Nel ricordo del 4 novembre. La famosa telefonata

Trascrivo una telefonata avvenuta molti anni or sono. Il telefono allora era un privilegio. Pochi, pochissimi lo possedevano. In genere era appeso al muro. Per chiamare bisognava girare una maniglia e fare suonare la campanella. Ora tutto è più facile.

La telefonata avvenne tra una donna di nome Maria Bergamas, residente nel Friuli, e il generale Armando Diaz, duca della vittoria, comandante generale delle truppe italiane nella prima guerra mondiale. La conversazione telefonica è avvenuta realmente. Il servizio segreto che controllava la linea del generale che abitava a Roma (e che diverrà ministro della guerra, come allora si chiamava il Ministero, nel primo governo Mussolini di coalizione) ha inciso sul nastro.

Un mio amico perfetto archivista lo ha trovato “buttato” in uno scantinato. Pensando alla mia curiosità me lo ha prestato e io ne ho fatto una copia.

Ancora il telefono ci porta un frammento del nostro passato. Il telefono è anche memoria della nostra storia.

La donna Maria Bergamas è vissuta per lunghi anni ed è morta a Trieste a ottantanove anni. Ho fatto ricerche per saperne di più. Era madre di un ragazzo colpito al cuore mentre usciva dalla trincea. Dimenticavo di dire che la telefonata avviene il cinque novembre 1921. Il giorno prima era stato portato nel Vittoriano il milite ignoto da Santa Maria degli Angeli. Il nostro milite ignoto venne accompagnato dal rullo dei tamburi con le corde allentate.

Il telefono mi ha fatto riflettere a lungo sull’episodio. E adesso provve-a trascriverlo. La voce femminile è quella di Maria Bergamas. Quella maschile è di Armando Diaz. Immaginate, cari lettori, le cadenze e i toni.

Maria. “Buongiorno, signor generale”.
Diaz. “Buongiorno. Chi parla?”
Maria. “Come, non mi riconosce? Sono io Maria Bergamas. Ci siamo visti più volte.
Maria Bergamas.”
Diaz. “Ho capito. Mi dica, Signora.”
Maria. “Ecco.

Mio figlio non è stato più ritrovato. Era tra la terra quando un cecchino lo inquadrò nel mirino. Ta-pum, ta-pum, ta-pum. E chiuse gli occhi per sempre.

Finita la guerra sono stata chiamata ad Aquileia per scegliere il milite ignoto. Nell’antica basilica lasciata alla nudità della pietra ai piedi della gradinata dell’altare c’erano due catafalchi coperti di tappeti viola, crespi neri e festoni verdi. Vi erano allineate undici bare (cinque da un lato e sei dall’altro) avvolte nel tricolore. Sopra erano gli elmetti cinti di lauro.”

Diaz. “Ricordo bene, Signora. Mandai un mio generale da lei a Trieste per portarla a scegliere l’ignoto milite da tumolare a Roma. Lei doveva indicare l’ignoto tra gli undici morti sorteggiati in undici cimiteri di guerra. È così. È stata una madre fortunata…”
Maria. “Fortunata? No. Fortunata no, signor generale. Allora fu tremendo. Chiusi gli occhi e pensai al mio povero figliolo disperso tra le montagne del Friuli. Nella basilica c’era il Duca d’Aosta, i ministri, i sindaci, le scolaresche. Il vescovo di Trieste, capo dei cappellani militari, monsignore Bartolomasi sull’altare pontificale celebrò la santa Messa. Intorno, fiori e le bandiere dei reggimenti. Con me madri e vedove pregavano e piangevano per l’uomo che non era più tornato.

Non so cosa successe. Ma, nello scegliere la seconda bara della fila di sinistra, ebbi la sicurezza che dentro c’era mio figlio. E il dolore si attenuò al pensiero che tutti gli italiani per i secoli avrebbero amato e pregato per lui. Poi, il vescovo con l’aspersorio colmo di acqua del Timavo benedisse.

La cassa di legno dopo mezzogiorno venne racchiusa in una di zinco. E poi in una di quercia. Sul coperchio, ricordo, c’erano un fucile, un elmetto, una bandiera e le medaglie d’oro delle tre città friulane.”

Diaz. “Ricordo. Ricordo, Signora. È ancora in linea? Pronto. Sì. Iniziò così il viaggio da Aquileia verso Roma sul treno con diciassette vagoni. Tacquero le fazioni. Uomini di ogni ideologia alle stazioni ferroviarie si accostavano al treno, baciavano le bandiere e salutavano le medaglie d’oro e i decorati di guerra che scortavano l’ignoto amico.

Il treno giunse a Termini il 2 novembre. Vittorio Emanuele III con i principi venne alla stazione su berline, con staffieri in livrea rossa e parrucca bianca, precedute da carrozzieri a cavallo in alta uniforme. In attesa, il Re si fermò a conversare con un giovane dimesso che portava sul petto la medaglia d’oro del fratello caduto del quinto reggimento genio. La cassa fu deposta su un affusto di cannone e lentamente nello sventolare armonioso delle bandiere raggiunse Santa Maria degli Angeli. Le batterie dei cannoni sistemate su monte Mario, sul Gianicolo e altre alture sparavano a salve.”

Maria. “Una perfetta messa in scena. Perfetta liturgia. Sì. Pronto. Era una perfetta manifestazione.

Ma lei dove lo mette il nostro dolore di madri? Il nostro disperato dolore per un figlio partito in grigio verde e non più tornato tra le nostre braccia? Ma lei lo capisce? Ricordo che sulla facciata di Santa Maria degli Angeli c’era un’epigrafe:«Ignoto il nome, folgora lo spirito, dovunque è Italia, con voce di pianto e d’orgoglio, dicono innumeri madri, è mio figlio». Rimasi turbata perché capivo i motivi dell’epigrafe, ma non volevo dividere mio figlio morto con nessuna altra madre. Non esiste il dolore universale. Il dolore come l’amore è solamente mio. Non so se si ricorda di me, signor generale Armando Diaz. Nella basilica le venni presentata. Lei mi guardò a lungo e mi disse che la Patria onorava i suoi eroi. E io le risposi che la Patria onorava i suoi morti. Dopo questa mia battuta lei mi voltò le spalle e non ci siamo più incontrati.” Diaz.

(Dopo un lungo silenzio) “La basilica era decorata con lunghi festoni di alloro. Il feretro era circondato da tripodi di bronzo sui quali ardevano fiammelle che rendevano ancora più immenso lo spazio.

Molti dopo la preghiera si fermavano nel lato destro del transetto per osservare sul pavimento la meridiana che segnava il mezzogiorno per la città fino al 1846. Era chiamata la “clementina” in omaggio a Papa Clemente XI Albani. Venne realizzata dal canonico veneziano Francesco Bianchini. L’inaugurazione avvenne il 6 ottobre del 1702. Il papa fece coniare una bella medaglia con la chiesa attraversata da un raggio di sole.

” Maria. “Pronto. Signor Generale non se ne vada. Non abbassi il telefono. La prego. Dopo che lei mi aveva volto le spalle mentre il milite ignoto (che io, nell’illusione, forse credo ancora mio figlio) era tra le bandiere vegliato dai corazzieri, dagli alpini e dai bersaglieri che si davano il turno, anch’io sono andata alla “clementina”. C’era una linea di sole che veniva dal foro gnomonico ricavato lassù nella congiustione sud della navata con il transetto. Mi sembrò allora che il sole della meridiana illuminasse anche il corpo del figlio. Tu diventavi il mio tempo, figlio mio. E ti vedevo nel sole mentre correvi nei campi assolati o quando ti portavo al mare alle porte di Miramare a Trieste. Tu non eri più soltanto un ricordo ma la memoria della mia vita. E per quelle illusioni che prendono all’improvviso quando l’amore è grande, vedi mio figlio accanto a lei, signor generale Armando Diaz. Lui giovane sorridente e lei già vecchio e stanco.”

Diaz. “La prego, Signora. Lei parla con il generale Diaz. Ho organizzato tutto per bene. Una cerimonia impeccabile, mi ha detto il Re. La prego, Signora…”
Maria. “Non la offendo. Ma mio figlio è morto giovane. E lei è vivo vecchio. È contronatura. Sì. Pronto. Mi faccia finire. Santa Maria degli Angeli così carica di fiori profumati era come una giornata di primavera. E c’era mio figlio con tutti i dispersi, le medaglie d’oro alla memoria, i morti mentre andavano all’assalto. Erano vivi e insieme cantavano canzoni di pace. La chiesa diveniva così la casa della risurrezione. Poi, come lei sa, signor generale, mio figlio venne portato a piazza Venezia al Vittoriano… Pronto. Pronto.”

Il nastro è terminato. La trascrizione mia è finita.

Il telefono mi ha restituito la madre che soffre disperatamente e il generale. Il telefono non è solo comunicazione.

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 46-49.




 Marinetti cinquantanni dopo 

Il due dicembre del 1944 alle prime luci dell’alba moriva. Sono trascorsi cinquantanni. C’era la guerra e la Repubblica sociale. Dalla piccola casa di Bellagio sul lago di Como venne portato a Milano nel castello Sforzesco in una cassanera-ebano. I funerali furono imponenti. C’erano scrittori e popolo. Saluti romani per Marinetti. Una corona di fiori di Benito Mussolini accompagnava il poeta. Aveva dettato un patriottico componimento per l’Italia. 

Il suo oroscopo lo obbligava all’eroismo. La radice era sempre l’eroico nel privato, nel pubblico, nel politico e nel letterario. Non temeva la retorica. Spesso la cercava per condire con aceto forte la parola. Nato ad Alessandria d’Egitto aveva succhiato dalla civiltà araba il fanatismo. Vissuto a Roma ne aveva assorbito il paganesimo. Innamorato di Parigi ne aveva sognato la poesia. 

La vita gli era stata generosa. Gli aveva dato su un piatto d’argento anche quattro guerre. Partecipava per vincere. E racconta con il tentativo sonoro di fare ascoltare nelle pagine le cannonate, gli assalti alla baionetta e il crepitio delle mitragliatrici. Lo scrivere era fare musica. La grammatica non c’entra. E le parole devono essere inventate. Il vocabolario è sempre troppo piccolo. E il vento della storia si porta via i quinterni. 

Aveva intuito che Parigi allora era il centro del mondo. E il 20 febbraio del 1909 sul “Figaro” lancia il manifesto del futurismo. In una Europa ancora tranquilla aveva irinescato una bomba ad alto potenziale. Fu confortato dalle polemiche. E continuando con il terrorismo letterario obbligò gli artisti a non archiviare la ribellione. C’è solamente l’utopia con la quale giustificare l’amore per la vita. Il passato (che è anche il presente) è il tempo delle apparenze. Gli antiquari devono trasferirsi nel museo delle cere. L’incendio deve distruggere i palazzi dove sono sistemati, nei dorati salotti, i letterati e i politici. 

Giovane e radicale non accetta discussioni. Ama la lotta e l’audacia. Da volontario partecipa alla prima guerra mondiale sognando la rivoluzione. Scrive un romanzo definito “liberty eroico”. Si intitola L’alcova d’acciaio che suscitò interesse. Oggi è un documento. C’è la prima guerra mondiale, la partecipazione attiva dei futuristi e la polemica che Marinetti godeva nell’attizzare. Croce, ad esempio, viene definito un “malinconico carabiniere che predica la libertà rivoluzionaria”. 

È un romanzo “vissuto” (così nel sottotitolo) dove amore e morte si mescolano nel combinare una miscela esplosiva. Ci sono le mitragliatrici e le case di appuntamento. Nell’autoblinda affidata al tenente Marinetti dopo Vittorio Veneto e dopo la cattura di un intero corpo d’armata austriaco a Stazione Carnia, 11talia nuda si concede all’eroico soldato. L’automitragliatrice blindata che diventa mistica e infuocata “alcova d’acciaio”. 

Ma per intendere il rapporto tra letteratura e la prima guerra mondiale questo pregevole romanzo è insufficiente. Il “liberty eroico” è solamente un fremito di vita. La letteratura del tempo non si propone in esame contestativo della guerra ma, in generale, accetta la situazione. Preoccupata di scavare nel reale per liberarsi dalla prigionia del mito (rappresentato da Carducci, Pascoli, D’Annunzio), la letteratura vede nella guerra una occasione per collegarsi all’Europa (in particolare alla cultura francese) e per tentare un passaggio poetico. 

“La Voce” di Prezzolini si muove essenzialmente in un processo di liberazione dalla “provincialità” e l’esperienza poetica (da Ungaretti a Alvaro) si affanna nella convinzione che la guerra possa contribuire alla formazione di urta nuova cultura. 

La letteratura si sente impegnata nell’avvenimento che impone un confronto tra accademia e vita, tra parnaso e morte (Serra e Jahier lo testimoniano diversamente). Non è in discussione il problema di Trento e Trieste e il nazionalismo. Per la letteratura esiste l’occasione rigenerante. 

Da questa premessa, il discorso letterario inizia timidamente con marcata audacia e con sfrenata retorica. Si tratta di una adesione alla guerra avanzata per ragioni indipendenti della guerra stessa. C’è il paradosso di fantasia che sfiora pericolosamente l’anima letteraria. 

Durante il conflitto la letteratura si trova in un confronto drammatico. I motivi che avevano suggerito l’adesione trovano conforto. La letteratura italiana si collega con quella europea (l’ermetismo), si rinnova linguisticamente e spiritualmente. Ma la letteratura prende coscienza che la morte è anche il gesto crudele dell’uccidere. San Martino di Ungaretti, Il mio Carso di S. Slataper, Wirmusser di Jahier, A un compagno di Alvaro, Sul fianco biondo del Kobilek di Soffici, Nino di Saba, Valmerbia, discorrendo il tuo fondo di Montale, Canto proletario italo-francese di Campana sono alcuni esempi di questa inaspettata presa di coscienza. 

La guerra se consente una riconquista letteraria di portata europea e una liberazione dal mito decadente, tuttavia è rifugio della vita e disperazione dell’umano. Durante la guerra la letteratura rivede i motivi che l’avevano spinta all’adesione. In particolare la meditazione critica trova certificazione nello Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra. 

La coscienza inizia nella quiete della biblioteca di Cesena e viene portata a termine in zona di guerra tra malattie, disagi e trincea. Costitisce il testamento spirituale dello scrittore romagnolo nel quale l’amore alla vita trionfa profeticamente nella inutilità della guerra. Il tenente di fanteria Renato Serra, il 20 luglio del 1915, cade fulminato da un colpo in fronte sul Podgora e, alla sua memoria, viene concessa la medaglia d’argento. 

Lo scrittore contesta l’occasione con polemia dolorosa, con fatale rassegnazione, con vigorosa fierezza. L’esempio più indicativo, a questo proposito, è Clemente Rebora. Durante la guerra 1915-18, Rebora viene richiamato. Con il grado di sottotenente viene inviato tra le truppe combattenti sul fronte di Gorizia. Nel 1913 il poeta aveva già ottenuto un meritato riconoscimento con la pubblicazione nei quaderni de “La Voce” di Prezzolini dei Frammenti lirici (già stampati in parte sulla stessa rivista). Il rapporto tra biografia e vita, prima della guerra, già si presenta in questi “Frammenti lirici” da non consentire divagazioni e distrazioni. La guerra accentua questo rapporto con una frenesia impietosa. La vita e la poesia si caricano di errore per il dramma che si presenta sul fronte. 

La inquietudine morale si trasferisce con estrema coerenza nei Canti anonimi nei quali la parola si tortura e l’immagine perde ogni forma di letterarietà. La tragedia personale si universalizza nella disperazione inutile dell’uomo. L’esperienza vitale dello scrittore si allarga, spesso, ai confini della poesia. Lo sguardo raccoglie il sentimento e l’angoscia della morte accompagna le ore. Il fante Giuseppe Ungaretti, a vent’anni, sul Carso si incontra con il suo destino di poeta. “L’Allegria” pubblicata con una prefazione di Benito Mussolini distrugge il verso tradizionale, concede lo slancio lirico, frantuma la retorica. 

Ma allora che cosa significa questo romanzo così “Alcova” e così “Acciaio” di Marinetti? Significa anche letteratura come vita. Ma soprattutto permette di capire la gioventù di quella stagione. Marinetti è il giovane che racconta il suo sogno. 

La radice è sempre l’eroico nel privato, nel pubblico, nel politico e nel culturale. Non teme la retorica. Nato ad Alessandria d’Egitto aveva succhiato dalla civiltà araba il fanatismo. Vissuto a Roma ne aveva assorbito il paganesimo. Innamorato di Parigi ne aveva sognato la poesia. La vita è generosa. Partecipa per vincere. Racconta con il tentativo sonoro di fare ascoltare nelle pagine le cannonate, gli assalti alla baionetta e il crepitio delle mitragliatrici. Scrivere è fare musica. La grammatica non c’entra. E le parole devono essere inventate. Il vocabolario è sempre troppo piccolo e il vento della storia si porta via i quinterni. 

C’è l’utopia con la quale giustificare l’amore per la vita. Il passato è il tempo delle apparenze. Gli antiquari devono trasferirsi nel museo delle cere, l’incendio deve distruggere gli archivi e i dorati salotti. Giovane e radicale non accetta discussioni. Ama la lotta e l’audacia. In “Alcova d’Acciaio” ci sono i giovani che muoiono e che cantano sulle Alpi. Ci sono tutte le verità dell’eroismo. C’è la passione furiosa, l’individualismo anarchico, la Patria, la rivoluzione. 

Incontra, dopo la prima guerra mondiale, Benito Mussolini per caso. E l’occasione diventa per Lui un destino. Lo seguirà sempre nella buona e nella cattiva sorte. Quando vince e quando perde. Nel 1919 viene rinchiuso a Milano nelle carceri di San Vittore con Mussolini, Vecchi, Bolzon e altri quindici arditi per delitto di attentato alla sicurezza dello Stato e organizzazione di bande armate. E nella prigionia scrive un manifesto-opuscolo che sarà edito sul giornale “La testa di ferro” nell’agosto del 1920. 

Ci sono tutte le verità del suo eroismo. C’è la passione furiosa, l’individualismo anarchico, la Patria, la rivoluzione. Resta fedele alle sue verità anche quando si rese conto che il fascismo doveva fare i conti con la monarchia e il vaticano. 

Soffrì e accettò il suo compromesso salendo le scale dell’Accademia d’Italia nel 1929 con Salvatore Di Giacomo, Luigi Pirandello, Giuseppe Tucci. E dove incontrò passatisti, ciceroni e professori da lui sempre disprezzati (Emilio Cecchi, Massimo Bontempelli, Giuseppe Ungaretti o Giovanni Papini). Fu la fine del futurismo. Il movimento continuò poi, sfilacciandosi e rompendosi in mille rivoli. Ma quel fuoco che aveva acceso nel lontano 1909 e che aveva alimentato con l’utopia la speranza non si spense. Anche oggi il viandante perduta la bussola di orientamento guarda verso il fuoco sacro. 

Dopo tanto vivere sulle rive del lago, Marinetti chiudeva gli occhi colpito al cuore. Fuori c’era la guerra civile. Gli uomini puri vivevano la passione. Gli altri si imboscavano. E il poeta viveva con dolore la sua solitudine. 

Era stato sul fronte russo con il raggruppamento “Camicie Nere XXIII marzo”. Nell’autunno del 1942 era ritornato ammalato. Il tempo dell’agonia arrivato. Lungo e irrevocabile. Tornava nel seno materno. Una grande pietà era nel suo orizzonte. C’era maestosità in una Repubblica dove si moriva. C’era la sconfitta della patria. E c’erano ricordi come ombre leggere nel tramonto. 

Pochi mesi prima di morire scrive L’aeropoema di Gesù tra il 1943 e il ’44. Era ormai al tramonto dopo avere attraversato un sentiero avventuroso. Era arrivato vicino la sponda dove ogni futuro diventa presente. 

L’aeropoema di Gesù non è un testamento da convertito. Forse è il tentativo di assommare nella figura di Gesù il misticismo eroico, l’idea della patria da salvare (che fu di molti nella Repubblica sociale), la contemplazione divina in movimento, un frammento di romanticismo utopistico (che sottintende al futurismo) e un vago orizzonte di innocenza religiosa. 

Con L’aeropoema di Gesù non c’è più il prometesimo futurista (annotato e comprovato nel nostro “I futuristi”). C’è il destino che spezza le ali della passione in una Venezia desolata che non concede niente all’eroico anche religioso. 

Marinetti si abbandona alle confidenze nella Venezia lunare. Nelle parole c’è l’eco di una musica che entra nelle pietre corrose e le fa diventare fughe disperate verso antiche nostalgie. Già in questo poema (come nelle pagine coeve) il Marinetti ritorna alla madre e alla “devozione a Gesù”. 

Percorso il grande cerchio della vita ritorna verso il punto di partenza. Lo attende il seno materno. Il passato è meno della madre che attende. Gesù è il compagno di un viaggio che volge al termine. Gli uomini si coprono di broccati tngemmati sulle camice nere. Vivaldi è agli ultimi accordi per una pia orfanella. Un profumo di zagare marcite viene dalle acque velenose della notte. A Marinetti, tornato dalla guerra nel fronte russo, non rimane che Gesù, il tricolore, il poema eroico per i ragazzi della X Mas, la madre, e la rassegnazione. 

Aveva sessantotto anni e suscitava ancora polemiche dentro e fuori il fascismo. É stato un intellettuale rumoroso. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 24-28.




 Il mondo del Principe (a cura di G. Scaraffia), Palermo, 1995. 

Il mondo del Principe, a cura di Giuseppe Scaraffia, è un bellissimo titolo. Il libro viene pubblicato da Sellerio editore di Palermo in occasione di una mostra organizzata anche dalla fondazione culturale Lauro Chiazzese presieduta da Francesco Pillitteri. 

Il mondo del Principe è un volume dedicato al “famoso” Gattopardo e allo scrittore-personaggio Giuseppe Tomasi di Lampedusa. L’operazione è condotta intervistando amici e studiosi che, in qualche modo, hanno avuto contatti diretti o indiretti con il Giuseppe Tomasi. Dalla provocante miscellanea nasce un impasto di verità e menzogne. Ci sono i peccati, le invidie di casta, le manie borghesi, le feroci persecuzioni, il piacere del ricordo, le magnifiche ambiguità e il siciliano direenondire. Agli intervistati non mancano le cosidette “affinità elettive” ma ogni cosa è ricondotta in un dolce sentiero profumato dove tutto diventa “misericordioso”. 

Nel volume c’è anche il Luchino Visconti e il suo film. Andrea Vitello che ha scritto il volume più documentato, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, (edito da Sellerio nel 1987), non è presente. 

La mostra di Ettore Viola presentata con classe da Giuseppe Scaraffia e il libro Il mondo del Principe meritano una segnalazione e un commento. 

Giuseppe Tomasi di Lampedusa è lo scrittore italiano più significativo per la cultura della tradizione. Nel luglio 1957 morì a Roma in una clinica a sessantasei anni. Pochi amici se ne accorsero. Venne seppellito a Palermo in una estate odorosa di zagare e di mare. 

Il Gattopardo era ancora da pubblicare e le grandi case editrici avevano respinto il manoscritto. Vittorini in testa. Come faranno per Guido Morselli o per Salvatore Satta. 

Pochi discepoli in Sicilia lo ricordavano. Aveva vissuto appartato. Un solo atto “eroico”. Aveva lasciato a vent’anni il suo caffé di Palermo ed era andato volontario nella prima guerra mondiale. InteIVentista. Poi fino al 1925 ufficiale effettivo dell’esercito italiano. 

Giuseppe Tomasi nel Gattopardo racconta di un suo bisnonno ma impasta tutto. Ci sono i suoi pensieri e il destino già segnato per morire. Allora. Il principe Don Fabrizio Salina era nel suo osservatorio. Pensava al peccato e alla morte con Don Pirrone. L’avventura della vita era nelle stelle che come i pensieri di verità dominano la terra e rendono cronaca la storia e orizzontale ogni speranza. 

Ma chi è questo principe che non cerca il tempo perduto? Il personaggio nella vita si chiama Giulio Fabrizio Maria Tomasi, ottavo principe di Lampedusa, nato a Palermo nel 1815 e morto a Firenze nel 1885. 

Gli avvenimenti si svolgono con meticolosa cronologia. L’udienza reale con Ferdinando di Borbone, lo sbarco dei Mille, il formarsi di nuove istituzioni amministrative con il giungere dello Stato burocratico piemontese, il presentarsi della nuova classe dirigente, l’Aspromonte, e, infine, la decadenza di quella “nobiltà” che non aveva accettato patteggiamenti e compromessi. E questi fatti destano nell’animo del Principe reazioni svogliate, sentimenti contrastanti, impassibilità politiche, giudizi ironici, meditazioni amare, riflessioni politico-religiose. 

Macerato da queste riflessioni, il Principe resta fuori dalla cronaca. Giudica ma non partecipa, come un solitario gigante che, in cima al suo castello, vede l’andare 

affannoso delle carovane degli zingari. «I conti dell’uomo con la storia non tornano mai». Don Fabrizio è troppo principe, troppo aristocratico. troppo astronomo scrutatore dei cieli. per piegarsi alle cose di terra e scomporsi per la piccola avventura di Garibaldi («Eroe giacente sotto un castagno del mondo calabrese») o per quello che si «va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome» (e l’ironia qui per Carlo Marx è staffilante). 

Don Fabrizio in una rassegnata fatalità chiude la storia nella luce prismatica della pigrizia, della nobiltà e del richiamo alla tradizione. 

La tradizione è la guida sicura che permette di distinguere i compromessi dalle novità. il piccolo gioco del conformismo dalle verità, l’apparenza di un potere dalle esigenze della vita. 

Il Principe vive da spettatore. Non ha bisogno di fischiare o di applaudire una storia che non è reale (e sconfina nell’episodico). 

Vive nel suo castello di Donnafugata, nelle sue sale di Palermo, sulla torretta del suo piccolo laboratorio astronomico, divertito, ironico, amareggiato, attonito, scettico per le faccende umane. E, quando è costretto ad occuparsi delle cose del mondo, lo fa con disprezzo e con la tristezza nel cuore. Ma senza avvilirsi mai. Il suo mondo possiede le verità raccolte dalla siderea e infuocata natura e dalla morte dolcissima e trasparente creatura da sempre temuta. 

Sono due spazi spirituali (la natura e la morte) che permettono al Principe di considerare scetticamente l’affannoso affaccendarsi, di sorridere per le ambizioni di Don Calogero o per la pietà tutta siciliana di Padre Pirrone, di riflettere amaramente sulla storia della sua Sicilia, sulla miseria, sull’orgoglio, sulla sessualità, sulla fedeltà. Malgrado Garibaldi o Vittorio Emanuele, esisterà sempre la giovinetta evocata, nel suo letto di morte, con «l’aspetto ridente, l’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate nella strada». 

La natura e la morte occupano l’animo del Principe. La natura, infatti, è intesa come metafisica cosmologica, animata da un archè spirituale e trascendente che movimenta il suo rappresentarsi fenomenico. Accompagna il Principe nella infinità della bellezza siderea e nel silenzio dell’apocalittico sole della Sicilia. Abituato a ironizzare, superbo, non sorride più e si china umile dinanzi alle rose Paul Nejron che «aveva egli stesso acquistato a Parigi» e che erano degenerate a causa del clima e della terra «in una sorta di cavoli color carne, osceni». Prega raccolto e commosso dinanzi alle stelle «felicemente incomprensibili, incapaci di produrre angoscia» e si china umilmente osservando nel cielo «Venere, chicco d’uva sbocciato, trasparente e umido». 

La morte, d’altro canto (la «giovane signora: snella con un vestito marrone da viaggio ad ampia toumure, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere la maliziosa avvenenza del volto»), è inseguita dal Principe con il desiderio dell’innamorato. È una creatura che entra, come un male affettuoso, nel sangue e alla fine si presenta incantevole in una stanza di albergo di Palermo. 

Quando la signora giunge, un sogno si avvera già previsto nelle sale da ballo della casa Pallavicino. È un sogno fastoso che non ha paura perché limpidamente definito nella immagine dei granelli che «si affollano e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia». 

La morte è dentro la vita, e, forse, per il Principe, è più della vita. Rappresenta, finalmente, la completa liberazione nel «silenzio assoluto» È l’affacciarsi su una finestra aperta nei secoli per ammirare la infinita magia di luce e amore senza rimpianti. Come un «naufragio alla deriva su una zattera, in preda ci correnti indomabili», amaramente tentato di «raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici». 

E allora chi è questo Principe? Che cosa resta di Tomasi di Lampedusa? E di questo Principe che appartiene «a una generazione disgraziata, a cavallo tra i vecchi tempi e i nuovi e che si trova a disagio in tutti e due»? 

Resta l’ostinazione perseguita per tutta la vita nell’evocare ombre generose e avventurose di cavalieri e di poeti, di duchesse e di marchesi, nella tristezza consapevole che si tratta solo di illusione. E anche il gigante, «appassionato fino alla violenza» di altri tempi, quando si poteva vivere felicemente sognando la dolce morte e l’incantevole stellata, mentre intorno i garibaldini sbarcavano a Marsala. 

Aldilà di ogni retorica il neorealismo imperante e sostenuto dalla cultura egemone del tempo venne sconfitto dal Principe con il suo Gattopardo. L’arte resta e la cultura muore e finisce. Ed è giusto che sia così. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 27-30.




Cronaca per Occhialì 

 Un editore di Calabria Luigi Pellegrini da Cosenza ha chiesto allo scrittore Francesco Grisi, nostro collaboratore, alcuni racconti ambientati in Calabria per raccoglierli in un libro. 

Francesco Grisi di famiglia cutrese in provincia di Crotone, cittadino onorario di Cutro, ha consegnato all’editore cosentino dieci “memorie”. Il volume sarà pubblicato tra giorni con il titolo Laggiù in Calabria nella prestigiosa collana “Zaffiri”. 

Per gentile concessione siamo lieti di pubblicare un racconto di Francesco Grisi che ci sembra esemplare per l’idea di “calabresità” che lo stesso scrittore propone nel suo libro “Racconti popolari della Calabria“. 

Cronaca per Occhialì 

Non abbiamo molte notizie sulla sua morte. L’unica cosa accertata è la data. Morì di sabato nel mese di luglio del 1595 a Costantinopoli tra le braccia odorose di una donna calabrese generosa in amore. Il suo nome è Giovan Dionigi Galeno. Era nato in un piccolo borgo sul mare Ionio chiamato “Castella” nei pressi di Cutro. Catturato dai Turchi affrontò privazioni e sacrifici. Divenne marinaio, capitano di nave da guerra. maestro, ammiraglio, dominatore dei porti del mediterraneo. Da povero profugo divenne un re trionfante per i turchi e per gli arabi che allora dominavano i mari. Quattro imperatori gli concessero stima. Solimano, Selin, Amuratte e Maometto lo ebbero consigliere. Cambiò nome, cognome e religione. Per la precisione si chiamò Occhiali o Uccialli o Kilig Ali. Con fede si converti all’Islam. E costrui sul colle di Top-Hana (sul mare azzurro del Bosforo) una sontuosa moschea che sembra volare nel cielo con le sue cupole dorate. Quando morì il suo corpo deposto tra quattro torce secondo l’antico rito cristiano e, poi. sistemato nella moschea che aveva fatto edificare. 

Navigando a destra e a manca, conquistando Malta e Tunisi e combattendo contro i veneziani a Lepanto, Occhiali non dimenticò mai la sua terra dove aveva avuto i natali nel 1520. Allora Castella e Cutro erano ancora incorporati nella Contea di Santa Severina che aveva avuto massimo splendore con Andrea Carafa che sulla collina cretosa aveva costruito un castello poderoso. Dominava il marchesato tra la Sila e lo Ionio. Poi c’era quello di Crotone e del paese di Occhiali. Era triangolo perfetto per difendersi dalle incursioni dei pirati e dei turchi. Ma le mura e gli eroismi non sono sufficienti. 

La sua terra Calabra restò sempre nel cuore del ricco e potente ammiraglio. 

Ancora ragazzo venne rapito il 29 aprile del 1536, domenica. Era andato alla Messa quando all’orizzonte apparvero i vessilli nero-bianco dei “pirati” alti sui pennoni. La madre Pippa di Cicco (chiamata Peppa della Castella) sfiorata dal presentimento corse a cercare Giovan Dionigi. Ma non trovò il figlio in chiesa. Si era nascosto con una sua compagna di nome Maria in una cantina vicina. La madre aveva intuito che tra suo figlio e Maria c’era una simpatia e quando li vide abbracciati felici (dimentichi dei turchi) chiuse la porta della cantina. Fu l’ultima volta che incrociò il figlio. 

Giunsero i turchi che rapirono il giovane che, a quanto si dice, si fece prendere per nascondere Maria. Comincia cosi la storia di Occhiali. 

Non ebbe grandi amori ma sposò la figlia del Sultano. Impegnato a combattere per la gloria e il potere considerò l’amore un privilegio o una abitudine. La cronaca è carica di “stravaganze”. Un giorno del 1562, ad esempio, nominato dal 

Sultano capo della guardia di Alessandria, organizza con il grande comandante Dragut una spedizione a Napoli canora capitale del vicereame. Nelle carte non risulta lo sbarco dei turchi sebbene il popolo napoletano si era già preparato a riceverli con trik-trak e fuochi di artificio di mezzelune di vari colori fabbricate a Pozzuoli. La cronaca dice, invece, che Occhiali con un gruppo di fedelissimi sbarcò a Ischia-porto mentre si svolgeva la festa della infiorata. Canti, suoni, chitarre e amori all’infinito sulla riva del mare. Occhiali e i suoi fedeli si incontrarono per una notte con le donne ischitane e al chiarore della luna ogni cosa divenne splendore. Nacquero anche numerosi ragazzi di bella fattura che ancora a Ischia si chiamano i turchi. 

Dopo la “prova” d’amore Occhiali non assaltò Napoli ma scrisse una nobile lettera al vicerè. 

-Avrei potuto saccheggiare e vincere. Il vostro popolo non è fatto per la guerra. Ama la pace e mi avrebbe ricevuto con corone di fiori. Ma non sono sbarcato perché a Ischia. in una notte d’amore, ho capito che a Napoli e dintorno sono le donne che comandano con la loro allegria. E contro le donne non si combatte•. 

La lettera venne affissa anche nelle case di appuntamento e le puttane la conservavano nel petto come una reliquia. 

La cronaca dice anche il 21 maggio del 1562 Occhialì sbarcò a San Leonardo di Cutro a un tiro di schioppo dal luogo dove era nato. Raggiunse Castella e subito si recò nel cimitero dove riposavano Birno e Pippa, il padre e la madre. Era musulmano ma entrando si fece il segno di croce e pregò la santa Madonna anche venerata nella religione islamica. Il cimitero di Castella è su una collina odorosa di ulivo e di mare. Occhialì, in sogno, rivide i mattini rugiadosi, la colonna di Hera nel cielo di Crotone, la fiamma nel camino della legna della Sila. gli antri verdi delle rocce marine e le cento cose della infanzia felice prima di essere preso prigioniero. E pensando la stagione della infanzia quando il sole levigava la pelle, si ricordò di Maria. Non l’aveva mai dimenticata ma era rimasta nel territorio dell’anima dove depositiamo le memorie più care e fedeli che ci accompagnano sempre. E allora Occhialì uscì dal cimitero e si precipitò in paese. Tutto era silenzio. Gli abitanti fuggiti si erano allontanati verso Cutro. Allora Occhiali si recò nella casa di Maria. Spalancò la porta e vide nella penombra una donna accartocciata su una sedia, immobile che non poteva più muoversi perché paralizzata. Era Maria ma Occhialì non la riconobbe. E Maria non fece niente. La donna calabrese aveva capito che doveva rimanere nella immaginazione di Occhialì la ragazza di tanti anni fa quando si era concessa vergine al compagno di giochi in una cantina mentre i turchi sbarcavano. Qualcuno poi disse a Occhialì che Maria era morta. Ma il figlio di Calabria. grande ammiraglio turco. ebbe sempre dubbi in proposito. 

Francesco Grisi

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 23-25.




Cristiani Oggi

 

Viene pubblicato dalla “Piemme”

un libro originale che ha suscitato polemiche

quando è stato presentato alla

stampa. Si tratta del volume di saggi

Scrittori cristiani scritto da Francesco

Grisi, segretario generale del sindacato

libero scrittori. Servendosi delle più familiari

testimonianze cattoliche e confrontandosi

con i cosiddetti “eretici”,

Francesco Grisi compie un itinerario

per interpretare in chiave occidentale

la letteratura.

Chi è lo scrittore cristiano?

Indipendentemente dal successo, lo

scrittore cristiano è un uomo impegnato

con il Messia, figlio di Dio, venuto

in terra per salvare tutti.

Lei parla dei cosiddetti “lontani”…

Sì. Vicino lo scrittore cristiano c’è

una schiera numerosa di amici e compagni.

Molti sono vicini e altri sono

lontani. Ma tutti fanno parte del nostro

occidente che inizia laggiù a Gerusalemme

quando viene il Cristo. Lui ha

contagiato credenti e laici e ha dato

speranze alla sua comunità ebraica e

alla Chiesa cattolica.

Può dire che cosa è il suo libro “Scrittori

cristiani”?

Il libro è una scelta attenta di “cose”

che ho scritto in questi anni. Sono introduzioni,

articoli, interventi con una

forte componente letteraria. Contengono

anche una problematica religiosa

della vita. Le pagine che propongo

sono un sentiero che attraversa un bosco

segnato da trabocchetti, passaggi

difficili, frane e insidiosi pericoli. Ma

il sentiero ha una sua coerenza che il

lettore potrà percorrere con me.

Qual è il tema centrale del volume?

Il libro si colloca in un tempo di

confronto. La cosiddetta strategia del

muro contro muro (che vuole dire degli

opposti schieramenti) è stata sconfitta.

Dallo scontro si va verso il confronto

(che è già una forma di collaborazione).

Con spirito critico affronto questo

tema nel versante della cultura “cattolica”.

Ma ho molte perplessità. La nostra

storia non si svolge tutta per dialettica

di opposizione (anche se cambiano

i protagonisti). Comunque, le ipotesi

sono da avanzare. Tutto mi interessa.

Come il lettore potrà intendere, la

polemica è sempre affiorante, ma le

prospettive sono tutte aperte. Il dubbio

aiuta a vivere nella speranza che la verità

possa pacificare le impazienze.

da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Editoriale




 Il racconto del sole 

di Patrick Grainville* 

Faccio il professore in un liceo di periferia. Un anno fa mi è accaduto un fatto irrimediabile. Il sogno di ogni insegnante di lettere. Addirittura l’incubo, la sua maledizione. 

Mi chiedo, come si fa a essere all’altezza del genio? Figuratevi il professor Izambard che un bel giorno, al collegio di Charleville, scoprì nella sua classe Arthur Rimbaud! Uno shock incredibile: frasi dettate da Lucifero, in un’alchimia degli Inferi. Una pioggia di ukasi stellari. Proprio lì davanti a te, nel tuo angolo sperduto in capo al mondo, la catastrofe della bellezza. Un sisma verbale inedito. 

È settembre a Sartrouville; un rientro dalle vacanze come tanti altri. Non noto nulla di particolare nel ventaglio di alunni che mi si squaderna davanti… Lei, non la vedo neppure! La ignoro per ben due settimane. Lei, il mostro! Potremmo battezzarla Arturina, in ricordo di suo fratello Rimbaud! 

Lei, tiene nascosta la sua essenza coriacea. 

Per valutarli, decido di assegnare loro un primo tema piuttosto libero, invitandoli a una galoppata di prova. 

Le regole del gioco, quelle dell’esame di maturità verranno a suo tempo. Si torna dalle vacanze estive: l’argomento è il sole. Cosa rappresenta per voi il sole? 

Comincio a leggere gli elaborati a casa, senza eccessiva curiosità Sono meno entusiasta di una volta. Qualsiasi vocazione finisce con l’attenuarsi, prima o poi. All’improvviso, il fuoco mi investe in pieno volto. Un dardo di fuoco. Parole che mordono, possenti, di una bellezza inesplicabile. Non frasi, ma parole carnivore. Senza una costruzione compiuta, ma ruvide e incastrate in associazioni audaci e calcolate. Un susseguirsi di corto-circuiti, lampi, saette e meteoriti. Non ho parole per descrivere le sue trovate. Ma, attenzione! Nessuna anarchia adolescenziale in tutto questo. Nessun rigurgito surrealista. Solo espressioni compatte, allucinate, lucide. E poi, necessarie, solide, crude e magnetiche. E quelle massime infuocate si alternano ad assiomi gelidi. Il contrasto mi affascina, al pari della speculazioni sul sole e sul desiderio, e ancora sull’amore e sulla carnalità Un miscuglio di sottigliezza ed efferatezza che sconvolge in un’alunna così giovane. 

Allora, mi precipito sulla sua scheda personale. Appartiene a una famiglia modesta e ha 17 anni. Giustamente, la stessa età di quell’Altro, il suo gemello fulminante: Arthur. Ed è nata ad agosto. 

Mi piace che il suo mese sia quello dei parossismi, degli eccessi anche del tempo, delle sue parentesi nude e roventi. 

Ho un solo desiderio: conoscere il volto dell’autrice. L’indomani mi fiondo al liceo. Come sempre, restituisco gli elaborati nell’ordine in cui si presentano. Quando arriva il suo turno, pronuncio il suo nome. Lei alza il dito e io mi dirigo verso Arturina, finalmente rivelata. Eccola! È bella, di una bellezza dissimulata. Da lontano la si crederebbe un po’ slavata o insignificante. Da vicino, sotto il mio naso, mi si offre un viso d’acciaio, di un freddo polare. È alta e slanciata, con occhi di un grigio purissimo. Dà l’impressione di uno spessore e di una concentrazione offuscata, ma studiata. C’è qualcosa di agguerrito in lei, come l’attesa di un’imminenza. Di colpo, me ne sento minacciato, ma ignoro il pericolo che potrebbe piombarmi addosso. 

Lei, non sorride. Quando le poso davanti il suo compito, sento che è necessario tacere e che non posso esprimere il mio entusiasmo, lì davanti agli altri. Sento che mi giudicherà in base alla mia capacità di tacere. Io, taccio; mentre i suoi occhi mi spiano, sondandomi lentamente. Poi, fuggo verso la cattedra. 

Finita la lezione, mentre lei si accinge a uscire dalla classe, le faccio un segno e aspetto che gli altri si dileguino. Allora, le svelo la mia sorpresa e le chiedo se è consapevole di avere scritto delle pagine… straordinarie. Lei risponde con calma: 

– Sì penso di sì… Lo credo bene. 
– Ne hai scritte delle altre? 
– Sì tante. 

È talmente fiera che mi squadra dall’alto in basso. Sembra una spada. Fanciulla bellicosa dallo sguardo sagace, di un grigio come il Mare del Nord, senza pietà Mi sta piantando negli occhi quel pugnale grigio del Nord. 

Due giorni dopo, mi lascia un manoscritto sulla cattedra. Sono un centinaio di pagine e di un vigore che mi pietrifica. Le parole cadono come mannaie, e corrono come kriss kamikaze, facendomi sentire come crivellato dai colpi. Sì mi sento come il bersaglio di quei segni a cui è affidata una confessione in codice, esplosiva, da cui traspare un segreto terribile, attraverso l’associazione di una vitalità cieca a una lucidità atroce. 

Durante la notte, leggo e rileggo il testo di un’adolescente satura di odio solare, a tal punto che in lei l’astro stesso sembra esplodere, incendiando le nostre fatiche e le nostre certezze, e inghiottire tutto nella sua fiamma cosmica, lasciando sussistere solo due tracce di elio grigio in quegli occhi di fanciulla. 

All’ultima pagina mi ordina di non parlare mai con nessuno di ciò che ho letto, di mantenere il segreto assoluto, visto che non sarà mai pubblicato: “È un divieto categorico, senza appello!”. 

Quando le restituisco il testo, le chiedo perché me lo ha fatto leggere, se non ne devo parlare con nessuno. 

– Avevo bisogno di un testimone. Uno solo e basta. In fin dei conti, non sono talmente forte da poterne fare ancora a meno. 
– Ma il tuo scritto mi tormenta, dal momento in cui l’ho letto. 
– Lei vuole alleviare il suo peso, insomma. Certo! 
– Ma io non perdonerò la più piccola deroga. Al primo passo falso, sarò spietata… 
– Ma io non potrò dimenticare la crudeltà infinita di ciò che ho letto. Tu non hai il diritto di farmi condividere l’inenarrabile. 
– Le sarà necessario trovare la giusta distanza per non esserne divorato. Anch’io mi sentivo divorata dai miei 
racconti. Allora, ho trovato la distanza, grazie a lei! 
– Alla fine sorride e mi appoggia una mano sulla spalla. È come un gesto che sancisce un patto, ma anche il dono di una grazia misteriosa. Da quel momento mi possiede con la promessa del silenzio riguardo al suo racconto mostruoso e segreto. Non so se mi odia o se, invece, mi ama un po’. 

Patrick Grainville

(trad. it. di Brigida Fagone) 

* Patrick Grainville è uno scrittore francese (oltre che critico letterario del “Figaro”), nato il I giugno 1947 a Villers-sur-Mer (Calvados). Ha trascorso l’infanzia a Villerville, piccolo centro situato ad est di Deauville. Professore di lettere, riceve a solo 29 anni il prix Goncourt 1976 per il suo quarto romanzo, Les Flamboyants (I fiammeggiatori). 

Altri suoi romanzi: Le paradis des orages (1986), L’rgie, la Neige, prix Guillaume le Conquéant (1990), Le Jour de la fin du monde une femme me cache (2001), La Main blessé (2005), Lumièe du rat (2008), Le baiser de la pieuvre (2010). 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 49-51.




Mrs Moon

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 36.




MARIA PATTI, Fermenti socio culturali nell’800 e don Giuseppe De Gennaro da Corleone, vol. I – Scripta varia graece et latine di don Giuseppe De Gennaro, vol. II, Ila Palma, Palermo – Palladium, Corleone

Pagine storiche e letterarie dell’Ottocento minore in Sicilia 

Carattere culturale specifico ha l’ultima fatica letteraria di Maria Patti, professoressa di latino e greco, scrittrice, poetessa e studiosa corleonese. 

«Solo una studiosa del livello di Maria Patti», scrive lo storiografo Giuseppe Virgadamo, «poteva dare l’avvio ad un’opera di così difficile, grande spessore letterario e di notevole interesse storico. Un gioiello della storiografia corleonese che conduce il lettore a rivivere i sogni e i valori di un passato che appartiene alla nostra storia e che è fondamento e sostegno della nostra cultura e delle nostre tradizioni.» 

Maria Patti è autrice di numerosi libri di poesia e saggi storici e filologici, degna di essere annoverata tra i protagonisti della cultura siciliana. La critica si è ampiamente occupata della sua multiforme attività culturale. 

Scrive ancora il Virgadamo: «La riscoperta delle proprie radici , la salvaguardia della propria memoria, l’amore per il mondo classico, sono beni preziosi cui Maria Patti non è disposta a rinunciare. L’antico fascino della poesia greca e latina avvolge l’autrice, che non tralascia mai di misurarsi in occasioni di dialogo e di riscoperta con autori classici» di indiscusso valore. 

L’opera, interamente dedicata alla vita e alle opere del letterato Giuseppe De Gennaro da Corleone, merita di essere letta e divulgata. È stata scritta con grande passione e competenza. 

Stella E. Gois

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 52.




GIOVANNI PIONE, Gloria, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a Palma, Palermo 2006.

Un’opera prima che rivela una sicura maturità della scrittura 

Una scrittura che coinvolge, una storia che commuove e stupisce. Questo il romanzo dal titolo Gloria, col quale esordisce il medico siciliano Giovanni Pione, che opera nelle Eolie. Protagonista una donna, Gloria, felicemente sposata e mamma di tre figli. Una donna semplice, animata da un credo puro che conosce solo amore e piange solo per gioia, di colpo viene proiettata verso l’inferno di un dramma di cui non possiede la chiave di lettura. Un terribile incidente stronca la vita del figlio maggiore Tony, e lei ora, per la prima volta, si ritrova a fare i conti con la divinità. 

Comincia il viaggio sino in fondo a se stessa, una sfida incessante. 

Gloria lotta da sola contro la tempesta spirituale, aspettando di cozzare contro gli scogli della vita. Un percorso che prende le mosse dal dubbio e dalla rassegnazione fatalista fino alla rielaborazione personale, convinta, al recupero della volontà decisionale tarpata, con il superamento di quegli ostacoli che impedivano il cambiamento. Una sorta di liberazione da un peso interiore, sino all’ultimo incontro, che ha in serbo per lei un inaspettato regalo. 

La magia di un incontro rimette inaspettatamente tutto in discussione e riapre il suo cuore, che ora le appare grande più di quanto immaginasse, accogliente più di quanto credesse. «L’uomo ha già la verità dentro di sé, la vita è divenire e non esiste un traguardo solo nella vita di nessuno.» Un sorriso, il ricordo indelebile di uno sguardo, un vigoroso abbraccio: sono le carezze positive, a dispetto di ogni dolore, sole in grado di trasformare l’esistenza lungo la via di avvicinamento a Dio. 

Lo stile dell’autore è fluido e caldo. Periodi brevi con incredibili capacità di sconvolgere ed emozionare. Pagine vergate da lame taglienti che scuotono l’animo dei più sensibili. Uno scrittore che fotografa espressioni di vita e sa cogliere sfumature di situazioni maledettamente reali. Un testo che fa riflettere su un microcosmo di persone, espressioni, dolori appena fuori dalla porta di casa. 

Stella E. Gois

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 60-61.




ANTONINO GIUSEPPE MARCHESE, Giacomo Santoro detto Jacopo Siculo, pittore del sec. XVI, collana «Prisma», I.l.a Palma, Palermo. 

La riscoperta di un artista siciliano del sedicesimo secolo 

Può accadere che due regioni italiane distanti, sia per latitudine che per esperienze storiche, trovino una comunanza intellettuale nel vissuto di un individuo, inconsapevole protagonista di un consorzio culturale in tempi non sospetti: Sicilia e Italia centrale. 

Questa è la storia di un Maestro del Cinquecento, Jacopo Santoro di Giuliana, uno dei quattro centri minori che assieme a Bisacquino, Chiusa Sclafani e Corleone disegnano il quadrilatero geografico nonché storico della provincia di Palermo e si distinguono per la ricca produzione di artisti dall’età del Manierismo a quella del Barocco. Jacopo Santoro rappresenta purtroppo uno dei tanti esempi di trascuratezza degli studiosi e delle istituzioni culturali: è stato avversato per molto tempo e poi posto nel dimenticatoio dagli storici dell’arte siciliani. Per nostra fortuna non dallo storico A.G. Marchese, medico di professione, studioso dedito alla cultura del recupero dei Beni Culturali dell’ entroterra dell’ isola. Egli in questa monografia ha dimostrato encomiabile abilità e pazienza degna di una rara figura di intellettuale non omologabile e super partes, che ancora una volta lo hanno contraddistinto nell’ aver squarciato il velario del dimenticatoio. E nella dotta presentazione Giovanni Sapori dell’Università di Roma/3 lo mette in evidenza. 

La ricerca è stata condotta con estremo rigore scientifico a partire da indagini di carattere storico-ambientale, che hanno portato il Marchese a dedurre l’appartenenza del pittore a quella etnia ebraica presente a Giuliana dal 1486 e sottoposta al decreto di espulsione nel 1492, che Jacopo porterà come segni indelebili, che se da un lato arricchiranno il suo patrimonio artistico, dall’altro contribuiranno a far perdere, per circa quattro secoli, sinanche le tracce della sua identità. 

L’Autore nella monografia ha ricomposto in undici schede il corpus delle opere dell’ artista, a corredo della sua genialità compositiva e stilistica, mettendo bene in luce la purezza del raffaellismo che nello stile del Santoro si traduce nella sublimazione dell’ eleganza terrena e focalizzando le sue peculiarità correlate alla geniale costruzione cromo-spaziale dei retabli, tecnica caratteristica dell’impianto scenico. 

Stella E. Gois

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 47.