Le ragioni del principio antropico 

L’universo è sconfinato nel tempo e dunque anche nello spazio. La teoria cosmologica del Big Bang, quasi unanimemente accettata da tutti gli studiosi, fissa una origine dell’universo circa 15 miliardi di anni fa: tenendo conto dell’espansione dell’universo scoperta da Edwin Hubble negli anni 1920/30 e del fatto che la velocità massima con cui ha luogo ogni genere di propagazione (di materia, di informazione, di energia, etc.) è quella della luce, si potrebbe osservare un volume di spazio pari a quello di una sfera con un raggio di circa 15 miliardi di anni luce (a.l.): essendo un a.l. la distanza che la luce percorre in un anno nel vuoto, 15 miliardi di a.l. equivalgono a circa 142.000 miliardi di miliardi di Km! 

In questa immensa distesa spazio-temporale, la vita, almeno per come la conosciamo noi e per quello che sappiamo dell’universo, così come ci appare oggi con i nostri limiti osservativi, si è sviluppata su un piccolo pianeta di un sistema stellare periferico di una comunissima galassia a spirale: la Terra. 

Le valenze conoscitive di questa osservazione chiamano in gioco, da qualunque angolazione la si voglia leggere, il ruolo ed il significato della presenza dell’uomo e della vita nell’universo: qualunque esso sia, la sola nostra presenza, impone che questo universo debba essersi originato e sviluppato, per caso o per disegno prestabilito non è possibile appurarlo (anche se su ciò possiamo congetturare), in maniera tale da rendere possibile la vita e la presenza di esseri intelligenti quali noi siamo. 

È il cosiddetto principio antropico: in sintesi il tentativo di interpretare l’universo sulla base del fatto che nella sua genesi ed evoluzione ha reso possibile resistenza di esseri ‘coscienti in grado di osservarlo e di porsi domande su di esso. 

Le condizioni iniziali dell’universo in cui viviamo e leggi fisiche che ne sono scaturite e che lo regolano sono infatti proprio quelle necessarie per consentire resistenza della materia, della vita e dell’uomo sul pianeta Terra. 

Noi sappiamo che l’universo è nel suo complesso retto da 4 tipi di forze od interazioni come è più corretto chiamarle (gravitazionale, elettromagnetica, nucleare forte, nucleare debole) le cui intensità vengono espresse per il tramite di alcune costanti fondamentali della fisica quali la velocità della luce, la costante di Planck, la costante gravitazionale di Newton, la costante di Hubble, etc.: queste costanti, insieme ad altre della fisica che esprimono le proprietà delle particelle elementari, quali la massa, la carica, etc., avrebbero potuto benissimo assumere valori diversi da quelli a noi noti, ma se ciò fosse avvenuto, l’universo non sarebbe così come noi lo conosciamo e noi non saremmo qui a porci questo quesito: in altri termini noi esistiamo perché esistono certe precise relazioni tra interazioni e particelle. 

Basta cambiare di poco il valore di una di queste costanti e le condizioni che hanno portato alla vita vengono a mancare! 

“L’esistenza degli esseri umani è iscritta nelle proprietà di ogni atomo, stella, galassia dell’universo ed in ogni legge fisica che regola il cosmo”: così afferma Trinh Xuan Thuan, astrofisico americano di origine vietnamita. Altri studiosi si spingono ancora oltre appoggiandosi ad uno dei più sorprendenti risultati della meccanica quantistica e sostengono che è proprio la presenza dell’uomo a dare senso all’universo: senza l’uomo esso non ne avrebbe e pertanto l’evoluzione dell’universo non può che essersi univocamente indirizzata sulla via che porta alla vita ed all’uomo. 

Il principio quantistico che ne fa da referente a1Terma che è l’interazione tra osservatore e cosa osservata a conferire realtà al fenomeno e perciò è necessaria la presenza dell’uomo a fare collassare l’onda dell’universo e stabilime l’esistenza, proprio come un elettrone, che in buona sostanza è una nuvola di carica spazialmente non individuabile, acquista realtà di particella solo quando un osservatore fa collassare la sua funzione d’onda, cioé fa sì che, mediante un oppportuno dispositivo sperimentale, la probabilità di osservarlo in un certo punto sia massima rispetto a quella di osservarlo in altri punti dello spazio-tempo quadrimensionale, nei limiti consentiti dal principio di indeterminazione di Heisenberg. 

In questa ottica si comprende la entusiastica affermazione del fisico americano John Wheler: “Se perché esista un osservatore cosciente è necessaria resistenza di un universo, è altrettanto vero che l’esistenza di un osservatore è ugualmente indispensabile per il collasso dell’onda dell’universo: vale a dire per sancire la sua esistenza”. 

Senza la presa di coscienza della sua esistenza da parte di un osservatore, cioè senza un processo di osservazione e misurazione, la cosa osservata è priva di realtà fisica: il principio antropico sembra dire che gli esseri umani, in quanto osservatori, sono la coscienza di sé riportando così l’uomo al centro dell’universo. posizione da cui era stato strappato con forza dalla rivoluzione copernicana. 

È superfluo sottolineare che una simile applicazione su vasta scala di un principio il cui dominio di azione è il microcosmo non è affatto unanimamente accettata sembrandone il suo uso del tutto arbitrario, fuorviante e ad hoc per dimostrare un assunto aprioristicamente accettato per buono. 

Quest’ultima versione del principio antropico è quella detta forte in contrapposizione alla prima detta debole. proprio perché mentre la prima partendo dalla realtà che ci circonda si limita alla ricerca delle condizioni che apriori la hanno resa possibile, l’altra impone una lettura finalistica di questa realtà: in altri termini secondo la versione debole la presenza della vita ci può aiutare solo a selezionare tra le possibili storie dell’universo quelle compatibili con la vita mentre la versione forte si spinge oltre assegnando all’uomo il ruolo di termine ultimo. di fine del creato. 

È fortemente anomalo, ma a mio avviso fecondo di possibilità di ricerche future. come nella cosmologia moderna sia entrato. attraverso la variante forte del principio antropico, un elemento finalistico anche se usato in chiave scientista come spiegazione post hoc dell’universo. 

Il problema di fondo che spinge parecchi cosmologi ad una lettura forte del principio antropico è essenzialmente legato alla improbabilità che dal Big Bang sia potuto emergere un universo come il nostro: bisognava perché ciò accadesse un universo che già nello stato iniziale fosse ben ordinato e ciò è assai poco probabile anzi è molto speciale: bisognava che le leggi dell’universo in cui viviamo preesitessero ad esso stesso regolandone la genesi e lo sviluppo: e siamo a due passi dalla presenza di Dio! 

Questa scomoda presenza può però essere rimossa ipotizzando un modello ad N-universi. per il quale alcuni si richiamano alla teoria inflazionaria caotica elaborata dal fisico sovietico Andrei Linde ed alla disomogeneità e disuniformità al contorno del Big Bang, dati questi recentemente confermati dal COBE (Cosmic Background Explorer) il satellite della Nasa che sta fornendo importanti indicazioni sulla struttura dell’universo. 

Secondo la teoria ad N-universi esistono infiniti universi non in relazione tra di loro e noi esistiamo in uno di essi nel quale si è potuta sviluppare una vita basata sul ciclo del carbonio e possiamo percepire solo questo universo perché solo in esso siamo in grado di compiere operazioni di misura. 

Così facendo la vita torna ad essere un caso e non una condizione al contorno stringente ed assoluta. 

Dimenticando per un momento la duplicità di lettura del principio antropico esso appare come una sorta di nuovo propulsore della ricerca cosmologica, nuovo nel senso di un utilizzo post hoc del dato reale della presenza della vita sulla terra: partendo dalla constatazione della presenza dell’uomo si deducono le condizioni iniziali adatte a determinare tale presenza; ciò pur non costituendo un nuovo epistema è comunque un indicatore del bisogno di nuovo che si avverte all’interno della comunità scientifica’ (vedi il problema delle 3 C in fisica non lineare: catastrofi, caos, complessità). 

Che il principio antropico possa avere implicazioni finalistiche o meno, mi sembra, ma è una mia personale opinione, esuli dal campo della ricerca scientifica vera e propria e chiami piuttosto in gioco il bisogno di metafisico che emerge sia dalla crisi di valori della cosiddetta civiltà tecnologica sia dai tentativi di coniugare fede, teologia e scienza che attraversano trasversalmente il dominio della ricerca teologica e quello della ricerca scientifica. 

Sembra infatti riemergere la necessità di un principio, di un elemento ordinatore che assicuri razionalità ai fenomeni della Natura in maniera da permetterei di descriverla in termini logici, simbolico-matematici, o metasimbolici ed il vecchio epistema laplaciano per il quale l’ipotesi di Dio sia superflua per la descrizione del mondo non appare più, come altresì accade al meccanicismo newtoniano ed alla dinamica lagrangiana, come una condizione imprenscindibile per la ricerca scientifica. 

Una tale necessità pare sembra farsi più impellente a mano a mano che si accumulano dati sulla teoria del Big Bang, una teoria che pone i fisici dinanzi ad un oggetto particolare descritto con il nome di singolarità: uno stato fisico che non sappiamo descrivere in termini di equazioni e con cui i fisici hanno poca amicizia poiché esso contravviene ai più basilari principi di continuità su cui è costruito l’intero edificio della fisica. 

L’elaborazione del principio antropico si inserisce nel quadro di queste nuove necessità conoscitive da due differenti versanti: da un lato i teologi non hanno tardato a farne uno strumento per riaffermare un antropocentrismo ed una teologia della salvezza rivista in termini cosmici, dall’altro essa ha spinto la ricerca scientifica su territori ad essa inusuali, pervenendo alla elaborazione di un concetto di dio in termini razionali e logici che coinvolgono il concetto di informazione ed in maniera riflessa quello di entropia. 

Sul versante teologico il principio antropico sottolinea ulteriormente la specificità della presenza dell’uomo nell’universo rimarcando l’unicità di specie vivente intelligente propria dell’uomo. 

Nel porre la genesi e lo sviluppo dell’universo in relazione con il presentarsi della vita, il principio antropico pone. secondo i teologi, un problema di relazione che va oltre l’usuale determinismo causa-effetto proprio perché in tale universo viene a determinarsi una forma di vita intelligente: in altri termini i teologi tendono a sottolineare che la differenza che l’uomo pone all’interno del creato non può essere, né deve essere sottaciuta! 

L’uomo che si pone come osservatore nei confronti dell’universo e che percepisce la sua unicità di osservatore intelligente, riconosce nella esistenza di 

un processo evolutivo che a lui conduce una sorta di codice cosmico che alla luce della fede egli vede come opera di una persona che ha programmato la genesi e lo sviluppo dell’universo in funzione dell’uomo: questa persona gli si palesa quindi come supremo ordine, come realtà apriori dell’universo, in modo da poterlo preordinare, fuori, pertanto, dal tempo che egli stesso crea e nel quale si immerge, come garante della stabilità del creato e delle sue leggi: ma questa persona gli si palesa anche come principio di libertà dato che l’uomo si percepisce realtà incondizionata e libera: in tale persona la fede gli consente di riconoscere Dio! 

Il progetto etico della fede, ma sarebbe meglio dire delle religioni, diventa pertanto il progetto di una sorta di realizzazione cosmica che passa, come per un percorso obbligato, attraverso la realizzazione dell’uomo. 

Il progetto cosmico di Dio, l’universo stesso creato per l’uomo, si compie attraverso la realizzazione dell’uomo, come entità chiamata alla vita ed al mistero dell’essere ed a rapportarsi con il motore euristico dell’universo, Dio, Essere autoesplicativo e principio ordinatore del cosmo e delle sue leggi. 

Sull’altro versante, il principio antropico ha dato luogo al tentativo di un modello matematico di Dio: è la “Omega Point Theory” (Teoria del punto Omega) elaborata dal fisico-matematico Frank J. Tipler. 

Il Dio di Tipler è un Dio in evoluzione, che è nel mondo, lo crea e ne è creato. 

Creato e creatore, lungi dall’essere due cose differenti, sono invece manifestazioni differenti di un unicum, cioé manifestazioni su scale diverse di questo unicum, come fossero realtà sovrapposte una all’altra, ma di una sovrapposizione che li rende apparentemente una trasparente all’altra! 

Consideriamo come esempio esplicativo un uomo: esso è composto da atomi, ognuno dei quali obbedisce a delle precise leggi fisiche: pur non di meno l’uomo, totalità di quegli atomi, non solo non è descrivibile nei termini con cui si descrivono gli atomi, ma è ben più che la semplice somma degli atomi stessi. 

In egual maniera l’universo è descrivibile da precise leggi fisiche, ma oltre quelle leggi emerge una realtà oltre, emerge una Persona. 

L’universo di Tipler è un universo autoconsistente in quanto per esistere non richiede il bisogno di un intelVento ad esso esterno; è in evoluzione nel senso che esso è sede di un continuo aumento di informazione! 

La storia dell’universo è una storia di tipo evolutivo: dalle forme di vita elementari si è pervenuti all’uomo e noi stessi siamo destinati ad essere sostituiti da una specie più evoluta di noi; questo ci suggerisce da un lato la nostra insignificanza nel tempo, nella storia del cosmo e dall’altro ci pone dinanzi un imperativo di tipo etico: quello di assicurare la continuità di crescita dell’informazione. 

In questa maniera si compie l’evoluzione di Dio: come una continua crescita di informazione, garantita dalla vita e tuttavia da essa sempre più smaterializzata! 

Se questa continua crescita avrà un fine naturale, esso è il Punto Omega, una singolarità, la fine del cosmo come completa autorealizzazione del creato, una sorta di intelligenza senza materia, pura ed assoluta conoscenza! 

Domenico Salvatore Giarraffa 

BIBLIOGRAFIA 

1) P.C.W. Davies, “C’è posto per Dio tra i quark e il Big Bang?, n° 31 1’cAstronomia., marzo, 1984. 
2) S. Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri, Rizzoli, Milano, 1988. 
3) John Gribbin, L’Universo come parte di noi, nO 97 l’cAstronomia., marzo, 1990 
4) J. D. Barrow, n mondo dentro il mondo. Ade1phi. Milano. 1991. 
5) B. Carter, “Large Number Conicidence and the Antropic Principle in Cosmology”, in M.S. Longair (ed.), Corifrontations od Cosmological Theorles with Obseuational Data. Reidel. Dordrecht, 1974. 
6) J. D. Barrow – F. J. Tipler. The Antropic CosmologicalPrtru:fple. Clarendon Press, Oxford. 1986. 
7) F. J. Tipler, “The Omega Point: A model of an Evolving God”, in R. J. Russell – W. R. Stoeger – Coyne (edd.). Physics, Philosophy and theology. A Common Quest for Understanding, Vatican ObselYatory, Vatican City State. 1988. 
8) Saturnino Muratore, “Antropocentrismo cosmologico e antropocentrismo teologico”••La Civiltà Cattolica•• 1992. III. 236-247.

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 45-51.




 Occhi 

Racconto di Angela Giannitrapani 

Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. 

Che impertinente, pensai, non appena gli occhi scuri penetrarono oltre la sottile ma resistente barriera che avevo costruito per dividermi dal mondo, fino a quel momento. 

Feci finta di niente e mi immersi nelle pagine di giornale che quasi mi nascondevano il viso. Ma non riuscivo a concentrarmi. Sapevo che, al di là dei fogli sottili, c’era quello sguardo. E mi scrutava. 

Avrei anche voluto avere una lente, non reggevo bene la vista di quei colori così intensi, dopo tutto il bianco in cui avevo vissuto. Ma, benché mi ferissero gli occhi e mi scombussolassero l’anima, ne godevo, come un affamato ad un banchetto nuziale. Mi ci era voluto un po’ per penetrare in quel punto del parco, proprio a causa di tutto quel verde e giallo e rosa e blu: solo quando mi ero seduta sulla panchina mi ero resa conto dei suoni e delle voci. Fino a quel momento avevo solo visto, come se il mio contatto uditivo con il mondo si fosse ripristinato proprio nel momento in cui, esausta e guardinga, mi ero seduta. 

Udire quell’accozzaglia di suoni desueti era un po’ come imparare una nuova lingua e nuove regole armoniche. Dapprima arrivavano mischiati e, man mano, andavano distinguendosi, ma continuavano a sovrapporsi e sentivo il cervello bombardato, ma avido di ingoiare quella musica recente. Tuttavia era troppo. Troppo, tutto in una volta. Fortunatamente avevo il giornale e lo usai di nuovo come schermo. Sì, certo, mi aiutava a filtrare quell’abbondanza che tentava di travolgermi. E cominciai a rilassarmi. Ci sarei riuscita completamente, se non avessi avuto quegli occhi puntati su di me. 

Perché proprio io, poi, tra tanta gente? Non avevo fatto nulla per essere notata ed era certo l’ultima cosa che desiderassi. In quel momento non desideravo molto, a dir la verità. L’ unico pensiero chiaro che ricordo di avere avuto in mente era quel programma, che mi ero prefissata di portare a termine. Quel progetto, fatto più di bisogni e di risoluzioni pratiche che di desideri . Non mi restava che decidere dove andare. Non doveva poi essere così difficile. Ricordavo bene da dove venivo. 

Così, mi immersi più attentamente nelle pagine del giornale. Se non fosse stato per quei leggeri capogiri si sarebbe detto che ero in perfetta forma. Allora, presi a respirare più lentamente e più profondamente, come avevo imparato. Quegli occhi erano ancora fissi su di me, avrei potuto scommetterlo. Bisognava far finta di niente. 

Cercai, tra gli articoli e le rubriche, qualche luogo che mi ispirasse; ma venivo continuamente inghiottita dalla cronaca scarna e quotidiana. Che titoli banali per fatti complessi! Chi scriveva non sembrava accorgersene. Io sapevo cosa c’era dentro quelle storie, ma avevo anche imparato a non dirlo più. 

Ci fu appena un sospiro e fui costretta a scavalcare i fogli. Mi scontrai con il suo sguardo, adesso più incuriosito che mai; e ne fui scossa. Mi leggeva i pensieri? Ero certa di non aver parlato ad alta voce. Non questa volta, almeno. Mi sistemai meglio sulla panchina, che sentii un po’ più scomoda e rigida di prima e annaspai tra gesti indecisi e, ne ero certa, sguardi vaghi. Decisi, alla fine, di apparire attratta dagli alberi, dallo scintillio del sole e addolcita dal vociare dei bambini. Feci finta di concentrarmi su una pozzanghera affollata di passeri; emisi un profondo sospiro che risuonasse di soddisfazione e sperai che anche lo sguardo dirimpettaio mi seguisse, distogliendosi da me. 

Lo fece, per pochi secondi. Poi, decise di tornare a me, come se, dopo un breve intermezzo, fosse di nuovo il mio turno. 

Delusa e un po’ indispettita, trafissi i suoi occhi con il mio sguardo tagliente, antico di anni, ma dissepolto di recente. Consapevole, ne ebbi paura, nel ricordo di ciò che mi aveva sempre causato. E mi risuonarono urla, domande, silenzio, irruzioni, lunghi sonni indotti. 

Ingolfata nel mio stesso respiro, non mi resi subito conto di aver provocato soltanto maggiore interesse e un tentativo, discreto, di accorciare le distanze da parte di chi mi stava di fronte. Non era un’aggressione e questo bastò a rassicurarmi. Rallentai il mio respiro, chiusi gli occhi, svuotai la mia mente e contai finché potei, come mi era stato insegnato. Quando li riaprii, nulla era cambiato intorno, e in certo qual modo ne fui rassicurata. 

Ma che impertinente, pensai di nuovo, non appena incrociai quegli occhi scuri. Adesso, mi studiavano con una certa comprensione e sembravano volerne sapere di più. No. Non ero disponibile a far capire di più. Mi era sfuggito fin troppo. Fin troppo adesso e in passato; quando con ingenuità avevo dato in pasto agli altri i miei umori, le mie tristezze, i moti di entusiasmo, l’amore, una vitalità fastidiosa che costava fatica a tutti, e me stessa, d’impaccio per chi mi amava e odiava. 

Adesso potevo perfino sentire il suo odore, tanto vicini eravamo. Avrei voluto fuggire, ma ero inchiodata contro lo schienale della panchina. Se mi fossi alzata avrei comunque rischiato d’essere sfiorata e ne avevo il terrore. Così, decisi di sbarrare quel breve spazio con l’unica arma in mio possesso e mi nascosi ancora dietro il giornale. 

Ma le righe e le parole presero a tremolare convulsamente, prima di sparire e riapparire come per incanto, in una indesiderata quanto improvvisa liquidità, che non riconobbi subito come mia. Quanti giorni, quanti mesi, quanti anni erano passati dalle mie ultime lacrime? Quante me stessa? Frantumata in mille e dispersa in frammenti divisi tra coloro che, inconsapevoli di possederli, vivevano nelle strade, nelle case, nelle loro famiglie? Quanti anni avevo vissuto sola, più nella memoria altrui che nel mio presente? 

Non avrei permesso oltre quell’intrusione nella mia vita. Decisi che avrei fatto un gesto spazientito o detto parola, per allontanare quella sfacciata indiscrezione che mi stava di fronte. Abbassai il giornale con uno scatto dal suono secco, come una schioppettata; ma non intimorii altri che me stessa. 

Al contrario, adesso potevo specchiarmi in tutta la sua simpatia. Calda e accattivante, come di chi, sicuro del proprio passato, non teme il dolore né la gioia altrui ed è pronto alle sorprese, purché vissute in comunione. Non seppi più cosa dire e cosa fare. E, indesiderato, mi sfuggì un debole sorriso. Anche l’altro sembrò sorridermi, tra i tanti sentimenti affiorati nei suoi occhi. Sembrava, perfino, pronto alla lucida follia di consorziare il suo destino ad una sconosciuta e a scommettere su di me, senza riserve. 

Mi sentivo travolta da tanta sicurezza. Ma, invece che disagio, ne ebbi un caldo piacere che, scivoloso, andò giù fino in fondo e risalì alla mia mente riordinata di recente, facendorru dire: perché no? Pensandoci bene, il rischio più grosso l’avevo corso alcune ore prima e non potevo che compiacermi del luogo in cui mi trovavo. Nell’ultima mezz’ora, a causa di quella investigazione silenziosa, ero anche stata costretta a ripercorrere i miei anni e le mie fughe. Compresa l’ultima. E giurai a me stessa che non ce ne sarebbero state altre. 

Mi ritrovai la mano sul suo viso tiepido e, bisbigliando, dissi: «Sì, grazie.» 

Fece cenno di goderne e ricambiò lambendomi le dita con tenerezza. 

Raccolsi i frantumi dei miei ultimi pensieri e il giornale, scivolato ai miei piedi; mi alzai dalla panchina lentamente e insieme ci incamminammo. 

Sì, sarebbe stato facile trovare dove andare. Avrei chiesto di una casa con giardino. Per via del mio compagno, naturalmente. L’avrei ottenuta. 

Chi mai avrebbe potuto sospettare di una giovane donna con un cane? 

Angela Giannitrapani

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 30-32.




 Entro ogni voce d’uomo

 Entro ogni voce d’uomo, 
entro tutti gli anfratti 
sillabe d’assoluto hai seminato 
Non sono lombrico, Signore, 
che si nutre di zolle, né scattante 
puntino su pagine ingiallite. 

Gianni Giannino 

da Il nido fra le stelle. Haiku e altri versi. Ila Palma. 2007

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 37




 IL FUOCO DELLA RABBIA 

Per spegnere il fuoco 
della rabbia 
sciolgo la catena delle parole. 
L’urlo feroce del peccato 
diventa stelo sottile 
d’àloe. 
Al di là della disperazione 
l’anelito 
verso ritrovate armonie 
torna 
alla muta profondità 
delle origini 
dove il discorso 
si risolve. 

Pino Giacopelli 

Oltre la siepe, N. Calabria, Patti, 2004

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 29.




GIUSEPPE BAGNASCO, L’amore viola. collana «Poesia Oggi», l.l.a. Palma, Palermo, 2008.

Il colore del sentimento e la vitalità della memoria 

L’amore viola, cioè, l’amore come un nome, come un colore, forse come uno strumento a corda che vibra e produce suoni profondi. Sono poesie che, in una fitta trama di rimandi e nell’inarcatura tra verso e verso, ci restituiscono lo stupore, la magia, il dolore di un canzoniere d’amore che, come tale, si sottrae ai livelli della storicizzazione” che esprime l’uomo, la sua cultura, i suoi vissuti. 

È una poesia dell’io, che parla all’amore e dell’amore, che guarda dentro di sé per scavare le vibrazioni più intime. 

Fra le cinquanta poesie, ce ne sono almeno cinque (Felice il vento, La pazzia, Senza cuore, Poi arrivasti tu e Mura il tuo silenzio), in alcuni versi delle quali abbiamo trovato, quel senso del labirinto assunto emblematicamente da alcuni poeti siciliani della fine del’ 500, in primis il poeta di «Celia» nelle sue Canzuni amurusi. il monrealese Antonio Veneziano – limitatamente alla esperienza amorosa. Laddove il sentire la passione d’amore con un lirismo che ci confermaquanto il sentimento amoroso sia consonantico e senza tempo, e come la poesia di Bagnasco raggiunga vertici di espressione così nobili e rari. 

Fare poesia significa mettersi a servizio della natura, non per imitarla nel canto, ma per darle espressione; significa esplorare quel luogo segreto all’interno di noi per tirame fuori immagini e fantasie che non appartengono solo a noi, ma che racchiudono tutti i sogni del mondo. Non a caso Hermann Hesse ha scritto che «nei sogni dei poeti risiedono una bellezza e una grazia che si cercano invano nelle cose reali». 

Il poeta scrive una poesia, non inizia affatto un libro. Soltanto dopo si rende conto che, tra le diverse poesie scritte, si ri-trova la linea di un percorso, il tracciato di un discorso. Dove iterazioni, sineddoche, sinestesie, anafore, metonimie, ispirano ed evocano stati d’animo che si trasformano in immagini. 

Bagnasco propone una poesia in cui fantasia e verità si incontrano nel segno di una superiore armonia: «E poi arrivasti tu / e il tempo / non fu più il tempo. / Si accesero le vetrine dell’ amore … ». Molte sono anche le suggestioni (da sub gerere) con cui, attraverso metafore fortemente fisiche, i testi poetici si possono leggere come partiture dell ‘anima: «Se dovessi descrivere l’amore / disegnerei un chiodo / e lì appenderei tutti i suoi sogni / e per vincere la solitudine / starei solo assieme a un cane / a dividere la zuppa con lui» (Calcinacci). 

Una poesia, dunque, che più sembra lontana dalla vita veloce ed ipertecnologica 

di oggi, più riporta alla condizione eterna dell’uomo, alla maledizione e alla ricchezza della sua corporeità. Sì, perché la poesia non dà risposte, ma interroga «il silenzio delle cose» (Luzi). 

Voglio concludere riportando alcuni versi della poesia Mi manchi. Qui l’amore si fa confidenza e si circonda di letteratura senza perdere nulla della sua immediatezza. E per me è come chiudere un cerchio: come se l’ultimo pezzo del puzzle fosse stato già pronto a combaciare: «E tu mi manchi / mi manchi appena dopo / esserci lasciati / [ … ] Mi manchi oltre la vita / perché in me non c’è vita / se tu mi manchi … ». 

Pino Giacopelli

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 62-63.

 




 DAL SUD di Pino Giacopelli 

Vengo dal sud, quel mito che abita ere 
trapassate e si dissolve nella zona 
degli uccelli 
nel pendio scorticato dagli artigli 
del grifone, 
quella strada in salita merlata turrita 
vaga di essenze esotiche, di cedri, 
sulfuree pietraie 
e scende nel mare della mattanza 
dove leggiadro veleggia un catamarano 
corindone, 
e le donne (stordite dal profumo 
di tuberose?) si aprono al piacere 
forse senza sensi di colpa, degustando 
sorbetti 
al gelsomino, senza coturni ai piedi. 
Corpi che sono labbra spalancate. 
Per amare 
e mentire, sognare e tradire. 
Voci della boucherie, necropoli 
macchiata 
di fantasmi che il mattino accende 
di lucerne 
e si perdono nel crocevia che spezza 
la speranza, negli ancestrali mal (umori) 
tellurici, 
nelle confidenze custodite della prima 
età e diventano marzapane e malvasìa. 
Vengo dal sud, quella sciarada 
che traveste 
di verità ventri di madreperla, dove 
per le coccinelle i pipistrelli sono 
angeli 
e lo spaventapasseri attira i corvi senza 
spaurirli nemmeno. 
Quel percorso triangolare dei gufi dove 
la gente 
viene a deporre lame di coltelli, 
a perdere 
la testa (almeno una volta) 
per somigliare 
a se stessi e sceglie la libertà che 
non conosce 
e crede che le stazioni dei metrò 
sono catacombe e l’oceano una latomìa 
abissale 
che inghiotte il sole, dove la maschera 
rugosa 
della morte ha il volto di una P-38 
carica 
di polvere di eroina, dove hai paura 
di assopirti 
e di svegliarti, mani nelle mani, 
nella morte 
che passa e ripassa sul corpo disteso 
portando 
via, poco per volta, la luce dagli occhi. 
Un’amàca tramata, 
dove allungarsi per addormentare 
il dolore 
attraversando i secoli, paesi, oscurità 
silvestri 
cariche di porfido, sfrascando steccati 
fra i passi della storia e vetrine ex voto. 
Vengo dal sud, la schiena contro 
la solitudine, 
i colori mescolati ai sapori, 
la fronte contro le illusioni (orecchie 
di cane che spazzano le pietre), 
le pietre 
pagine scritte e cancellate con rametti 
di mentastro, 
l’amante contro il fascino fatale, 
l’azzardo e il rimorso bleu cobalto, 
i ricordi contro il computer, 
vivere come i segreti, sottoterra, 
i santi contro l’assenza della vita, 
la fedeltà l’enigma, dove le brillanze 
di percorsi 
labirintici sono nascondigli, cartilagini 
di favi d’api e fuga, rifugio del tempo 
a venire, 
dove il sole ha nostalgia dell’ ombra 
e il querceto bagnato tinnisce allibito. 
M’aggrappo alla terra che si muove 
senza legami 
con la terraferma, un ponte verso 
lo zenit. 
Resto al sud, progetti di futuro: andare 
a fragole, 
arrivare alla vecchiaia con la faccia 
rivolta 
all’infanzia, senza memoria, non senza 
immaginazione. Incontrarsi vicino 
al piccolo 
castello di Eloisa, alla Ciambrina, 
la minuscola 
medina segreta e misteriosa intarsiata 
di ciottoli spuntati che schiudono 
le porte 
all’ utopia evocata dagli artisti, 
dove nelle notti di luna, negli intarsi 
absidali venati di madore adamantino, 
fa capolino 
l’anima nuda, l’aurora della vita 
e si potrà vedere l’aria e l’erba crescere 
e, nel vento che gonfia la camicia 
ed accarezza il petto, le ancore levare. 
I sogni, nervosi tentacoli barbicati 
di gemme ascellari, sono sempre 
più importanti di chi li ha generati. 

Pino Giacopeli

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 45-46.




 La leggenda di Tristano e Isotta in Inghilterra 

di Giacomo Giacomazzi 

La leggenda di Tristano e Isotta è stata definita «il grande mito europeo dell’adulterio»1: Tristano, il più nobile cavaliere del re Marco (di cui è anche nipote) conquista la mano della principessa d’Irlanda Isotta, per darla in sposa allo zio. Durante il viaggio in mare tra l’Irlanda e l’Inghilterra, i due protagonisti bevono per errore un filtro magico con il potere di far innamorare perdutamente, preparato dalla madre d’Isotta per la prima notte di nozze tra gli sposi. Tra i due, dunque, inizia una turbolenta relazione adultera, condotta tra mille periperzie (inganni, separazioni, ricongiungimenti, combattimenti). Inesorabilmente, i due amanti si potranno ricongiungere solo nella morte, che li coglierà entrambi a breve distanza l’uno dall’altra2. 

Come per tutti i miti che si rispettino, le sue origini si perdono nei meandri del tempo e dello spazio. Ciò nonostante, più di cent’anni di studi filologici e letterari (coadiuvati dal supporto non indifferente di quelli archeologici) ne hanno significativamente individuato la chiara provenienza dalla Cornovaglia celtica3. 

La leggenda tristaniana, dunque, ha la sua origine proprio nelle isole britanniche; e originariamente si presenta indipendente e parallela a quella arturiana tramandata da Geoffrey of Monmouth e da Wace; e che successivamente la assorbirà al suo interno, in quella che, alla fine del XII secolo, viene definita da . Jean Bodel Matire de Bretagne. 

È ancora nelle isole britanniche che sembra ‘iniziare’ la storia prettamente letteraria di Tristano e Isotta. Infatti, l’ adattamento degli originali elementi ‘primitivi’ della leggenda celtica al più raffinato clima culturale dell’ allora nascente letteratura cortese si verifica alla corte di Enrico II Plantageneto, attraverso la contaminazione con elementi provenienti dalla cultura classica (in particolar modo Ovidio). 

Due sono gli autori operanti in seno alla corte plantageneta che, narrando in anglonormanno, rivestono un ruolo determinante in questa evoluzione della tradizione tristaniana: Marie de France e Thomas d’ Angleterre. 

«Marie de France» è la firma di una poetessa di cui si ignora qualunque notizia biografica, posta su tre opere: i Lais, dodici componimenti probabilmente scritti nel 1165; una raccolta di Fables esopiche, composta verso il 1180; l’Espurgatoire de Saint Patrice, che risale all’incirca al 11894. 

Nel Lai du Chevrefoil, la poetessa narra l’episodio di uno dei tanti incontri segreti tra Tristano e Isotta. Pur nella sua brevità (si tratta di 118 versi ottosil1abici), questo poemetto si presenta ricco di elementi estremamente interessanti, grazie ai quali Marie riesce volontariamente a creare un perfetto trait d’union fra tradizione orale celto-bretone e letteratura cortese. 

È già la definizione del componimento come lai che costituisce un chiaro rimando alla tradizione orale insulare: si tratta, infatti, di un termine che orginariamente designava un componimento musicale, cantato o semplicemente suonato da arpisti irlandesi e cantastorie bretoni. E, infatti, Marie stessa dichiara esplicitamente di averlo «più volte ascoltato» (plusurs le m ‘unt cunté e dit)5; ma, subito dopo, aggiunge un ‘elemento letterario’, dichiarando di averlo anche trovato «messo per iscritto» (E jeo l’ai trové en escrit)6. Anche la tipologia episodica e allusiva della narrazione rimanda in sé alla recitazione giullaresca; e presuppone – in virtù dell’essenzialità e condensazione degli elementi narrati – che il pubblico conosca perfettamente la storia nel suo insieme. Un altro elemento che esplicitamente manifesta l’intenzione autorale di creare la continuità tra i due sistemi culturali è contenuto nell’ epilogo, quando Marie riporta il titolo del lai sia in inglese (Gotele/) che in francese (Chevrefoil), attribuendone la creazione allo stesso Tristano7. 

Ma è, forse, il tema centrale dell’unione indissolubile tra il noce e il caprifoglio, simboleggiante quella tra gli amanti, a rievocare dei precisi elementi provenienti da entrambi gli universi culturali, sintetizzandone la sovrapposizione e suggellandone la continuità. 

Se da un lato, infatti, questo tema richiama la tradizione classica della poesia d’amore latina – in particolare, le Metamorfosi di Ovidio -, dall’altro presuppone un chiaro legame con il ruolo magico ed evocativo delle piante nella cultura celto-bretone. Inoltre, sempre su un ramo di noce (cui era riconosciuta soprattutto la virtù di donare l’ispirazione poetica), Tristano incide il messaggio cifrato che solo Isotta riesce a comprendere e che, molto probabilmente, è scritto in caratteri ogamici (corrispondente celtico del runico germanico), facilmente comprensibili da una principessa irlandese8. 

Come per Marie de France, anche di Thomas d’Angleterre ignoriamo praticamente tutto. Di lui rimane solo il nome, citato due volte all’interno del suo Roman de Tristran, e da Gottfried von Strassburg che nel prologo della propria versione delle leggenda tristaniana nomina «Thòmas von Britanje» come suo modello. L’opera stessa è stata tramandata in stato frammentario e lacunoso da sei manoscritti, che ne contengono parti differenti. Si pensi che dei 13.000 versi ipotizzati da Felix Lecoy, se ne sono conservati solo 32989. 

Se il Lai du Chevrefoil si presenta come una ‘sintesi perfetta’ fra la tradizione orale celto-bretone e l’allora recente narrativa cortese in lingua d’oil, il roman di Thomas d’Angleterre presenta dei caratteri molto più spiccatamente letterari, fortemente legati alla componente più dotta della cultura del XII secolo. 

È già la natura romanzesca della narrazione thomasiana a rivelare come egli ‘propenda’ (molto più della contemporanea Marie) verso la cultura continentale. Se è vero, infatti, che il termine roman come tipo di componimento narrativo, è indicativo del processo di ‘volgarizzazione’ della cultura dotta di origine latina, allo stesso tempo, però, ne rivela anche l’ideale continuità10. 

E pur tuttavia, rimangono delle evidenti tracce dell’origine celto-bretone della leggenda. Tra quelle più palesi si hanno: l’esplicito riferimento alla tradizione oralell; il riferimento a un certo conteur bretone Breri come al migliore conoscitore della matire de Bretagne12; la composizione ed esecuzione di un lai da parte di Isottal3; l’indipendenza della leggenda tristaniana da quella arturianal4. 

Il mondo tristaniano di Thomas, comunque, è pienamente cortese, ben lontano dagli eroi della tradizione celtobretone. Non a caso, infatti, proprio la sua versione è indicata come capostipite del filone ‘cortese’ della tradizione, in contrapposizione a quello ‘comune’ dai caratteri più ‘primitivi’ls. 

Lo stile narrativo thomasiano si presenta, inoltre, estremamente distante dallo spirito originale della leggenda. Esso manifesta, infatti, un chiaro intento didattico-moraleggiante, molto vicino al modello argomentativo della filosofia scolastical6. Questo aspetto non appare affatto casuale, dato che, attraverso un’ attenta lettura del testo, sembra possibile riscontrare dei rimandi ad alcune delle più importanti e dibattute questioni filosofiche dell’ epoca. Queste tematiche filosofiche si legherebbero all’intenso dibattito sull’ amore e sul libero arbitrio che percorre tutto il XII secolo. Un ruolo predominante sarebbe ricoperto, innanzitutto, dalla riflessione filosofica di Pietro Abelardo, a partire dalla posizione che egli assume nella famosa querelle des universaux, e che avrebbe ispirato il progetto didattico-culturale del cosiddetto ‘Circolo di Canterbury’, i cui ‘aspetti teorici e programmatici’ risulterebbero evidenti nel Metalogicon di John of Salisbury17. 

Anche se chiaramente derivato dal Roman de Tristran di Thomas, l’anonimo Sir Tristrem in middle english della prima metà del XIV secolo si discosta molto dallo spirito del proprio modello. 

Quest’ opera è stata tramandata da un unico manoscritto, il Codice Auchinleck, conservato alla National Library of Scotland. Questo codice è di notevole importanza per lo studio della letteratura inglese medievale, poiché costituisce una delle più vaste e antiche antologie di opere scritte in middle english; di cui otto in copia unica (tra cui proprio il Sir Tristrem). Quando nel 1804 Walter Scott ne fece l’editio princeps, prestando fede alla prima strofa del poema ne attribuì la paternità a Thomas the Rhymer of Erceldoun, leggendario vate del XIII secolo, giungendo financo a identificarlo proprio con il Thomas von Britanje citato da Gottfried von Strassburgl8. 

Il Sir Tristrem presenta delle caratteristiche che ne hanno sempre fatto un’opera molto controversaI9 : · è, infatti, estremamente allusiva ed ellittica; i nessi logici narrativi non sono esplicitati, come se chi scrive dia per scontato che il proprio pubblico conosca fin nei minimi dettagli il racconto. 

Il metro utilizzato, inoltre, è estremamente complesso: si tratta di strofe di undici versi, divise in una fronte di otto versi a rima alternata (ABABABAB), seguita da una coda di tre versi collegati alla fronte dallo schema rimico (cBC). Ogni verso presenta solo tre sillabe accentate, tranne il primo della coda che ne contiene uno. Data la complessità della stanza, la sintassi risulta spesso stravolta, vengono utilizzate parole strane e poco adatte, si fa ricorso spesso all’uso di zeppe. 

Tutte queste caratteristiche, in realtà, risultano essere tipiche della poesia anglosassone. Dal punto di vista stilistico, ad esempio, è riscontrabile un chiaro rinvio al BeowulfO. Ma ancora più significativo è, certamente, il fatto che la stanza del Sir Tristrem si configura come una forma ridotta della cosiddetta bob and wheel stanza, la strofa del Sir Gawain and the Green Night, considerato il capolavoro della letteratura arturiana in middle english del XIV secolo21. 

Oltre alla tradizione diretta, nell’Inghilterra medievale sono numerose anche le attestazioni «indirette», che testimoniano la popolarità e diffusione della leggenda tristaniana. Geoffrey Chaucher, per esempio, vi allude nella ballata ironica To Rosemounde, in The Parliament oj Fowls, in The Legend oj Good Women e in The House oj Fame. 

Inoltre è possibile trovare un po’ ovunque in Inghilterra vetrate, arazzi, sculture, miniature, piastrelle decorate, risalenti al Medioevo che rappresentano le scene più famose della leggenda. 

Giacomo Giacomazzi

NOTE 

I «TI existe un grand mythe européen de l’adultère: le Roman de Tristan et Yseut», D. de Rougemont, L’amour et l’Occident, Paris, 1972′, p. 18. 
2 Riassumere esaustivamente e brevemente l’intera storia risulta essere piuttosto problematico, anche in virtù delle numerose varianti della leggenda che sono state tramandate. Per un approfondimento, cfr. A. Punzi, Tristano. Storia di un mito, Roma, 2005. 
3. Gli studi sull’ argomento sono piuttosto numerosi; per una sintesi abbastanza esaustiva, si vedano: J. Chocheyras, Tristan et Yseut: genese d’un mythe littéraire, Paris, 1996; F. Benozzo, Tristano e Isotta. Cent’anni di studi sulle origini della leggenda, in Francofonia, 33, 1997, pp. 105-130. 
4 Per informazioni più dettagliate su Marie, cfr. C. Rossi, «Marie ki en sun tens pas ne s’oblie». Marie de France: la Storia oltre l’enigma, Roma, 2007. 
5. Marie de France, Lai du Chevrefoil, in Ch. Marchello-Nizia (a cura di), Tristran et Yseut. Les premières versions européennes, Paris, 1995, pp. 213-216: p. 213, v. 5. 
6 Ibid., v. 6: Ci si è chiesti se Marie non alluda al ‘famigerato’ poema archetipo che Jospeh Bédier ha tentato di ricostruire con metodo lachmanniano (cfr. 1. Bédier, Le Roman de Tristran par Thomas: poème du XII siècle, Paris, 1902-1905). 
7 «Pur les paroles remember, I Tristram, ki bien saveir harper, I En aveit fet un nuvel lai. / Asez brefment le numerai: / Gotelef l’apelent Engleis, / Chevrefoille nument Franceis»: Marie de France, op. cit., pp. 215-216, vv. 111-116. 
8. Su questo aspetto della narrazione di Marie de France, cfr. M. Cagnon, «Chievrefueil» and the Ogamic Tradition, in Romania, XCI, 1970, pp. 238-255; M. Demaules, Notice au Lai du Chèvrefeuille, in Ch. Marchello-Ni?-ia, op. cit., pp. 1287-1298. 
9. Per notizie più dettagliate, cfr. I. Short, Notice au Fragment inédit de Carlisle, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 1208-1214; Ch. Marchello-Nizia, Notice au Tristan et Yseut par Thomas, in ID., op. cit., pp. 1218-1247. 
10. Allo stesso modo in cui, scegliendo la forma del lai, Marie dimostra invece di volersi collegare idealmente con la tradizione orale celtobretone. 
11. Anche Thomas, cosÌ come Marie, riferisce sia di narrazioni orali di tipo giullaresco, sia di versioni scritte della leggenda tristaniana: «Di’ en ai de plusur gent / asez sai que chescun en dit / e ço que il unt mis en escrit.»: Thomas, Roman de Tristran, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 123-212: p. 184, vv. 2270-2272. 
12 Si tratta forse del «famosus ille Bledhericus» citato da Giraud de Barri (Giraldus Cambrensis) nella Topographia Hibemiae, scritta nel 1194. Oppure potrebbe essere anche quel Bléheri, citato da Wauchier de Denain nella continuazione dell’incompleto Conte du Graal di Chrétien de Troyes, che avrebbe narrato la storia di Tristano e Isotta alla corte di Poitiers (cfr. P. Gallais, Bleheri, la cour de Poitiers et la diffusion des récits arthuriens sur le continent, in Actes du Vile Congrès National de la Société Française de Littérature comparée [Poitiers, 27-29 mai 1965J, Paris, 1967, pp. 47-79). 
13. Si tratta del Lai du Guiron, famoso componimento sul tema del «cuore mangiato», non conservatosi, ma più volte citato nel corso del Medioevo; cfr. Thomas, op. dt., pp. 150-151, vv. 987-1000. 
14 Thomas cita Artù esclusivamente in relazione al suo duello con un gigante, il cui nipote viene a sua volta affrontato e battuto da Tristano, in un episodio che egli stesso dichiara del tutto gratuito nell’economia della narrazione: <<<4 la matire n’ afirt mie, I nequedent boen est quel vos die» (ibid., p. 149, vv. 935-936). 
15. L’origine di questa distinzione all’interno della tradizione tristaniana in «versione comune » e «versione cortese» è dovuta a Joseph Bédier. Quando si allude alla versione comune, ci si riferisce a quelle opere che risulterebbero fedeli alla struttura e al senso del presunto archetipo: Béroul, Eilhart von Oberg, la Folie de Berne. Quando si parla, invece, della versione cortese, si intende il roman di Thomas e le opere ad esso ispirate: Gottfried von Strassburg, la Tristamssaga norrena, la Folie d’Oxjord, il Sir Tristrem. 
16 Cfr. V. Bertolucci Pizzorusso, La retorica nel «Tristano» di Thomas, in Studi Mediolatini e Volgari, 6-7, 1959, pp. 26-61. 
17 Questo aspetto del roman di Thomas costituisce il punto di partenza del mio progetto di ricerca attualmente in corso nell’ambito del dottorato di ricerca in Letterature moderne e Studi filologico-linguistici presso l’Università degli Studi di Palermo. 
18 Per maggiori informazioni a riguardo, cfr. C. Fennell (a cura di), Sir Tristrem, Milano-Trento, 2000; A. Crépin, Notice au Sire Tristrem, in Ch. Marchello-Nizia, op. cit., pp. 1541-1554. 
19. Già Robert Mannyng of Brune, nella Story oj lnglande (1338), citava il Sir Tristrem come esempio di narrazione storpiata e incomprensibile agli ascoltatori, a causa della pretestuosa arte di «menestrelli vanagloriosi»; cfr. C. Fennell, op. cit., pp. 51-52. 
20 Cfr. C. Fennell, op. cit., p. 42. ” Per un’analisi della bob and wheel stanza e un confronto con quella del Sir Tristrem, cfr. A. Crépin, op. cit., pp. 1545-1548. G. G.

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 16-20.




 VIRGILIO TITONE, Politica e civiltà , ed. Sciascia, 1951 

All’indomani della prima guerra mondiale un’opera di filosofia della storia emblematicamente intitolata Il tramonto dell’occidente veniva pubblicata dal pensatore tedesco Oswald Spengler. In essa si dava un giudizio negativo sul destino della civiltà europea, avviata secondo lui ad una inevitabile catastrofe. A partire d’allora, di fronte alla grande mutazione che appariva chiara nelle istituzioni e nell’economia, il concetto di civiltà nella sua essenza, la storia delle diverse civiltà del presente e del passato, comparate tra di loro, entrarono tra i temi più discussi della saggistica contemporanea, anche per lo spessore culturale degli autori che vi hanno partecipato. 

Virgilio Titone scrisse sull’argomento il libro Politica e civiltà, pubblicato nel 1951 dalle edizioni Salvatore Sciacca, nel quale si rifaceva alla “morfologia della storia” prospettata dallo Spengler. Lo storico siciliano apprezzava questa come contributo all’inevitabile rinnovamento degli studi storiografici e delle dottrine politiche, richiesto dal nostro tempo. Il Titone faceva riferimento ad Arnold J. Toynbee, inglese e di professione storico, a differenza dello Spengler. Nella sua poderosa opera, A Studi of History, 12 volumi apparsi tra il 1934 e il 1961, con metodo comparativo, venivano studiate ventuno società che avevano in comune il carattere di civiltà, a differenza delle società primitive. 

Le civiltà sono, al pari degli individui viventi, degli organismi che nascono, crescono e muoiono, le cui vicende il Toynbee narra con un “ottimismo cosmologico”, che lo distingue dal radicale pessimismo dello Spengler (Lucin Febvre, Problemi di metodo storico, Reprints Einaudi, Torino, 1976, pag.1 01). Titone, nel riferirsi a questi autori, che tra gli storici d’allora venivano accolti con diffidenza, avvertiva l’importanza che le loro opere avevano per l’innovazione degli studi storici, per un loro incontro con le scienze dell’uomo e sociali, prendendo (e dando) linfa alla loro metodologia. ((Ogni età – scrive – ha la sua storia. E forse può credersi che qualche volta la nostra età abbia la sua in questi scritti che in quelli che propriamente si considerano come storie, e ciò puri tra i molti paradossi, le generalizzazioni gratuite e le astrazioni o analogie arbitrarie» (Politica e civiltà, pag. 8. D’ora in avanti di quest’opera citerò solo la pagina). 

Movendo dalle due guerre mondiali della prima metà del ‘900, l’attenzione del Nostro si allarga ad altri periodi storici, alla ricerca di ((come avvenga il passaggio da una certa serie di forme storiche a un’altra» (pag. 26), lo sviluppo delle singole civiltà. Lo fa elaborando i concetti che costituiscono la trama di «Politica e civiltà». Tra essi contesta l’uso che di quelli di crisi si è fatto tra gli anni Trenta e Quaranta, rendendolo un termine generico e ormai fin troppo abusato» (pag. 141). Considerare le crisi come fuoriuscita da una condizione di normalità, intensa come qualcosa di stabile e di duraturo, non ci dà una interpretazione corretta della storia, la cui regola è il divenire. 

((Se per crisi dunque – scrive il Titone – s’intende, come vuole intendersi, un periodo di transizione, poiché di nessun periodo della storia può dirsi che transizione non sia, la storia stessa non sarebbe se non un succedersi ininterrotto di crisi, anzi un’unica interminabile crisi: il che sarebbe come negare che di crisi, comunque definibili, possa parlarsi» (p. 142). Spiegare i fatti storici, il loro

succedersi, non può consistere in una sovrapposizione di modelli prestabiliti, il che fanno le varie teorie. 

Quella del Titone non è arida metodologia. Nel saggio qui esaminato troviamo un notevole stile narrativo, quale si addice ad un’ opera di storia, con un richiamo costante ad avvenimenti situati tra l’antichità e l’età contemporanea, nei quali si manifesta il processo stesso della vita, il movimento. Leggiamo: «La storia ci si presenta come una serie di organismi che, compiuto il ciclo dell’affermazione e dello sviluppo, si esauriscono per dar luogo a nuove vite» (pag.61). Ed ancora, e questa valga per tanti altri richiami che si ricavano dalla lettura del libro: «È certamente un grave errore parlare dei romani della decadenza come di degeneri e indegni nipoti dei loro avi gloriosi. In sé, anche quando abbandonano ai barbari la difesa dell’impero, non lo sono più di quanto non fossero stati prodi coloro che avevano combattuto con Annibale. Non ci sono generazioni di eroi e generazioni di poltroni, nati a servire. Si tratta sempre di bisogni e di concezioni della vita diverse: di circostanze, anche, nelle quali è necessario o superfluo l’eroe… Figlia di Roma è la Chiesa Cattolica … Quegli stessi motivi che ci fanno nel declinare dell’impero pensare alla fine imminente, qui ci parlano di una promettente giovinezza» (pagg. 65-67). 

A spiegare la storia valgono poco le filosofie della storia, le sociologie che tendono a prendere il suo posto nel nostro tempo, il tentativo di ridurla entro i limiti di una scienza esatta. Essa non ubbidisce alle regole della nostra logica, non valgono gli accorgimenti dell’individuo: «La storia è più accorta che egli non sia. Può magari girare l’ostacolo, ma prosegue ugualmente per la sua via» (pag. 41). 

Gli avvenimenti successivi alla seconda guerra mondiale fanno esitare il cattedratico palermitano sulla chiave di “interpretazione” dei fatti storici che ha usato sinora. «Abbiamo – scrive – mostrato come si alternino le fasi di espansione e quelle di contrazione e come pervengano a una saturazione e quindi alla crisi, alla guerra o alla rivoluzione, che segnano il passaggio alla fase successiva, del resto preparata dall’esaurimento progressivo della fase in questione… Ci si affaccia il dubbio … se questo presente sia tale da potersi in qualche modo porre sul piano stesso del passato. E sembra che tutto sia così diverso e così radicalmente nuovo da escludere senz’altro ogni possibilità di confronto» (pagg. 241- 243). Qui emerge il limite del saggio del Titone. Esso sta nella concezione elitaria della storia che spinge il nostro autore ad auspicare il ritorno sulla terra di nuove primavere nelle quali sia possibile il formarsi «di una vera aristocrazia che si erga a maestra e guida del popolo» (pag. 105). Invece – osserva turbato – si assiste all’emergere non di «quella che il Fichte chiamava la classe dei dotti», ma dell’altra, («quella degli indotti» (pag. 245). 

La crisi del nostro tempo non terminerà con una restaurazione, come nelle passate, perché sono entrate come nuove protagoniste le “masse” ( un termine che il Titone non usa). Esse, “gli indotti”, non hanno radici nell’ordine tradizionale della società, non riconoscono le aristocrazie, come portatrici di valori, che giustifichino il loro predominio sociale. L’atteggiamento del Titone si avvicina all’angoscia del Croce timoroso che l’avvento della democrazia liberale di massa travolgesse, insieme alle élites, la loro morale (Domenico Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia. 1860-1989, Laterza, RomaBari, 1991, pag. 400). Un altro hegeliano, il Weil, avverte la fine della tensione che divideva la società del passato. Ancora una volta la storia dimostra di essere “accorta”, con la possibilità di accesso per tutti ai gruppi superiori, rendendo sempre più uniformi il modo di pensare e lo stile di vita. «Così non c’è niente di sorprendente se i vecchi valori mettono di nuovo radici nella massa» (Eric Weil, Masse e individui storici, Feltrinelli , Milano 1980, pag.98). Lo testimonia la vicenda dei “diritti umani”, in nome dei quali oggi si può fare anche la guerra. E su quella del Kosovo leggiamo: IlGli Stati democratici dipendono dall’opinione dei cittadini e quest’ultima va conquistata attraverso l’impiego di argomenti in cui la giustificazione morale abbia peso… il mondo costituito sugli arcana imperii era il mondo chiuso delle corti e dei principi. Ora quell’universo autistico non esiste più e regna il potere trasparente della democrazia. E quindi gli Stati sono legittimati solo se sono in grado di giustificare moralmente le proprie azioni… in guerra non si punta più sulla conquista e la gloria, ma sulla difesa dei diritti umani» (Sebastiano Maffettone, Guerra e pace sotto gli occhi degli innocenti, in “Il Sole – 24 ore”, n°124/8 Maggio 1999, pagg. 1-5). 

Giovanni Gerardi

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 43-46.




Un viaggio nel labirinto dell’anima

«Così conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» 

(Gv. VIII – 32) 

Un famoso filosofo cinese affermava: «Vi è una sola verità sulla terra: che qui non vi è verità». Pur comprendendo la plausibilità di tale tesi e pur essendo consci delle innegabili limitazioni della nostra mente, mezzo della «conoscenza», nonché delle numerose difficoltà che si presentano sul cammino del ricercatore, nessuno di noi può accettare di esimersi dal ricercare il «vero», che rappresenta la meta ultima della nostra esistenza intesa come esperienza conoscitiva. 

Nell’allegoria della Genesi, l’uomo e la donna si nutrono del frutto della conoscenza del bene e del male (o albero della scienza), che è stato loro proibito da Dio in quanto portatore di morte. E’ operando una scelta precisa che essi si dividono la famigerata «mela»; si tratta di un’unità simbolica che viene spezzata, e che li condurrà in un mondo sperimentabile esclusivamente attraverso l’esperienza nella duplicità degli opposti. Essi stessi, rappresentanti di questa dualità, nei loro opposti aspetti di «maschile» e «femminile» destinati a riunirsi, si inseriscono in un ciclo non più esclusivamente spirituale, rappresentato dalla «caduta nella materia», il cosiddetto «ciclo delle necessità», nel quale, entrambe le esperienze, sia quella del vissuto interiore che quella più esteriore di sopravvivenza nel mondo fisico, divengono la meta e il mezzo di conoscenza necessari ad attuare quella scelta costante tra «bene» e «male», ricerca di equilibrio tra gli opposti, e più avanti, superando l’impasse, lenta liberazione dai legami terreni. Ciò può essere rappresentato simbolicamente dal moto circolare discendente ed ascendente, dalla caduta al ritorno a Dio, dal cielo alla terra, dalla terra al cielo. 

L’aspetto fenomenico duale, sul quale ci soffermeremo più volte, è una costante legge della natura e del conoscibile, poiché appartiene ad ogni fenomeno indagabile dalla nostra mente. Come al giorno si oppone la notte, alla materia lo spirito, al bene il male, alla morte la vita, al sonno la veglia, così ogni fenomeno conoscibile presenta in natura il suo opposto complementare che lo rende intero. 

Il nostro stesso cervello simbolizza anche dal punto di vista anatomico l’aspetto duale: esso si divide in due lobi inscindibili, preposti, sembra, a due funzioni diverse ma entrambe essenziali, rappresentate in termini generici dall”«intuito» e dalla «logica». L’alternarsi paritetico delle due parti conduce ad un buon equilibrio dell’essere umano, mentre la preponderanza schiacciante di uno dei due aspetti è in grado di «squilibrarci», di renderci, cioè, sempre in termini molto generici, troppo «aridi» o troppo «astratti», ma è in ogni caso uno stato di cose che non può condurre alla «conoscenza» dello spettro di verità da noi raggiungibili, poiché rende incompleto e parziale il nostro «conoscere». 

Oggi possiamo affermare che la nostra «evoluzione» si stia servendo quasi esclusivamente del parziale mezzo di indagine della «logica», strumento razionale con il quale si è affidato alla scienza (termine che, propriamente o no, significa conoscenza) il compito di porre l’accento sullo studio dei fenomeni fisici, visibili, sperimentabili e ripetibili in laboratorio. 

Questo tipo di «conoscenza» alla quale sempre più esclusivamente ci affidiamo, ha avuto il pregio illusorio di offrirci una relativa sicurezza: difatti la legge sull’evoluzione darwiniana, posta a monte della «genesi scientifica», ha dato al nostro conoscere un doppio colpo di coda: da una parte la quasi certezza di non essere che animali evoluti, dall’altra, lo sfruttamento di tale possibilità evolutiva, la nascita di una volontà diretta alla dimostrazione del contrario attraverso l’affermazione della «ragione» che ci separa dal regno strettamente animale. 

Secondo Diel, l’intelletto umano trova il suo scopo specifico nell’adattamento alle necessità strettamente vitali dell’individuo, serve cioè alla sopravvivenza. Ma senza andare troppo lontano, potremmo allora affermare che se il frutto dell’intelletto dirige esclusivamente verso lo scopo della sopravvivenza fisica, dovremmo riconoscere anche agli animali tale tipo di «intelletto». 

Ma l’animale, a differenza dell’uomo, uccide veramente per sopravvivere, non si lascia condizionare dall’odio. L’animale non prova sensi di colpa, è giustificato dalla sua stessa natura quando uccide per fame. Si dovrebbe allora spostare il tiro dal termine «intelletto» a quello di «istinto», ed individuare la linea di demarcazione che separa gli uomini dagli animali nella cosiddetta «coscienza». Una coscienza, o consapevolezza di tipo morale, che conduce sempre all’eterna scelta tra bene e male, e con la quale l’essere umano è in grado di tenere salde le redini dell’istinto, di vincere, cioè, la sua natura animale combattendola e soggiogandola con la sua natura «positiva» o «morale». 

È luogo comune affermare che la nostra società «civile» sia una giungla nella quale si continua a lottare per la sopravvivenza, nella quale omicidio, odio e violenza non sono sconosciuti nemici, ma compagni di viaggio. Ma c’è un altro vero «genocidio» commesso ai danni dell’umanità, e non esclusivamente quello perpetrato con le armi. Esso si propaga anche con mezzi più sottili, con l’abuso di mezzi intellettivi al servizio della propria natura «negativa» a danno degli anelli più «deboli» della catena per inciso, contro i «giusti». 

Nella giungla umana il nostro successo, la nostra autoaffermazione, vengono fatti dipendere dal soccombere altrui; il nostro ego (o il nostro egoismo) è il piccolo limitato mondo dal quale non sappiamo uscire per andare verso l’universo del prossimo, e per la cui conquista siamo spesso disposti a tutto. Se è vero che la lotta umana si svolge ad un gradino «superiore» a quello degli animali, siamo davvero ben poca cosa rispetto ad essi, poiché il nostro errore è sempre intenzionale, volontario, privo d’amore, non più affidabile esclusivamente alla natura istintiva, non più giustificato dall’animalità umana. 

Sempre per esprimerci in termini simbolici, è la «Bestia» dell’Apocalisse che sorge in noi dal grande mare (dell’inconscio). È il Leviatano, l’antico serpente condannato a strisciare, che bisogna guardarsi dal risvegliare, perché non sollevi la testa: il latore delle forze negative dentro chi non accoglie in sé la forza dell’amore. Le sue sette teste, con su scritti «nomi di bestemmia» potrebbero rappresentare i sette peccati capitali, le forze negative sempre latenti nell’anima umana. 

La «Bibbia di Gerusalemme» definisce la Bestia apocalittica come «un mostro del caos primitivo… che incarna la resistenza contro Dio delle potenze del male». Nella cosmogonia babilonese esiste in merito questa descrizione: «Tiamat, il Mare, dopo aver contribuito a dare la vita agli dei, era stata vinta e sottomessa da uno di loro. L’immaginazione popolare o poetica riprendendo questa immagine attribuiva a Jahvè questa vittoria anteriore all’ordinamento del Caos o lo vedeva sempre mantenere in soggezione il Mare e i Mostri che lo popolano»1. 

L’evoluzione del negativo non ricerca Dio come Entità superiore, ma desidera emularLo; nasconde in sé l’insidia del desiderio di sconfiggerLo, superarLo, svalutarLo, spiegando razionalmente i Suoi «piani segreti»: il mistero della vita, la sconfitta della morte. Ma se è vero che Dio è Amore, nessuno di questi «imitatori» potrà penetrarne il segreto, poiché l’Amore è partecipazione della natura divina, è immedesimazione, «incarnazione», è unione che non può non essere raggiunta assemblando dei pezzi casualmente o razionalmente nemmeno per milioni di anni. 

Questa illusione di potere e di sapere, che fu già prerogativa degli angeli ribelli ed arma che condusse alla disubbidienza dell’uomo fu causata dall’uso sconsiderato dell’albero della scienza che conduce alla morte. «Ma …erano condannati a “cadere e perdere i loro poteri” non appena le due metà della dualità si furono separate. Il frutto dell’Albero della Conoscenza dà la morte senza il frutto dell’Albero della Vita. L’uomo deve conoscere se stesso prima di poter sperare di conoscere l’ultima genesi anche di esseri e poteri meno sviluppati, nella loro intima natura, dei propri. Così avvenne per la religione e la scienza: unite in uno erano infallibili, perché l’intuizione spirituale era pronta a supplire i limiti dei sensi fisici. Una volta separate, la scienza esatta rifiuta l’aiuto della voce interiore, mentre la religione diviene una semplice teologia dogmatica: e ognuna è solo un cadavere senza anima»2. 

Questa illusione misconosce Dio come volontà intelligente ed organizzatrice della vita, Lo nega indirettamente, sostituendoLo con il «caso» (anagramma di caos) e le sue combinazioni. In sostanza essa è estremo orgoglio di disconoscimento dei propri limiti umani, totale mancanza di umiltà. D’altra parte, un Dio costretto nella materia, ricercato con il microscopio, chiuso in una provetta, sarebbe una ben misera cosa rispetto all’uomo che lo osserva. Ma la somma delle esperienze attuali ci porta ad affermare che lo scienziato-antagonista non cerca Dio, cerca le prove del suo essere Dio. 

Questa illusione, questa univocità di direzione finalizzata a questo scopo, oltre ad aver ridotto il pianeta ad un immenso letamaio avvelenato dai residui chimici e dalle nubi atomiche, ci ha posti al centro dell’universo per dimostrarci oggi sconfitti dalle nostre stesse opere. 

Questo folle «illuminismo oscuro», con un lavorio costante durato in fondo pochi anni rispetto all’esistenza dell’uomo sulla terra, ha soffocato la nostra spiritualità, già poco sorretta dalla freddezza dell’interpretazione ufficiale dei dogmi religiosi: non ha interrogato affatto l’«intuizione» (e a me sembra neppure la ragione) per prevedere quali sarebbero state le conseguenze dell’operare umano. Quella intuizione o spiritualità che anche i popoli antichi, considerati ingiustamente «incivili», non tralasciavano mai di considerare. 

Si è affermato che le religioni nacquero proprio da uno stato di soggezione che l’uomo antico provava verso i fenomeni inspiegabili della natura. E che nel tentativo pavido di placarli, li divinizzò sottomettendosi ad essi con un’adorazione che tentava, come poteva, di dominarli. Ma il famoso, e più attuale, asserto di Campanella, che insegna come la natura si possa dominare solo servendola, possiede molta di questa antica saggezza e resta teorema pur sempre valido. 

L’uomo, con tutta la sua «scienza» non è e non sarà mai in grado di dominare la natura. Egli non si è voluto abbassare al livello di «guardiano» affidatogli da Dio, come compito e poi come punizione («E tu, perché hai dato ascolto alla donna (natura istintiva) coltiverai la terra con gran fatica, raccogliendo coi frutti spine e triboli, con il sudore della tua fronte»). 

Oggi, la nostra «disubbidienza» recidiva, la ricerca di supremazia ad oltranza su una natura che sta divenendo sempre più ostile, ha abbrutito la nostra moralità, ha compromesso i rapporti con la propria coscienza, con il prossimo, con il pianeta, con Dio stesso. I frutti coltivati dall’uomo con gran sudore sono i risultati nefasti della scienza. «L’albero si riconosce dai propri frutti» afferma Gesù in una parabola, rispondendo al dilemma umano sull’individuazione e il riconoscimento della differenza tra bene e male. 

Noi, quali frutti abbiamo prodotto? E dove, presumibilmente conducono le nostre opere? E ancora, Dio•, dove l’abbiamo nascosto? 

L’altra metà della mela, quella non dominata dal «caso», ma dalla volontà unita all’amore, libera meta del libero arbitrio, l’Intuizione, gemella della ragione, madre dell’arte, delle invenzioni, del sogno, è da troppo tempo racchiusa nel blocco di ghiaccio della materia; atrofizzata e schiacciata dalla Logica, non può essere trascurata oltremodo. Essa ci lancia disperati messaggi attraverso i sogni, ma spesso usa anche sensazioni, premonizioni o comunque esperienze che ci informino della sua esistenza, che ci facciano intuire l’«insostenibile leggerezza dell’essere» citata da Kundera. 

• N.B. – In un lavoro come questo, il ricorso a Dio è molto frequente. È bene precisare che usando il termine «Dio», l’autrice non si riferisce al Dio specifico di qualche religione. Questo testo, pur con tutte le difficoltà legate all’oggettivazione, non vuole condurre a soluzioni specifiche né a indirizzi forzati. Esso si limita a riportare quanto di comune ci sia nelle scelte religiose, filosofiche, morali o psicologiche dei diversi popoli, partendo anche da quelli antichi fino a ripercorrere le tappe dell’evoluzione interiore dell’uomo. Il termine usato va quindi inteso in senso generico molto ampio poiché ‘siamo tutti figli di un unico Creatore’ afferma più avanti. Esso sottintende dunque I diversi significati di Creatore, Padre, Energia Primaria, Ordinatore del Caos, Causa Prima, Forza Positiva, Volontà Organizzatrice, ecc., così che anche I Suoi attributi, come ad es. Intelligenza, Bontà, Verità, Eternità, vengano sostantivati. Il termine comprende tutto questo e molto di più, seppure ridotto al minimo per facilitare la scorrevolezza del testo e rivolgersi ad ogni uomo, di qualsiasi razza sia e a qualsiasi religione appartenga. Esso è espressione di unione, desidera allontanarsi dai termini di separazione, e dalle lotte che per questo sono state perpetrate nascondendosi dietro la propria bandiera religiosa, uccidendo spesso, c per assurdo, proprio «nel nome di Dio». 

Si tratta di fenomeni confinati genericamente sotto la assurda dicitura di «Paranormale». D’altra parte la casistica di tali fenomeni è vasta e innegabile e fortunatamente si sta uscendo dall’oscurantismo razionale, o anche dalla paura, che impediva a molti di esternare le proprie esperienze in tal senso. Ufficialmente, il dileggio o l’allusione all’ala della pazzia, erano la punizione per chi osava parlarne. Ma in verità, ognuno di noi almeno una volta nella vita ha avuto a che fare con tali manifestazioni, poiché esse sono retaggio umano. Si tratta di fenomeni che non sappiamo spiegare, perché sfuggono alla stretta razionalità, e sembrano piuttosto far parte del mondo dei sentimenti; e come tali sono difficilmente riproducibili «a comando». Ma se la scienza rappresentasse un vero desiderio di conoscenza dovrebbe occuparsi anche di questo, senza paraocchi, senza paure, senza preconcetti. Occorre, è vero, una grande apertura mentale per conciliare gli opposti, per mettere in campo i risultati scientifici accanto a quelli spirituali. Ma io credo che il giusto atteggiamento di chi desidera veramente «conoscere» non sia quello di infilare la testa sotto la sabbia. Dovremmo accettare l’idea che anche questo accade e accade non lontano, ma dentro di noi, perciò anche questo diviene normale (e non para-normale), sebbene i nostri mezzi limitati non siano ancora riusciti a spiegarci i «perché», i «come», e i «quando». 

Questo esercizio mentale conduce all’umiltà, al riconoscimento di qualcosa che ci sovrasta e che è in grado, se glielo permettiamo, di penetrare fin dentro le nostre fibre. C’è qualcosa di sconosciuto, da tempo in attesa di essere risvegliato per trasformarci in esseri completi, per condurci ad un’evoluzione vera e positiva. 

I messaggi in bottiglia provenienti dall’anima o dal grande mare dell’inconscio, se preferite, sono sintomi di naufragio e di malessere spirituale. Sono richieste d’aiuto dell’anima destinate spesso a rimanere inascoltate a causa della nostra crescente aridità. Forse è proprio questa la tanto temuta -apocalisse.: una morte interiore già iniziata, dalla quale, come detto più avanti, la bestia nemica dell’uomo sta emergendo per condannarlo in un terribile autodafè. 

Il nostro mondo interiore, insondata sede delle opposizioni, del bene e del male, del patrimonio spirituale ma anche istintivo dell’uomo, è già di per sé emblema dell’anima racchiusa nella materia. Esso è microcosmo nel macrocosmo, ma attenzione, anche macrocosmo nel microcosmo, poiché il grande contiene il piccolo, ma anche il piccolo contiene il grande. Ciò espresse Ermete Trismegisto nella Tavola di smeraldo posta a base dello studio delle scienze esoteriche: «E come è in basso così è in alto… per rappresentare le meraviglie della Cosa Unica». 

I due mondi si compenetrano e non sono scindibili fino alla morte della forma fisica. Le due fasi del pensiero conoscitivo, la «negativa» e la «positiva», si alternano nel preponderare l’una sull’altra, producendo movimento e non stasi. evoluzione e non status quo. Esse conducono inevitabilmente verso una scelta. Spogliano l’anima degli inutili orpelli e, dirigendosi verso i comportamenti e le scelte più costanti e ripetute di un’anima, conducono l’essere ad una scelta libera e cosciente tra bene e male. 

Questo mondo segreto, Eden abbandonato dall’uomo, sede della nostra vita più vera, ha avuto diverse definizioni nel corso della nostra storia culturale e spirituale, legata alle diverse connotazioni imposte dalle differenti scelte individuali: la psicologia ci ha parlato di inconscio, le religioni e le filosofie di anima. spirito, energia, pneuma, l’esoterismo di corpo astrale, la scienza di cervello; ed il loro frutto. l’astratto pensiero, dovunque abiti in noi, ha così subìto diverse interpretazioni; da essenza divina a energia di origine fisica prodotta dal cervello; da fenomeno biochimico ad incompresa astrazione. Ma poco importano i termini. È importante scoprire ciò che unisce alla base e non ciò che divide. Ciò che ogni scienza, ogni religione. ogni ramo dello scibile umano hanno in comune con le altre teorie, è quanto più si possa avvicinare alla plausibile parte di «verità» a noi concesso comprendere. In ogni tempo, sotto ogni scuola di pensiero, si è riconosciuta all’uomo una parte luminosa e sfuggente, che non può essere costretta nella materia fisica. Almeno non esclusivamente. 

Essa passa nel nostro cielo interiore come una meteora. Si mostra e fugge, ma ci informa della sua esistenza. È la nostra parte più autentica, vera e distintiva del sé individuale che conduce alla porta del Sé universale. Una porta alla quale non tutti sono in grado di accedere. Ma esiste una chiave che ci permetta di aprire quella porta? 

Diana Garland 

1. J. Chevalier – A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Rizzoli, Milano, 1988, vol. II, pag. 23. La nostra dunque è un’evoluzione o un’involuzione? E’ un ritorno a Dio o al Caos iniziale? La strada che abbiamo scelto coscientemente, per percorrere una ipotesi di evoluzione, è principalmente quella scientifica, che abbiamo visto più avanti. Sebbene la scienza non sia di per sé negativa, poiché ha molte ragioni di essere, essa contiene nel suo polo negativo molte insidie. Il pessimo uso che spesso se ne fa, non solo si volge verso la distruzione, ma ci rende diretti antagonisti di Dio. E come non notare che il nome del «distruttore» per antonomasia sia proprio Satana, che significa antagonista? Come ignorare il parallelismo esistente tra il peccato di orgoglio degli angeli e quello di Adamo ed Eva? Come non notare che entrambi furono scacciati dalla presenza di Dio? S. Agostino identificava la stessa umanità nella schiera degli angeli ribelli. Ma per ora, fermiamoci qui. Parleremo di questo in altro momento. 

(2) H. P. Blavatsky, Iside svelata (trad. di M. Monti), Ed. Armenia, Milano, 1984. 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pagg. 23-30.




Le chiavi dell’anima

 L’uomo ha diverse chiavi a sua disposizione. Diversi mediatori che aprono le porte che conducono nelle due fasi opposte. Il cervello, in senso generico, la mente o, comunque, il proprio sé, mediano le due realtà: quella esteriore e oggettiva con il vissuto interiore soggettivo. Ciò significa che ogni realtà non solo diventa una realtà diversa per ognuno, ma anche lo stesso individuo può viverla in diversi modi dipendenti strettamente dal suo stato d’animo” o “mentale” che dir si voglia. Esiste dunque una realtà per ognuno di noi: una realtà che sfugge dalla sua oggettività, caricandosi di tutti quei significati che noi gli attribuiamo. “L’oggetto osservato non può prescindere dall’osservatore”, affermava Groddek. Questa la porta di entrata che usa il mondo per penetrarci. 

La chiave che l’uomo usa invece per entrare a far parte della realtà oggettiva, o per aprire la porta di uscita dal sé, è rappresentata dalla parola. La parola è il medium, il mediatore tra pensiero e oggettivazione del pensiero. Con questa chiave noi possiamo penetrare in altre menti, dare informazioni che ci riguardano, scoprire una parte di noi, non sempre la più vera. La parola è un “segno” unanimemente riconosciuto, ma non per questo perfetto. Anzi, essa è un mezzo assai limitato se pensiamo che deve racchiudere il pensiero, astratto ed infinito, riconducendoci al contrasto più volte rappresentato della convivenza degli opposti. 

Della parola e del suo uso corretto o scorretto si è detto tutto o quasi (Gesù: “Che la vostra parola sia: Sì, sì – NO, no.) Per quanto limitata essa sia, è anche l’unico mezzo che abbiamo per comunicare, per mostrare realtà soggettive. Per assurdo, essa può essere usata per nascondere invece che per mostrare. La parola è in grado di mascherare il pensiero, la verità, essa può vendere piombo per oro. L’uso della chiave della parola ci costringe, pur con tutti gli intenti di sincerità, ad essere interpretati, a costringere l’infinito nel finito. La parola è delimitazione, ma unita all’intuizione, legata all’arte, è in grado di mostrare la nostra piccola parte di verità, può “pescare” nell’inconscio collettivo. 

Se al segno scritto, concretizzazione del suono, partecipa anche il nostro mondo interiore, la parola smette di essere segno per diventare simbolo: 

allora essa è in grado di librarsi, come accade nella poesia e nella letteratura, se le opere sono tali da mostrare tra le righe l’anima comune: se sono tali da cogliere sentimenti universali, attimi che sono uno specchio nel quale ricercarsi soli per ritrovare il mondo, essere uno e divenire moltitudine. L’arte è una delle manifestazioni dell’interiorità umana, un raro momento in cui si dà voce all’infinito che è in noi. 

Se in qualche caso la parola può divenire “voce dell’anima”, per la maggioranza 

dei casi essa viene usata nel suo ruolo specifico di “segno”. Se, per esempio, esprimiamo delle teorie matematiche, essa può razionalmente contenerle, poiché il “segno” attribuito ha un valore unico per tutti. Ma se “sconfiniamo” come normalmente accade e cominciamo ad esprimere sentimenti o sensazioni, ecco che essa diviene interpretabile, passibile di valutazioni personali che mettono in gioco il filtro delle esperienze personali di chi ascolta. Una carta difficile da giocare senza bluffare. 

L’altra chiave, la più densa di misteri interpretativi, è il simbolo, voce dell’intuizione, parola dell’anima. Essa apre la porta che conduce dall’incoscio al conscio, dall’infinito al finito, dall’interno all’esterno. Così come l’intelletto serve all’uomo per adattarsi alla realtà e alle condizioni di vita, così l’intuizione insegna 

che la realtà non si limita al suo aspetto fisico e materiale. Essa viene sfuggita perché scuote le nostre pseudo-verità, le nostre labili certezze. Essa offre sicurezze, offre dubbi, speranze, paure, meraviglie. È umiltà e non ribellione a Dio: tentativo di avvicinare il segreto senza violarlo, poichè questa é la parola che conduce a Dio, la “strada stretta” del Vangelo, il mezzo attraverso il quale si acquistano “occhi per vedere” ed “orecchie per sentire”. Ciò significa che non tutte le orecchie sono in grado di ascoltare, che non tutti gli occhi sono in grado di vedere, perché offuscati dalla propria razionalità, dal proprio smisurato orgoglio. L’intuizione riconosce Dio come Padre, fa nascere il bisogno di ritorno allo spirito. Ma è, comunque, una chiave molto, molto difficile da usare. 

Il simbolo, mediatore e chiave dell’intuizione, parla attraverso i sogni, ma non esclusivamente così: passa per l’anima e si dirige verso la nostra coscienza, mascherato con qualcosa di comprensibile. È la maschera della verità, una verità forse troppo grande per noi, che per toccarci senza distruggerci, deve nascondersi sotto il velame simbologico. 

Nel Dizionario dei simboli Chevalier – Gheerbrant, il simbolo viene così definito: “Il simbolo è bipolare… Coglie relazioni che la ragione non coglie. Ha forza centripeta stabilendo un centro di relazioni al quale il molteplice si riferisce trovando la sua unità. È elemento unificatore… perché è in grado di farsi comprendere da chiunque, qualunque lingua parli… esso non usa parole ma solo ciò che di vero in comune hanno gli, uomini. E si comunica solo in proporzione alla misura e all’apertura delle capacità personali”. E ancora: “… [L’intuito] risveglia energie che il simbolo concretizza. Esso va indagato con l’anima ed ogni anima vi nasconde le sue verità”. G. Durand lo definisce in “dinamismo organizzatore”; J. Jacobi afferma che “mantiene sempre viva la tensione tra i contrari che è alla base della nostra vita psichica”. “Il simbolo separa e unifica, ha in sé l’idea di separazione e riconciliazione”. Ha quindi un’importanza determinante in un mondo dominato dalla legge degli opposti, poiché ha un potere equilibratore, ma non impedisce il “movimento” dell’energia psichica. 

Secondo Jung, esistono dei simboli comuni all’intera umanità, che definisce “archetipi”: Più il simbolo è arcaico e profondo più diventa collettivo e universale”. Esistono quindi delle basi comuni, che poi vengono “elaborate” dalla cultura e dal contesto sociale e religioso di ognuno. L’archetipo è comune retaggio, ma non mostrandosi uguale per tutti, diviene assai importante saperne riconoscere la radice. 

Anni fa, discutevo con un ragazzo egiziano conosciuto casualmente di come a volte i problemi religiosi possano condurre, al di là dell’apparente ricerca del bene, a guerre sanguinose e fratricide. Era da poco tornato dalla guerra e l’esperienza era ancora molto viva in lui, pregna di emozione. Io, da parte mia, ero molto disponibile all’ascolto. emozionalmente partecipe. Forse proprio per questo, senza quasi avvedercene, iniziammo a comunicare in maniera molto profonda, quasi che le nostre anime o i nostri inconsci fossero entrati in contatto diretto. superando le difficoltà linguistiche e poi il bisogno stesso di parole. Difatti, diverse volte comunicammo telepaticamente. 

Fu un’esperienza assai insolita che ci lasciò una sensazione di fratellanza. O che, comunque, aveva stabilito un legame che andava al di là di ogni limite umano. Eravamo proprio sulla stessa “lunghezza d’onda” e lo eravamo già da tempo, probabilmente ancor prima di conoscerci, perché, parlando scoprimmo di aver fatto dei sogni molto simili che, ad un’analisi più approfondita, ci mostrarono delle “verità”. In un sogno fatto molti anni prima, avevo ricevuto un messaggio da un “angelo”. Era un messaggio, il cui contenuto non riporto, che riguardava la mia persona. Fu con grande sorpresa che A. mi disse di aver ricevuto lo stesso messaggio, che però lui aveva ascoltato da una voce proveniente dal sole. L’elemento in comune, oltre al messaggio, era anche la luce, una luce sconosciuta, indimenticabile. 

Era la stessa energia ad essersi manifestata in noi, seppure simboleggiata in due modi differenti legati alla nostra cultura socio-religiosa. Come non pensare infatti, alla lunga tradizione storica religiosa e culturale egiziana, nella quale il sole, Ra, era considerato un Dio? Quella tradizione che A. portava in sé, forse geneticamente, forse in maniera più ancestrale, aveva dato vita a quel simbolo, tanto diverso ma tanto simile al mio. Sorridemmo pensando che allora, un induista poteva aver ricevuto lo stesso messaggio da una Mucca Sacra, ma comprendemmo una cosa assai importante e cioè, che pur essendo due persone appartenenti a due gruppi etnici diversi, provenienti da culture e religioni differenti, in momenti diversi delle nostre “storie”, avevamo trovato quell’anello che legava le nostre esistenze: la fratellanza, quella vera, data dall’essere figli di un unico Creatore. E, inoltre, che il messaggio ricevuto conduceva ad un’unica fonte, conteneva una verità comune ad entrambi e a tutti quegli esseri sparsi per il pianeta che si fossero trovati in grado di riceverla in quel momento (infatti, per uno strano “caso” avevamo fatto quel sogno la stessa notte di molti anni prima). Questa strana simbiosi di anime era scevra da qualsiasi altra implicazione di tipo più umano. Ed ebbi la prova della non casualità della cosa, quando, con l’aiuto inconsapevole del ragazzo stesso, riuscii a salvare la vita in una situazione molto difficile. 

Non l’ho più visto. Credo che ormai sia tornato al suo Paese, ma il nostro incontro è stato determinante, ha acquisito un significato profondo e una magia che sembrano inspiegabili. Da parte mia, una profonda riconoscenza, che vorrei dimostrargli. Ma so che è impossibile, poiché all’epoca non ci scambiammo né indirizzi né cognomi. Sembrava che tutto ciò che ci riguardasse si fosse esaurito lì: in quello strano incontro finalizzato alla “conoscenza” di alcune cose. E che noi ne fossimo consapevoli, seppure a un livello molto lontano dalla coscienza razionale. 

Questa esperienza mi insegnò che le differenze di espressione non tolgono ai simboli il loro aspetto di specchi della verità, di universalità, poiché la mente, una volta entrata a contatto con energie che non conosce e che non è in grado di afferrare, le simbolizza in qualcosa di accettabile, di comprensibile. Nella stessa Bibbia. Dio appare a Mosè sotto diverse forme, come il fuoco, la nube ecc. Era Dio a mettersi alla portata dell’uomo o viceversa era l’uomo stesso a simbolizzare, a trasformare cioè la realtà superiore in una realtà finita. più consona ed abituale alla sua natura? 

In questo senso. ogni religione. ogni cosmogonia. può essere spiegata completamente e razionalmente. perché una volta logicizzata perderebbe il suo valore spirituale di comunicazione tra le anime. E il messaggio non è per tutti. Cristo spiegava agli apostoli i misteri della fede. ma parlava in parabole agli uomini comuni. Così facendo Egli operava una scissione, una scelta tra chi sia in grado di “comprendere” e chi no, tra chi sia dotato di spirito e chi sia racchiuso ancora nel suo piccolo mondo materiale. “Non date perle ai porci”. Questo insegna il Vangelo. Ed anche: …..affinché guardino bene, ma non vedano, odano bene, ma non intendano, perché mai avvenga che si convertano e sia loro perdonato” (Mc N, 11-12). 

Uno dei tanti motivi della caduta della fede sta proprio in questo voler razionalizzare Dio, in questo credere come Tommaso, solo se ci viene offerto il costato. Ma la chiesa, qualunque essa sia, non può confrontarsi con la scienza. Non possiamo pretendere di spiegare la “genesi” con le leggi scientifiche. alle quali, in ogni caso, l'”origine” sfuggirebbe comunque. Ciò significa che anche se accettassimo il “Big-Bang” come “inizio”, non potremo comunque spiegare il pre-esistere dell’energia e della materia che costituivano la massa informe in seguito esplosa formando i pianeti del nostro sistema solare. È come dire che il Caos si evolse, ma ciò non spiega l’esistenza del caos stesso. 

É il confine tra esistenza e non esistenza che sfugge ad ogni nostra volontà 

d’indagine. È l’amletico “essere o non essere”. 

Così come dal caos biblico emerse una volontà organizzatrice, lo spirito di Dio librato sulle acque dell’abisso che fecondò le acque originando la vita, così dentro di noi, nel nostro caos interiore, fusione di bene e male (Plinio: il bene è commisto al male), di natura e spirito, emergono quelle forze organizzatrici o distruttrici. Il caos è porta della vita, ma contiene anche l’idea dell’abisso, la fase disgregativa, la porta della morte, proprio come la figura femminile, rappresentazione dell’istinto, contiene in sé l’aspetto di datrice della vita, ma anche il suo opposto, poiché “Eva” offre ai suoi figli una vita mortale. Una vita che contiene in embrione il suo opposto. È essa stessa rappresentazione, nel teatro simbologico, di un’evoluzione involutiva. 

Ma non possiamo comprendere a fondo il concetto di vita e, di morte, di essere e non essere, se ci arrocchiamo su posizioni prestabilite, se non ci apriamo spiritualmente, se non ci svuotiamo lasciandoci liberamente penetrare dalla verità; se non smettiamo di opporgli dei muri a difesa della nostra roccaforte personale legata all’io e alla difesa strenua dell’io. 

La natura ci mostra come ad ogni fine corrisponda un nuovo inizio, scandito dal continuum, dall’eternità del tempo. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questa legge scientifica, che a prima vista sembra negare Dio. poiché nega il potere creativo, invece, forse involontariamente, la preesistenza del “tutto”, l’assenza della “fine”, della morte, sostituita dal “mutamento di stato”. Essa mostra l’universo e noi, parte di esso, in moto, in continua trasformazione, in evoluzione. Il moto circolare, forza creativa dell’universo, tendenza di ogni pianeta, è come il serpente che si morde la coda. È metamorfosi senza fine, poiché la fine di un ciclo conduce in un altro ciclo, la fine di un’esperienza conduce in un’altra esperienza che è suo prodotto, risultato finale di quella anteriore. 

Così si esprime H.P. Blavatsky nella Dottrina segreta: .All’inizio di un periodo attivo avviene un’espansione di questa essenza divina dall’interno all’esterno, in obbedienza all’eterna e immutabile legge, e l’universo fenomenico o visibile è l’ultimo risultato di una lunga catena di forze cosmiche messe così, progressivamente, in moto. In egual modo, quando riprende una condizione passiva, avviene una contrazione dell’essenza divina e il precedente lavoro di creazione è gradualmente e progressivamente distrutto. L’universo visibile si disintegra, il suo materiale viene disperso, e la “tenebra” solitaria e unica si raccoglie ancora una volta sulla faccia dell’abisso. Per usare una metafora che chiarirà ancor più l’idea, una espirazione dell”‘essenza” produce il mondo, e una inspirazione provoca la sua scomparsa. Questo processo avviene da tutta l’eternità, e il nostro attuale universo è solo uno di una infinita serie che non ha inizio e non avrà fine •. Ma in questo aprirsi e chiudersi di porte del nostro spaziotemporale, dietro quale porta cercare Dio? 

Il famoso “conosci te stesso” è la risposta implicita alla nostra annosa domanda. “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo”, ci insegnavano a recitare all’oratorio. 

Dio è anche in noi, Dio è una parte di noi, Dio è nell’uomo che si fa Buddha, Dio è nell’uomo che supera le prove iniziatiche che la vita gli pone. Dio è quell’essenza che lotta per venire alla luce, e non è assurdo pensare che saremo noi stessi a giudicare le nostre azioni e le nostre opere; ma non con la nostra attuale coscienza egoista, parziale e interessata, che ci induce ad essere tanto benevoli con noi stessi quanto malevoli siamo con il prossimo, che ci mostra la pagliuzza nell’occhio altrui ignorando la trave conficcata nei nostri occhi che ci impedisce di “vedere”. 

Sarà la nostra parte divina, la verità ora nascosta a giudicare. E giudicheremo noi stessi con lo stesso metro con il quale avremo giudicato gli altri. Questo è il potere della nemesi, la vera giustizia, la legge di causa-effetto, il karma o che dir si voglia. Soltanto il vero può giudicare il falso, poiché il falso non può conoscere la verità. 

Uscirà dal fondo dell’uomo l’anticristo che condurrà all’apocalisse. E sarà una battaglia tra le forze del bene e del male, non necessariamente combattuta a livelli atomici o mondiali. Sarà la lotta che ognuno già conduce dentro di sé, nel suo luogo segreto e interiore; una guerra che separerà i “giusti” dai “malvagi”, in cui il bene sarà scisso dal male, poiché le “forze” in noi si stanno accrescendo, stanno emergendo, stanno maturando un’evoluzione su due binari opposti. Forse allora il bene non sarà più commisto al male, e l’apocalisse non avrà più il significato che gli è sempre stato attribuito ingiustamente. Apocalisse significa rivelazione. Ma attenzione: rivelare significa svelare, sollevare il velo del segreto, ma anche ri-velare, riscoprire, rinascondere. Ciò significa che il “segreto” si mostra per attimi sfuggenti, si illumina e scompare di nuovo nel mistero. L’apocalisse si preannuncia dunque come una rivelazione: come il raggiungimento della verità. Il punto finale di uno stato di cose che prelude ad un nuovo inizio piu consapevole. 

Ci attende, ed è inevitabile, una “revolutio”, e sarà un’esplosione o un’implosione. Un buco nero o il Big-Bang di un nuovo inizio. Una battaglia che a livello esoterico si annuncia combattuta sui campi dell’anima, dove nella lotta tra gli avversari solo uno dovrà soccombere. 

La rivelazione è già iniziata, sebbene pochi se ne avvedano. Pensiamo alle parole di Cristo: «…Quando sentirete parlare di guerre vicine o lontane, non abbiate paura: tutto ciò deve accadere, ma non sarà ancora la fine… Ci saranno terremoti e carestie in molte regioni. Sarà come quando cominciano i dolori del parto… E quando vi arresteranno per portarvi in tribunale, non preoccupatevi di quel che dovete dire: dite ciò che in quel momento Dio vi suggerirà, perché non sarete voi a parlare, ma lo Spirito Santo». “Cristo annuncia quindi la “discesa” dello Spirito Santo negli ultimi tempi. Questa è la “forza”, la “luce” che si sta accrescendo e che ci condurrà a quanto fu annunziato per mezzo di Gioele: «Ecco – dice Dio – ciò che accadrà negli ultimi giorni: manderò il mio Spirito su tutti gli uomini: i vostri figli e le vostre figlie avranno il dono della profezia, i vostri giovani avranno visioni, i vostri anziani avranno sogni. Su tutti quelli che mi servono, uomini e donne, in quei giorni io manderò il mio Spirito ed essi parleranno come profeti…». Finalmente i doni dello Spirito saranno rivalutati, il veggente vedrà compresa l’origine della sua luce interiore, perché chi è stato scelto per “intendere”, intenderà. 

È bene precisare che anche in questo campo sarà saggio applicare la parabola 

dell’albero e dei suoi frutti. Bisognerà, cioè, saper discernere alla luce della propria verità e coscienza, i frutti del male che apparentemente sono assai simili a quelli del bene. Non dimentichiamo che il “falso profeta” ha conosciuto il cielo, ha collaborato alla “creazione”, ed è un buon imitatore dei poteri divini, sa mescolare la verità alla menzogna, sa illuderci che il nostro male sia il nostro bene. Non saranno i “negromanti” le stelle da seguire nella navigazione della notte dei “tempi bui”, ma ancora quelle “voci che gridano nel deserto” nel deserto di silenzio interiore della nostra epoca. 

Ma come uscire dal labirinto di confusione che è dentro di noi, quel labirinto formato da strade vane, da nozioni culturali e religiose acquisite passivamente? lo non possiedo il filo di Arianna, né ho la presunzione di conoscere la verità. Posso soltanto limitarmi a mostrare la strada scelta per ritrovare verità comuni, delle conoscenze vicine o lontane nel tempo e nello spazio. La ricerca parallela tra scienza, arte, religione, filosofia, mitologia e scienze esoteriche mi è sembrata un buon mezzo di conoscenza. L’uso costante di intuito e ragione mi ha aiutato a mettere da parte i pregiudizi, ad aprirmi ad ogni possibilità di verità, nella ricerca della libertà, nella libertà. La libertà offerta da un cammino non ostacolato da freni di imposizioni culturali o religiose. Uno svincolarsi da ogni sovrastruttura mentale per far affiorare il sentire più vero. Una ricerca dell’Amore compiuta con amore. 

Il centro del labirinto, meta da raggiungere è il tempio simbolico dello Spirito santo; è illuminazione, rivelazione, raggiungimento di Dio. È Buddhità, Nirvana o che dir si voglia, concesso a chi si accinge al viaggio e alle sue prove, con coraggio, amore, apertura mentale. Il labirinto è simbolo delle strade sbagliate, dei vicoli ciechi, delle anse del nostro cervello, ricerca di un centro di attrazione comune, di iniziazione spirituale, di superamento delle “prove” imposte dalla vita. Esso è il sogno di libertà (“Così conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, Gv VIII – 32). 

Sono d’accordo: non si devono offrire perle ai porci, ma occorre almeno far conoscere la possibilità di salvezza a chi desidera tentare il cammino ma è offuscato dal rigido dogmatismo privo di anima, dalla scienza lontana di Dio. Con la speranza che per qualcuno il velo si sollevi, la mitica porta si apra. Ma attenzione: per vincere dobbiamo uccidere il mostro metà uomo e metà animale che è in noi, posto a guardia del segreto. Dobbiamo, cioè, combattere la nostra natura animale. E non limitarci all’uso della scienza. Icaro con le sue ali di cera si illuse di contrastare le forze della natura. Ma il sole lo abbatté, la legge di gravità lo precipitò di nuovo sulla terra. Ciò significa che non possiamo sfuggire alle prove che la vita ci impone. Sono proprio quelle prove lo scopo della nostra vita. Ed esse sono lì per renderci liberi. 

Diana Garland 

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pagg. 31-39.