarono tutte le campane di questa capitale, dopo però il segno della Cattedrale per tale effetto. Furono tapezzate di nero tutte le colonne della chiesa di S. Gioanni prospicienti la nave di mezzo, e ad ogni colonna fu appeso un torchiere con torchie accese, come pure ai due fianchi della gran porta, interiormente. Fu eretto al solito posto un trono, un baldacchino, il tutto coperto di nero ed esso trono elevato di tre gradini. Accanto al trono, e sulla parte destra, cioè quella che guarda verso la porta stava il banco dei Cavalieri dell’Ordine, coperto di nero con uno strato e coscini pur neri. Trovavasi eretta in mezzo al 

marchiapiede la tomba d’altezza di circa un trabucco in quadro, con due ordini di lumi, al primo de’ quali, prendendo di basso in alto giravano trenta quattro torchie tutte con armi intiere a fondo nero della Casa Reale; il secondo decorato solamente dalle due parti con sei candelieri e candele senz’armi. Era la tomba coperta da una gran coltre di velluto nero con croce di tela d’argento in mezzo, un Crocifisso guardante il gran portale della chiesa, ed ai piedi d’essa tomba dalla stessa parte un gran cascina su cui posava la spada colla corona reale, il tutto coperto di velluto nero. Si trovarono per assistere a tale funzione in detta chiesa a posti le Guardie del Corpo, colle timballe della seconda Compagnia e trombetti, divise in due circoli colle aguglie rivoltate, cioè quello dietro il trono formato dalle Guardie della prima compagnia, e l’altro da quelle della seconda e terza. Le Guardie Svizzere colle loro alabarde rivoltate erano postate parte vicino alla ferrata dalla parte della sacrestia, ed altra parte tra li due archi vicino al pulpito. Quelle della Porta colle armi, o sia carabine, pure rivoltate stavano in due file nella nave di mezzo sino vicino al primo marchiapiede. Un battaglione del Reggimento delle Guardie trovassi schierato sulla piazza di detta cattedrale parimenti stando colle armi rivoltate, e suonando la marchia lugubre. Giunta l’ora stabilita per la funzione, concertata prima da me col Sig. cardinale arcivescovo, che fu alle ore dieci e mezzo di Francia, e nel mentre che esso cardinale usciva dalla sacrestia, io mi posi alla testa dei Signori Cavalieri dell’ Ordine, che già trovavansi radunati in numero di cinque nella tribuna, cioè S.E. Sig. Don Emanuele Valguarnera, Sig. Cavaliere Solaro, Sig. Cavaliere di Barolo, Sig. Conte della Rocha, e il Sig. Conte di Genolla, i quali s’incamminarono secondo la loro anzianità [ … ] e nell’entrare i Signori Cavalieri sopradetti in S. Gioanni suonarono le trombe, e timballe delle Guardie del Corpo alla sordina, e camminando per la nave dietro il trono s’entrò in quella di mezzo dal secondo arco dalla parte di detto trono, e giunti essi cavalieri sul marchiapiede, e vicino al loro banco si fece un grande inchino all’altare indi un altro al trono, dopo il quale prese ogn’uno il suo posto … Il Sig. Cavaliere di Revello capitano della Seconda Compagnia delle Guardie del Corpo trovavasi al suo posto, cioè dietro il trono dalla parte destra, e similmente gli altri ufficiali a baston nero stavano ai loro posti. Gli Elemosinieri trovavansi parimente a loro posto cioè dalla parte sinistra del trono vicino all’ Altar Maggiore. Si cantò la Messa grande coi musici della Regia Cappella, qual fu celebrata dall’abate di S. Sebastiano prevosto della Cattedrale.» 

Cerimonie altrettanto piene di fascino e di religiosità, che videro fra i partecipanti il Valguanera, quale Gran Ciambellano, furono quelle del Giovedì Santo, colla lavanda dei piedi da parte del sovrano e del Sabato Santo. 

Il Valguarnera non fu solo militare, diplomatico e funzionario di Corte, ma anche uomo caritatevole, dimostrò il suo attaccamento alla città che aveva fatto sua, divenendo Protettore del Regio Educatorio della Provvidenza di Torino (pio ente per il ricovero e l’istruzione delle fanciulle povere) e consigliere della R. Arciconfraternita dei Santi Maurizio e Lazzaro. 

Continuò a ricoprire l’incarico a Corte sino alla morte, avvenuta a Torino nella notte fra il 14 e il 15 gennaio del 1770, nel quartiere del palazzo della contessa di Orbassano. Chiese che il suo corpo riposasse sotto il pavimento della Cappella di Santa Rosalia «sua particolar Benefattrice» nella chiesa di San Dalmazzo a Torino. La piccola lapide con inciso «Don Emanuel Valguarnera. Orate pro me», dopo i restauri del 1920 non esiste più. A questa chiesa lasciò una reliquia della santa palermitana perché fosse esposta ogni anno in occasione della sua festa. 

Secondo il costume del tempo, dispose che il suo corpo fosse accompagnato alla sepoltura da 100 poveri dell’Ospizio della Carità, a ciascuno dei quali doveva essere dato uno scudo ed una candela, che in suffragio della sua anima fossero celebrate 600 messe dai religiosi dei cosiddetti Ordini Mendicanti, cioè nelle chiese di S. Lorenzo, della Madonna degli Angeli, di S. Carlo, di S. Michele, di S. Tommaso e di S. Dalmazzo. 

Alla notizia della sua morte, scrisse il marchese di Villabianca, nei Diari della Città di Palermo: «A 10 febraro 1770, sabato. Si è aperto lutto in casa di Pietro Valguarnera, principe di Valguarnera e conte di Assoro, per la morte del fu ornatissimo conte D. Emmanuello Valguarnera e Gravina, di lui fratello germano, seguita nella real Corte di Torino, in età di anni 81, da quando era stato questo signore viceré di Sardegna, decorato della Santissima Annunziata di Savoja e de’ primi posti nella corte del re di Sardegna, come di suo gran ciamberlano ecc. Fece egli molto onore alla nazione siciliana; fu ornamento della città di Palermo, e fu l’esemplare di ogni virtù, sì cristiana, che militare e politica: onde stimato videsi assaissimo da quel sovrano Carlo Emanuele, re di Sardegna, che più volte gli diede il titolo di padre.» Di lui non resta oggi più nulla a Torino. Nemmeno lo stemma di famiglia nel palazzo, che fu dei marchesi Argentero di Bersezio e Osasco, poi dei Perrone di San Martino e infine della Cassa di Risparmio di Torino. 

Alberico Lo Faso di Serradifalco

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 20-30.




STANlSLAO MINUTO E MARINA DI NOVO, La chiesa madre di Sciara. Un segno della memoria e il simbolo di una identità controversa. Premessa di Raimondo Piazza, «Prisma», Ila Palma, Palermo, 2008.

La chiesa madre di Sciara, redatto da Stanislao Minuto e Marina Di Novo, racchiude in ampia sintesi la sofferta storia della chiesa di Sant’ Anna, a Sciara. Il testo è un omaggio fatto ai suoi abitanti in seguito alla riapertura della chiesa madre. Evento accolto con immensa gioia da parte degli abitanti del paese che, ormai da troppi anni, erano rimasti privi di un luogo dove potersi riunire per pregare. La chiesa, realizzata nel 1681, fu chiusa dopo solo 61 anni perché ritenuta pericolosa per i fedeli; fu demolita e ricostruita dall’ingegnere Lo Bianco ed inaugurata nuovamente nel 1934. Ancora nel 1970 venne vietato l’ingresso perché inagibile e solamente nel maggio 2008 la chiesa madre di Sciara è stata riaperta al culto ed ai suoi fedeli. La chiesa è a croce latina con tre navate, quella centrale è più ampia; ha il presbiterio e due cappelle esagonali. All’esterno si trovano due torri che conferiscono all’edificio un’ aurea medievaleggiante. Tutta la decorazione, interna ed esterna, è molto sobria. 

In poche pagine gli autori riescono a far patire, al lettore, le pene sofferte dagli abitanti di Sciara, privati per anni della loro chiesa e, alla fine, riesce ugualmente a farlo gioire per la sua riapertura. È un testo che unisce magistralmente architettura e vita sociale, svelando la storia di Sciara tramite quella della sua chiesa. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 60.




ROSANNA MARSALA, Popolarismo e costituzionalismo in Filippo Meda. Lettere a Giuseppe Toniolo, 1890-1917, collana «Quadrante», Ila Palma, Palermo, 2007.

Un protagonista del pensiero democratico e cristiano 

Filippo Meda (1869-1939), personaggio politico nell’Italia di fine Ottocento e del primo Novecento, fu colui che senti l’esigenza di un chiaro inserimento dei cattolici nella vita politica dello Stato. Pur riconoscendo la necessità di restare fedele alle indicazioni di Santa Madre Chiesa, ritenne indispensabile l’accettazione dei valori dello Stato moderno e delle istituzioni rappresentative della società. Per Meda, definito a ragione «il più politico dei giovani democratici cristiani», era di primaria importanza creare una coscienza costituzionale che preparasse i cattolici alla partecipazione alle elezioni politiche in Italia. 

Nel tentativo di dare un ruolo allaicato cattolico, si scontrerà con la posizione prevalente, in quel momento, all’interno della maggiore organizzazione nazionale del XIX secolo, l’Opera dei congressi. Ma il suo punto di riferimento sarà sempre Giuseppe Tornolo (1845-1918), altro personaggio primario e fondamentale del movimento cristiano-democratico, del quale Meda condivise in gran parte le teorie politiche e al quale si rivolgeva frequentemente per avere consigli e sostegno. 

Il travaglio interiore sofferto da Meda è attestato dal rapporto epistolare che egli intrattenne con Toniolo per quasi un trentennio. Al di là di ogni possibile giudizio, a Meda si deve riconoscere il merito di avere svolto un’importante funzione storica: aver condotto il movimento cattolico da partito astensionista a partito cattolico costituzionale. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 55.




GIULIA ADRIANA PENNISI, All-inclusiveness in Legal Language, Cross-Cultural Perspectives in Specialized Discourse, Ila Palma – Athena, Palermo, 2008.

È un approfondito studio sui recenti cambiamenti avvenuti nell’analisi del linguaggio, diviso in due sezioni in quanto l’autrice, esplora inizialmente il rapporto generale tra linguaggio e contesto, per sviscerare lo studio di un linguaggio legale specializzato in questioni di diritto comparato. La prima sezione è dedicata alla teoria e ai metodi di analisi del linguaggio, basandosi sull’idea che qualunque approccio allo studio non possa essere condotto al livello meramente grammaticale, ma che debba tener conto anche del contesto sociale e del background istituzionale. Importanti correlazioni si scoprono, infatti, sull’organizzazione ed interpretazione di un testo quando si studia il retroscena socioculturale e psico-cognitivo. 

La seconda parte approfondisce il discourse specifico e analizza il rapporto esistente tra il linguaggio legale, la cultura ed il contesto legale. Esemplificativo è il paragrafo che compara, in maniera volutamente semplificata, alcuni termini ed il relativo significato nellinguaggio della common law e della civii law: ad esempio contractlcontratto. 

Il libro, strutturato in maniera semplice, permette, anche a chi non è del mestiere, di capire i progressi avvenuti nello studio del rapporto tra linguaggio e contesto nel discorso legale. Illustra anche come il linguaggio non sia uno strumento neutrale, ma tenga conto dei cambiamenti politici, sociali e culturali del contesto di riferimento; lo fa perfino un linguaggio specializzato e professionale come quello, appunto, legale. 

Giulia A. Pennisi è ricercatrice in lingua e traduzione inglese presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo, con diploma Master in «Arts in Comparative Literature» presso la Michigan State University (U.S.A.), specializzata nell’insegnamento della seconda lingua per scopi specialistici. Il suo ambito di ricerca verte sugli specialized discourses, con particolare riferimento all’analisi lessico-grammaticale del linguaggio giuridico-legale in un contesto multiculturale. 

Fra le pubblicazioni di G. A. Pennisi, si menzionano La traduzione legale nel panorama internazionale, Agorà 2004; Decodificazione del testo normativo. Conoscere per tradurre, Ila Palma 2004; e il saggio The lexicon 01 community “acquis”: how to negotiate the non-negotiable, in Atti del XXIII Convegno dell’ Associazione italiana di Anglistica «Forms of Migration», Università di Bari, 2007. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 57-58.




MARIA CRISTINA MAGGIO, Il soprabito all’ingresso, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a. Palma, Palermo 2008.

 Se la vita di un uomo trascorre come un soprabito appeso all’ingresso 

Il soprabito all’ingresso è il nuovo coinvolgente romanzo della scrittrice Maria Cristina Maggio, ambientato nella Palermo. anni trenta e incentrato sulla vita di Santi e della sua tipica famiglia sicula, costretta a fingere per non subire l’onta di quel «peccato» che solo alla fine il protagonista comprende realmente. Il racconto si dipana agli occhi del lettore come un viaggio mentale che il protagonista fa rievocando il passato, «un’infanzia tabù, con un padre inesistente, una nonna fulcro e una madre che potevo chiamare mamma sempre con il timore di vederla sbiancare in viso». Lo fa, a ritroso, nel momento in cui la sua vita sta subendo una svolta, nel momento in cui rischia di perdere un membro della sua particolare famiglia. 

Il libro, che privilegia un taglio psicologico ed emotivo, è incentrato su riflessioni che il protagonista svela, a noi lettori, meditando sulle relazioni che ha tessuto con chi ha colorato la sua dissimulata esistenza. In questa storia il lettore è emotivamente coinvolto fino a divenire il confidente del narratore e del suo riscatto da una pedissequa quiescenza, da una vita trascorsa .. . come un «abito da uomo appeso in un armadio» in casa propria. 

Il contesto in cui si svolge la storia è descritto in modo tanto accurato da permettere, a chi legge, di crearsi un’immagine nitida e particolareggiata della situazione narrata. Così come dettagliati sono i gustosi spaccati della Palermo di allora. 

I personaggi sono presentati, uno ad uno, attraverso gli occhi del protagonista con una semplicità ed innocenza tipicamente infantile, fusa però ad una matura saggezza; bagaglio interiore che la scrittrice riesce abilmente a trasmettere al suo personaggio. 

L’autrice continua a meravigliarci sposando passato e presente, dettagli e personaggi reali, ripescati dal suo passato, con altri magistralmente inventati e descritti con una puntigliosità tale daapparire realmente vissuti. Esemplare è la descrizione del lavaggio delle mani di uno dei personaggi che il protagonista-bambino osserva, rimanendone sempre affascinato e ammutolito; la minuziosa descrizione fa vacillare la mente del lettore tra realtà e fantasia. Altro elemento di rilievo è il linguaggio, che possiamo dire antitetico. Infatti riesce ad armonizzare quotidianità e poesia, semplicità e raffinatezza, dialetto e lingua italiana, in un modo che solo una scrittrice e palermitana doc può fare. I dialoghi concitati e le descrizioni lente completano l’articolata struttura del romanzo. 

Il soprabito all’ingresso è un exploit, un delirio di sentimenti, emozioni, colori e profumi indimenticabili. Credo che Maria Cristina Maggio continuerà ancora ad emozionarci con i suoi romanzi. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 58-59.




GIUSEPPE DI STEFANO, C’era ‘na vota ‘na lumera antica, a cura di Iolanda Di Stefano, lla Palma, Palermo, 2009.

 Sfide in lingua e in dialetto con la spada e col fioretto 

Giuseppe Di Stefano è un noto autore di poesia in dialetto siciliano e in italiano, nato a Ciminna nel 1903 e scomparso nel 1998. In questa opera, C’era ‘na vota ‘na lumera antica, l’autore ha riassunto (anche se il tenni ne è riduttivo e restrittivo rispetto alla ricchezza del testo) la sua vita vissuta dalla nascita fino al ’68. II libro, così come lui stesso lo definisce, «non è un trattato di storia, né di politica, né di antropologia, ma un po’ di tutte queste cose insieme e qualcos’altro ancora». 

È un incredibile tessuto di vita privata con le esperienze fatte, di storia siciliana, di storia italiana e di politica; intreccio creato però da piccoli cenni, da riferimenti che non permettono al lettore di confondersi o di allontanarsi dal filo conduttore del testo. Richiami che spazi ano da Mussolini ad Aldo Moro, dai caroselli agli Ardizzone del «Giornale di Sicilia». 

Oltre alla ricchezza contenutistica è d’uopo sottolineare la raffinatezza, l’eleganza e la singolarità che caratterizza lo stile in cui è scritto. Anche la scrittura, così come la storia, è un intreccio di lingua italiana e di dialetto siciliano, di prosa e di emozionante poesia. 

Così come la vita dell’ autore fa da filo conduttore e la realtà circostante viene intercalata a questa, così la prosa in lingua italiana fa da colonna portante e le poesie in dialetto siciliano da contorno, da dettaglio, d’approfondimento. 

Giuseppe Di Stefano nel libro, infatti, rievoca tutta la sua vita, le circostanze vissute e le spinte interiori che lo hanno di volta in volta portato a scrivere sonetti, per difendersi e per attaccare, e che poi ha riportato all’interno del testo. 

Solamente per dare dimostrazione della raffinatezza e della maestria della sua poesia riporto alcuni versi della poesia che ha poi dato il titolo al testo: 

C’era ‘na vota ‘na lumera antica 
Ca pi lu meccu d’ogghiu sempri china 
Lucia comu un faru di marina 
Sibbini fussi di statura nica. 
A lu so’ lustru ognunu travagghiava 
Secunnu lu misteri chi facia 
E sulu cocchi gatta si vidia 
Ch’attornu di la lampa firriava. 
S’allisciava li baffi e cu la scusa 
D’allucintari i fila d’a tistera 
Si saziava d’ogghiu dda lagnusa. 
Cancianu i tempi. .. Sicca è la lumera 
Ma prontu, pi sucarisi a micciusa, 
c’è u sìnnacu e crisceru i cunsigghiera. 

Elisabetta Lipari 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 64




GIOVANNI GIORDANO, Cuntari Bellanova. Campofiorito tra storia e memoria popolare, collana «Memorie/Testimonianze», Ila Palma, Palermo, 2008.

Il cuntu su Campofiorito di Giovanni Giordano, Cuntari Bellano va è un tripudio di colori, immagini, suoni e parole di questa terra fiorita di pensieri inascoltati, fiorita da gemme di desideri irrealizzati. Dall’ origine misteriosa e nefasta della città, fondata dal Principe di Campofiorito, l’autore ripercorre sentieri tortuosi in cui si racconta di miti, episodi ed usanze del piccolo centro dell’entroterra palermitano. 

Il nobile scopo di Giovanni Giordano è quello di realizzare un dono, per le generazioni presenti e future, per svelare e far conoscere l’identità e l’anima di Bellanova, termine ancora usato nel dialetto locale. Durante la lettura si partecipa, così, a diverse occasioni tipiche della «città nuova» come la festa di San Giuseppe, A festa d’u Signuri, ‘A Festa d’i Morti, ‘A Festa d’u Bamminu e per finire all’addio al pupu nella notte di Capodanno; si assaporano, sempre mentalmente, alcuni cibi tipici come i ficu sicchi e nuci della feste dei morti, la cuccìa di Santa Lucia, i cucciddati e cuddureddi di San Giuseppe. 

La lettura del cuntu è accattivante e formati va perché permette al lettore di conoscere la profonda e nobile identità antropologica di Campofiorito, inspiegabilmente ignota ai più. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 60-61.




G. BONAFFINI, LUCIA BONAFEDE, TERESA DISPENZA, La Sicilia per l’unità del Mediterraneo, Collana «Cronache e Storia», Ila Palma, Palermo, 2008.

Per la cooperazione mediterranea bandiera sempre alzata a mezz’asta 

È una ricerca di studio storico-economico, ma anche una sorta di manuale con cui si vuole delineare una forma, un confine ed uno status del Mediterraneo. Questa shape mediterranea è disegnata affrontando diversi aspetti e problematiche della questione. 

Si inizia con una esauriente «introduzione » in cui si fa luce sulla situazione mediterranea attuale, sulla sua storia e sull’importanza della Sicilia che «non si inserisce come passivo punto di approdo o campo di battaglia di tre mondi diversi» e che risulta essere oggi «la più adatta delle regioni d’Italia a incentivare il concetto di multiculturalità, a promuovere e intensificare gli scambi culturali fra i Paesi del Mediterraneo». 

Si prosegue con un capitolo incentrato sulla politica nel Mediterraneo dove sono passati in rassegna molti anni, dalla nascita della Comunità Europea del 1957 ai nostri giorni, soffermandosi sul perché e sulla nascita di enti come l’Accademia del Mediterraneo, la Fiera del Mediterraneo e il Centro per la Comunità economica e culturale del Mediterraneo. Si ribadisce inoltre la centralità della terra siciliana: «Vista dal cielo la Sicilia appare quella che è sempre stata, non un lembo di terra tagliata dal resto dell’Italia e dall’Europa, ma la punta del nostro paese e dell’Europa, dove diverse correnti di civiltà vengono ad incontrarsi». 

Il terzo capitolo si incentra sulla sicurezza del Mediterraneo con un interessante approfondimento sul Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco e Libia). Si continua nel quarto capitolo con il diverso sviluppo che ha toccato i singoli paesi del Mediterraneo fino ad arrivare al turismo di questi stessi paesi. E si conclude, con varie considerazioni sulle migrazioni. 

La seconda parte, altrettanto importante, è l’ appendice, caratterizzata da quindici diverse testimonianze che affrontano diversi temi, quali la funzione economica e culturale della Sicilia o il mondo arabo e il M.e.c., giusto per fare qualche esempio. 

L’intera opera risulta istruttiva ed interessante. Nonostante sia ricca di dati tecnici e statistici, non risulta mai tediosa o ripetiti va. La Sicilia per l’unità del Mediterraneo è un’ottima fonte di conoscenza soprattutto per chi, magari molto giovane, non conosce le radici del Mediterraneo, la sua storia e la sua tra vagliata evoluzione. 

Elisabetta Lipari

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 56.




CAMILLA SANTORO, Il ladro di sentimenti, romanzo, postfazione di Maurizio Piscopo, Ila Palma, Palermo, 2009.

 Un passato grigio non vissuto e un avvenire tutto da vivere 

Camilla Santoro con il suo Ladro di sentimenti tocca l’animo del lettore, rapendolo in un vortice crescente e sempre più profondo che non permette di distogliere l’attenzione dalla storia. Il libro si legge con una semplicità eccezionale. Ad essere chiaro e semplice è il modo in cui è scritta, la storia narrata, mentre profondi e complessi sono i sentimenti a cui si fa riferimento. Il nostro Professore, nostro perché alla fine del libro il personaggio fa parte di ognuno di noi che legge, è un ladro. Ma lui non ruba beni, né cose materiali. Ciò che cerca e prende per sé sono i sentimenti. Il suo è un rubare giustificabile, l’unico modo che questo personaggio ha per provare determinate sensazioni che nella sua vita sono mancate provocandogli un vuoto incolmabile. 

E così, ormai in pensione, decide di prenderseli da solo questi esperimenti, di prenderli dalla vita quotidiana anche se non gli appartengono. Ovviamente si appropria di quelle emozioni che solitamente caratterizzano e segnano la vita di un uomo, quelli senza i quali la propria vita non viene considerata «completa». Questo è il regalo che lui stesso si fa per il compleanno. Il più bello di tutta la sua vita. Anzi quello che finalmente segna l’inizio della sua vera vita. 

«Sposo – padre – ladro – nonno, queste sono le parole intorno alle quali ruota l’intero racconto … Soprattutto ladro .. . Sei un miserabile ladro che elemosina gli altrui sentimenti, pur di sentirti vivo, incapace come sei stato di viverne di tuoi! Ma la vita, se non la vivi o non la puoi vivere, devi pure inventartela, per non morire.» 

Il testo è tutto colorato da un’alternanza di vita reale e frammenti che vengono in mente al professore grazie ad un dettaglio, una parola o una sensazione che lo catapulta indietro, al suo passato ed ai suoi alunni. 

Un racconto delicatissimo che emoziona ogni volta che si legge, che rattrista e che rallegra ad ogni parola, ad ogni periodo. Un linguaggio colto, elegante e raffinato è sposato ad una descrizione meticolosa dei particolari, dei colori e dei profumi soprattutto nei flashback della sua carriera di maestro; quella che per lui è stata la sua intera vita. 

Il libro è un unico viaggio onirico, sia nel passato già trascorso o mai avvenuto che in una realtà fantastica che il bimbo-professore si crea per cercare di sanare le cicatrici che la vita gli ha procurato. Alla fine il ritorno alla consuetudine lo lascia svuotato, spaventato di non poter più riprovare quei sentimenti e quelle sensazioni esperite per la prima volta. Ma queste emozioni, questo suo compleanno non è che il vero inizio della sua vita futura … 

Elisabetta Lipari 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 61-62.