A vent’anni dallo sbarco sulla luna (Noterelle senza pretese) 

Il 20 luglio 1969 due terrestri, gli americani Armstrong e Aldrin, dal modulo dell’astronave Apollo Il, guidato dal pilota Michael Collins, sbarcavano, muniti di scafandro e telecamera, sul suolo lunare. 

Quel giorno veniva violata la verginità della silente peregrina del cielo e l’ariostesca utopia del viaggio d’Astolfo diventava realtà. 

Si ricordi, però, che il bravo Astolfo viene immaginato dall’Ariosto come protagonista di una stupefacente esperienza: la scoperta di tutte le bontà che, fuggite dalla terra, erano approdate fantasticamente sulla luna; il recupero, tra esse, del senno dell’amico Orlando impazzito d’amore per la bella Angelica; la rivelazione che l’unica cosa non rintracciabile sulla luna era la pazzia rimasta fra gli uomini assieme a tutte le altre brutture della vita. 

Si disse vent’anni fa che con la storica impresa lunare, paragonabile a quella degli Argonauti, sarebbe cominciata una nuova era. E poiché, come dimostra Giacomo Leopardi nel Dialogo d’un venditore di almanacchi e di un passeggere, gli uomini suppongono, quando si parla di novità, che queste preparino tempi migliori, si sperò che il nuovo traguardo lunare della scienza umana avrebbe comportato la possibilità di risolvere, se non tutti, molti antichi problemi del genere umano. 

Qualcuno ne dubitò e l’uomo della strada, sia pure con grossolana saggezza, arguì che, non essendosi trovato sulla polvere lunare nulla che servisse alla vita umana (né frutta, né insalata, né le gustose triglie del mare di Sicilia) l’impresa era servita solo a fare spendere dollari e a preparare armi nuove e più micidiali delle antiche. Qualche altro, come Marcello Cini su «L’Unità» del 21-7-1989, ha definito la conquista della luna nient’altro che «il trionfo e il punto d’arrivo di una visione tipicamente ottocentesca della scienza e della tecnica». 

Certo è che nel 1969 l’astrofisica e le collaterali tecnologie dello spazio, comprese quelle concernenti la computeristica e la telematica, hanno fatto balzi in avanti meravigliosi e impressionanti in direzione della facilitazione dell’informazione e dell’abbreviazione delle distanze nonché in direzione dell’esplorazione degli abissi dell’infinito universo fino a lambire e svelare i misteri dei remoti satelliti di pianeti prima sconosciuti. 

Ma la vivibilità sulla nostra terra è migliorata? È stata cacciata o sconfitta la pazzia che già nel 1500 fu al centro delle tematiche dell’Orlando Furioso? È diventata meno infelice l’umanità che ora ha – come aveva auspicato il Leopardi nel Canto Notturno d’un pastore errante dell’Asia – le ali per «volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una»? 

Ed è finalmente riuscita a scoprire ove tende il vagar suo breve e lo stesso corso della luna e degli astri? 

Il benessere materiale e consumistico (non può negarsi) è cresciuto a dismisura nelle aree ad elevata industrializzazione. Ma chiunque abbia un minimo d’intelletto si accorge che in questi ultimi vent’anni, benché non si sia precipitati nella voragine di una terza con11agrazione mondiale, l’imbarbarimento dell’uomo e la sua atavica pazzia sono cresciuti sensibilmente; la violenza e la crudeltà sui più deboli, sui bambini e sugli anziani assieme alla violazione massiccia dei diritti della libertà personale e domiciliare avanzano in modo capillare e devastante; la droga (nuova arma di sterminio e di schiavistica disumanizzazione nelle mani di potentati criminali non facilmente scindibili dall’alta finanza tout court) e la conseguente spudorata criminalità dilagante stanno disgregando ogni tipo di organizzazione sociale e civiltà che hanno impiegato millenni per formarsi, e stanno riducendo i popoli ad ammassi di «animali parlanti» ispirati soltanto dal più gretto ed egoistico individualismo competitivo, a «vulgo disperso che nome non ha» di manzoniana memoria. 

È in pericolo lo stesso concetto di civiltà perché, se è ancora valida la concezione vichiana e foscoliana di civiltà intesa come intreccio solidaristico («esser pietosi di se stessi e d’altrui») scaturito dall’affermarsi di «nozze, tribunali ed are», allora possiamo affermare che i popoli che non hanno più fede in niente, che sono amitti dal vizio della disgregazione familiare e che sono torturati dall’inefficienza della magistratura, non sono più popoli civili, anche se le loro autostrade (anche qui però quante migliaia di morti all’anno) sono percorse da milioni di automobili, e le loro abitazioni sono fornite di tutte le comodità tecniche. Allora aveva forse ragione Gyorgy Lukacs quando, 20 anni fa, dopo avere affennato che nell’epoca odierna lo sviluppo eccessivamente rapido della scienza e della tecnica è collegato ampiamente con l’alienazione dell’uomo e che questo dell’alienazione è il problema centrale del nostro tempo, così concludeva: «Io non vedo che su questa linea, la vera questione dell’umanità – cioè il divenire uomo dell’uomo e il superamento dell’alienazione – possa ottenere alcun risultato sostanziale anche attraverso i più grandi risultati scientifici conseguiti nell’astronomia e nella tecnica del volo». 

Penso quindi che non è cosa saggia ridurre tutto (lo stesso mondo, il cielo, la terra e il mare) in termini di macchinismo e di congegni smontabili o separabili. Troppo grande appare ormai il rischio della inevitabile scomposizione e dello squilibrio prodotti dagli effetti di tecniche spericolate. Basti pensare un po’ ai buchi della fascia dell’ozono e alla irrespirabilità delle città. 

Non si può impunemente continuare in uno sviluppo illimitato e perseguito caparbiamente a gloria del denaro che lo sostiene. Occorre ridurre alle giuste dimensioni il culto di Plutone e ridare validità e prestigio alle altre divinità dimenticate o oltraggiate. Bisogna insomma che il cosidetto progresso scientifico sia condizionato dall’egemonia degli antichi valori umani. 

Non si tratta di impiantare il paradiso sulla terra, ma cominciare qui da vivi, come ci suggeriva Paolo VI nell’enciclica Populorum Progressio, a costruire Il Regno di Dio, rinnovandoci in meglio nel solco dell’insegnamento che ci proviene dalle antiche civiltà. Del resto mai nella storia alcun movimento di rinascita e di liberazione ha potuto svilupparsi disancorandosi dai valori trasmessi dagli antenati. 

Gaspare Li Causi 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 47-49.




 MA I POETI SANNO … 

Contempla Deucalione le creature 
di questa umanità, fatta di pietra, 
dura. 
Ho visto tanta gente diventare 
di pietra … Ma i poeti (se lo sono) 
sanno che ciò che appare 
fatto di pietra 
dovrà ridiventare un giorno umano. 


Stella Leonardos 


da Mìtica, Rio de Janeiro, 2001

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 5.




 RIFLESSIONE 

Guardarsi in uno specchio e non sentirsi soli. 
Sorridere e vedersi ricambiati 
con lo stesso sorriso. 
Basta dunque uno specchio 
per non essere soli? 
Ed essere è sentirsi? Immaginare 
è vivere, se abbiamo in noi la forza 
di sopravvivere?… 
Forse guardarsi 
negli occhi è il primo passo per vedersi 
dentro, e se amore spinge 
chiamare alla ribalta il proprio io e risalire 
su dai gorghi dei mondi d’ogni giorno. 

Valentino Laru 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pag. 51.




 IO NON AMO … 

Io non amo la sera, essa mi spinge 
inesorabilmente dentro il buio, 
che acceca. E si fa notte. 
Eppure amo la notte: se mi illude 
coi sogni, essa alla fine 
si lascia penetrare dalla luce. 

Valentino Laru

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 48.




AVVERTENZA 

 Conosco 
la viltà delle foglie che si staccano 
dall’albero agli schiaffi dell’inverno. 
Ma l’albero starà ad aspettare 
un’altra primavera 
e dalle sue 
rughe rifiorirà un’ espressione 
verde di vita. 

Valentino Laru

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 46.




 Monarchie, Stati Generali e Parlamenti 

 

di Helmut G. Koenigsberger 

Re Riccardo: « … i leoni domano i leopardi.» 

T. MOWBRAY DUCA DI NORFOLK: «Sì , ma non possono 

cambiare le loro macchie.» 

(Riccardo II, l, 1,5-6.) 

Machiavelli fu bandito dal Parnaso «perché fu sorpreso di notte con un gregge di pecore a cui insegnava ad usare falsi denti di cani così che in futuro esse non potessero essere rido Ile all’obbedienza col fischio e con la frusta». 

(Traiano Boccalini. Ragguagli di Parnaso, LXXXIX) 

PROLOGO 

Lo Stato. che nasce per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice. (Aristotele. Politica, libro l, cap. 2) 

ELEUTHERlA – L’epigramma di Aristotele costituisce la più rivoluzionaria definizione di Stato nella storia del pensiero politico, La maggior parte degli Stati e, ancora di più, la maggior parte degli imperi sono stati fondati e governati per il bene dei governanti o per il bene della tribù. Sia la tribù che i governanti hanno sempre cercato di giustificare la loro azione di governo come volontà degli dei o di Dio. Si riteneva, naturalmente, che la volontà degli dei fosse per il bene dei sudditi. Tutto ciò era, nel migliore dei casi, un ripensamento o, più spesso, semplice propaganda. 

Non che il pensiero di Aristotele fosse originale. Perché almeno 250 anni prima del suo scritto la vita felice era già equiparata all’eleutheria, la libertà, definita sia come libertà del governo da regimi esterni che come libertà dei cittadini dalla tirannia, dal dominio senza leggi di un singolo governante o, a volte, di gruppi di governanti. Ciò che i Greci inventarono nel loro ordinamento politico, fu la cittadinanza, la polis o città-stato, vale a dire la partecipazione dei cittadini alla vita civica nel promulgare o far rispettare la legge, nell’approvare tasse e spese, nel prendere decisioni sulle relazioni con le città vicine e, se necessario, nel prestare servizio nell’esercito. Tutto questo avveniva tramite il dialogo, l’attività reciproca di parlare e ascoltare e le conclusioni razionali che scaturivano da tale attività. Era una relazione dinamica, aperta, incerta nelle sue conclusioni e che sempre correva il rischio di essere sopraffatta dal suo opposto: governo e servitù, comando e obbedienza, certezza e accettazione. 

Per i Greci solo la vita di questa cittadinanza partecipativa costituiva una vera libertà politica. In pratica, essi trovavano questa libertà – che Machiavelli nel XVI sec. avrebbe chiamato un vivere politico – difficile da raggiungere e quando ci riuscivano era solo all’interno del circolo ristretto della polis e dei suoi cittadini a pieno titolo. Donne, stranieri e schiavi erano esclusi, sebbene le donne fossero considerate libere se sposate con un cittadino. Aristotele era interessato solo alla polis. Quando mandava i suoi studenti a studiare le costituzioni fuori di Atene – uno dei maggiori programmi di ricerca mai intrapreso nel campo delle scienze politiche – li mandava solo in altre città-stato del Mediterraneo. 

La cosa rivoluzionaria era la sua definizione del principio dello scopo di uno Stato: la vita felice. 

Sin dalla riscoperta della Politica da parte della Cristianità latina, nel XII sec., essa ha avuto una profonda influenza sulla pratica e sul pensiero politico in 

Europa e, recentemente, in quelle civiltà al di fuori dell’Europa influenzata dal pensiero europeo, anche nei casi in cui tale influenza non è stata apertamente riconosciuta. A volte questo principio è stato deliberatamente ignorato, anche nella nostra epoca e, di solito, con conseguenze disastrose per gli abitanti dello Stato stesso e di quelli vicini. 

Nel Medioevo il principio di Aristotele cadde su un terreno fertile. I princìpi dell’eleutheria non erano mai andati del tutto perduti nell’Impero Romano. Negli Stati che nacquero dalle sue ceneri, questi princìpi furono rafforzati dalla pratica dei re germanici di convocare i propri liberi guerrieri in assemblee generali, per discutere le politiche perseguite dai re e per il consiglio (consilium) e l’aiuto (auxilium) che i vassalli potevano fornire. 

RAPPRESENTANZA – Tutto ciò andava bene per unità politiche relativamente piccole e questa pratica sopravvisse in alcune parti marginali d’Europa. In molte vallate alpine e in alcune aree costiere meno accessibili della Frigia, della Norvegia o dell’Islanda. Il problema era inventare una forma di relazione partecipatoria nelle unità politiche più grandi. La soluzione al problema era sfuggita agli abitanti della Grecia classica o, meglio, essi non l’avevano considerato un problema. Concentrando la loro discussione politica sulla polis, avevano considerato i grandi Stati, come l’Impero persiano o la Macedonia, in ogni caso privi del principio dell’ eleutheria. 

Nell’Europa medievale i principi della relazione feudale tra signore e vassallo non erano di per sé una base per l’eleutheria. La principale virtù medievale, l’ideale verso cui tutti i giovani uomini venivano educati, era tipicamente la lealtà. Non era un ideale da mettere in discussione. Il signore, o il re, era solito rivolgersi ai suoi vassalli per consigli e aiuto; ma per le discussioni e i dibattiti si circondava solo di pochi individui scelti con cura. C’era bisogno di qualcos’altro che potesse associare sezioni molto più ampie della società alla politica del re. Da questo bisogno nacque il principio della rappresentanza. 

Essa era in origine una pratica apolitica derivata dal diritto romano, in cui un avvocato rappresentava il suo cliente o clienti nelle cause civili. Non sorprende che tale pratica si trovi per la prima volta tra gli uomini di Chiesa, cioè, tra quella parte di società che conosceva il latino. I grandi ordini religiosi internazionali trovavano utile la rappresentanza per incrementare la reciproca coesione tra le varie case religiose. Così. nel XIII sec., i Domenicani svilupparono un sistema complesso formato da una gerarchia di consigli elettivi che rappresentavano le singole case, le assemblee provinciali e, infine, l’intero ordine. 

Anche prima che i Domenicani sviluppassero pienamente il loro sistema di rappresentanza, i papi del XII sec. convocavano i prelati dagli Stati papali per consultarli. Nel 1213 Innocenza III fece un ulteriore passo in avanti. Nel convocare il IV Concilio Laterano, egli invitò non solo il clero cristiano, rappresentato dai prelati. i vescovi e gli abati dei grandi monasteri, ma anche gli ambasciatori dei re e di alcune città-stato italiane. 

In modo ancora più incerto, i governanti cominciarono anch’essi a convocare i grandi vassalli in persona e talvolta i rappresentanti del clero e delle città. Se non l’avessero fatto, le conseguenze avrebbero potuto essere imprevedibili e nefaste. Nel 1158 l’imperatore Federico I Barbarossa convocò una grande assemblea feudale, una dieta, a Roncaglia, in Italia, per ottenere tasse su un certo tipo di commercio, sulla zecca e sui diritti delle miniere. Esse erano considerate tradizionalmente prerogative del re o dell’imperatore, le regalie. I notabili di 

Federico, per la maggior parte tedeschi, non ebbero difficoltà nell’imporre queste tasse alle città italiane dell’Imperatore. Ma queste città non erano state consultate. Esse formarono leghe contro l’Imperatore e lo contrastarono con successo, finché non ottennero virtualmente l’indipendenza dal suo dominio. 

Con maggior successo, alcuni principi riunirono delle assemblee in cui i prelati, i nobili e le città erano tutti rappresentati. Tale fu la prima Corte Spagnola del re di Leòn nel 1188. Questi incontri erano ancora sporadici e non istituzionalizzati. Furono i teologi, specialmente gli avvocati di diritto canonico, dal XII al XIV sec., a sviluppare teorie sistematiche sulla rappresentanza, collegandole all’ assunto aristotelico che lo Stato esiste per il bene dei suoi cittadini (sebbene i notabili e i prelati non avrebbero certo approvato questa affermazione) e furono essi ad impegnarsi in un dialogo moderno sul modello greco con i loro principi e tra loro stessi. 

C’erano buone ragioni perché il pensiero politico ecclesiastico del tardo Medioevo insistesse su quest’ argomento. Per cominciare, c’erano le parole di Gesù, secondo cui bisognava dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Ma questo precetto da solo non bastava a spiegare lo sviluppo di elaborate teorie politiche. Niente del genere avvenne nella teologia bizantina né nella sua erede, la Chiesa russa ortodossa. Nell’Impero bizantino e in Russia (e a fortiori negli Stati islamici successi vi all’Impero Romano) qualsiasi reale opposizione tra l’Imperatore e la Chiesa (o tra i califfi e le leggi dell’Islam) era impensabile. Ma in Occidente il collasso dell’Impero Romano nel V sec. aveva reso il capo della Chiesa, il papa, virtualmente indipendente dall’Imperatore. Anche se per gran tempo non si pensò in termini di opposizione, era impossibile che a lungo andare i loro interessi, politici o teologici, coincidessero sempre. 

Ci vollero parecchi secoli prima che venissero pienamente apprezzate le conseguenze intellettuali di questa situazione contingente e, nella prospettiva della storia mondiale, anomala. Ciò divenne inevitabile, però, quando dall’XI al XIV sec., sia i papi che gli imperatori del Sacro Romano Impero, e in seguito anche i re degli Stati europei indipendenti, cominciarono a richiedere la supremazia. Ogni tanto ci fu guerra aperta e in tutto quel periodo si ebbe un’ accesa campagna di propaganda da ambo le parti. Tutti i protagonisti del dibattito scrivevano in latino e tutti si rifacevano alla Bibbia come la fonte più autorevole in questo campo. Questa situazione costringeva gli uomini ad argomentazioni razionali. Inevitabilmente, specie dopo la riscoperta della Politica di Aristotele. che divenne un testo base nella formazione universitaria di diritto civile e canonico, queste argomentazioni razionali dovevano occuparsi della natura dello Stato e dell’ autorità politica. Ci si trovò a discutere in maniera fondamentale sia sul locus che sui limiti dell’autorità e su quali rimedi ci fossero se un tiranno ne abusava. Poiché, sebbene Gesù avesse affermato che tutto il potere viene da Dio, rimaneva da risolvere la questione pratica di come i re ottenessero il potere: se direttamente da Dio o indirettamente dalla volontà del popolo. E se il potere veniva dal popolo, che diritto aveva il popolo di toglierlo a un re tirannico o, perlomeno, di limitarne i poteri? Chi aveva l’autorità di fare le leggi? E il principe era soggetto alle leggi che lui stesso o i suoi predecessori avevano promulgato? In pratica, quali leggi poteva emanare, come imporre certi tributi, che non fossero in conflitto con le leggi naturali di Dio? E la legge naturale comprendeva significativamente i diritti sulla proprietà. 

Tali discussioni non venivano necessariamente portate avanti in ogni assemblea che il principe convocava. Ma costituivano le questioni fondamentali che 

determinavano lo scopo e le prerogative delle assemblee rappresentative. Esse erano sostenute da un principio derivato dal codice di Giustiniano: quod omnes tangit ab omnibus approbetur: ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti. Ancora una volta questa era già stata una procedura puramente tecnica nel diritto romano. Si applicava nelle cause civili, come la tutela di un minore da parte di diverse persone. Ma nel corso dei secoli XIII e XIV questo cavillo tecnico, qualche volta formulato in maniera leggermente diversa, diventò un principio politico. Si sarebbe rivelato un principio dagli effetti sconvolgenti. Era usato da coloro che adunavano le assemblee allo scopo di trovare sostegno da parte dei sudditi; fu questo il caso di Edoardo I d’Inghilterra quando convocò il Model Parliament nel 1295. Questo principio veniva usato regolarmente da coloro che ritenevano di dover essere convocati. Perché dare consigli aveva un duplice aspetto: era il dovere del vassallo nei confronti del suo signore o principe e finì per essere considerato un diritto. Così il principio del quod omnes tangit, associato a quello della rappresentanza, finì per riproporre il principio greco della partecipazione alle decisioni politiche cui si arrivava grazie al dialogo razionale e «approvato da tutti». 

ASSEMBLEE RAPPRESENTATIVE – Nel tardo Medioevo il principio della rappresentanza si diffuse in tutta l’Europa cristiana cattolica. Si adattava bene sia alle necessità dei principi che alle tradizioni dei vari governi locali. Queste tradizioni differivano enormemente dalla partecipazione dei lati fondisti inglesi alle corti della contea, all’autogoverno virtuale delle comunità dei villaggi in varie parti d’Europa e, soprattutto, alle corporazioni cittadine, con i loro statuti reali o episcopali, che stabilivano sia la natura che i particolari dei loro diritti. 

I principi, da parte loro, avevano bisogno di tutto l’aiuto possibile da parte dei loro sudditi nella feroce competizione militare che era diventata la norma in Europa dopo che i grandi imperi dei Franchi e dei Danesi erano scomparsi, sepolti in un irrepetibile passato. I principi ricevevano sia informazioni che aiuto dalle loro assemblee. Nel corso del XIII sec. divenne più comodo adunare non solo i notabili ma anche le città; perché erano proprio queste ultime a poter fornire più prontamente denaro per le imprese belliche dei loro prìncipi. 

Per le città era fastidioso e costoso mandare i propri rappresentanti alle assemblee; ma era anche una buona opportunità per far approvare i propri statuti, discutere argomenti di interesse comune, come i rapporti commerciali con le potenze straniere o il conio locale e, soprattutto, tenere il fisco entro limiti ragionevoli. Le città potevano formare leghe, come le hermandades di Castiglia, che si riunirono regolarmente a partire dal 1282 e che, alla fine, svilupparono 

istituzioni stabili per regolare la loro lega. Nelle Fiandre, i rappresentanti dei quattro membri, le città principali di Bruges, Ghent, Ypres e la zona degli agglomerati urbani e dei castelli tra Bruges e il mare, chiamata la Franc de Bruges (het Vrije van Brugge) tennero più di 4000 incontri tra il 1384 e il 1506, spesso in luoghi diversi e contemporaneamente. In Olanda, tra il 1401 e il 1433, si tennero più di 700 assemblee. Loro scopo principale era discutere di questioni commerciali. Nei principati più estesi e nelle zone prevalentemente rurali gli incontri erano per lo più gestiti dai notabili laici ed ecclesiastici, anche quando vi partecipavano alcune città. Queste riunioni erano molto meno frequenti, a volte con intervalli di parecchi anni, ma a differenza delle assemblee urbane erano molto più complesse e formali. Spesso le presenziava il principe in prima persona. 

La cosa sorprendente è che le città-stato italiane, pur sviluppando la loro 

indipendenza nella lotta contro gli imperatori tedeschi, non presero parte al movimento di costituzione delle assemblee rappresentative. Le loro leghe, come la Lega Lombarda che combatté Federico Barbarossa, erano poco più che alleanze di unità indipendenti, proprio come lo furono più tardi i membri della Lega Anseatica nel nord Europa. Questa Lega teneva i suoi raduni occasionali: assemblee dei rappresentanti di alcune città anseatiche, ma raramente vi parteciparono tutte. Queste riunioni non si trasformarono mai in istituzioni formali, con membri fissi. 

Le città-stato italiane svilupparono una forte tradizione di libertà politica. Proprio come l’eleutheria per i Greci, questa libertà era vista sia come libertà dall’oppressione straniera che come libertà dalla tirannia interna. I teorici politici umanisti italiani, compreso Machiavelli, 

non dubitarono mai che la vera libertà dovesse essere repubblicana. Le loro discussioni riguardavano piuttosto la natura del regime repubblicano: se dovesse essere aristocratico, democratico o misto. La rappresentanza era propria delle monarchie e dunque non era 

considerata un vivere politico, sebbene Machiavelli ritenesse che quando veniva perduta doveva essere ristabilita da un uomo di «virtù». 

Ma c’erano ragioni pratiche perché le città-stato in Italia rifiutassero la rappresentanza. Nei confronti delle aree circostanti il loro contado, esse si comportavano come principi. Le soggiogavano, le tassavano e le usavano come basi di arruolamento per i soldati che 

avrebbero combattuto per loro. Né le città del contado né la nobiltà rurale venivano 

consultate per queste guerre e i nobili erano convocati solo quando era necessaria la loro presenza individuale nell’esercito. Per quanto riguarda le città suddite, una che ne aveva in gran numero, come Firenze, non avrebbe mai convocato i rappresentanti delle città toscane 

insieme, dando loro modo di allearsi l’una con l’altra contro la città «imperiale». Questa tradizione anti-stato era così forte che impedì lo sviluppo delle assemblee rappresentative anche laddove una città-repubblica era diventata principato, come accadde a Milano e Verona e in altre città. Così, né una prevalenza di città, né di relazioni feudali, e nemmeno l’abbondanza di corporazioni ecclesiastiche e la presenza di giuristi canonici, possono da sole spiegare la comparsa di istituzioni rappresentative. Perché ciò avvenisse era assolutamente 

necessaria un’ulteriore condizione, un elemento inerente all’idea stessa di rappresentanze di località, corporazioni e Stati che si riunissero in assemblea. Mancava il senso della comunità di una struttura politica. Al di fuori delle città, che certamente svilupparono sentimenti comunitari, ma dove, come detto, la rappresentanza non si sviluppò, tale sentimento in origine poteva essere di tipo tribale. Ma più spesso, durante il Medioevo, le origini tribali vennero dimenticate in favore di tradizioni di cooperazione politica e militare e di obbedienza al principe locale. 

Nel 1128, durante una crisi dinastica nelle Fiandre, i membri della nobiltà e molte grandi città formarono leghe per gestire la crisi ed eleggere il nuovo conte delle Fiandre. Fino a quel momento le leghe non erano assemblee rappresentative (anche se alcuni storici le hanno considerate veri e propri pre-parlamenti) e non ci sono prove che la massima quod omnes tangit venisse applicata. Ma tali eventi costituivano in sé una collaborazione tra la nobiltà e le città ed evitarono che le Fiandre si spezzettassero in una serie di città-stato indipendenti come accadde in 

Italia settentrionale. Ciò è più sorprendente se si considera che le città principali, Bruges, Ghent e Ypres, si comportavano in buona misura come se fossero città-stato, dominavano e sfruttavano le campagne e i villaggi circostanti come un contado italiano. A partire dalla fine del XII e per tutto il XIII sec. i conti furono spinti a cooperare regolarmente con le assemblee dei loro Stati per potersi difendere dai re di Francia che cercavano di ristabilire il loro dominio nel Paese. 

In questo caso, come spesso accadeva nei rapporti tra i principi e le loro assemblee rappresentative, il corso degli eventi e l’equilibrio finale dei poteri non furono determinati soltanto dalla storia interna del Paese in questione, ma anche dall’intervento esterno. La storia dei principi e dei parlamenti non si svolge quasi mai in un sistema chiuso. 

Questo vale anche per i parlamenti delle isole. La storia della Magna Carta forse sarebbe stata diversa se la rivolta dei baroni contro re Giovanni , nel 1215, non fosse stata sostenuta dalla Francia. Nello stesso tempo, e ciò evidenzia in maniera cruciale lo spirito di comunità che c’era nel Paese, i diritti e i privilegi che i baroni estorsero al re, specialmente il processo davanti ai propri pari secondo la legge. sarebbero valsi per tutti gli uomini liberi della nazione. Alla morte di Giovanni, il governo di reggenza per conto del figlio minore riemanò la legge altre tre volte. Anche se le tre versioni differivano in alcuni dettagli, le copie furono inviate a tutti i tribunali delle contee, quindi coinvolsero deliberatamente la comunità di tutto il regno. 

Fu questo il modo in cui la Magna Carta finì per essere interpretata. I parlamenti successivi insistettero per promulgarla ancora. La reputazione del parlamento e della Magna Carta, entrambi considerati a salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini inglesi, si rinforzavano l’un l’altro, e si svilupparono insieme fino a formare la tipica simbiosi dell’idea di governo di diritto, dei diritti e privilegi dei sudditi e della rappresentanza dell’intera comunità. 

Ci volle tempo perché venissero stabilite in Inghilterra adunanze regolari del 

Parlamento e lo stesso valeva per le altre assemblee rappresentative sul Continente. Inevitabilmente esse si svilupparono in tempi diversi, dal XIII al XV sec. Vi erano i tre stati classici: clero, nobiltà e popolo; ma vi era anche il principato d’Olanda in cui le assemblee erano di solito limitate alla nobiltà e alle sei città maggiori (sebbene a volte venivano convocate anche le città più piccole) e non aperte al clero. In Polonia solo la nobiltà veniva considerata come rappresentativa della comunità. Le città venivano lasciate fuori dalla Sejm, la dieta di tutto il regno, anche se dominavano l’assemblea provinciale della Prussia Reale. In Svezia, al contrario, il clero era costituito non solo dai prelati ma anche dal clero locale, e c’era persino uno stato dei contadini. Molto dipendeva dallo sviluppo degli stati come gruppi o raggruppamenti auto-consapevoli all’interno dello Stato stesso, come la divisione tra notabili (ricos hombres) e bassa nobiltà (hijosdalgo) nelle Cortes di Aragona. 

C’erano assemblee rappresentative dappertutto al di fuori delle città-stato, a parte alcune comunità contadine nelle valli alpine e le paludi della costa settentrionale della Frigia, nel mare del Nord, che conservavano antiche tradizioni di riunioni degli uomini liberi. 

Le assemblee rappresentative non erano mai democratiche. Solo in Inghilterra c’era qualcosa di simile alle elezioni dei membri effettivi del Parlamento e nessuno immaginava che queste elezioni fossero democratiche. La democrazia era apprezzata da alcuni umanisti. Ma, al di fuori di alcune città-stato italiane e svizzere e delle poche comunità contadine indipendenti, la democrazia era 

disprezzata ed evitata. La rappresentanza era presente negli ordini ecclesiastici e nelle monarchie. Certamente aveva il compito di coinvolgere le comunità nella vita politica, ma mai nessuno pensava che dovesse cambiare la struttura sociale della comunità. Era rivoluzionaria nel senso aristotelico che dava l’opportunità di una vita felice difendendo le libertà, i privilegi particolari di corporazioni e gruppi, all’interno della comunità. Doveva preservare la comunità dal governo arbitrario del principe. Ma la rappresentanza non era intesa come uguaglianza o uguali diritti. La forma esatta delle assemblee e i loro rapporti col principe dipendevano dalla struttura sociale delle comunità che rappresentavano. Questi rapporti, a loro volta, erano spesso influenzati dalle alleanze e dall’intervento delle comunità limitrofe. Una volta stabilite, le assemblee tendevano ad assumere una forma istituzionale. Come tali, cominciarono a sviluppare una loro vita propria con certe forme tradizionali talora rigide, e ciò accadeva persino quando le condizioni socio-politiche originarie erano cambiate. Se la comparsa delle assemblee rappresentative dipese dall’esistenza di un certo senso della comunità, le assemblee aumentarono questo sentire. 

I principi avevano un atteggiamento ambivalente verso le loro assemblee. Le consideravano utili per assicurarsi il sostegno della comunità, l’osservanza delle leggi e in misura ancora maggiore, per la concessione di denaro sotto forma di tasse. Nel 1282 i Siciliani rovesciarono il loro re della casa francese di Anjou (Vespri Siciliani) e si rivolsero al re d’Aragona perché prendesse la corona e li aiutasse a mantenere la loro indipendenza. Pietro III d’Aragona, pur reclamando la corona di Sicilia per diritto ereditario, convocò molti parlamenti in Sicilia per farsi confermare re. Questi parlamenti evitarono che il regno si spezzettasse in una miriade di città-stato, come nell’Italia settentrionale, e così ottennero da re Pietro un certo numero di privilegi, in cambio di somme di denaro per finanziare la guerra con la casa di Anjou che si trovava ancora a Napoli. Non sorprende che Pietro d’Angiò abbia convocato anche un’assemblea nel suo principato di Catalogna allo scopo di ottenere supporto finanziario per la sua politica in Sicilia. 

Eppure i principi erano ben consapevoli del pericolo costituito dalle assemblee che potevano diventare potenziali rivali dell’autorità. Sia essi che i loro avvocati erano sempre molto suscettibili a questo argomento. Se la massima romana del quod omnes tangit era ormai generalmente accettata, lo era anche quella del diritto romano che considerava il principe come legibus solutus, al di sopra della legge. Secondo alcuni giuristi, questo principio era rinforzato dal detto del Codice Giustinianeo: quod principi placuit leges habet vigorem, poiché piace al principe ha forza di legge. Cosa realmente significassero queste massime romane era un argomento di costante dibattito e di sottili e colte argomentazioni da parte di magistrati civili e canonici. Più comunemente, si sosteneva che solo il principe aveva il diritto di formulare le leggi che poi l’ assemblea rappresentativa aveva il dovere di confermare. 

Ma cosa accadeva alle leggi che risultavano dalla presentazione di lamentele? Questa presentazione era una delle funzioni riconosciute alle assemblee. I principi erano ansiosi di non perdere il proprio diritto di accettare o rifiutare i suggerimenti delle assemblee. Talora, specie, quando si trattava di una disputa dinastica, le assemblee si riunivano di loro iniziativa. Ma i principi scoraggiavano simili azioni indipendenti e insistevano che solo essi avevano il diritto di convocare, prorogare o sciogliere il parlamento. Ma i parlamenti e le assemblee rappresentative non erano uguali ad un consiglio regale. In assenza di una vera e propria amministrazione civile, i parlamenti tornavano utili alla politica proprio 

perché rappresentavano interessi, informazioni e autorità indipendenti da quelli del principe e del consiglio che lui nominava. Essi costituivano un’opportunità di dialogo politico per la comunità. 

CONCILIARISMO – L’ambiguità fondamentale di questo equilibrio dei poteri 

tardo-medievali, divenne evidente nella prima metà del XV sec. nella storia dei grandi consigli ecclesiastici e del loro confronto con la monarchia papale. Non era un confronto intenzionale. I leader dell ‘Europa cristiana, sia religiosi che laici, decisero di porre fine allo scisma papale (1378). Un concilio a Pisa (1408-’09), convocato da un gruppo di cardinali, fu rigettato da entrambi i papi e finì per aggiungere un terzo papa ai due in lotta. Il concilio successivo a Costanza (1414-1418) fu convocato su iniziativa del Sacro Romano Imperatore e vi parteciparono un certo numero di re e principi europei o i loro rappresentanti, oltre una sfilza impressionante di prelati e teologi. Allora i papi e gli antipapi furono deposti con successo e ne fu eletto uno nuovo, Martino V, che fu accettato da tutti. Questo è molto simile all’operato delle assemblee rappresentative locali, come quello delle Fiandre, che aveva deposto un principe indegno e ne aveva eletto uno nuovo. Adesso, col Concilio di Costanza ciò era avvenuto su scala più vasta. Frequentato o, perlomeno, seguito avidamente dal fior fiore degli intellettuali europei, il concilio produsse naturalmente una giustificazione teorica alle sue decisioni. Essa si trova nel famoso decreto Haec Sancta (6 aprile 1415), dove si afferma che il concilio derivava la sua autorità direttamente da Cristo e questa autorità era superiore a quella del papa, il successore di San Pietro e vicario di Cristo. I padri della Chiesa erano attenti a reclamare tale autorità solo per le questioni di fede, ma come si potevano distinguere tali questioni da quelle organizzative e politiche? Il concilio procedette a riorganizzare la Chiesa e ad eleggere un nuovo capo. 

Questi erano i problemi fondamentali sulla natura dell’ autorità che i teologi avevano dibattuto per secoli in senso astratto. Erano problemi essenzialmente analoghi a quelli dell’autorità del principe e dell’assemblea rappresentativa. Il confronto divenne più aperto nel corso del concilio successivo, a Basilea (1431-1449). Naturalmente gli scontri ora si svilupparono per il tentativo del papa Eugenio IV di sciogliere il concilio, mentre quest’ultimo replicava che solo lo stesso concilio poteva decretare il proprio scioglimento o la propria proroga. Si finì per formulare un decreto ancora più innovativo dellHaec Sancta, in cui si stabiliva che il concilio aveva semplicemente un’autorità superiore a quella del papa. 

La posizione conciliare fu discussa soprattutto nelle università, in special modo nella facoltà di teologia di Parigi. Alla fine i teologi non poterono opporsi al potere del papa di usare le diverse potenze temporali l’una contro l’altra. Inoltre, egli aveva il vantaggio, nella propaganda spirituale, di avere concluso da poco un accordo apparentemente riuscito con la Chiesa greca ortodossa (1437). Già a metà del XV sec., il papato era riuscito ad emergere come monarchia autocratica dal confronto con i principi della rappresentanza dei conciliaristi. Nessuno poteva prevedere che il papato diventasse ora vulnerabile, non solo a causa dei riformatori della Chiesa – tutti concordavano nella necessità di riforme – ma anche nella ricerca da parte dei principi di indipendenza ecclesiastica e di controllo sulle loro chiese. 

A riflettere sul dibattito del XV sec., l’aspetto sorprendente non è la partita persa dal movimento conciliarista. Gli interessi dei protagonisti erano troppo 

diversi. Le mere dimensioni dell’ operazione conciliare e l’enorme territorio sul quale doveva essere coordinata, erano troppo persino per i più accaniti sostenitori. Così Nicola di Cusa, una delle menti più brillanti di quell’epoca, abbandonò i conciliaristi e si schierò dalla parte del papato. La vera sorpresa invece è quanto in avanti fossero riusciti a spingersi i conciliaristi. Era un segno della vitalità dell’idea di unità dei Cristiani, un segno analogo a quello comunitario che sarebbe stato essenziale per la nascita della rappresentanza nei singoli Stati europei. 

Allora l’idea di rappresentanza fu sconfitta assieme all ‘ idea di conciliarismo? La storia non è così logica né così simmetrica. La nozione di un concilio sopravvisse come idea, come aspirazione, come un mezzo per guarire i mali del tempo. Era ancora un’idea forte nella prima generazione della Riforma, e rimase tale da ambo le parti del dibattito riforrnista. Ma poi la connessione tra concilio e rappresentanza svanì sempre più sullo sfondo, cedendo alle sempre maggiori certezze dei dogmi di entrambi gli schieramenti. Al Concilio di Trento (1545 – 1564) pochi erano interessati alla rappresentanza, tranne che per la necessità dei Protestanti di far udire la propria voce e dei Cattolici di negarla. 

STATI COMPOSITI E STATI GENERALI 

I concili ecclesiastici del XV sec. furono dei grandiosi, ma inefficaci, tentativi di creare un’istituzione rappresentativa composita. L’idea stessa, comunque, era tutt’altro che morta, né i Concili di Basilea e di Costanza furono i soli esempi. Le assemblee rappresentative 

composite furono la conseguenza logica della comparsa di monarchie composite o multiple. Nel tardo Medioevo, queste monarchie erano diventate la forma più importante di organizzazione politica in Europa. Più era potente la monarchia – e il potere era l’obiettivo internazionale nella maggior parte delle monarchie – meno probabile era che fosse uniforme. 

Le parti costitutive di una monarchia multipla, nella maggioranza dei casi, si univano insieme per volere comune, come nel caso della Sicilia o d’Aragona, o più spesso per eredità dinastica o di matrimonio, come la maggior parte dei domini della Casa d’Austria, o nel caso 

dell’Inghilterra e della Scozia con la successione di Giacomo VI e I nel 1603. 

In tutti questi casi il principe giurava di osservare le leggi e i privilegi preesistenti del suo nuovo Stato. Nel XV sec. queste leggi e questi privilegi di solito comprendevano un’assemblea rappresentativa che considerava suo dovere difendere i propri interessi e quelli dei suoi membri. Nei pochi casi in cui una monarchia acquisiva uno Stato o una provincia per conquista, si riteneva ci fosse il diritto di abrogare tutte le leggi e i privilegi preesistenti. In pratica, comunque, i poteri della monarchia erano limitati dalla necessità di riconciliare a 

sé almeno una parte dell’élite del nuovo territorio. Machiavelli consigliava al suo principe o di distruggere la nuova provincia, o di risiedervi lui stesso (e dispensare generoso patronato ai nativi), oppure lasciarla vivere secondo le proprie leggi. Persino quando gli abitanti di una provincia, che passava da una mano all’altra, non venivano consultati sul cambiamento, ci si aspettava che queste leggi venissero osservate. Nel 1482 Maria di Borgogna fu costretta dai suoi Stati Generali a firmare il Trattato di Arras e cedere l’Artois e la Franche-Comté alla 

Francia, come dote per la figlia neonata che avrebbe sposato il delfino. Al futuro sposo (che nel caso specifico non sposò mai la principessa Margaret) fu chiesto 

«di tenere in particolare considerazione le contee di Artoi s e Borgogna e i poveri abitanti che troverete essere i migliori e più leali sudditi» . 

In questo modo i principi potenti, abili o semplicemente fortunati , potevano aggiungere alloro regno provincia su provincia, e Stato su Stato, ognuno con le sue leggi e le sue istituzioni ben consolidate. Per ottenere una maggiore coesione dei suoi domini, il principe spesso trovava utile convocare insieme tutti i membri delle assemblee rappresentative. Non poteva dare per scontato che tutte le province sostenessero la sua politica, specialmente la guerra che per il principe era essenziale. Così nel 1485 le terre della Prussia Reale, una provincia di lingua tedesca che sin dal 1466 viveva felicemente sotto il regno di Polonia, 

rifiutarono di sostenere la guerra con i Turchi Ottomani. Essi affermavano persino che, secondo i loro privilegi, il re di Polonia era obbligato a proteggerli dall’aggressione, ma non il contrario. 

La monarchia francese aveva già fatto esperienze simili nel XV sec. Alcune delle province francesi non avevano alcun interesse nella guerra contro l’Inghilterra e preferivano tenere per sé le proprie risorse. I re francesi allora convocarono molte assemblee in tutto il Paese, les états généraux, solo raramente e non sempre con grande successo. Inoltre c’era il pericolo che gli Stati Generali, un’assemblea composita per un regno grande e complesso, potessero diventare molto potenti e cominciare ad usurpare l’autorità reale. Ciò accadde in Francia anche quando re Giovanni II fu fatto prigioniero dagli Inglesi nella battaglia di Poitiers (1356). Gli Stati Generali approvarono l’imposizione di tasse per poter continuare la guerra e per pagare 

l’enorme riscatto per liberare il re. Nello stesso tempo cercarono di riformare il governo centrale la cui incompetenza aveva portato alla disfatta militare. Ma gli Stati Generali per un Paese così esteso e vario come la Francia si rivelarono troppo impacciati, e il nuovo energico re Carlo V preferì regnare facendone a meno. La monarchia francese era l’unica, a parte alcuni principati italiani, che era riuscita a mettere su un’amministrazione tributaria che funzionasse 

nella maggior parte del Paese. Sin dal tempo di Carlo V, esso aveva acquisito la reputazione di dominium regale, un regime che poteva imporre liberamente tassazioni importanti. Al 

contrario, in un dominium politicum et regale la monarchia non aveva tale diritto. La linea di demarcazione tra i due tipi di regime non era sempre così netta, ma gli esperti del tempo indicavano chiaramente che tale differenza esisteva e anche da quale lato si poneva la Francia. 

Forse la situazione si può meglio riassumere con l’aneddoto di un ambasciatore veneziano, che Francesco I era solito ripetere. Egli diceva che l’imperatore Massimiliano gli aveva riferito che 

lui, l’imperatore, era il re dei re, perché nessuno eseguiva i suoi ordini; Ferdinando il Cattolico era il re degli uomini, perché gli uomini gli obbedivano solo quando decidevano di farlo; ma Francesco, re di Francia, era il re delle bestie, perché tutti gli obbedivano sempre. 

Questa battuta era ovviamente un’ esagerazione. Lo storico ha ben ragione di chiedersi, però, perché Francesco lo raccontasse così spesso. Il giudice Fortescue, a cui si deve la pal1icolare formulazione della definizione dei due diversi tipi di regime nel XV sec., non si 

inventò certo l’idea. L’aggettivo «politico » derivava dalla Politica di Aristotele ed era usato di frequente sul continente per indicare un regime limitato o misto. 

Se i governanti delle monarchie multiple nutrivano sentimenti ambivalenti 

verso le assemblee rappresentative multiple, così era anche per le proprietà delle singole province. Quelle degli Asburgo d’Austria, nell’Europa centrale, erano spesso riluttanti a mandare i loro deputati al di fuori dei propri confini. I Boemi, per esempio, si rifiutavano di andare in Austria. I privilegi che i governanti avevano giurato di mantenere erano sempre i privilegi locali di quella particolare provincia. Non si mettevano da parte tali privilegi con leggerezza, 

per paura di perderli del tutto. Se si riteneva necessario farlo, si pretendevano altri privilegi maggiori. Se negli incontri degli Stati Generali le province più piccole in genere seguivano le indicazioni di quelle più grandi, per esempio, nella concessione di tasse, tutti opponevano 

strenua resistenza verso qualsiasi mozione di voto di maggioranza, specialmente in questioni finanziarie. 

Questa è un’altra ragione per cui, con pochissime eccezioni, gli Stati Generali funzionavano solo in territori contigui. Una striscia di mare tra due territori sotto la stessa corona, costituiva 

un serio ostacolo. Ma anche in questi casi, le storie di Inghilterra e Irlanda, di Svezia e Finlandia e di Aragona e Sardegna dimostrano che il mare non era una barriera assoluta. Questi esempi, però, erano relativamente rari e la ragione principale era che i membri degli 

Stati Generali, ancor più di quelli delle unità singole, insistevano nel restringere i poteri dei deputati e pretendevano che sulle questioni importanti essi si consultassero con coloro che li avevano mandati. C’erano buone ragioni per tutto ciò. I borgomastri, i sindaci e i segretari 

comunali trovavano naturalmente più facile far valere il loro coraggio all’interno della propria comunità, rispetto a quando si trovavano a viaggiare come deputati e ad affrontare i grandi signori del consiglio reale o persino lo stesso re o il suo reggente. Respingere le richieste 

dell’autorità era più facile se si poteva affermare di non avere il potere di decidere personalmente. Al contrario, era più facile per il governo intimidire i singoli deputati che dover affrontare l’intero consiglio di una grande città. Nonostante ciò, non era sempre chiaro 

chi rappresentassero i deputati. Le assemblee provinciali o le città parlamentari e le corporazioni ecclesiastiche? Né era sempre chiaro il ruolo dei notabili nelle assemblee, specialmente se essi facevano parte anche del consiglio del re. La storia degli Stati Generali non può quindi essere separata nettamente dalla storia delle assemblee delle province 

costituenti di una monarchia multipla. Gli uomini non cedono volentieri il potere che esercitano o che pensano di dovere esercitare. Se l’ideale di dominium politicum et regale era cooperare per il bene della comunità, ci potevano essere idee molto diverse riguardo a chi 

e che cosa fosse la comunità. 

Ci potevano anche essere svariate e appassionate idee riguardo a cosa fosse il bene, aristotelico o meno. E se queste differenze conducevano a conflitti aperti, come spesso accadeva, era inevitabile che gli Stati vicini fossero coinvolti in tali conflitti. Lo storico, dunque, osserva certe tendenze e certe regolarità in queste storie. Ma le contingenze influenzavano sempre il risultato. Ciò che lo storico non può fare è predire l’esito di queste storie, né per l’Europa né per i singoli Stati. 

Una storia comparata ed esaustiva degli Stati Generali sarebbe quindi equiparabile alla storia politica dell’Europa moderna. Anche se fosse possibile 

scriverla – e finora non esiste – non ci fornirebbe una legge generale dei rapporti storici tra monarchia e parlamento. Per 

questa ragione ho scelto un formato diverso: quello di descrivere in modo approfondito 

i rapporti fra la monarchia e gli Stati Generali dei Paesi Bassi in un periodo di duecento anni. La ragione di questa scelta è la storia infinitamente varia di questo rapporto. Ci troviamo 

davanti a un’organizzazione politica multipla all’interno di uno Stato multiplo, aperto sia alle idee che all’ intervento esterno. Il leone per una volta è riuscito ad alienare tutti i leopardi dal suo comando. Metà di loro scelsero di ritornare a lui, per svariate ragioni, non ultima 

quella della paura di pecore con denti di cane. L’altra metà dei leopardi scelse di non ritornare sotto il comando del leone perché scelse di non nascondere le proprie macchie. Tutti scelsero di tenere le pecore, con o senza i denti, all’oscuro. Il Riccardo Il di Shakespeare riassume 

quest’atteggiamento quando caratterizza la stranezza della ribellione di Bolingbroke: 

Ho avuto modo di osservare io stesso, 

e con me anche Bagot, Green e Bushy, 

com’ ei riesca a corteggiare il popolo, 

e penetrare in fondo ai loro cuori 

con umili ed affabili maniere; 

e prodigarsi a loro in grandi gesti 

corteggiando quei poveri artigiani 

con l’arte del sorriso. 

RICCARDO Il (I, 4) 

(Trad. italiana di Bruna P Scimonelli) H.G .K.




 Il Nazionalismo: passato e futuro (*) 

Mi ha fatto veramente piacere ricevere un secondo invito per una conferenza da parte di questo eminente Centro Internazionale di Cultura “Lilybaeum” di Marsala e ne sono altresì onorato. 

Questa volta voglio parlare di un tema che, sicuramente, preoccupa gli uomini e le donne di tutto il mondo: il nazionalismo e i suoi correlativi, l’etnicismo, il patriottismo, il razzismo e la xenofobia. Tutti questi sono veramente correlativi? Vedremo. Tuttavia parlerò soltanto dell’Europa, per una ragione assai elementare: conosco poco gli altri continenti. 

Cominciamo con una piccola storia personale. Nel 1944, durante la seconda guerra mondiale, fui volontario nella marina britannica. Si incontrava gente di tutte le classi sociali, si parlava e si discuteva di tutto. Allora un giovane apprendista fuochista affermava: «La cucina inglese è la migliore del mondo». Sorpreso, domandavo: «Ne conosci altre?» «No» rispondeva. Ma è comprensibile. Ecco un esempio quasi classico del nazionalismo culturale. 

Facciamo adesso un esempio veramente classico. Giasone dice a Medea: «Hai ricevuto molto di più di ciò che mi hai dato… Dimori adesso nell’Ellade, anziché nel tuo paese barbaro, hai appreso il significato della giustizia e il modo di vivere sotto la legge e non più sotto la tirannia della forza bruta.» Ricordiamo che Medea aveva salvato la vita a Giasone ed ucciso suo fratello mentre lo aiutava ad accaparrarsi il vello d’oro. Giasone l’aveva sposata e adesso Medea s’opponeva ad un suo secondo matrimonio con la figlia del re di Corinto. 

L’argomento del nazionalismo culturale non poteva evidenziarsi più chiaramente. Entrambi apportavano argomentazioni diverse, però Euripide sottolinea la centralità di questo nazionalismo culturale con la risposta di Medea: «I tuoi occhi sono rivolti alla vecchiaia ed una moglie straniera comincia a sembrarti una vergogna». 

Giasone non fu l’unico eroe greco xenofobo. Teseo fu salvato dal labirinto da Arianna. Anche lui la sposò, ma l’abbandonò sull’isola di Naxos. Evidentemente, l’eroe greco accettava l’aiuto di una donna straniera, la sposava persino oltraggiando la sua stirpe e poi la ripudiava alla prima occasione. 

Nello stesso tempo questo nazionalismo culturale, anche nella forma più brutale, come quello di Giasone e di Teseo, non era un nazionalismo politico. Non esisteva questo tipo di nazionalismo nella Grecia antica. Atene e Sparta cooperavano durante le guerre persiane, ma era un’occasione particolare, un’alleanza militare contro un pericolo comune. Il ricordo di ciò, comunque, è diventato parte del nazionalismo culturale greco, specialmente secondo l’interpretazione degli studiosi dell’Europa occidentale nel diciannovesimo secolo. 

L’esperienza greca, tanto mitologica quanto storica, dimostra la difficoltà di costruire una storia coerente del nazionalismo. Certo, è un fenomeno molto antico. Ma che cosa era? Come è cambiato in tutto questo tempo? E quale fu la sua importanza nella storia della civiltà e della politica europea? Evidente appare la differenza tra il nazionalismo e un’istituzione definitiva come, per esempio, lo Stato. Il nazionalismo è sempre stato un atteggiamento mentale e, qualche volta, ma solo qualche volta, una forza politica. E’ stato spesso visto cosi, specialmente dagli storici del secolo scorso e della prima metà del nostro secolo. Per esempio, la storia del risorgimento italiano è stata considerata fino a trenta o quaranta anni fa come la storia di un nazionalismo trionfante, specialmente qui in Sicilia. Ne abbiamo la percezione guardando le lapidi che si trovano nel cortile della Società 

Siciliana per la Storia Patria a Palermo. Solo negli ultimi decenni si è avuto qualche dubbio circa questa interpretazione ed è stato possibile scrivere una storia più precisa di quegli eventi. 

Dopo la rivoluzione del 1989 ci siamo resi conto che tre generazioni di comunismo non avevano fatto scomparire i nazionalismi; o, meglio, la consapevolezza di far parte di una realtà sociale che non era una classe ma un’unità geografica o etnica o linguistica o religiosa o tribale o un insieme di tutte o di alcune di queste caratteristiche. 

Questo fenomeno ha prodotto una vera esplosione di studi, convegni internazionali, monografie, libri scritti da uno o da vari autori e quasi contemporaneamente articoli sui giornali. Gli autori di questi scritti non sono solo storici, ma anche sociologi, antropologi, scienziati e politici, giornalisti e moralisti di ogni tipo. 

Non è possibile fare un riassunto di tutto questo lavoro per il semplice fatto che gli studiosi non sono d’accordo sulla natura del fenomeno che chiamiamo nazionalismo e neanche su una definizione generalmente accettabile del nazionalismo di ieri e di oggi. Se non abbiamo avuto definizioni, abbiamo avuto invece ottimi studi sulla storia del nazionalismo in diversi Paesi. Ma questi studi non ci permettono una chiara generalizzazione. Per esempio, la Scozia, un antico regno già nel Medioevo, non è adesso uno stato separato. Però ha vissuto momenti di grande fermento nazionalistico ed oggi la maggioranza degli Scozzesi preferirebbe l’autonomia politica o anche l’indipendenza. Eppure, malgrado questo fermento non è mai esistito un popolo scozzese, etnicamente parlando, né una lingua scozzese antica. 

Forse l’origine etnica delle nazioni moderne non è molto importante. I popoli che si sentono minacciati, sia per ragioni immaginarie o reali, sono in ogni caso pronti ad ammazzarsi con pernicioso entusiasmo. Molti studiosi hanno considerato sia l’aspetto morale che politico di questi problemi. Esistevano ed esistono, comunque, l?olitici e generali che preferiscono una soluzione che chiamano purificazione etnica. E’ una politica che si basa sull’appello popolare. Per molti è comodo pensare che ogni loro sfortuna sia colpa degli stranieri. Questa soluzione passa dai dipartimenti accademici di storia, di sociologia, ecc., fino ad arrivare al dipartimento della divinazione o profezia che appare scientifica. Sembra che questa linea abbia una mezza correttezza politica, ma io vi proporrò una profezia che spero abbia un aspetto scientifico. 

Gli studi della maggioranza dei miei colleghi si basano sull’anali degli ultimi anni, quelli che seguono il 1989 e specialmente sugli sviluppi che si ebbero nella ex Unione Sovietica e nella ex Iugoslavia. Mi pare che questo campo d’osservazione sia troppo ristretto. Penso anche a quella teoria americana secondo la quale la rivoluzione del 1989 segna la fine della storia. E’ una teoria che tra qualche tempo sarà dimenticata. Allora, che fare? Non è possibile ritornare all’età dell’oro, umana, tollerante e pacifica. Non è mai esistita. Neanche credo ad una teologia romantica, ad un futuro d’oro, ad una legge della storia che ci porti, volenti o nolenti, tempi migliori, come credono i marxisti. Dunque, cosa resta? Resta la storia d’Europa da interpretare bene e un’analogia che certo non dimostra una necessità storica, ma una possibilità o, anche di più, una verosimiglianza. 

Cominciamo con un doppio interrogativo storico. Perché gli stati derivanti dall’Impero romano erano cosi grandi? Salvo che nel classicismo nostalgico di alcuni monarchi, ovvero nella fantasia romantica letteraria di molti storici moderni, questi stati non erano costituiti né dall’unità nazionale, né dall’unità 

etnica: Italia, Gallia, Hispania, ecc. E ci si deve chiedere di più: perché nei primi secoli dell’Alto Medioevo era ancora possibile costruire immensi imperi come quello di Carlo Magno o quello del danese Canuto, oppure anche quelli dei primi califfi arabi? Perché nel tardo Medioevo l’Europa si consolidava in stati molto più piccoli? E come si determinavano le dimensioni di questi stati? Pochi storici credono ancora che un autocosciente etnicismo o una specie di protonazionalismo possano spiegare questo secondo problema Perciò voglio adoperare un modello storico del sociologo americano K. W. Deutsch, utilizzato per altro motivo. 

Nell’Alto Medioevo l’Europa era un continente formato da piccole comunità contadine ed urbane. Ognuna di esse produceva la maggior parte, ma non tutto, di quello che necessitava per la vita di quel tempo. Quel poco di prodotto che di solito poteva eccedere non era richiesto dagli abitanti dei territori vicini che, per ragioni geografiche e climatiche, in generale, producevano le stesse cose. Ma questi prodotti erano apprezzati in luoghi più lontani. Dunque risultava che il commercio dell’Alto Medioevo, salvo quello dei piccoli mercanti puramente locali, era generalmente un commercio di prodotti di grande valore perché trasportati a grandi distanze. 

I commercianti dovevano essere mercanti di professione, liberi dal servizio forzato e, preferibilmente, dovevano parlare una lingua internazionale, vuol dire compresa in vaste zone, come il latino, il tedesco nelle regioni baltiche e l’arabo in gran parte del Mediterraneo. 

Per la maggior parte delle altre prestazioni professionali e tecniche, delle quali si aveva necessità nell’Alto Medioevo, le condizioni erano analoghe a quelle della produzione e del commercio: servizi ecclesiastici, quelli degli artigiani specializzati, degli amministratori, degli eruditi e quelli molto importanti dei guerrieri e dei soldati. Si pensi ad un maestro campanaro. Può fondere due, forse quattro campane per una nuova chiesa di un piccolo paese o di una città. Ma quando ha finito il lavoro non può restare nello stesso luogo. Forse deve viaggiare a grandi distanze per trovare un’altra opportunità ed esercitare il suo mestiere di artigiano specializzato, un mestiere necessario anche nel periodo più buio dell’alto Medioevo. Gli esempi si possono moltiplicare senza difficoltà: gli architetti delle cattedrali che diffondono lo stile romanico per tutto il continente; i dottori di una università che avevano il privilegio di insegnare in qualsiasi altra università e molte volte non avevano l’opportunità di una carriera accademica se non lontano dalla patria; gli ecclesiastici, come !’italiano Anselmo, che diventava arcivescovo di Canterbury, carica che richiedeva una straordinaria abilità politico-amministrativa, oltre che teologica. 

Insomma, esisteva una piccola élite internazionale, che parlava una lingua internazionale ed era esperta nei diversi settori, di cui si aveva bisogno. Necessariamente questa élite dirigeva, comandava, sfruttava la grande maggioranza della popolazione europea. Contrariamente ad essa, i contadini perseveravano con i loro costumi e le loro lingue. Ecco il motivo dell’internazionalità del Medioevo e nello stesso tempo i suoi limiti. 

Fino a questo punto ho seguito la tesi del Deutsch, tentando di elaborarla. Andando più oltre, voglio dire che questo modello di Alto Medioevo suggerisce almeno una valida spiegazione del perché gli stati creati dopo la caduta dell’Impero romano erano cosi grandi ed etnicamente tanto diversi: era possibile costruire quei grandi imperi, perché l’Europa era sottosviluppata. Le varie regioni avevano bisogno di servizi e di prodotti che si potevano produrre solamente in tutta l’Europa o almeno in una parte molto grande del continente. I principi di stati relativamente piccoli non potevano eguagliare l’abilità militare e amministrativa di cui potevano disporre i conquistatori degli imperi. Attraverso i secoli il papato aveva potuto costruire e dirigere un’organizzazione comprendente tutta l’Europa cattolica. Ma non voglio continuare con questo argomento e con la riforma del Cinquecento. 

Come risaputo, la condizione dell’Europa dell’Alto Medioevo, quantunque di lunga durata, non fu permanente. Molti storici pensano che qualcosa non funzionasse nella civilizzazione europea dell’Alto Medioevo, riferendosi al declino morale che spiega la crescente secolarità della società oppure alla crescente secolarità che spiega il declino morale. Altri storici, di temperamento meno romantico, hanno proposto un deus ex machina, come il sorgere della borghesia o del capitalismo o il declino del feudalesimo. Il vantaggio della mia tesi è che possiamo fare a meno delle spiegazioni di tipo morale di uno sviluppo storico di si grande complessità, ed egualmente possiamo fare a meno di spiegazioni che, di per sé, hanno bisogno di ulteriori spiegazioni. Credo che siano stati proprio l’azione, il lavoro dell’élite esperta a dare la possibilità alle diverse parti del continente di svilupparsi economicamente e culturalmente. Diventava dunque possibile per quelle parti d’Europa fruire di quei servizi e almeno di molti prodotti che prima erano solo presenti in alcune regioni del continente. In altre parole, l’Europa diventava più ricca e meno sottosviluppata. 

Fu un processo assai lento. L’internazionalismo non poteva sparire da un giorno all’altro. Si può vedere, per esempio, il lento cambiamento culturale nel diffondersi della letteratura vernacolare: l’Italiano, il Francese, l’Anglo-sassone, il Tedesco. Questo fenomeno ci dice che esisteva in quel tempo un pubblico laico più numeroso e con molto tempo libero per imparare a leggere, contro quei pochi di prima che per necessità avevano imparato a leggere il latino. Nello stile delle costruzioni troviamo, invece, più differenze regionali. Lo stile gotico era ancora uno stile internazionale; però vi troviamo molte differenziazioni regionali che non troviamo nello stile romanico. E così via. 

Lo stesso fenomeno si manifesta nell’organizzazione politica, a causa del diffondersi delle abilità militari e amministrative nelle regioni d’Europa. Era il momento in cui si cominciavano a porre le basi degli stati nel Tardo Medioevo e nei primi secoli dell’età moderna. Le dimensioni esatte di questi stati non si possono conoscere, ma nessuno stato era ancora tanto esteso quanto l’impero di Carlomagno. Le affinità etniche o tribali potevano influenzare questo sviluppo, come anche le tradizioni classiche, e in ciò ci viene da pensare alla Hispania, alla Gallia e alla Germania. Però non si devono sopravvalutare le tradizioni letterarie o l’influenza di quelli che facevano propaganda “nazionale”, anche se scrivevano in latino. Si può dire anche di più; la mia tesi non sottovaluta un fenomeno umano che di solito oggi è ignorato dagli storici del nazionalismo ed anche dai combattenti per la libertà. Mi riferisco al fenomeno ormai diffuso dei matrimoni etnici. 

Gli stati del Tardo Medioevo, una volta formati, acquistavano la stabilità di organizzazioni ben funzionanti. A poco a poco, a causa delle tradizioni di lealtà alloro principe, a causa delle tradizioni educative ed anche di quelle mitologiche risalenti alla loro origine (tradizioni mitologiche che facevano considerare gli antenati come eroi), le popolazioni dei nuovi stati acquistavano un senso di nazionalità. Fu un processo assai lento. I contadini con usi, pregiudizi, lingue o dialetti, sopravvivevano come avevano sempre fatto. Si pensi, per esempio, alla lingua siciliana che scompare solo oggi nelle città, principalmente a causa della radio, del cinema e della televisione. L’idea dell’unità naturale della cristianità si affievolì solo nel Settecento ed è stata soppiantata dal nazionalismo, considerato quasi una religione che diventava motivo politico popolare. Nel corso del suo sviluppo, il nazionalismo si è servito dei sentimenti più antichi; naturalmente del patriottismo, ma anche, certamente, di altri sentimenti più perniciosi come il razzismo e la xenofobia. 

Scopo di questa mia conferenza non è quello di dare giudizi morali, ma di analizzare uno sviluppo storico per vedere se esso ci può illuminare per il futuro. Credo che adesso, alla fine del Novecento e del secondo Millennio, siamo arrivati all’immagine speculare della debolezza dell’universalismo del Medioevo, vuol dire della debolezza dello stato sovrano, di quella unità politica, economica e culturale, che fino a non molto tempo fa era considerata come unità naturale e quasi platonica. Nel Tardo Medioevo gli immensi imperi erano sopravvissuti alla loro utilità e credibilità. 

Nel campo dell’economia, della politica militare, dell’amministrazione e alla fine nelle emozioni della gente, il lavoro dell’élite internazionale non era necessario né era la più efficiente forma di organizzazione della vita dei popoli europei. 

Oggi troviamo che il nazionalismo etnico-populistico, e la sua incarnazione nello stato nazionale sovrano, comincia a sopravvivere alla sua utilità e credibilità. Questo sviluppo si nota nell’Unione europea, fondata da una generazione che nella seconda guerra mondiale era giunta ad un nazionalismo esagerato. Per una nuova generazione e forse ancora più importante il sorgere di un mercato globale, finanziario e di produzione. 

Che resta della sovranità di uno stato individuale, quando il corso della sua moneta, la quantità delle tasse, insomma la sua politica economica dipende da banche e da altri organismi internazionali con direttori non eletti e sconosciuti? È la fine non tanto delle differenze e tradizioni culturali, almeno non necessariamente, quanto del nazionalismo politico. 

Ed ecco la mia analogia, un’analogia di immagine speculare. Senza dubbio, sarà un processo lento, come era la morte dell’idea dell’universalismo medievale. Non si può predire quanto tempo sopravviveranno gli stati nazionali, che cambiamenti potranno aversi o quali organismi subentreranno agli stati non ancora del tutto riconosciuti. Le nazioni non sono entità platoniche. 

Voglio terminare con una citazione di Goethe. Nel Faust Mefistofele dice allo studente principiante che aveva deciso di non studiare la giurisprudenza: 

Vernunft wird Unsinn, Wohltat Plage; 
Weh dir, dass du ein Enkel bist! 


La ragione diventa un nonsenso, il beneficio una piaga; 
Misero, che sei un nipote! 

Helmut G. Koenigsberger

(*) Questa relazione, curata da Vita Montalto, riprende ed elabora più compiutamente un breve articolo del prof. H. G. Koenigsberger apparso nel novembre del 1996 con lo stesso titolo su “European History Quarterly”.

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pagg. 5-11.




 The cats of Avignon 

The cats of Avignon
Un mistero del XIV secolo nella città papale in Francia

An introduction
Truly strange experiences are rare. The déjà vu, the foretelling dream, yes many people experience these things. But it is normally alone. These are private and personal experiences that scientists call subjective. More spiritual types of people will credi t that they happen. However, no one knows how to approach another person’s vision or dream except, perhaps, a few fortune tellers or psychologists following in the footsteps of Sigmund Freud or CarI Gustav Iung. Our strange experience was not like any of these. First it occurred in a real pIace, the city of Avignon near the ruined papal palace. Second it happened in real time, aftemoon turning into evening in the summer of 1961. The people and animals and objects in it were all three dimensional and whole. Helli and I shared this experience simultaneously. We saw what we saw before we spoke about it. Thus, we both saw what was happening before us and we have been comparing impressions for a long time afterward. It was, of course, on our marriage trip but we had been travelling for a couple of weeks already and we were not acting dreamy or being overly romantico It was, of course, after lunch too, but we definitely did not drink too much wine that day becau-se we still wanted to sight-see. We still hoped to gather more impressions of Avignon. And we did get more impressions of what was happening there but they were peculiar impressions, like nothing we had ever seen or ever even thought to see. The events did not appear to foretell anything. They occurred independently of us; we could have been two other people or, possibly,
no people at all and yet the story I tell in the poem The Cats oJ Avignon did happen. Briefly, it was like this: we noticed two small women with far eastern features. They wore habits that could have beennun’s habits or just unusual costumes. Their clothes were not particularly eastern and looked like the garments of some western religious order before shorter skirts and modern shoes became acceptable. However, there were no visible cross es on them. At first we thought they were just two nice ladies fee-ding cats. But the food was unusual, grainy, and they gave them water to drink as well. They moved on a bit and so did we and they repeated the feeding again and again in different spots along a long trail. That trail was pursued by huge numbers of cats, by many, many more cats than we could expect to see in any place on one afternoon. Also all of these cats were white or black or spotted, black and white. Needless to say, the costumes of the Iadies were also black and white. Cats and ladies all ignored us completely; yet we watched this apparent ritual for the better part of an hour. A few other people were around. They seemed to be going about their business. For all we know, this ritual may have been a common one in Avignon at that ti me but for newcomers it looked very strange. Unusual events were happening in a place, a city of great spiritual ambiguity. The far history of 14th century schism, of controversial Popes, and of long subsequent disorder contributed, or seemed to contribute to the rare atmosphere around us on that afternoon. But what was our experience in the summer of 1961 about? What did it alI mean? For an answer to that you will have to read the poem.

THE CATS OF AVIGNON

—1—

It may be mystery of papal city of ‘300
We saw the cats in Avignon
those cats that did peculiar things
and no others.
Feline brothers all hid or absconded,
never were.
Were owls or bats,
possibly hiding in the vats of wine,
by design?
«Drunk and orderly»
all the greys and reds, blues and browns,
bedded down where we could not see
them.
Gone to ground,
hidden, quiet and alert,
safe, or bound by spells.
Twitchings of ears and tails implied
cats that lived, me-ewed and died,
most of all are those who hide away,
hide away,
as we walk among the ruins
tracking two strangers,
ministering to others.
Mysterious mothers
asian nuns, perhaps
in exotic habits of white and black
fixed on each elegant nun,
toting sacks of magic.
Sad, no tragic expression on each mask;
each pearl grey face without a trace
of bumps or lines, frowns or grins,
small flat noses, tiny chins,
opaque eyes might hide great sins;
opaque eyes of robotic twins,
ubiquitous others?
Shifting,
sifting from their sacks while twisting,
murmuring prayers or calls or spells.
Raising angels, devils,
ghosts or saints,
banshees, deities (Gehenna’s
hells-angels)?
Their insubstantial sounds were calling,
wailing, hidden underground;
calling incorporeal beings to the scene,
that curious scene,
no shady dream;
for us,
it was substantial.
Pinch me, push me spin me round
on those Papal Palace grounds,
tell me afternoons abound with visions!
Apparitions in late sun,
not yet evening, daytime gone,
silver light and wispy bright,
we saw them
moving;
we were not in trance,
we saw them.
Saw them do their curious dance:
processing deft twists and turns,
leaning, bending,
giving grains,
grains like seeds or millet pods, in ritual
demonic, odd!
Sister up, her twin around
unturned, bending towards the ground;
leaving bowls of clearest water
placed by oriental daughters.
Witnessing strange charity, we followed,
stalked those ladies up ahead,
just ahead.
She looks right while she turns round;
surrounding them down on the ground,
white ones, black ones darted, flit;
crept by gates, stood still or sit;
tails held high – some,
whiskers down for lapping drink
placed on a mound of grass;
chewing grains from magie sack,
black and white and white and black,
peering at their human muses, staring,
grooming.
So confusing. 
for our weary tourist brains.
Fifties -more -a hundred throngs.
Numinous their feline eyes,
filled with need or love or sighs.
Filled with fabulous devotion.
Never static;
swift in motion cats.
Astarte, Frea, Frey may call,
Isis, Bastet, Amen-Ra,
Stella, Mary, Devi, Hera,
Venus, Pan or sweetest Gaia,
Indra, Flora: where are we?
Juno, Nanna, Nut: we see.
Bless us holy Trinity!
Help us, tell us what we see:
omniscient singularities?
Nuns or not-nuns if you please.
Shades with eyes and spells, just that.
Spells that summon whites and darks,
not one tortoise shell in pack,
nor one siamese or manx.
High on ledges,
In between flowered borders,
rock, hedge, bush;
sudden -rushing in a run of felines
winding.
Habit colours,
only those, not any others.
Only those of white and black,
munching pods tossed from the stacks
of polished grain,
towed in the sacks of spirits.
Near to dusk in Avignon,
passing heaven, lost, astray;
some silent sowers wend their way.
Christ saw. He carne and gathered them.
Strange cats, they carne and gathered
them as fruits of earth and genesis.
Liquid sunlight sapped the day,
shade transmuted into night;
into twilight stole whole bursts of being.
Energy is mystery.
Vital flight from feline play,
white-lit nights, while darkest days
portend emotions.
Something known about all things;
something understood is best.
Best above authority on one event,
leaving the rest outside.
This event had mystery implicit.
Our predicament:
what we see,
we said we saw
near the Papal Palace door, moving,
turning more and more towards nothing.
Nothing known by saints or nuns,
friars, priests or abbots’sons.
Secrets told by whispering ones
and their purring cats vacluse.
Chrystal Rhones besotted muses
servil e in humility
they bow to Bastet’s issue,
keeping quiet dignity.
No cat me-ewed,
no cat refused.
Tranquil rumbling worship heard,
not a squawk. No crying bird
broke their murmurs in the grass,
on the paths of Clement six in Babylon.
Heretics and criminals
once sought solace in these walls.
Baudy houses multiplied.
Sinners played, then wept and sighed.
Lively felines ate and died?
Ask redemption in this place.
Ask for more, the human race;
seek some mercy, by the grace of nature.
No sick feline did we see.
Not one dead deformity,
but their actions were not free
or plausible.
Movements jerky, taut, unsound
in those Papal Garden grounds:
witchy cats enthralled
ought they to suffer?
Drugged or held by hidden chords,
crunching grains and lapping lotus
water.
Kittens, dams or toms beset
by some god, some ill or spell.
White is black in God or hell.
Black is white in nil or all.
Infinity in Babylon;
atop the rock of Israel,
where flagellants transported.
Nuns or cats, which can you be?
Ladies transformed, tended, wild,
two escapees from the child of spirit?
Cats to nuns or nuns to cats,
never, ever shall we know,
while the nighrlights pulse and glow
and the moist air closes in,
as the heat, uncertain, folds
round old decaying Avignon.
Dorothy Koenigsberger
già docente al Politecnico «Hartfield»

Università di Hertfordshire

Un mistero del XIV secolo nella città papale in Francia 

An introduction 

Truly strange experiences are rare. The déjà vu, the foretelling dream, yes many people experience these things. But it is normally alone. These are private and personal experiences that scientists call subjective. More spiritual types of people will credi t that they happen. However, no one knows how to approach another person’s vision or dream except, perhaps, a few fortune tellers or psychologists following in the footsteps of Sigmund Freud or CarI Gustav Iung. 

Our strange experience was not like any of these. First it occurred in a real pIace, the city of Avignon near the ruined papal palace. Second it happened in real time, aftemoon turning into evening in the summer of 1961. The people and animals and objects in it were all three dimensional and whole. Helli and I shared this experience simultaneously. We saw what we saw before we spoke about it. Thus, we both saw what was happening before us and we have been comparing impressions for a long time afterward. 

It was, of course, on our marriage trip but we had been travelling for a couple of weeks already and we were not acting dreamy or being overly romantico It was, of course, after lunch too, but we definitely did not drink too much wine that day becau-se we stilI wanted to sight-see. We still hoped to gather more impressions of Avignon. And we did get more impressions of what was happening there but they were peculiar impressions, like nothing we had ever seen or ever even thought to see. The events did not appear to foretell anything. They occurred independently of us; we could have been two other people or, possibly, no people at all and yet the story I tell in the poem The Cats oJ Avignon did happen. 

Briefly, it was like this: we noticed two small women with far eastern features. They wore habits that could have been nun’s habits or just unusual costumes. Their clothes were not particularly eastern and looked like the garments of some western religious order before shorter skirts and modern shoes became accepta-ble. However, there were no visible cross es on them. At first we thought they were just two nice ladies fee-ding cats. But the food was unusual, grainy, and they gave them water to drink as well. They moved on a bit and so did we and they repeated the feeding again and again in different spots along a long trail. 

That trail was pursued by huge numbers of cats, by many, many more cats than we could expect to see in any place on one afternoon. Also all of these cats were white or black or spotted, black and white. Needless to say, the costumes of the Iadies were also black and white. Cats and ladies all ignored us completely; yet we watched this apparent ritual for the better part of an hour. A few other people were around. They seemed to be going about their business. For all we know, this ritual may have been a common one in Avignon at that ti me but for newcomers it looked very strange. 

Unusual events were happening in a place, a city of great spiritual ambiguity. The far history of 14th century schism, of controversial Popes, and of long subsequent disorder contributed, or seemed to contribute to the rare atmosphere around us on that afternoon. But what was our experience in the summer of 1961 about? What did it alI mean? For an answer to that you will have to read the poem. 

 THE CATS OF AVIGNON 

—2—

It may be mystery of papal city of ‘300 
We saw the cats in Avignon 
those cats that did peculiar things 
and no others. 
Feline brothers all hid or absconded, 
never were. 
Were owls or bats, 
possibly hiding in the vats of wine, 
by design? 
«Drunk and orderly» 
all the greys and reds, blues and browns, 
bedded down where we could not see 
them. 
Gone to ground, 
hidden, quiet and alert, 
safe, or bound by spells. 
Twitchings of ears and tails implied 
cats that lived, me-ewed and died, 
most of all are those who hide away, 
hide away, 
as we walk among the ruins 
tracking two strangers, 
ministering to others. 
Mysterious mothers 
asian nuns, perhaps 
in exotic habits of white and black 
fixed on each elegant nun, 
toting sacks of magic. 
Sad, no tragic expression on each mask; 
each pearl grey face without a trace 
of bumps or lines, frowns or grins, 
small flat noses, tiny chins, 
opaque eyes might hide great sins; 
opaque eyes of robotic twins, 
ubiquitous others? 
Shifting, 
sifting from their sacks while twisting, 
murmuring prayers or calls or spells. 
Raising angels, devils, 
ghosts or saints, 
banshees, deities (Gehenna’s 
hells-angels)? 
Their insubstantial sounds were calling, 
wailing, hidden underground; 
calling incorporeal beings to the scene, 
that curious scene, 
no shady dream; 
for us, 
it was substantial. 
Pinch me, push me spin me round 
on those Papal Palace grounds, 
tell me afternoons abound with visions! 
Apparitions in late sun, 
not yet evening, daytime gone, 
silver light and wispy bright, 
we saw them 
moving; 
we were not in trance, 
we saw them. 
Saw them do their curious dance: 
processing deft twists and turns, 
leaning, bending, 
giving grains, 
grains like seeds or millet pods, in ritual 
demonic, odd! 
Sister up, her twin around 
unturned, bending towards the ground; 
leaving bowls of clearest water 
placed by oriental daughters. 
Witnessing strange charity, we followed, 
stalked those ladies up ahead, 
just ahead. 
She looks right while she turns round; 
surrounding them down on the ground, 
white ones, black ones darted, flit; 
crept by gates, stood still or sit; 
tails held high – some, 
whiskers down for lapping drink 
placed on a mound of grass; 
chewing grains from magie sack, 
black and white and white and black, 
peering at their human muses, staring, 
grooming. 
So confusing 
for our weary tourist brains. 
Fifties -more -a hundred throngs. 
Numinous their feline eyes, 
filled with need or love or sighs. 
Filled with fabulous devotion. 
Never static; 
swift in motion cats. 
Astarte, Frea, Frey may call, 
Isis, Bastet, Amen-Ra, 
Stella, Mary, Devi, Hera, 
Venus, Pan or sweetest Gaia, 
Indra, Flora: where are we? 
Juno, Nanna, Nut: we see. 
Bless us holy Trinity! 
Help us, tell us what we see: 
omniscient singularities?
Nuns or not-nuns if you please. 
Shades with eyes and spells, just that. 
Spells that summon whites and darks, 
not one tortoise shell in pack, 
nor one siamese or manx. 
High on ledges, 
In between flowered borders, 
rock, hedge, bush; 
sudden -rushing in a run of felines 
winding. 
Habit colours, 
only those, not any others. 
Only those of white and black, 
munching pods tossed from the stacks 
of polished grain, 
towed in the sacks of spirits. 
Near to dusk in Avignon, 
passing heaven, lost, astray; 
some silent sowers wend their way. 
Christ saw. He carne and gathered them. 
Strange cats, they carne and gathered 
them as fruits of earth and genesis. 
Liquid sunlight sapped the day, 
shade transmuted into night; 
into twilight stole whole bursts of being. 
Energy is mystery. 
Vital flight from feline play, 
white-lit nights, while darkest days 
portend emotions. 
Something known about all things; 
something understood is best. 
Best above authority on one event, 
leaving the rest outside. 
This event had mystery implicit. 
Our predicament: 
what we see, 
we said we saw 
near the Papal Palace door, moving, 
turning more and more towards nothing. 
Nothing known by saints or nuns, 
friars, priests or abbots’sons. 
Secrets told by whispering ones 
and their purring cats vacluse. 
Chrystal Rhones besotted muses 
servil e in humility 
they bow to Bastet’s issue, 
keeping quiet dignity. 
No cat me-ewed, 
no cat refused. 
Tranquil rumbling worship heard, 
not a squawk. No crying bird 
broke their murmurs in the grass, 
on the paths of Clement six in Babylon. 
Heretics and criminals 
once sought solace in these walls. 
Baudy houses multiplied. 
Sinners played, then wept and sighed. 
Lively felines ate and died? 
Ask redemption in this place. 
Ask for more, the human race; 
seek some mercy, by the grace of nature. 
No sick feline did we see. 
Not one dead deformity, 
but their actions were not free 
or plausible. 
Movements jerky, taut, unsound 
in those Papal Garden grounds: 
witchy cats enthralled 
ought they to suffer? 
Drugged or held by hidden chords, 
crunching grains and lapping lotus 
water. 
Kittens, dams or toms beset 
by some god, some ill or spell. White is black in God or hell. 
Black is white in nil or all. 
Infinity in Babylon; 
atop the rock of Israel, 
where flagellants transported. 
Nuns or cats, which can you be? 
Ladies transformed, tended, wild, 
two escapees from the child of spirit? 
Cats to nuns or nuns to cats, 
never, ever shall we know, 
while the nighrlights pulse and glow 
and the moist air closes in, 
as the heat, uncertain, folds 
round old decaying Avignon. 

Traduzione di Bruna Scimonelli, clicca l’icona!


Dorothy Koenigsberger 

già docente al Politecnico «Hartfield» 

Università di Hertfordshire




ESSERE COME POLVERE 

 di Peng Kan (n. 1988, Hengyang, Hunan) 

Avevo camminato sulla spiaggia 
a piedi nudi 
che pestavano sabbia ed acque amare, 
e quando la marea rifluiva 
ad ogni passo 
avvertivo un’immensità ritrarsi. 
Avevo pianto e riso senza freno 
ascoltando la voce r.c.ia narrare 
storie inventate 
(perché ormai passate), 
futili ombre nella notte buia. 
Il cuore non sa mai se un’onda o quale 
potrà levarlo verso un altro cuore, 
se la parola è un soffio 
o un coltello che lacera la carne 
e ti fa sanguinare. 
Urge allora il silenzio … 
Sempre i sospetti restano nel fondo 
del cuore e la bugia 
risale sulla punta della lingua 
come la luna sul lucente specchio 
del mare, 
Ora vorrei essere soltanto 
polvere che ad un soffio si solleva 
e tu la vedi e non la puoi toccare. 


Traduzione dalla lingua cinese di Veronica Ciolli, versione di Patricia Lolli e Renzo Mazzone. 

Peng Kan

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 40 .




 Modern Love di George Meredith:  il canzoniere d’amore dalle passioni mute 

He felt the wild beast in him betweenwhiles 
So masterfully rude, that he would grieve 
To see the helpless delicate thing receive 
His guardianship through certa in dark defiles. 
Had he not teeth to rend, and hunger too? 
But stili he spared her. Once: ‘Have you no fear?’ 
He said: ‘twas dusk; she in his grasp; none near. 
She laughed: ‘No, surely, am I not with you?’ 
And uttering that soft starry ‘you’ , she lean ‘ d 
Her gentle body near him, looking up; 
And from her eyes, as from a poison-cup, 

He drank until the flittering eyelids screen’ d. 
Devilish malignant witch! And oh, young beam 
Of Heaven ‘s circle-glory! Here thy shape 

To squeeze like an intoxicating grape – 
I might, and yet thou goest safe , supreme.1 

Torna in primo piano, dopo più di due secoli, con la poesia vittoriana, il canzoniere d’amore. Se i canzonieri della tradizione cortese esploravano le forme dell’ amore declinandole secondo l’idea platonica dell’unione degli amanti e dell’immutabilità del sentimento, la sequenza dei sonetti di George Meredith, Modern Love (1862), ripropone della poesia d’amore tutti i suoi topoi, rovesciandoli e negandoli, però, alla luce della vanificazione di quegli ideali. L’amore, quello ‘moderno’, precisa Meredith nella sequenza stessa, non conosce più leggi, ma solo la mutevolezza degli ‘umori’, sentimenti e passioni contrastanti e insondabili («Prepare, you 10- vers, to know Love a thing of moods»). Il moderno canzoniere indaga, perciò, i motivi della crisi dell ‘esperienza sentimentale che si profila sin dal titolo tipica dell’ epoca e ritrae la varietà degli stati d’animo nel turbamento della rottura. 

In particolare, il romanzo in versi di Meredith, ispirato alla propria vicenda autobiografica2, costruisce in modo allusivo e talvolta ellittico, la storia della tragica conclusione del matrimonio di una coppia che ha condiviso l’illusione sentimentale di un amore romantico. Incapaci di accettare le leggi del mutamento nella nostalgia di un passato perfetto, i due protagonisti scavano nel proprio dolore e diventano, in un complesso gioco di inganni, autoinganni e dissimulazioni, vittime l’uno dell’altro. 

L’estrema tensione della sofferenza è sperimentata in ambito domestico. Ogni sonetto in una forma lirico-narrativa fa progredire l’intreccio drammatico di questa tragedia solo in superficie dell’infedeltà coniugale e, al contempo, apre squarci di esplosioni emotive. 

Il sonetto 93 , benché introdotto da una voce narrante, pone in primo piano i pensieri del marito, i suoi stati d’animo, la sua prospettiva interpretati va sugli eventi e, soprattutto, la percezione che egli ha degli stati emotivi e psicologici della donna. Pertanto, la voce di un apparente narratore esterno, che evoca, pur con brevissimi accenni, un episodio di vita domestica, transita impercettibilmente nell’ultima quartina nella forma soggettiva di un monologo mentale in prima persona. È un dramma muto, infatti, quello che si consuma tra i due coniugi. I silenzi separano e allontanano i due sin dalle prime rivelazioni della crisi. Ogni tentativo di comunicazione è soffocato e taciuto. Si comprende, perciò, che non si tratta solo di una storia di adulterio da parte della moglie, ma anche del logoramento di un rapporto nel tempo. 

In tale isolamento egli si ammala («he sickened»4), sopraffatto da sentimenti contrastanti di rimorso per il fallimento, di gelosia violenta, di desiderio inappagato, di rabbia, di pietà, di sadico piacere per le sofferenze di lei. 

Nel canzoniere di Meredith si profila, dunque, un ‘moderno’ trattamento della vicenda sentimentale: nel rapporto tra uomo e donna irrompono forze psichiche che corrodono il legame d’amore. Ancora una volta pene d’amore, ma di un amore come forza distruttiva che si nutre di conflitti personali, nevrosi, contraddizioni psicologiche ed emotive. 

Queste le oscure gole, i «dark defiles», gli oscuri e misteriosi tumulti del profondo in cui ci si inoltra. Nel sonetto qui proposto, la voce narrante ricompare per l’ultima volta in un tentativo di presentazione oggettivante di un io che sta per perdersi nei labirinti confusi e ingannevoli del proprio inconscio. Con la modalità narrativa di una registrazione di un’esperienza passata è detto ciò che «lui talvolta sentiva in sé» («He felt [ … ] in him betweenwhile»). Sentiva dentro di sé la prepotente aggressività di una bestia selvaggia capace di uccidere. Sentiva come un Otello5 furioso una voglia di vendetta divampare con famelica animalità. L’impeto, però, di quell’istinto brutale, è trattenuto da un nuovo bagliore percettivo. La moglie, ora, gli appare come essere indifeso e delicato. Potrebbe colpirla, ma la risparmia. Si incunea a questo punto del sonetto il ricordo di un episodio cruciale, evocato da un semplice «once» e fatto di un unico e brevissimo scambio verbale, per di più, tra i pochissimi presenti nel poemetto, in cui è rappresentato in forma drammatica il raggelarsi degli impulsi più violenti al cospetto di lei. Incapace di autoanalisi, egli decide di investigare nel profondo delle emozioni della sua donna, perciò, rimodula e porge a lei l’interrogativo irrisolto poco prima volto a se stesso: non ha fame di lei? E lei non ha paura di lui? 

Sono interrogativi posti nella luce declinante del crepuscolo («dusk»), nell’ora in cui la forza della ragione sta per cedere al buio («dark») delle passioni incontrollate; prima, insomma, che l’intimità domestica possa diventare un luogo adatto per un delitto («she is in his grasp; none near»). Con la consueta dissimulazione tra i due, però, lei ride, dicendosi tranquilla accanto a lui. Ed è uno dei tanti risi che comprimono e contengono i turbamenti trattenuti della coppia. Non solo non ha paura, ma gli si avvicina, seducendolo col movimento sinuoso del corpo («she leaned her gentle body near him»), con lo sguardo e con l’invocazione dello ‘you’ che giunge a lui come dolce e stellare, evocativo di antiche tenerezze e intimità. 

Alle immagini del buio, ricorrenti nell’intera sequenza, che figurativamente avvolgono pensieri ed emozioni inesprimibili, fanno da contrappunto quelle della luce. La luce dell’amore ideale e romantico che un tempo li aveva uniti riemerge dalle tenebre per brevi momenti come una stella, un raggio. La brevità di quella illusione percettiva è resa poeticamente con echi di stilemi e modalità propri della lirica amorosa: la registrazione delle sue movenze gentili, i suoi sorrisi, la ridondanza pronominale dello ‘you’. Soprattutto gli occhi. Topos della tradizione petrarchesca, organo privilegiato della percezione che apre l’accesso all’amore verso il cuore. Nella tragedia dell’ amore moderno, però, dagli occhi pieni di seduzione, sempre in primo piano in tutto il poemetto e sineddoche per la donna, egli beve come da una tazza velenosa. 

La profondità dello sguardo di lei lo travolge nel turbamento di una bellezza ambigua e sollecita le inquietudini e i pensieri nascosti di lui. A palpebre chiuse restano in lui due opposte e inconciliabili immagini di donna («thy shape») – come nei tanti ritratti pittorici di donna pre-raffaelliti – quella angelicata, tramite tra l’uomo e Dio («young beam of heaven circe-glory») e quella demoniaca, creata dalla pulsione di un desiderio tormentato («devilish malignant witch» ). 

La sensualità femminile ha, dunque, un fascino contaminato, è come una «intoxicating grape», come un’uva che, nell’ambivalenza semantica aggettivale, allo stesso tempo inebria e intossica. Ancora una volta nella sequenza, la imagery del gusto esprime l’essere in balia dei sensi. La metafora naturale, invece, richiama l’identificazione donna-natura. 

Se, dopo The Origins of Species, la natura è associata all’animalità dell’uomo, la seduzione femminile incarna, in epoca vittoriana, la resa alle leggi puramente fisiche che sembrano governare la vita. Donna e natura, ormai minacciose e misteriose, rappresentano la paura di regressione verso gli istinti brutali, l’animalità dalla quale si teme di provenire, la parte oscura dell’uomo, morbosa, incontrollabile e inquietante.  

Si legge in una lettera di Meredith del 1861: «Voglio far scoccare la scintilla poetica dell’autentica argilla umana.» L’immagine dell’argilla biblica affiora più volte nel poemetto. A tal proposito Serpieri commenta: «La mente, lo spirito, dell’uomo può credere di dominare la sua natura materiale, l’argilla biblica da cui è stato creato, ma inevitabilmente da quella primigenia materialità sarà contagiato»6. Il protagonista maschile di Modem Lave, infatti, esprimerà disprezzo ogni qual volta la donna tenterà di travolgerlo con la sua femminilità sinistra nel giogo di una seduzione demoniaca, così come ripudierà nella liaison con la Lady il risolversi del rapporto in pura attrazione carnale. 

A conclusione del sonetto 9, nel dissidio tra natura e cultura sembrano prevalere le forze dell’intelletto e della ragione, e la donna va via da quel luogo di possibile pericolo salva e «suprema». Nel momento in cui, però, la mente sembra dominare l’argilla («while mind is mastering clay»), essa è invasa dalla sua greve materialità («gross clay invades it»)7. Restano in lui emozioni contrastanti ed esasperate, trattenute sì, ma gridate mentalmente. Alle passioni e ai sentimenti non si dà sfogo, sono destinati a rimanere oscuri e contratti nelle tenebre del profondo. Il sonetto, dunque, non volge verso una risoluzione drammatica. L’ultima unità metrica, in estensione pari alle altre (diversamente dalla tradizione sonettistica elisabettiana e petrarchesca) asseconda, invece, un flusso di emozioni disparate. Tutto è lasciato in sospeso, come spesso accade in questo romanzo lirico-drammatico, in un punto di snodo psicologico decisivo. Lo sviluppo narrativo verso l’epilogo tragico8 è tessuto da sentimenti esacerbati, inconfessati e inespressi: «Passions spin the plot.» 

Tiziana Ingravallo 

NOTE 

1 G. Meredith, Modern Love, London, Syrens, 1995, p. IO. Tr.it. : Lui sentiva in sé talvolta la selvaggia bestia / così prepotentemente rude che gli doleva vedere / quell’essere indifeso e delicato accettare / la sua protezione in certe oscure gole. / Non aveva denti per sbranare, e fame anche? / Ma tuttavia la risparmiava. Una volta: «Non hai paura?» disse; era il crepuscolo, lei in suo potere; nessuno accanto. / Lei rise: «No, certamente, non sono qui con te?» / E pronunciando quel dolce «te» stellare, accanto a lui / piegò il suo corpo gentile, guardandolo dal basso; / e dai suoi occhi, come da una tazza velenosa, / lui bevve finché gli fecero schermo le palpebre tremanti. / Diabolica strega malvagia! E, oh, giovane raggio della rotonda gioia del cielo! Qui, la tua figura, stritolare come un’uva intossicante / io potrei, e invece tu ne vai salva, suprema. – L’amore moderno (a cura di A. Serpieri), Milano, BUR, 1999, p. 71. 
2 George Meredith si separò da Mary Ellen Nicolls (figlia di Thomas Love Peacock) nel 1857, dopo un tormentato matrimonio. La sequenza di sonetti Modern Lave fu scritta nel 1861 , in occasione della morte di lei. Mary aveva abbandonato il marito per una relazione con il pittore preraffaellita Renry Wallis. Meredith si ri fiutò, perciò, di rivederla anche durante l’ aggravarsi della sua malattia. 
3 Si è scelto di porre al centro della nostra analisi il sonetto 9, perché riteniamo sia la chiave di volta tematica dell’intera sequenza. 
4 Cfr. Sonetto 2, vv. 6-9: «Re sicken’d as at breath of poison-flowers: / A languid humour stole among the hours, / And if their smiles encounter’d, he went mad, / And raged, deep inward.» 
5 L’immagine di un Otello tormentato da percezioni contrastanti e distorte, secondo la lettura romantica e vittoriana del personaggio shakespeariano, echeggia più volte nella sequenza. A tal proposito si veda P. Fletcher, Trifles Lights as Ain> in Meredith ‘s Modern Love, in «Victorian Poetry», Spring, 1996, pp. 87-99. 
6 A. Serpieri, op. cit., p. 118. 
7 Sonetto 33, vv. 14-15. 
8 Sarà la donna-demone a soccombere, invece, sopraffatta dal demonismo maschile «<the passion of a demon»). A metà della sequenza, infatti, i ruoli si invertono. Egli raggela ogni tentativo della moglie di aprirsi e comunicare e le nega ogni possibilità di aiuto al presentimento di un suicidio. 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 29-32.