Ventunesimo anno 

«Spiragli» entra nel 21° anno. Fondata nel 1998, la rivista continua, pur nelle difficoltà dei tempi, le pubblicazioni, con dignità e con orgoglio: con dignità, poiché non abbiamo elemosinato niente a nessuno, e con orgoglio, se l’abbiamo vista crescere portando avanti la sua linea editoriale in libertà di scelta. In questi anni abbiamo cercato di rispettare il programma che ci prefiggevamo, cioè, contribuire a dare un apporto di crescita culturale alla società, per ripristinare quei sani valori che danno fiducia nella vita. Per questo motivo, noi diamo valenza all’arte, alla letteratura, alle scienze umane, sicuri che da esse possiamo trarre linfa per costruire un vivere migliore. Scrivevamo allora: «Spiragli è una rivista libera, fuori da ogni condizionamento di parte e da fini di lucro. La motivazione che ci sostiene è prettamente culturale e nasce dall’esigenza di voler dire la nostra nel rispetto delle opinioni altrui. È, dunque, una rivista aperta a quanti sono animati da questi intenti che crediamo – nessuno escluso, operando nella buonafede – siano condivisi da tutti.» Crediamo di essere stati coerenti con gli impegni assunti, se da varie parti arrivano atte-stati di apprezzamento, con richieste di collaborazione, anche dall’ estero. E questo corrobora il proposito di continuare sulla strada intrapresa, dando voce a quanti, meritevoli, non necessariamente affermati, hanno qualcosa da dire in campo letterario, artistico e culturale. Ci prefiggiamo ora di incrementare la pe-riodicità delle pubblicazioni e la diffusione nelle scuole e nelle biblioteche pubbliche, e di ripristinare gli abbonamenti e la distribuzione nelle librerie specializzate. Con questi intenti e con tale spinta opere-remo: è un modo di dare senso alla nostra vita, facendo nostro quanto scrive il Poeta: si cresce in umanità, se si segue «virtute e canoscenza». Ringraziamo per il fattivo aiuto la prof.ssa Maria Di Girolamo, gli editori Renzo Mazzone e Donato Accodo, e quanti collaborano per rendere la rivista sempre più fruibile e interessante. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 2.




V. Monforte, Battaglie editoriali del ‘500 dal Veneto alla Sicilia, ed. Ila Palma, Palermo, 1992, pp. 144.

Con questa sua ultima opera Vincenzo Monforte crea, tra Veneto e Sicilia, un ponte ideale che assume il valore di un messaggio di unità in questi tempi confusi in cui leghismo e separatismo sembrano dominare le coscienze o piuttosto irretirle, plagiarle verso chi sa quali nascosti interessi ciechi ed anacronistici. 

La cultura, invece, non separa, unisce. E certo è di grande conforto scoprire o riscoprire l’indissolubile unità della cultura italiana .dal Veneto alla Sicilia-, sin dai primissimi avvii dell’arte della Stampa e poi durante tutto il Cinquecento. 

Queste .Battaglie editoriali- volte a ricostruire casi clamorosi di concorrenza fra tipografi della stessa città (gli eredi di Aldo Manuzio, Gabriel Giolito de’ Ferrari, Vincenzo Valgrisi ed altri stampatori veneziani), oppure fra tipografi di provincia ed editori delle città che egemonizzavano la stampa delle grandi opere della cultura classica ed umanistica, ci danno un’immagine confortante ed intimamente unitaria di tutta la civiltà rinascimentale: e ciò al di là e al di sopra della separatezza fra i vari staterelli che componevano l’Italia d’allora. 

Vincenzo Monforte scopre e dimostra che gli entusiasmi che la nuova arte della stampa accese in tutta l’Italia sul finire del ‘400 e il suo prosperare in numerosi centri della regione padana, ma anche in altre città come Roma, Firenze, Napoli, Messina, Perugia, Foligno, Urbino, sono le prove di un’unità culturale ed etnica che faceva sì che l’intera penisola – dal Veneto alla Sicilia – si riconoscesse nella tradizione letteraria e linguistica che, avviata dai poeti siciliani e dal mecenatismo di Federico II di Svevia. si era affermata poi in Toscana, come la lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, lingua del bel paese .dove dolce il si suona-. 

Questa unità culturale e spirituale degli Italiani – nota il Monforte – si consolida proprio grazie alla nuova arte della Stampa, con la sua opera capillare ed insistente, estensiva ed intensa. Per quest’opera – dice l’autore – si rese necessario da una parte la delega della cultura umanistica e dei suoi principali centri (Firenze e Roma) in favore di Venezia. affinchè essa si facesse veicolo di diffusione della nuova cultura e delle opere prodotte dalla nuova arte. dall’altra una continua osmosi fra centro e periferia. fra i letterati (o i tipografi) che si trasferivano a Venezia per avere successo (potendo da lì giovarsi della rete e degli itinerari commerciali della Serenissima) e stampatori veneziani che un po’ dovunque creavano succursali in altri centri dell’Italia o della Francia, specialmente a Lione. 

Un quadro d’insieme ricco ed articolato. nel quale Vincenzo Monforte sa inserire, privilegiandola con l’equilibrio e il garbo che lo contraddistinguono, sia la vicenda del Cieco d’Adria, coinvolto nelle battaglie per la supremazia fra gli editori Veneziani, sia le avventure .tipografiche» di Emanuele Filiberto di Savoia che seppe servirsi della nuova arte per italianizzare il suo Piemonte e conquistare all’unità culturale italiana tutti i territori al di qua delle Alpi.

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 59-69.




Una lezione di grande umanità 

 Gentili Signore e Signori, 

Innanzitutto, devo personalmente dire grazie al direttore Cammarata, perché ha accolto con piacere il mio invito, e devo dirgli ancora grazie – e gliene do pubblicamente atto -, perché le sue opere, oltre a costituire motivo di studio, mi hanno arricchito moralmente e socialmente. 

In una delle prime “Taratalle” apparse su Spiragli, il prof. Davide Nardoni, ricorrendo alla Filologia Sperimentale, spiega come la parola “poeta” significhi “qualificatore”. 

Ebbene, se poeta è “colui che qualifica”, diciamo che stasera abbiamo l’onore e il piacere di avere con noi un grande qualificatore, un vero poeta: Romano Cammarata. 

Forse, molti dei presenti lo conoscono come l’autore delle lettere piene di umanità che di tanto in tanto pervengono dal Ministero ai dirigenti e ai capi d’istituto. Ma ai molti impegni che la carica di Direttore Generale comporta, Romano Cammarata abbina il suo silenzioso lavoro di artista che lo colloca tra i più accreditati del nostro tempo, e con le sue opere, alla stessa stregua di tanti altri grandi (dall’antichità ai giorni nostri), qualifica gli uomini e la loro condizione esistenziale. 

Si leggano, ad esempio, alcune liriche (Notte siciliana, Presente, Nel circo di notte, Dalla finestra, Amo tutto ciò che scorre). Si possono evidenziare, in questi pochi esempi, tante di quelle motivazioni che da sole basterebbero per intavolare un lungo discorso. 

Ma io non voglio dilungarmi, perché è giusto, in questa sede, sentire la viva voce dell’Autore. Pertanto, rimando, per una più ampia conoscenza dell’uomo e dello scrittore, al mio saggio, fresco di stampa, che porta il titolo di: Arte e vita nelle opere di Romano Cammarata, (*) e mi soffermerò, invece, su “Violenza, oh cara”, l’ultimo suo romanzo, evidenziandone l’aspetto didattico-educativo che nel mio saggio è accennato, come deve essere in uno scritto di un certo respiro, ma che qui merita una particolare attenzione. 

Fatta questa premessa, necessaria, devo dire prima di tutto che chi si accosta ad un’opera del nostro Autore rimane scosso e al tempo stesso affascinato: scosso per la verità del vissuto quotidiano che, specie in Dal buio della notte, porta al pianto e all’immedesimazione diretta col protagonista, affascinato per la compostezza formale, per la dignità di stile che la caratterizza, per cui – sin dall’inizio – vita e arte convivono senza alcuno stacco, e senza un minimo di sofisticheria. 

L’arte, in sostanza, in Cammarata, viene da sé, è qualcosa che nasce spontanea, senza – direi – cercarla. L’arte nasce da sé, perché è il vissuto che assurge a dignità artistica, venendo incontro all’intima esigenza dell’Autore di esternare agli altri il mondo che si porta dentro, per “qualificare” meglio se stesso e gli uomini. 

Il vissuto di Romano Cammarata è quello con cui tutti quotidianamente facciamo i conti; in poche parole, quello della condizione dell’uomo di oggi arroccato nel suo “io”, perché “fuori” predomina il male: da una parte dovuto alle malattie che silenziosamente mietono tante vite umane, dall’altra, alle ingiustizie e ai soprusi che disorientano gli animi e li reprimono. 

I personaggi del nostro Autore reagiscono a tutto questo: Andrea di Dal buio della notte lotta, e vince il male che lo ha deturpato nella persona, ma al tempo stesso lo ha arricchito nello spirito, facendogli ritrovare una “umanità nuova”; Agostino Bertoni di Violenza, oh cara sfida lo Stato, uscendo dall’anonima solitudine dell’uomo qualunque e riscopre il mondo degli affetti più puri e gli altri. 

In fondo, in ambedue i protagonisti, si tratta di violenza subita, una violenza, però, che ha un risvolto positivo. E appunto per questo, diviene cara, perché, ottimisticamente, e in concreto, il male non viene per nuocere. Ecco la giustificazione del titolo. 

Il dettato è sempre lineare, ma con diverse gradazioni della voce, perché venga sentita e apra delle brecce che abbiano un seguito nell’operato dei lettori. Sicché l’aspetto didattico-educativo è esplicito e manifesto, anzi è il vero movente che spinge Romano Cammarata a scrivere. D’altronde non può essere diversamente in un uomo di scuola come lui. 

Ma veniamo a Violenza, oh cara, il romanzo su cui mi voglio soffermare. 

Un abbaglio della Giustizia porta in carcere Agostino Bertoni, da un po’ di tempo pensionato e vedovo, con l’unico impegno di accudire alla cagnetta Eva. Per il resto, una vita piatta e monotona, non invidiabile, che viene interrotta tutto d’un colpo. 

Agostino, in un primo tempo, reagisce, ma subito comprende che non ne vale la pena, visto che, senza un dialogo che avrebbe potuto essere chiarificatore, lo si accusa di sequestro, con prove alla mano. Questo modo di agire dell’autorità lo spinge a non difendersi: che sia il giudice a provare la sua colpevolezza; lui se ne starà a guardare. 

Il dialogo: se tutti vi ricorressimo, tanti mali verrebbero meno. Anche se è risaputo, non sempre è così. Agostino ci dà una grande lezione e ce lo fa riscoprire, pagando lo scotto della violazione del suo diritto alla vita. E farà quello che gli altri spesso non fanno: chiudendosi alla Giustizia, si aprirà a quanti vengono in contatto con lui, e parla e dialoga, scoprendo così la vera essenza della vita. 

Agostino, in carcere, conosce quello che doveva essere l’avvocato d’ufficio e che, invece, diverrà il suo difensore di fiducia e amico. È bastato un breve colloquio, perché Mauro Fonti, così si chiama l’avvocato, venga attratto dalla forte personalità di lui, ne accetti il comportamento, e ne condivida le idee che, il caso vuole, coincidono con quelle del padre, fino a quel momento contestate. 

«Mio padre, che ora è in pensione, l’abbraccerebbe. 
Quante volte ci siamo scontrati per il suo modo di pensare, per quel suo concetto della dignità, per quel non voler 
scendere a compromessi, ed erigersi a giudice egli stesso. 
Ma si sa, è mio padre, e come sempre avviene, è diffìcile 
comprendere i propri genitori». […] 
«Credo che stasera farò felice mio padre, perché lo 
saluterò con più rispetto e credo che sarò più in grado di 
comprenderlo, di ascoltarlo. Grazie per questa lezione». 
Un contrasto generazionale, come questo tra padri e figli, viene così risolto nel giro di poche battute, grazie al contegno onesto e disinvolto che Agostino tiene nei confronti del suo interlocutore. 
Agostino Bertoni convince con la forza della parola, col ragionamento; e prima 
di esporre agli altri le sue idee, già le ha vagliate al lume della sua esperienza, le ha meditate, bandendo il superfluo e l’incerto. Perciò agisce con la sicurezza di chi è convinto, ma non impone mai i suoi convincimenti con l’autorità dei suoi anni. 

Il bello di questo protagonista è tutto qui. Ed è in personaggi così riflessivi e responsabili come Agostino o Andrea che il lettore trova esempi di coerenza. La loro parola scava in profondità e lascia un segno che non si può dimenticare. 

I personaggi sono veri e nonostante il loro status, ognuno di essi ha qualcosa di buono, o di “bello”, volendo usare una parola cara al nostro Autore, che spinge al bene, e nessuno sarà per il male, perché in Romano Cammarata il male non è nel singolo; è nelle circostanze che la vita associata presenta. Sicché l’uomo ne è una pedina. Dopo, magari, diverrà soggetto e oggetto del male, ed è allora che farà fatica ad uscirne fuori. 

Carlo, il giovane recluso con cui Agostino stringerà amicizia e colloquierà durante la sua detenzione, ce ne offre la prova, ma ci dà anche la prova di una grande abnegazione e di un sentito rispetto per gli altri. 

«Secondo lui [l’avvocato], per una valida difesa, è la 
società che bisogna tirare in ballo, con il suo permissivismo, 
il consumismo; la famiglia per un’educazione sbagliata. la 
noia, il benessere eccessivo, e quindi il disprezzo accumulato 
per tutto questo nel periodo delicato della crescita». 

Carlo non condividerà l’impostazione di una siffatta difesa che, pur di trovare le attenuanti, vorrebbe coinvolgere la sua famiglia, a cui niente ha da rimproverare, e la società. Quando, poi, saprà dell’ingiustizia che l’amico Agostino subisce, allora correrà subito dal giudice e si autodenuncerà, scagionandolo da ogni accusa. 

Una lezione di grande umanità che sembra riportarci indietro nel tempo, ma che l’Autore crede possibile anche ai nostri giorni con un ritorno effettivo all’uomo. Sicché Cammarata ci scuote: sta a noi, ognuno nel nostro piccolo, operare nel bene. Allora il mondo tornerà a sorridere. 

Volendo così tirare qualche conclusione, a proposito dell’aspetto didattico-educativo di Violenza, oh cara, dobbiamo dire che al Nostro sta molto a cuore la famiglia che, nonostante il capovolgimento dei valori a cui giornalmente assistiamo, è basilare per la convivenza sociale e, perciò, va tutelata e difesa. 

In Violenza, oh cara, la famiglia dell’avvocato Mauro Fonti ne esce rinsaldata, difesa l’altra del giovane Carlo, tutelata e rinvigorita dall’amore quella che lo stesso Agostino metterà su quando meno se l’aspetta. Sì, perché uscendo dalla solitudine Agostino riscoprirà anche l’amore vero. 

Ma Romano Cammarata non ce la ripropone soltanto in Violenza, oh cara; questo della famiglia è un tema ricorrente negli altri suoi libri. Si veda, ad esempio, Per dare colore al tempo, dove qua e là riaffiora l’amore coniugale e paterno. 

«La mano ricadde ancora piena 
del gesto di addio. […] 
Il sapore struggente 
di quell’abbraccio di sposa 
e di quello festoso e leggero del bimbo! 
Sapeva di primavera quell’abbraccio 
come le margherite raccolte nei campi 
a riempirmi il cuore e le mani». 

Oppure, si veda ancora il suo primo libro: Dal buio della notte. Qui Andrea riscopre nella figura del padre l’amico sicuro che lo incita alla lotta, perché – dice – ognuno di noi appartiene a quanti ci vogliono bene. Sicché Andrea reagirà e l’amore filiale corroborato vivificherà ancora di più l’amore per la famiglia. E quando Andrea, svegliatosi dopo un ennesimo intervento chirurgico, scorge la moglie che, stremata, aveva preso sonno chinata su di lui, carezzandola leggermente, dirà: «Povera Francesca, […] e io egoista che ho desiderato di andarmene, di lasciarti». 

Le opere di Romano Cammarata, come un terso specchio d’acqua, da cui si dipartono tanti cerchi concentrici, allargano e sviluppano tematiche facilmente riconducibili tra loro. 

Il tema della famiglia, riproposto in modo diverso nelle sue opere, è solo un esempio, ma !’insegnamento di Romano Cammarata non finisce qui, perché investe l’uomo nella sua complessità. Sicché potremmo ricordare tanti altri temi, come quello della libertà individuale, soprattutto quella morale e, di conseguenza, quello del comportamento dell’uomo di fronte alla violenza. 

Questo della libertà morale è presente in maniera più manifesta in Violenza, oh cara, dove l’alto senso dell’umana dignità caratterizza e delinea, meglio che gli altri, la figura di Agostino che già, sin dalle prime pagine, si rivela un uomo di tutto rispetto. 

Come esempio, si legga la pagina dedicata ai randagi. Un cane che va sicuro di sé e, incurante degli altri, dà ad Agostino lo spunto per parlare di certi individui che, pur di farsi avanti, si arrampicherebbero sugli specchi, niente avendo della dignità del cane. 

C’è da dire che i personaggi di Romano Cammarata sono di tutt’altro stampo. Addirittura hanno vissuto esperienze veramente brutte. In un modo o nell’altro hanno sperimentato, a proprie spese, la vita con i duri colpi che essa riserva, e hanno reagito tenacemente fino a raggiungere i loro scopi. E tutto questo non è forse di sprone per la realizzazione di una personalità coerente, per la partecipazione e per la presa di coscienza della realtà di cui facciamo parte? 

L’uomo deve aver fiducia ed insistere nella rivendicazione di quei valori che danno un senso al vivere. E da uomini come Agostino Bertoni o Andrea ci viene questa grande lezione che apre, ottimisticamente, alle aspettative e agli altri con un forte senso di responsabilità e di attaccamento alla vita, la quale va affrontata senza titubanza alcuna, e vissuta, perché veramente, così agendo, ne vale la pena. 

Salvatore Vecchio

(*) “Spiragli”. A. IV (1992) n. l, pagg. 13-35.

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 7-12.




Tahar Ben Jelloun, L’enfant de sable, édition du Seuil, Paris, 1985, pagg. 209. 

 Tahar Ben Jelloun, premio Goncourt 1987 per La nuit sacrée, che è la continuazione de L’enfant de sable, in questo romanzo tocca veramente il cuore degli uomini e fa riflettere, lasciando l’amaro in bocca, proprio di chi si rivolta contro il destino. 

È la storia di un padre che, dopo sette figlie, desideroso di avere un erede, decide forzatamente che il prossimo figlio sarà un maschio. Il destino sembra accettare la sfida. Il bambino nasce, ma è una femmina. Hadj Ahmed, così si chiama il padre, complici la moglie e la vecchia governante, annuncia e pubblicizza, tramite giornale, la nascita del desiderato figlio maschio. Sarà una persona che conosce il diario segreto del figlio Ahmed a rivelare l’esilarante verità di una vita così provata dal destino. 

Jelloun dimostra di conoscere bene l’animo umano, scandagliandolo nei suoi angoli più riposti. Il suo è un romanzo di scavo, il cui protagonista è combattuto continuamente dal ruolo che gli è stato imposto e dal suo vero sesso. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 66.




Sempé – Goscinny, Il piccolo Nicola (a cura di S. Vecchio), Coppola editore,  Trapani, 1989, pagg. 194. 

Il titolo originale del libro è Le petit Nicolas. pubblicato nel 1960 dalle Éditions Den6el, e la traduzione italiana è di B. Cardoville. Gli autori sono due noti umoristi francesi: Jean-Jacques Sempé e René Goscinny. 

Il libro viene proposto come testo di narrativa nelle prime due classi della scuola media. È di piacevole lettura ed è interessante anche per i grandi, perché ha in sé certe verità che vanno attentamente meditate e prese in considerazione. 

Nicola, che è l’io narrante del libro, sotto forma quasi di diario, annota tutto quanto gli capita in classe e fuori. E riferisce con la spontaneità propria di un fanciullo che, se inizialmente fa ridere, lascia poi disorientati e fa riflettere. 

Vengono affrontati diversi temi (rapporto tra padri e figli, la famiglia, la scuola, l’amicizia, …) e sono di grande interesse, perché al centro vi è l’uomo con tutte le sue sfaccettature, c’è la società odierna con le sue contraddizioni, la negatività, e c’è anche il sotteso desiderio di volerla migliorare. 

Il libro è corredato dagli stessi disegni originali e da un’appendice di schede che ne facilitano la lettura e l’approfondimento linguistico-riflessivo. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 66-67.




Salvatore Di Marco, Sopra oriva la ginestra. Alessio Di Giovanni e la Sici- lia delle zolfare, Palermo, Nuova Ipsa Ed., 2006.

Salvatore Di Marco, Sopra fioriva la ginestra. Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 57-59.




 Sàito narratore 

Sono passati più di trenta anni da quando lessi per la prima volta e scoprii Nello Sàito narratore. L’occasione mi fu data dall’attribuzione dei premi Viareggio 1970. Quell’anno vennero premiati Pietro Citati per la saggistica, Nelo Risi per la poesia e Nello Sàito per la narrativa. Una triade che apparve fin d’allora ben scelta, accomunata com’era, non tanto dal bisogno di dire quanto di contribuire con la scrittura a migliorare la società. 

Nello Sàito, che con Dentro e fuori era al suo terzo romanzo, aveva già evidenziato questa sua attitudine in Maria e i soldati (1948) e ne Gli avventurosi siciliani (1955), e così continuerà negli scritti che seguirono, nella narrativa, nel teatro e in quelli di letteratura o di altro, perché Sàito è un agguerrito germanista oltre che un giornalista che sa il fatto suo. 

Da buon siciliano qual è (il padre di Licata, in provincia di Agrigento, si era trasferito con la famigliola a Roma per motivi di lavoro), senza niente elemosinare, s’è fatto strada da solo, giorno dopo giorno, fidando nella sua caparbietà e nell’intelligenza, in anni del secondo dopoguerra quando era facile aggrapparsi al primo carrozzone e ottenere vantaggi. Caparbio, Sàito, nella sua coerenza d’uomo e di scrittore, anticonformista che di primo acchito può sembrare reazionario, anarchico, mentre invece è animato da sincere convinzioni e da un bisogno forte di andare contro il malcostume dilagante e le opinioni comuni che fossilizzano e rendono incapaci di agire positivamente e per il bene della collettività. 

È un discorso, questo, che va contro il tornaconto e che dovrebbe caratterizzare spesso l’operato di quanti sono chiamati a venire incontro alla gente ed invece, incuranti dei danni che arrecano, a tutto pensano fuorché a se stessi, eludendo per i più i bisogni elementari che poi sono sacrosanti diritti. Un esempio? Nel momento in cui si parla di ponte sullo Stretto, a che serve un ponte se nell’isola mancano le infrastrutture da garantire un vivere sociale più umano? Mentre tanti rimangono indifferenti, come se la cosa non interessasse, Sàito è una voce ferma nel panorama dell’ intellettuali tà siciliana che da subito si è alzata contro questo progetto mostruoso, fatto cadere come una spada di Dàmocle sulla testa di tutti senza interpellare nessuno, come se il popolo non esistesse e come se tutto fosse rose e fiori, dimentichi della gente che li vive, delle conseguenze che esso può avere sull’ambiente, in un punto geografico da sempre ballerino. 

La Sicilia ha bisogno di ben altro per concretare le sue possibilità, non di un ponte; come nel passato, essa deve ritornare ad essere ponte tra le genti, per la sua produttività, per la cultura, per i suoi uomini migliori che questo vogliono. Essa è già un ponte, così com’ è un centro; abbisogna solo delle condizioni per realizzarsi veramente, e basta con la deleteria pubblicità che la oscura nella sua immagine vera e nell’umanità che è nella sua gente! Ma dove sono i tanti altri a far da coro a questa voce? 

La sicilianità di Nello Sàito non è nel clamore, non nei colpi di testa e, tanto meno, nella Sicilia a cui non pochi scrittori hanno abituato a guardare, piuttosto pronti a cogliere consensi che a darne un’immagine veritiera. Egli ama la Sicilia e se la porta nel cuore con l’orgoglio del siciliano attaccato alla terra che gli è propria. Perciò ne parla col massimo rispetto, nel timore di poterla in qualche 

modo appannare, e ne evidenzia pregi e difetti, come è bene che sia. Sicché, tratti della Sicilia o dei Siciliani, è sempre pronto a cogliere il positivo e a sposare la causa giusta. Perché, a differenza di Sciascia, di Camilleri o dei tanti loro epigoni, Nello Sàito scrittore esalta la vita, gli uomini e i paesaggi, non la mafiosità e il male, dovunque imperanti (non solo in Sicilia) che distolgono dalla realtà e danno un’ immagine negativa. 

Il siciliano di Sàito (si tengano presenti Mauro di Maria e i soldati o Enrico di Una voce, tanto per citarne alcuni) non è mafioso, bensì uomo ricco di sensibilità, capace di agire e di reagire anche bellamente, e di uscire da situazioni incresciose con dignità, quasi col sorriso sulle labbra. Così anche il lettore è portato ad amare la Sicilia e la vuole conoscere per come è, con i problemi che la travagli ano e le caratteristiche proprie della sua gente, in particolare una che, come scrive H. Koenigsberger, tra tutte le è preminente: la sua umanità1. 

Maria e i soldati, pubblicato nel 1948, vincitore del Premio Vendemmia nello stesso anno, venne ripresentato al pubblico dei lettori nel 1970, conservando intatto quel clima di tensioni e di speranze che fu proprio di quanti vissero la guerra e la resistenza. Tanti scrittori riportarono sulla pagina la loro esperienza di uomini e di partigiani, spinti – come rilevava fin da allora Arnoldo Bocelli – «dall’urgere stesso di quella realtà, della sostanza umana e sanguigna di quella cronaca», altri preferirono tradurre quelle tensioni per vederci chiaro e «risalire dalla irrazionalità di un mondo di sensazione alla razionalità del pensiero, della coscienza2». Tra questi ultimi è il romanzo Maria e i soldati, salutato con i migliori auspici dai critici del tempo (Pancrazi, De Robertis, Gallo, Bocelli e tanti altri). Qui il fatto cede il posto allo studio psicologico del momento, incerto e per questo non meno ricco di risvolti che fanno dello scrittore, ancora alla sua prima opera di narrativa, uno tra i più promettenti e validi della nostra letteratura. 

Il pregio del romanzo, la sua originalità, sta proprio qui, nel trascurare volutamente gli accadimenti per dare più importanza ai soggetti (e alle loro reazioni) che quelle esperienze vivono, ciascuno secondo la sua sensibilità. Ormai siamo negli anni in cui il neorealismo cominciava ad uscire da un modo esasperato e soggettivo di intendere la realtà e la vita per dare inizio alla riflessione e passare così da una esteriorità rumorosa ad una consapevolezza che nella coscienza del singolo trova la sua immediata ragione3. 

Maria e i soldati (4), per questo, è un romanzo corale, nel senso che (popolazione, soldati, militi, partigiani) tutti concorrono a creare un’atmosfera di attesa dovuta all’incognita del domani, all’evolversi della situazione che sempre più diventa incandescente, mentre il paese è diviso e combattuto nel fisico e nella morale. E se prima questa situazione era maggiormente sentita tra quanti erano vicini al potere o in esso coinvolti e nei luoghi più direttamente interessati, ora (siamo intorno al 1944) vivono in stato di agitazione anche quelli che si erano ritenuti al sicuro e fuori di ogni pericolo. 

Il racconto è incentrato su un distaccamento di soldati che nei magazzini della Sussistenza di una non ben precisata località del Centro Italia, a pochi chilometri dalla borgata di Santa Fiora, lavora ai forni e fornisce di pane e di viveri la zona militare di sua competenza. Tutto tranquillo, fin quando non si verificarono le prime avvisaglie di incursioni aeree alleate, ma soprattutto fin quando ai magazzini non arrivarono i militi con l’ordine di tenere la situazione sotto controllo. C’era un sottile malessere tra i soldati, specie da quando le azioni dei partigiani cominciarono a coinvolgerli direttamente, e il comandante aveva pensato bene di chiedere rinforzi. Anche perché un giorno o l’altro potevano essere attaccati, cosa che alla fine del romanzo è già decisa e data per scontata. 

Su questo, poca cosa per la verità, ma sufficiente a creare lo stato d’animo particolare che è di guerra, Sàito tesse con sapiente regìa il suo discorso che traduce l’ambiguità, le diffidenze, ma anche la generosità che nonostante tutto ha terreno fertile pure in momenti così tristi, e poi le speranze con i dovuti ripensamenti, la dedizione alla causa. In poche parole, lo scrittore ritrae bene lo stato d’animo delle parti in guerra senza cadere negli eccessi di una retorica che è consueta in opere del genere. 

Tutta la notte Remo stette ad occhi aperti. Cercava una via d’uscita a quella situazione e non la trovava. Egli non credeva ai miracoli: calcolava, non fantasticava più, e se si fosse potuto vedere al buio, in un pezzetto di specchio, quell’ombra infantile che nel momenti di rilassamento affiorava istintiva e trasparente sul suo viso, era stata definitivamente vinta (p. 115). 

La monotonia dei magazzini rotta a poco a poco dalle imboscate ai camion, dall’arrivo dei militi, cede il posto ad un disagio interiore che pesa come una cappa sulla testa di tutti, sui soldati come sulla gente, e ciascuno lo vive a modo suo. Tutti risentono di quel clima di tensione senza sapere bene perché, disorientati, successivamente, solo dopo l’arrivo dei militi, consapevoli di doverli contrastare. La guerra che altrove opera una netta scissione tra nemici, qui è come se non avesse luogo, eppure logora gli animi e rende sospettosi. 

A risentire di questo, Remo è l’ esempio più lampante e più studiato, controfigura di Maria che, a prima vista, può sembrare ambigua, ed invece recita bene la sua parte per legare gli altri alla causa di quanti lottano per uscire dalla guerra. Questa apparente ambiguità si dipanerà alla fine, quando si offre per facilitare l’assalto ai magazzini. Sicché Maria si rivela nella sua luce più vera che va al di là dei sentimenti, e sacrifica tutto, persino se stessa, senza niente chiedere, senza niente dire; sa solo di rendersi utile e per questo aspetta nella dedizione totale il sacrificio. 

Maria è determinata, come Andrea, il capo partigiano, come Bianchetti, il soldato passato con loro insieme a Remo, che, però, non riesce a darsi interamente alla causa, a sentirla con dedizione come gli altri, perché si fa prendere dal sentimento ed è dibattuto dal pensiero di lei che «gli si era infiltrata in corpo lasciandogli come un veleno imprecisabile e vago, che tutti gli avvenimenti posteriori non erano riusciti a spremere dalle sue vene» e dei compagni relegati ai magazzini, dal desiderio di vederli liberi e dal bisogno di amare. Remo è un ostinato, non vuol rendersi conto che in guerra c’è poco posto per i sentimenti. Maria soffre ma non si tradisce, riesce ad essere forte, a far prevalere un’ anima, ed è solo all’ultimo compresa da Remo, quando già le cose precipitano e non c’è tempo per i ripensamenti. 

Maria e i soldati è un romanzo d’amore sofferto, dove l’uomo fatica a vivere la sua umanità con i sentimenti più puri per il trascinarsi di una guerra fratricida che snerva e disorienta, e risulta piacevole sia per i fili sottesi del discorso ‘ narrativo che è pure avvincente, sia per il linguaggio calato nella realtà dei personaggi che non sono nelle condizioni di sfoggiare chissà cosa ma di esporre e di esporsi nella crudezza del momento. Nonostante il disagio che è dovunque, essi sono ben delineati e formano il variegato mondo che vive quel definito periodo. Anche l’aria che essi respirano in quel fazzoletto di terra è la stessa di tante altre parti, e vi prende corpo l’attesa, pur nel precipitare discontinuo di avvenimenti che dicono la gravità delle circostanze: la reazione di Mauro e la sua conseguente uccisione da parte dei militi (e la rabbia rattenuta dei compagni), il malumore e la chiusura della popolazione. E ci sono anche i partigiani che fanno proseliti e incrementano la loro azione di disturbo, il furto della mitragliatrice, la corsa di Bianchetti e il suo incontro con Remo nella casa di Maria … 

Nello Sàito già in questo primo romanzo rivela le sue doti di scrittore inconsueto. Intanto, dimostra di conoscere bene l’uomo e lo sa scrutare senza farsene accorgere, senza far pesare la sua presenza che è pure vigile e sostenuta da una prosa asciutta, senza ricadute o abbellimenti vari, calata nella psicologia dei personaggi, nel loro modo di valutare le cose, nel cercare un perché e nell’agire nel modo più consono . Sicché la scrittura ubbidisce al movimento interno che spesso è concitato, libera espressione del sentire. di tutti. Lo stesso paesaggio è assorbito nella vicenda che i protagonisti vivono, e le descrizioni sono riferite più all’ ambiente che ad altro, un ambiente dove uomini e cose risentono di uno stato di pesantezza e quasi di depressione. 

Arrivarono alla borgata. Remo non era mai stato a Santa Fiora: quattro case strette intorno a una chiesetta dal campanile aguzzo e giallastro. Dalla parte opposta a quella da cui erano entrati, una strada di campagna, ridiscendendo con larghi giri, conduceva nell’inteno della pianura. Sebbene fossero le prime ore del pomeriggio, non c’era quasi nessuno fuori delle case. 

Da una stalla uscì un contadino con una treggia, tirata da due buoi, piena di paglia mista a concime naturale. I buoi, dalle cui narici fumavano nuvole di alito caldo, si guardarono lentamente intorno: e a un grido dell’uomo si fermarono . di mala voglia, in attesa che quello aggiustasse con un forcone la paglia e il concime che minacciavano di cadere fuori della treggia (5). 

Eppure non mancano momenti. di grande tensione. Si veda la pagina che descrive Mauro nell’osteria con i militi e, quella di Bianchetti e Remo che recuperano la mitragliatrice e vanno defilati alla casa di Andrea. E poi Remo che incontra per la prima volta Andrea e il tumulto che quell’incontro gli suscita. Remo osserva, valuta ma a modo suo, con gli occhi del cuore, e non potrà mai rendersi conto, anche se partecipa, della determinazione di quegli uomini, a partire da Giovannino che nel suo silenzio decide ed è ubbidito e, inoltre, non riuscirà a motivare e tanto meno a giustificare l’uccisione di Antonio o di quella del milite. 

Lo scrittore plasma i suoi personaggi come l’artista la materia grezza, e non è facile dimenticarli perché in ciascuno di essi è la vita con le sue luci e le ombre su cui, vuoi o no, siamo chiamati a riflettere. 

Il secondo romanzo, Gli avventurosi siciliani, fu pubblicato nei «Gettoni» Einaudi, diretti da Vittorini, nel 1954, in un momento in cui il realismo cerca nuova linfa per rendere più incisivo l’apporto della letteratura nella società. Sàito, al di là delle tendenze, continua la sua ricerca iniziata con Maria e i soldati nel segno della razionalità che vede l’uomo più orientato ad affermare la sua lindura morale piuttosto che a cadere nelle maglie di un malcostume rapace. Studiato nella struttura, che è già molto, perché l’autore fin dall’inizio sa dove vuole arrivare, il romanzo si svolge, pur nella sua coerenza logico-narrativa, in due momenti (se non in tre, se si considera a sé la sosta palermitana) collegati tra loro, e il tutto in una prosa ormai padrona e libera, in cui persino il paesaggio ha la funzione di contrappunto, partecipando dell’aria che tira e della disposizione 

d’animo dei protagonisti. Al centro di tutto la Sicilia, con l’ amore e l’odio propri di chi vorrebbe che la sua solari età non contrasti con la triste realtà della gente. 

Fulvia, giovane milanese di sangue siciliano, viene mandata dalla madre in Sicilia con la scusa che lo zio Rosario sta male e la vuole vedere, ma con lo scopo di darla in sposa al di lui figlio Ninl, frivolo e vanesio. La prima parte del romanzo è dedicata al viaggio della ragazza da Milano fino a Napoli in treno, e di qui per mare fino a Palermo, dove Fulvia farà una sosta con amici casuali (l’avvocato Pennisi e l’esportatore Petralia) che già dalla partenza l’avevano adocchiata per spirito d’avventura. Si vede subito in opera, in treno come sulla nave o nella sosta a Palermo, l’estrosità dei due, che rasenta la comicità, ed è tutto un tocco di colore che mette in risalto alcuni aspetti dell’ essere siciliani, riconoscendo loro la generosità e la genialità delle trovate, il senso dell’ amicizia e anche la loro cocciutaggine. 

Se fin qui tutto si svolge nel segno di un’esaltante euforia dei protagonisti, l’arrivo a Trapani, da parte di Fulvia e di Petralia che la volle accompagnare, segna il cambio di registro che qui diviene drammatico con punte alte che sfiorano il tragico. Fulvia arriva in un momento particolare per don Rosario Barrancu, lo zio, che è ricco ma è anche uno sfruttatore e abusa dei salinari che lavorano nelle sue saline, grandi come un regno. Basta la morte di uno di loro per scatenare una rivolta e per far capire anche che è un mondo da fuggire, materialmente e soprattutto moralmente. 

Al primo apparire de Gli avventurosi siciliani alcuni critici notarono una minor coerenza alla tematica. G. De Robertis e N. Gallo che avevano salutato positivamente e con i migliori auspici Maria e i soldati, ora rilevano un contrasto tra prima («rumoroso, eccedente») e seconda parte («essenziale»)6, ora la caduta nella «raffigurazione, tra il simbolo e la favola, di una mentalità e di un paese7». 

Com’ è strutturato il romanzo, è facile giungere a siffatte conclusioni, e Sàito lo sapeva bene sin dall’inizio, dal momento in cui si prefisse di trattare della Sicilia da due angolazioni diametralmente opposte: una dall’esterno, ed è la solita retorica campanilistica di chi da lontano, con nostalgia, reclama la sua terra, dando sfogo al sentimento e risolvendo tutto nel mito (i discorsi che l’avvocato Pennisi e l’imprenditore Petralia fanno sul treno, il dirsi e sentirsi siciliani, il loro agire), nel parodistico e nel comico, senza avvedersene. E quando l’avvocato Pennisi afferma: «la Sicilia è un paese avventuroso», dice la verità, perché non ha potuto essere altro, ed è stata sempre bistrattata terra di conquista (basta dire che lo è tuttora), e non si è potuta mai realizzare come avrebbe potuto e dovuto. E la realtà è che la Sicilia è sfuggita di mano ai Siciliani, per cui non resta loro che darsi all’ avventura. 

Sàito, che è nella mente e nel cuore siciliano, ha sperimentato a spese sue questo, e ne soffre, perché sa che a niente valgono i tentativi dei singoli, se non c’è la volontà di cambiare una volta per tutte le cose. Questa intima sofferenza è nella pagina e, al di là delle apparenze, s’intravede in filigrana, grazie ad una scrittura ben dosata e ad una vigile presenza, eppure discreta e mai invasiva. L’altra angolazione riprende la Sicilia dall’interno. Qui non c’è posto per la retorica, tanto meno per i sentimenti, perché tutto è abbrutito dalla misera quotidianità del vivere che non dà scampo alla povera gente costretta a vendersi più che a lavorare dignitosamente. Ed è la Sicilia del sopruso, dove i prepotenti o detengono il potere o fanno lega con quanti lo esercitano. Firdusi, l’uomo di fiducia di don Rosario Barrancu è l’esempio lampante di questa categoria di persone fautrice dello schiavismo moderno. 

Alcuni uomini lavoravano nella prima salina, erano a circa trenta metri da noi. Correvano come animali neri, une dietro l’altro, in su e giù, coi cesti pieni di sale sulle spalle. Salivano sull’argine opposto, scaricavano in fretta il cesto e poi tornavano. [ … ] In basso c’era un uomo con una grande paglia in testa; era seduto sull’argine e ogni tanto gridava perché qualcuno dei salinai rallentava8. 

E c’è Barrancu che dalla sua parte ha la ricchezza ed è tutelato da quella stessa legge che dovrebbe essere garante di giustizia. A che vale la rivolta se viene soffocata dalla consorteria dei poteri? Non resta che evadere. Fulvia, liberatasi dalle grinfie dei Barrancu, prima va ad assistere con i suoi amici ad uno spettacolo dei pupi (che è realizzare con la fantasia ciò che è difficile nella realtà), poi fugge insieme con gli altri per non essere compromessa, per essere libera dai condizionamenti. 

E magari dicevano a tutti Sicilia Sicilia ma in fondo erano contenti di esserne fuggiti; e magari dicevano Palermo […] ma poi fuggivano perché essi non volevano tradire, non volevano essere complici di quell’ambiente dove tutti erano con la loro omertà complici9. 

Si potrebbe a questo punto pensare ad un senso di sfiducia, di delusione diffusa, ma in Nello Sàito non viene mai meno la speranza. C’è più che altro una forte denuncia contro lo Stato latitante che, una volta per tutte, deve mettersi dalla parte della gente e rendere giustizia delle inconc1udenze e dei tanti problemi ultrasecolari irrisolti. 

Dopo una lunga parentesi di anni, Nello Sàito ritorna alla narrativa nel 1970 con Dentro e fuori, pubblicato da Rizzoli. Si nota subito che Sàito narratore punti sulla qualità più che sulla quantità, se consideriamo che al suo primo apparire il romanzo viene salutato con molto entusiasmo dalla critica e dai lettori, è finalista al Premio Strega e, sempre nello stesso anno 1970, vincitore del Premio Viareggio. Lo stacco temporale, comunque, non comporta un affievolirsi dell’ impegno o un allontanamento dalla tematica; essi risultano convalidati, e la stessa scrittura ne esce arricchita, sicura, corroborata da un raziocinio che scava nella realtà del momento, e denuncia un immobilismo cronico, asfittico dei Siciliani, pronti ad accogliere mai a rifiutare, vittime non protagonisti della storia, di quella di ieri e anche di quella di oggi, ma lascia pure intravedere una speranza che è quella di non cadere nella tentazione di mollare tutto ed andare come tanti fanno. 

I migliori non hanno trovato di meglio che fuggire da qui. A me verrebbe invece la voglia di non tornare più su, comprarmi un pezzo di terra e inchiodarmi qui non per isolarmi sdegnosamente come il professore di filosofia o trincerarmi nel pessimismo totale di Guardione: ma per cominciare qualcosa proprio da qui, per risalire la corrente, non per me, io sono ormai morto dentro, ma per gli 

altri 10. 

È l’io narrante che pensa, ma è anche il nerbo del pensiero di Sàito che in questo come in altri suoi scritti spinge alla consapevolezza che vuoI dire fare storia, non subirla, bensì cercare di combattere per uscire dai condizionamenti ultrasecolari che oscurano la Sicilia e non la fanno apprezzare. 

Il titolo la dice lunga: Dentro e fuori, in Sicilia e fuori di essa, guardare dentro ma anche fuori, a confronto continuo con gli altri, sentirsi parte viva di un tutto e non chiudersi nel sordo settarismo, come fanno i professori di cui si parla, innalzando muri di incomprensioni e di chiusura. Allora il romanzo si connota come la continuazione ideale de Gli avventurosi siciliani. In entrambi l’io narrante espone lo stato d’animo di chi non vuole accettare, anzi non può accettare situazioni di compromesso e vuole essere se stesso, preferendo piuttosto fuggire o resistere rimanendo e portando avanti coerentemente la propria idea. 

Un professore universitario, nominato presidente di Commissione, da Roma viene in Sicilia per gli esami di Stato, e dovrà imporsi per ottenere un risultato più consono alle aspettative degli studenti piuttosto che un responso distaccato, freddo, dei professori, sempre in combutta e pronti a rintuzzare qualsiasi cosa, ma uniti quando si tratta di difendere il loro operato e il ruolo di cui sono investiti, come se si trattasse di una casta da difendere ad ogni costo. Nelle riunioni e durante gli esami il clima è teso; c’è tanta chiusura mentale ed è inutile affermare che la scuola deve essere viva, se vuole suscitare interesse e continuare la sua opera educativa; perciò, deve cambiare crescendo dentro, ma anche fuori, visto che ormai le informazioni vengono da tante parti. Ma di questo poco si curano i professori, presi come sono da interessi privati, a tutto pensano che ai giovani studenti considerati numeri più che persone. Alla fine, dietro le prese di posizioni del presidente, viene salvato il salvabile con buona pace di tutti. 

Il presidente, sin dal primo giorno va a stabilirsi a Portopalo, sul mare, in provincia di Siracusa, e preferirà viaggiare, pur di tutelare la sua libertà e la integrità morale. Così, al clima pesante degli esami alterna altri momenti che pure fanno scuola, vissuti con gli amici, a stretto contatto con l’ambiente paesano e il mare che gli danno il vero senso dell’ isola e lo mettono in posizione di privilegio, perché gli consentono di guardare dal di fuori dentro, la Sicilia e l’Italia, la scuola come si svolge in un’aula e come è nella vita. Terminati gli esami, il presidente rimane a Portopalo, anche perché col passare di agosto sarà impegnato con la seconda sessione. È la scuola della vita che lo affascina ed è l’amicizia di pescatori come Nunzio, o di Lorenzo e Michele, che lo legano ancor più alla Sicilia. 

Di qui l’idea di volersi stabilire definitivamente a Portopalo, la ricerca di un pezzo di terra e gli ostacoli che, almeno per il momento, non gli consentono di acquistarla. 

A parte gli incontri e le discussioni, la visita a Pantàlica, il riproporsi del contrasto fra passato e presente, più frequenti e vive sono qui, meglio che nella prima parte, le presenze immaginarie del padre e di Fosca che permettono al narratore di fare il punto su temi già anticipati (politica, antifascismo, Nord e Sud) che danno misura della molteplicità di interessi e spingono ad un confronto più aperto e sereno. Per la Sicilia che è musica, ora dolce ora triste, che invade tutto, come acqua del mare, punto fermo di tutto il romanzo. 

Nello Sàito è una voce sicura della nostra letteratura, che affida alla parola scritta ciò che si porta dentro e alla parola s’affida, auspicandosi una società più umana e più consapevole. 

Questo è il suo sentire, questo bisogno gli urge dentro, ed è un discorso di cultura più che di politica. Ed è magistrale ed esemplare insieme il modo come tutto questo è detto. L’autore ha nel sangue il teatro, e la Sicilia è un aperto scenario dove viene rappresentata la storia di tutto un popolo che ha sete di giustizia, che stenta ancora a farsi protagonista e rivendica a sé ciò che da sempre le viene imposto. 

I colloqui col padre lontano e con Fosca sono un efficace espediente con cui Sàito tesse il romanzo e lo arricchisce di pezze d’appoggio solide che gli conferiscono una forte valenza didattica, e gli danno anche materia per la narrazione, scavando in profondità nel tentativo di capire e, di conseguenza, agire. 

«Ma che vai a fare in Sicilia?» 
«Sono venuto proprio per questo, per capire», volevo dirti. «Ti ho disobbedito, lo so.» 
«Ma perché?» 
«Perché non ho mai condiviso questo tuo astio verso la Sicilia che ormai dura da quasi cinquant’anni, mi pare un astio irrazionale; ed io almeno non ne conosco le ragioni. Sei tu piuttosto che devi risponderrni, che non hai mai risposto alla mia domanda: perché sei venuto via di qui? Me lo dici perché?11» 

Vicinanza e distacco, riconoscenza e disobbedienza, portano non tanto a disconoscere l’operato dei padri, ma a verificarlo e perciò a continuarlo, a riconoscerlo. 

C’è anche la visita a Pantàlica. Per il presidente è una nuova esperienza, un tuffo nel passato che non deve coinvolgere più di tanto, perché è il presente che va preso in considerazione. Di qui la sfuriata con Turicchio e contro quanti si chiudono in un immobilismo che è rinuncia ed anche accettazione. Bella, a proposito, l’immagine del contadino che corre dietro al suo mulo che scappa sotto un sole cocente in una terra che è un deserto, ma è altrettanto bella l’immagine del presidente che inveisce ora contro Turicchio ora contro i professori, perché si ribella a questa staticità, lui scheletrico ma deciso ad andare avanti per dare una lezione di coraggio e di grande umanità. 

Dentro e fuori credo sia uno tra i libri più belli scritti in quello scorcio di secolo; a parte il fatto che non cede agli indirizzi di moda, esso non si stacca dalla realtà e ubbidisce al cuore e alla fantasia del suo autore. Di certo, comunque, è il romanzo più interessante, utile, tuttora attuale, che descrive una Sicilia sofferente e meravigliosa al tempo stesso.  

Quattro guitti all’ Università viene pubblicato a Roma, presso Bulzoni, nel 1994. È ancora il tema della scuola, allargato all’Università, che viene ripreso e affrontato in modo aperto, critico e certamente di accusa degli altari della cultura o, meglio, di tanta pseudocultura. Se ne I cattedratici (1969) e in Dentro e fuori Nello Sàito mette a nudo le sfasature, il tornaconto, il solipsismo e l’arrivismo che condizionano spesso i professori, tutti presi da ben altro piuttosto che dal lavoro di competenza, dal di dentro, perché conosce bene l’Università, essendo lui stesso un professore, in questo romanzo denuncia la grettezza e l’ignoranza che li porta a chiudersi in sé, presi dall’orgoglio e da una smania di potere che li mette l’uno contro l’altro. Di quale potere? viene subito da chiedersi, come anche fa il protagonista, e, in ogni caso, ne vale la pena, se a farne la spesa è sempre l’uomo? 

Quattro guitti (Bakunin, Anguilla, Marta e Cipolla) vivono di teatro e non ne possono fare a meno, perché il teatro è la loro vita, in quanto, in uno spazio pur ristretto, la verità prende corpo ed è la dominatrice della scena. Ma le cose non vanno bene. Proprio perché questi guitti dicono il vero, viene loro tolto il teatro di Mola di Bari e vengono a trovarsi in mezzo alla strada con pochi soldi e un camion che fa loro da mezzo di trasporto e da casa, visto che una casa non l’hanno. A Bakunin, un ex studente universitario, viene in mente il teatro dell’Università di Roma, e i quattro, dopo un viaggio movimentato, nottetempo, si presentano nella capitale, sperando nel professor Colapietro che proprio quella notte muore, e con lui la speranza di essere presentati al rettore: dovranno fare da sé, magari servendosi di Francesca, la giovane moglie del morto che niente potrà fare. Sarà Francesca a dire che il marito non andava d’accordo con i colleghi, e un diario trovato sul tavolo di Colapietro darà a Bakunin la dimensione di quel contrasto. 

Il teatro verrà negato, e la reazione è sempre imprevedibile e il più delle volte scatena violenza che si colora di rosso sangue quando i quattro guitti, usciti dalla casa della Colapietro, penetreranno nell’Università e s’impossesseranno del teatro. 

Questa è la trama che però è intessuta da acute notazioni che danno movimento all’ azione. È come se i protagonisti recitassero in un grande palco, ed è il teatro della vita che si apre loro davanti, tra realtà e sogno, anche se a dominare è la realtà che fustiga e tarpa le ali a chi avrebbe e potrebbe dire e fare qualcosa per la collettività. 

Avevamo un piccolo teatro a Mola di Bari, grazioso, ottocentesco, una gemma. Eravamo riusciti a raccogliere dopo due anni di fatiche intorno a noi alcuni giovani, poi adulti: insomma un pubblico, cui volevamo appunto dal teatro aprire gli occhi. Non ce l’avevamo con nessuno, semmai contro il mondo che continuava a camminare ad occhi chiusi e secondo cui siamo noi i sonnambuli. Per essere veri. O se volete finti ma di modello agli altri che secondo noi si sono dimenticati di essere uomini12. 

La tematica è di grande attualità: il teatro e la cultura che non vengono valorizzati come dovrebbero, i professori che s’allontanano sempre più dalla didattica e a tutt’altro pensano che al proprio insegnamento, la violenza che dilaga, il venir meno dei buoni sentimenti e, ancora, il divario Nord-Sud. Eppure il teatro e la cultura che aiutano ad aprire gli occhi non interessano più di tanto ai detentori del potere. Ne è che i finanziamenti sono sempre meno e, nel romanzo, ai quattro guitti non verrà ceduto il teatro e i professori, come Colapietro, che vorrebbero fare bene il loro lavoro sono emarginati. 

L’autore, con una scrittura agile e più che mai essenziale, ha saputo ancora una volta mettere il dito su una piaga che travaglia la nostra società, ed ha parole dure contro i responsabili di questo stato di cose, non per puro gusto di mettersi dall’altra parte, bensì per evidenziare i lati oscuri e aiutare a correggerli. 

Uno dei fili conduttori di tutta la produzione di Nello Sàito è il senso della vita, la moralità e, quindi, l’impegno che ognuno deve fare suo, perché il mondo diventi più umano. Può sembrare un’utopia, eppure alla luce di quanto avviene giorno dopo giorno bisogna puntare su questo, se si vuole evitare il peggio. Dire le cose, gridarle, uscire dal conformismo, è il modo migliore per essere prima di tutto se stessi e poi per ritrovare l’umanità che è in noi e negli altri. 

Con il suo nuovo romanzo Una voce, Sàito si serve di una voce che a poco a poco prende corpo e si manifesta perché predomini il bene e se ne tragga vantaggio, e l’uomo s’avvicini all’uomo per creare insieme condizioni di vita più consone, lontani il frastuono e la materialità. Tanti scrittori, pensatori d’ogni tempo (viene di pensare, a proposito, ad Antoine de Saint-Exupéry), attraverso le loro opere, cercano l’uomo; la stessa cosa è in Sàito particolarmente in quest’opera, dove la piena consapevolezza del modo come gira il mondo fa presagire l’andare incontro all’irreversibile. 

Come in tutti i suoi romanzi, la trama sembra appena abbozzata, eppure è ricca di immagini e contenuti profondi, e la penna è quasi una matita leggera che lascia un segno indelebile e connota persone e cose nella loro luce più vera, perché l’autore vuole arrivare al cuore e alla mente dei suoi lettori, convincere per farli ragionare. E come negli altri, anche in questo romanzo c’è molto autobiografismo, un recupero della giovinezza, la vita in famiglia, un richiamo della Sicilia che si fa sempre sentire, specie nei suoi figli migliori costretti ad andar fuori per realizzare la loro vita. 

Enrico, un giovane professore di storia e filosofia, stanco della stagnazione e del conformismo di provincia, dopo la morte dei suoi lascia la Sicilia insieme con il fratello Tommaso e va a Roma, dove si trasferisce per dare un senso alla vita, a quella sua e del fratello. Il contrasto fra la vita di città e quella del paese è enorme già al primo impatto: è un passaggio dalla noiosa staticità all’assordante caos, da un posto dove ognuno conosce ed è conosciuto fin nei particolari ad un altro dove si è nessuno e si passa inosservati tra una folla senza nome. In attesa di prendere servizio, Enrico e Tommaso vanno in giro per Roma, visitano la basilica di San Pietro e la trovano fredda, con poche persone e per lo più preti che si muovono nella piazza semi vuota come «tanti scarabei neri». Qui è la prima avvisaglia della voce che rimprovera il fasto, mentre altrove come a Gerusalemme è miseria; voce che si fa ancor più insistente all’inizio della partita di calcio cui i due fratelli avrebbero dovuto assistere. Difatti la partita non ci sarà perché essa punirà l’idolatria dei tanti scalmanati e succederà un putiferio: attacchi della polizia, scontri fra tifosi. Tommaso, mentre escono dallo stadio, viene scaraventato a terra, la gamba spezzata. La corsa al Policlinico, il ricovero, tra l’indifferenza dei medici e le proteste dei malati. Anche qui la voce minaccia e punisce l’arroganza di chi cura solo il suo tornaconto. 

Enrico deve per forza di cose ridimensionare le sue attese. La nuova scuola che si rivela conservatrice, il caos e il disagio sociale di Roma, la tracotanza e l’interesse che hanno sede laddove non dovrebbero aver luogo (nel Parlamento come al Policlinico), lo stordiscono talmente che la «voce» che si porta dentro si materializza e diventa più esplicita. A lui e a Carla non resta che fuggire, e da lontano, dall’alto del Gianicolo potranno guardare Roma. Enrico, provato, immagina la distruzione. 

Sàito con questo nuovo romanzo conferma le scelte e i temi altre volte affrontati ed enunciati. Il lettore può leggere Una voce a suo piacere, limitandosi alla narrazione, che è piacevole e fuori degli schemi comuni, soffermandosi magari su qualche particolare che più lo attrae. Ma per quel che mi riguarda, ritengo più utile soffermarmi sugli approcci che l’autore combina, perché egli fa parte di quella schiera molto ristretta di scrittori che insieme ‘ con il piacere della buona lettura regala spunti di riflessioni che non è facile dimenticare. Piacere della mente, ma anche dello spirito che ha pure bisogno di respirare aria nuova e di confrontarsi. Specie in un momento in cui i condizionamenti fanno capire quanto siamo soli e in che stato ci troviamo. 

Altro motivo in più per apprezzare i libri di Sàito, e non mi stancherò di ripeterlo, è che espone con distacco inconsueto la materia trattata e l’immagine che ne viene fuori, sia della Sicilia, dei Siciliani o di altro, rispecchia la realtà e, inoltre, non la esagera e deforma come spesso avviene. Questione di stile ma anche di onestà professionale che spinge lo scrittore ad essere obiettivo e coerente con sé e con gli altri. Va detto anche che le argomentazioni sono attualissime e se pure riferite il più delle volte alla sua terra, hanno un valore che vanno al di là dell’isola e interessano l’uomo ovunque si trovi. La fuga, il viaggio, il conformismo, il rapporto Nord-Sud, quello tra padri e figli, la scuola e i giovani, non sono temi cosmopoliti? 

Una voce è un romanzo loico-riflessivo che condanna la materialità e il conformismo, malattie della modernità, pericolo che ottenebra la quotidianità e rende infelici, lontani dai sentimenti puri. Narratori e filosofi del secolo scorso, drammaturghi (basti pensare a Camus e a Ionesco), hanno affrontato questi temi nella loro cruda drammaticità e hanno prospettato la rivolta, ma l’uomo s’è trovato spesso solo o non è riuscito nel suo scopo o si è chiuso in sé stesso. Il protagonista Enrico reagisce, dà voce alla sua coscienza e senso alla vita. Lui e Carla si salvano perché ascoltano e non sono attaccati ad alcunché, e si rendono uomini. Essi, ed anche Tommaso, sono personaggi ben delineati, e positivi. Miracolo dell’anticonformismo e dell’ anarchismo di Enrico-Sàito! 

Anarchismo? Da professore di filosofia ero abituato a ragionare, a non prendere per principio posizione contro nulla. L’anarchia dell’ 800 era stata utopia, ansia di libertà e per meglio dire di liberazione. Gesù, se era vero che era la sua voce, non era stato il primo anarchico, il primo ribelle contro l’ingiustizia? Che egli all’ ingiustizia contrapponesse l’amore, bene, ma non dimenticava nemmeno, citando spesso l’Antico Testamento, che il problema principale era quello dell’ingiustizia prima dell’amore. E me, siciliano, nonostante ogni critica sulla Sicilia ma per l’umanità, mi trovava particolarmente sensibile. Tornava il giovanile interesse per l’universalismo di me cittadino del mondo? E anche Bruno e Gesù non erano prima di tutto cittadini del mondo? Ribelli l’uno, lui ebreo contro la cultura ebraica del suo tempo e l’altro contro il conformismo, la struttura, la visione non certo italiana dell’inquisizione. Interesse per l’umanità non per se stessi, era questo che mi affascinava13. 

Il lettore sin dalle prime pagine noterà bene la serietà e la compostezza di questa ispirazione che mette in risalto l’invadente amoralità del nostro tempo, ed anche il disagio in cui sono costretti a vivere quanti vogliono starne fuori, come se fossero anormali, mentre sono i portatori sani di un malessere generale che rifiutano e combattono. 

Il mondo saitiano è fatto di documento umano, ma anche è ricco di tanta invenzione, di intreccio, di entrate e uscite di scena con freschezza e disinvoltura, dovuta, credo, alla frequentazione del teatro, anzi, alla professione di drammaturgo dell’autore, ai cui effetti deve anche la sua originalità. E questo perché Sàito non segue la moda, bensì quello che sente e come lo sente, pronto a far macerare la materia destinata a prendere forma. 

A popolare questo mondo sono personaggi comuni ma di alta levatura morale, che si chiedono il perché delle cose per aggiustare il tiro, mai per denigrare o adeguarsi passivamente alla realtà. È gente che si ribella per essere se stessa e dare prova di umanità, e si serve della dialettica dell’anticonformismo, coadiuvata però da motivazioni sempre fondate, calate nella realtà e perciò molto attuali. Più sfumati risultano i ritratti femminili. Tranne Fulvia de Gli avventurosi siciliani, essi sono abbozzati, eppure veri e vivi nella loro misurata presenza. Fulvia è tra le meglio disegnate, esplode vita dai pori e sa il fatto suo e in un modo o nell’altro sa farsi valere. Maria del primo romanzo si staglia e delinea in quel clima di guerra che giustifica la sua equivocità e la fa eroina. Ma tutte sono positive, come Carla di Una voce o la stessa Marta o Fosca degli altri romanzi, tutte ricche di una profondità d’animo che dà loro tono e le risalta. 

Personaggi vivi che a poco a poco prendono corpo e si delineano nella loro luce più vera. Come’ nel conterraneo Pirandello, in Nello Sàito vogliono evidenziare la loro presenza per essere emulati nella realtà. Che è forse la cosa più importante e bella per uno scrittore, e anche per il lettore che nella pagina scritta si riconosce. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

1. H. e D. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquantanni), Terzo Millennio, Caltanissetta, 2002, pag. 13. 
2. A. Bocelli, Maria e i soldati, «II Mondo », 26.3. 1949. Dello stesso anno sono i contributi di P. Pancrazio «Corriere della Sera», 15.3. 1949 e G. De Robertis, «Tempo», 29. 5. 1949. 
3. Si legga, a proposito, G. Manacorda, «L’età del neorealismo», in Storia della letteratura italiana contemporanea / 1940-1965), Editori Riuniti, Roma, 1972,2″ rist., pagg. 27-49. 
4. N. Sàito, Maria e i soldati, Garzanti, Milano, 1970. 
5. Ivi, pag. 29. 
6. G. De Robertis, Gli avventurosi siciliani, «Tempo rivista». 
7. N. Gallo, Siciliani di Sàito. 
8. N. Sàito, Gli avventurosi siciliani, Garzanti, Milano, 1973, pagg. 141-142. 
9. Ivi, pagg. 176-177. 
10. N. Sàito, Dentro e fuori, Garzanti, Milano, 1973, pag. 131. 
11. Ivi, pag. 22. 
12. N. Sàito, Quattro guitti all’Università, Bulzoni, Roma, 1994, pagg. 8-9. 
13 N. Sàito, Una voce, Terzo Millennio, Caltanissetta, 2001, pagg. 95-96.

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 9-23.




 Ricordo di Nello Sàito, utopista anarchico 

L’amara eloquenza del silenzio dello scrittore, così è stata intitolata una lettera che Nello Sàito inviò al «Manifesto» e alla redazione di «Spiragli» e fu pubblicata nel n. 1-4 del 2005. Quella lettera, che sprizza uno sviscerato amore per la Sicilia, sembrò premonitrice di qualcosa d’infausto che cercammo di fugare, pubblicando in quello stesso numero il saggio: Sàito narratore. Un omaggio all’uomo, per dire che non era solo e, soprattutto, un omaggio allo scrittore che nella parola scritta credeva e la professava. 

Nello Sàito, uomo e scrittore, non sopportava la chiusura, il conformismo del senso comune e voleva che si ragionasse seriamente per assumere posizioni nette, precise, che facessero valere l’uomo nella sua individualità e nel suo essere profondo. Voleva che ci si battesse per ciò che nobilita la vita e rende veramente liberi da ogni asservimento cui la modernità spinge con insistenza. Utopia? Può darsi. Ma questo era l’ ideale della sua vita, il sogno per il quale lavorò fino all’ultimo e si batté, a costo di essere solo, di non essere ascoltato e seguito; sogno a cui, novello Bruno, fu abbastanza coerente, tanto da continuare nella sua amara eloquenza. Sì, amara, perché il suo eloquio, più che aprirlo, lo chiudeva, limitandone l’azione, e i molti, tesi solo all’utile, s’allontanavano e di Salvatore Vecchio gli chiudevano le porte, restii a pubblicare i suoi scritti, perché la verità fa male. 

Eppure, nel suo silenzio, continuò a lavorare e a pubblicare (anche in proprio), diffondendo il frutto del suo ingegno tra quanti gli erano rimasti vicini e gli amici, che pure gli volevano bene, come fece con Lutero oggi, in cui riporta una puntuale traduzione di un saggio del riformista del 1545, sconosciuto in Italia. Così, indomito, portò avanti le sue battaglie, anche quando il dolore, che da tempo lo travagliava, non lo lasciava più un istante. Perciò, pochi giorni prima di morire, poteva scrivere: «La staticità della nostra esistenza è la nostra condanna. L’utopia anarchica è la nostra ancora di salvezza.» La caparbietà, che non lo fece scendere mai a compromessi, gli fu di aiuto nel perseguire il sogno di tutta una vita, quello di un nuovo rinascimento in cui l’uomo potesse realmente realizzarsi nella libertà e senza alcun condizionamento. 

Di origine siciliana – il padre era di Licata (Agrigento), la madre di San Cataldo 

(Caltanissetta) – Nello Sàito era nato a Roma nel 1920, ma si considerò sempre, come risulta dalle sue opere, siciliano, ultrasiculo, e non mancò occasione per tornare nella sua terra, sia che si trattasse di un convegno pirandelliano o di un esame di Stato. Portò la Sicilia nel cuore e nella mente, guai a parlargliene male! E andò contro quegli scrittori che, per avere credito tra i lettori, evidenziano sempre i lati brutti, contribuendo a dare di essa un’immagine falsa e stereotipa. 

Laureatosi giovanissimo all’Università «La Sapienza», ottenne alcune borse di studio che gli permisero di andare a Berlino per perfezionarsi in lingua e letteratura tedesca; qui, nel 1942, ricevette la visita dell’amico Giaime Pintor, altro giovane promettente di quella triste stagione di guerra. Tornato in Italia, fu assistente di Natalino Sapegno a Roma, poi professore di lingua e letteratura tedesca all’Università «Tor Vergata». 

Intensa fu l’attività di Nello Sàito in quegli anni. Pubblicò saggi e studi di letteratura tedesca (studiò Schiller, Goethe e i romantici tedeschi, ne tradusse altri, Brecht, Kleist, Lutero) e si diede al giornalismo che – come lui stesso scrive – aveva nel sangue. Ai primi anni ’40 risale la collaborazione a «Roma fascista» (cui collaborarono tanti altri che passeranno a sinistra o saranno considerati tali, come Giaime Pintor), a «Primato», a «Il mondo» di Mario Pannunzio e a vari altri giornali. 

Come scrittore, Sàito esordì nel 1948 con il romanzo Maria e i soldati, che gli valse l’attenzione della critica e il «Premio Vendemmia». Questo romanzo, ripreso 

e ritoccato, venne ripubblicato nel 1970, conservando quella novità e freschezza di invenzione che lo rendono originale, per non essere caduto nella mitizzazione della Resistenza in cui tanti incapparono, visto l’abuso che in campo letterario se n’è fatto. 

Un altro romanzo, Gli avventurosi siciliani, è del 1954, pubblicato da Vittorini nella collana «Gettoni» di Einaudi. Se Elio Vittorini, da buon siciliano, vide bene in questo romanzo, spaesati si trovarono i critici, perché Sàito portava avanti un discorso a due angolazioni, per certi aspetti nuovo, ma tendente a dare della Sicilia un’immagine più rispondente al vero. 

Lo scrittore individua nuove strade e vi rimane coerente, tanto da ripercorrerle con maggiore sicurezza e maestria. Il romanzo Dentro e fuori (1970) è apparentemente diverso dal precedente, perché ne continua il tema ma lo svolge con più consequenzialità. La Sicilia acquista una fisionomia diversa, a seconda se si guarda da dentro o da fuori. Unanime fu il riconoscimento; finalista al «Premio Strega», sempre nello stesso 1970, ottenne il «Premio Viareggio». 

Contemporaneamente alla narrativa, Sàito si diede anche al teatro. Già nel 1969 aveva scritto la commedia I cattedratici ed altre ne seguiranno. L’autore affronta il tema dell’Università in modo critico e accusatorio (Il maestro Pip, 1971), della morte (La speranza, 1978; Déjeuner sur l’erbe, 1980; Com’è bello morire, 1986), delle libertà negate (Copione, la rivoluzione è finita, 1971; Il Pinocchio studioso, 1991). Si tratta di temi attuali, svolti in modo distaccato, umoristico ma non cinico, perché la dolente umanità dell’autore si dipana e tende a nuovi approdi, all’utopia, sede di libertà e di piena realizzazione. 

Quattro guitti all’ Università, pubblicato da Bulzoni nel 1994, è un romanzo che riprende il tema della scuola e degli studi accademici. Ancora una volta, lo scrittore va contro quei cattedratici che si chiudono in sé e non pensano alla funzione educativa dell’insegnamento. Sàito, che conobbe bene il mondo dell’Università, usa parole dure e ritiene i professori responsabili di tanto degrado in fatto di cultura e di società. 

L’ultimo romanzo è Una voce, pubblicato da «Terzo Millennio» nel 2001 ed è, a parere nostro, il romanzo di una vita, perché c’è tutto Sàito, uomo e scrittore, fresco di inventiva, essenziale, profondo, convincente, sprizzante di utopistica anarchia e un sentito bisogno di rendere l’uomo più consapevole e responsabile, capace di puri sentimenti. 

Nello Sàito se n’è andato il pomeriggio del 16 ottobre 2006, in un silenzio nel quale lo accompagnava l’autunno romano, mentre le foglie degli alberi, stremate dalla lunga calura dell’estate, resistevano senza fare rumore. E per la cronaca, mentre, per suo vivo desiderio e per la disponibilità dell’editrice I.l.a. Palma, andava in macchina una nuova edizione della sua frizzante pièce teatrale Il Pinocchio studioso, col vivace monologo finale Il Pinocchio avventuroso. Egli se n’è andato con la parola «Gesù» sulle labbra e la mano nella mano della moglie, come aveva desiderato. Così cessava di vivere la sua vita terrena il fustigatore dei cattedratici e dei politici, l’utopista anarchico, lasciando i suoi scritti e l’esempio di una dirittura morale irreprensibile, vera, con un ‘idea alta dell’uomo e della sua dignità. 

Ora che Sàito non c’è più, venuta meno ogni remora, sarebbe il caso di rileggere le opere e di farle conoscere come una parte di noi che, emergendo, si accetta e si ama. La sua opera appartiene a tutti, per l’anelito di indipendenza e di libertà che trasuda, per l’aspirazione ad un bene condiviso, per il bisogno che è nell’uomo di farsi valere, al di là delle apparenze e delle mistificazioni che lo schiavizzano e rendono anonimo o insignificante. Essa tiene a precisare che la dignità è un bene da tutelare e difendere, a costo di fuggire o chiudersi nella solitudine, come fanno Enrico e Carla di Una voce, che fuggono da Roma cadente e decrepita, salvando sé stessi e la propria umanità, ritrovando il loro essere autentico e vivo. 

Ma, a parte la sua significativa presenza nella letteratura e le prese di posizione nel dibattito politico-sociale, Nello Sàito fu un siciliano rispettoso della sua terra, sempre orgoglioso delle sue origini, pronto a difendere in ogni occasione e, al momento opportuno, altrettanto pronto a denunciare le negatività che oscurano l’immagine della Sicilia e la rendono refrattaria ai cambiamenti; e la sognava autonoma, spiritualmente indipendente, sovrana come nell’antichità, al centro del Mediterraneo, un’altra Svizzera, gestita da uomini non condizionati da politiche centriste ma da siciliani veraci e intelligenti. Questa la sua sicilianità, bella, sinceramente sentita e apertamente dichiarata. 

Vorremmo che Nello Sàito venisse ricordato anche per questo, ma, prima di ogni cosa, che la sua opera fosse conosciuta, perché lo scrittore, il commediografo, il saggi sta, possano emergere nella vera luce e indicare ai lettori quei principi di indipendenza assoluta per cui valse (e vale) battersi una vita. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 3-5.




 Ricordo di Giovanni Salucci 

Giovanni Salucci, scrittore, poeta, nostro collaboratore (faceva parte del Comitato di redazione di «Spiragli»), è morto dopo un ricovero ospedaliero. Aveva 83 anni. Era nato nel 1925 a Scurcola Marsicana, frazione di Cappelle dei Marsi (L’ Aquila). 

Trasferitosi giovanissimo a Roma, dove, avendo avuto come maestri De Ruggiero e Sapegno, conseguì la laurea in Lettere e Filosofia, lavorò presso il Ministero dei Beni Culturali e ambientali, occupando la carica di dirigente superiore e ispettore generale. Scrisse vari romanzi e saggi (La lampada rossa, La mafia dietro la scrivania, Bibbia, Vangelo e Corano) e poesie, che denotano una fine sensibilità e un’aspirazione ad un mondo più giusto e umano. 

Donato Accodo scrive in un suo profilo critico: «Come in Silone, è viva in Salucci una profonda sete di giustizia, un’aspirazione non retorica ad un mondo, dove domini il rispetto per la creatura umana e sia posto al bando il sopruso, la prevaricazione, l’egoismo. È vivo in lui, come nell’altro, anche il senso dello Stato e di qualunque struttura sociale (sia essa laica o confessionale) come organizzazione al servizio effettivo dei bisogni, delle esigenze del cittadino e dell’uomo e non a sua rovina. I tempi diversi in cui si sono trovati ad operare i due scrittori abruzzesi hanno dato una sfaccettatura diversa, un timbro diverso alla medesima ansia di riscatto, alla medesima fede in un avvenire migliore per tutti gli uomini.» 

Al di là di ogni giudizio sulla sua figura di operatore culturale, che può essere suscettibile di variazione, nell’arte come nella vita, Giovanni Salucci fu soprattutto poeta e vide sempre la realtà con gli occhi del fanciullo che era in lui. Di qui l’esigenza di conciliare i contrasti per ricondurli ad un bene comune e salutare per la pacifica convivenza tra tutte le genti. 

Bibbia, Vangelo e Corano trae spunto dalla sentita esigenza di cogliere le positività proprie di queste religioni per scongiurare ogni forma di fanatismo che spesso degenera nell’odio e nella guerra. 

Ne era fermamente convinto, e a questa idea dedicò gli ultimi anni della sua laboriosa esistenza. 

Per questo, e per quelli che lo conobbero e lo ebbero amico caro e disinteressato, Giovanni Salucci non è morto; egli vive in noi col suo sorriso, con le sue idee e il bisogno di condividerle. E, mentre siamo vicini al dolore della moglie Emma e dei due figli, esprimiamo l’auspicio di veder pubblicati i suoi inediti, perché possa essere conosciuto da un pubblico più vasto, e apprezzato, nei suoi valori ideali, come è giusto che sia.

Salvatore Vecchio

 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 51.




 Ricordando Mario Caruso

Mario Caruso se n’è andato per sempre e forte è il rammarico per non averlo saputo prima! Era un bravo educatore, un politico serio, un uomo disinteressato, e un prolifico scrittore. Sono doti non comuni che rendono grande l’uomo e lo fanno vivere in coloro che lo hanno conosciuto vivere nel ricordo di chi lo conobbe pronto a dare una mano per risolvere i problemi della gente. 

Egli fu un uomo socialmente impegnato, nel senso che per lui la politica era un modo per essere accanto a chi ha veramente bisogno di aiuto per riuscire a divincolarsi da tutte le difficoltà di ogni giorno. La sua era una battaglia contro il mal affare di tanti che depredano la cosa pubblica, trascurando il bene comune che solo garantisce un vivere sereno. Per questo era infaticabile, e tu lo vedevi dibattere sui canali televisivi locali i problemi e le anomalie che spesso ricadono sui più deboli e i bisognosi. Ma lo vedevi anche affrontare gli argomenti più disparati nei giornali che lui stesso approntava perché tutti venissero a conoscenza di quanto stava avvenendo in campo locale o nazionale. 

Noi ricordiamo l’amico Mario per questo, sensibile come fu a tutto quanto poteva arrecare beneficio alla sua gente, che amò con dedizione, sperando un avvenire migliore. Lo scrittore, autore di una trilogia ben costruita (Il balcone del professar Vicoplato, L’ascensore di Cartesio, Il ladro di sogni), valorizza l’uomo per quello che è con le sue aspirazioni e, inoltre, mette in berlina le nudità dei peggiori, spesso loschi profittatori, come i personaggi negativi di questi romanzi. 

Lo scrittore Mario Caruso, rivolge la sua attenzione al sociale, mettendo in guardia contro l’arricchimento illecito e lo sfruttamento. Questo è il messaggio che ci viene dai suoi romanzi, ed è anche un messaggio di speranza, perché, pur nell’amara realtà, l’ottimismo si fa strada ed affiora nei suoi protagonisti, che, fiduciosi, perseverano per farsi valere e vincere. 

Mario Caruso fu anche un educatore irreprensibile, perché credeva nella scuola educatrice. Alla base di tutto poneva l’educazione, sulla scia di Lambruschini e altri pedagogisti, mettendo sullo stesso piano l’istruzione, e dava importanza al rapporto docente-discente. La scuola, scriveva, «rimane il luogo ideale ove lo studente e il docente s’incontrano in un rapporto dialettico, un rapporto nel quale le posizioni devono essere chiare e trasparenti. Quello dello studente è uno status, non una professione; non ha una controparte nel docente, ma un esperto conoscitore del cammino che egli deve ancora imparare a percorrere. Lo faranno entrambi assieme, ed entrambi usciranno arricchiti da quell’ esperienza. 

Si delinea una scuola che deve puntare solo su ciò che le compete, scrollati di dosso gli orpelli, da cui viene aggravata, che la snaturano e la rendono distante a docenti e discenti. 

Ora Mario non c’è più e si sente la sua mancanza, nella scuola come nella vita, e grande è il vuoto che ha lasciato. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 32.