L’altra medicina e silenzio stampa 

Sabato 9 marzo ’91 si é tenuta, nell’antica sala del Comune di Tarquinia, una Conferenza-stampa sul tema della Pronoterapia. durante la quale é stata conferita alla Dott.ssa Simona Cola una laurea “honoris causa” per la sua opera nel campo specifico. 

Alla Conferenza, presieduta dall’ex Sindaco di Tarquinia, Sen. Roberto Meraviglia e dal Presidente dell’Albo Professionale Europeo dei Pranoterapeuti, erano presenti, oltre alle telecamere della RAI, numerosi giornalisti e medici. Ma ciò che più attirava l’attenzione era il fatto che la grande sala fosse letteralmente gremita di pazienti ed ex pazienti entusiasti, pronti a testimoniare, ma soprattutto – e questo é ciò che più conta – tutti guariti o in via di guarigione. Quello che mi ha toccata profondamente. era la loro dignità, la loro serietà e serenità di giudizio; non si respirava aria di corte dei miracoli, ma quello stupore riconoscente di chi, dopo una lunga e indicibile sofferenza, spesso dopo essere stato dato per spacciato dalla medicina ufficiale, si ritrova improvvisamente, inaspettatamente in gioco, guarito senza sapersi dare una spiegazione, poiché era ricorso alla pranoterapia l’antica imposizione delle mani citata nei Vangeli – come ultima spiaggia, non avendo più nulla da perdere se non la vita stessa. 

Indubbiamente il soggetto da trattare era spinoso. Si doveva lottare contro la mentalità materialistica, e persino contro i propri pregiudizi morali e culturali. Per fortuna, poi, hanno parlato i fatti. 

Il Presidente dell’Albo, Mario Davanzo, bersagliato dallo scetticismo dei giornalisti, veniva quasi immediatamente richiamato all’ordine da uno di questi, per aver osato sfiorare un attimo la questione religiosa. Questo falso moralismo religioso non spiana certo la strada alla ricerca della verità. Ma mi domando quale fede abbia da salvaguardare una persona che solo a sentir parlare di miracoli si scandalizza. Con ciò non voglio dire che ci troviamo di fronte a dei miracoli, probabilmente tutto ciò accade perché possa essere spiegato – non si muove foglia che Dio non voglia – ma mi domando – ripeto – che tipo di fede si possa avere se si considera “il miracolo” come unico retaggio di antiche popolazioni ignoranti, le quali non potendo supplire con la cultura e la conoscenza, affidavano a Dio il loro destino, la loro salute, la loro stessa vita. Bene. Visto che Cristo sembra per molti essere morto su una croce definitivamente, forse è giunto il momento in cui gli scienziati – novelli detentori della “verità” – ci diano una razionale e ragionevole spiegazione di quanto accade. In mancanza di “prove” – visto che i fatti non bastano – nessuno di noi può permettersi dei pregiudizi, ma solo ed esclusivamente delle opinioni personali che non fanno testo. 

Io ho intervistato molti pazienti della Dott.ssa Cola, e ad ognuno ho chiesto, oltre all’esito della ·cura, quale idea si fosse fatto della pranoterapia. Devo dire che la platea era divisa equamente tra i fautori di una tesi energetica, naturale e scientificamente spiegabile (tra i quali il più convinto sembrava proprio un religioso) e i sostenitori del dono carismatico divino. Per dovere di cronaca devo riferire che una religiosa affermava di aver visto una stimmata sulla fronte di Simona: che ad una anziana signora appariva durante il trattamento una figura vestita di bianco ai piedi del letto, mentre ad altri sembrava addirittura che la pranoterapeuta assumesse un diverso aspetto. Tra questi, alcuni bambini. Anche queste “curiosità”, è chiaro, sono tutte da studiare e verificare. 

D’altra parte, lo stesso Mario Davanzo, nel suo discorso introduttivo, si manteneva sulle generali, affermando, ad esempio, che la pranoterapia non è una panacea universale: che può apportare miglioramenti in alcuni casi di artrosi, risolvere alcuni problemi nervosi e liberare da sintomatologie dolorose, ma che, certamente, non è in grado di guarire i tumori. E qui veniamo al dunque. Simona Cola ha guarito dei tumori. Ho sentito le testimonianze ed ho potuto consultare le documentazioni, le TAC, le lastre dei pazienti prima e dopo la cura. 

Il Davanzo si batteva per un progetto di legge giacente in Parlamento, con il quale si vuole ottenere il riconoscimento ufficiale della figura professionale del pranoterapeuta. Ciò, affermava, per operare una separazione del grano dalla gramigna, ovvero per selezionare un serio gruppo di pranoterapeuti ed evitare alla gente di cadere nelle mani di individui senza scrupoli, venditori di fumo e di illusioni, avvoltoi che gravitano attorno a gente malata, pronta a rivoltarsi le tasche pur di vivere o sperare di vivere. Sarà possibile questo nell’Italia dei raccomandati e delle bustarelle? In ogni caso, varrebbe la pena tentare, visto che in alcuni casi è stato proibito ai pranoterapeuti l’ingresso negli ospedali, sebbene richiesto da pazienti senza alcuna speranza, proprio a causa – o con il pretesto – della mancata professionalità. In realtà, i medici non dovrebbero sentirsi minacciati da questi operatori, i quali, va detto, non mirano a sostituirsi ad essi, ma desiderano soltanto collaborare. 

Quindi, ben venga una strumentalizzazione del “caso Cola”, se può servire una causa utile. Ma torniamo alla discrepanza tra l’affermazione che ‘la pranoterapia non guarisce i tumori” e le dichiarazioni dei pazienti usciti proprio dal tunnel di questo orribile male. 

Interrogato a tale proposito, il Davanzo affermava che indubbiamente si stava trattando di un caso eclatante. Ed è questo che voglio ripetere” poiché è molto pericoloso creare illusioni sulla pelle degli altri, e, cioè, per dirla senza mezzi termini, che non tutti i pranoterapeuti hanno le qualità, sebbene molti di essi siano ottimi “professionisti” ed ottengano risultati assai positivi. Ho parlato con alcuni di essi e consultato numerose opere sulla materia. Indubbiamente dalla pranoterapia si possono ottenere notevoli vantaggi, ma nessun pranoterapeuta, per sua onestà, ha mai affermato di poter guarire un tumore, né di poter – e qui veniamo ad un altro punto dolente – cambiare le informazioni del DNA. 

Vediamo alcuni casi. Un paziente presente alla Conferenza, affetto da poliomelite, dall’età di 15 anni, mi ha confidato di vedere il suo muscolo, prima del tutto atrofizzato, riattivarsi e crescere giorno dopo giorno. Un bambino miope, con un forte astigmatismo, dichiarato non curabile e destinato a una vita di occhiali, risultava aver recuperato 6 diottrie in pochi mesi di cura settimanale. Numerosi pazienti, in cura per esaurimento nervoso, dichiaravano di avere visto crescere sulla loro testa capelli perduti da anni, e non del loro originale colore: capelli neri su teste canute; capelli neri su teste bionde. 

Potrei citare numerosissimi altri casi, ma per questo vi rimando al libro che sto scrivendo: “Chi sei? Inchiesta su una guaritrice”. Qui vorrei invece soffermarmi su alcune considerazioni: se appare sterile parlare di miracoli, così appare indispensabile domandarci come possa accadere che un DNA venga “ristrutturato”, poiché di questo si tratta. Nel caso congenito dell’astigmatismo – che è una conformazione ovoidale anziché sferica della cornea – sembravano non esserci possibilità di regresso, a meno che non si cambiasse la forma della cornea. Oggi – sebbene il caso non sia ancora completamente risolto – c’è stato un notevole miglioramento della vista, probalbilmente proprio grazie ad un intervento sul DNA, poiché, lo ricordo, si trattava di un difetto congenito, ovvero di nascita, per il quale il DNA dell’occhio era programmato per vedere “male”. 

Lo stesso dicasi per i casi di pazienti biondi che hanno ottenuto la ricrescita di capelli neri. Le mani di Simona hanno in qualche modo impartito al DNA di natura – che è una sorta di “programma biologico personalizzato” che prevedeva sia i capelli biondi, sia l’età della loro caduta, sia il loro incanutimento – un diverso ordine. 

Ma cos’è questa energia? Da dove proviene, dal mondo spirituale o da quello materiale? È indubbiamente una energia positiva se il suo scopo è la salute. È indubbiamente una energia intelligente. se è in grado di uccidere le cellule malate e far proliferare quelle sane, se è in grado di mummificare. ma anche di rigenerare. 

Non credo esista attualmente qualcuno in grado di darci una risposta, esauriente. Ed anche se ci fosse, sarebbe molto difficile ottenerla. Simona Cola parla poco. Durante la Conferenza non ha parlato mai. Come sapesse ma non potesse dire. Non vuole che si sappia, ma da anni il mondo della medicina le è ostile, a parte quei medici che hanno beneficiato delle sue cure. E cito il Dott. Mariani, chirurgo di Tarquinia, perché ha avuto il coraggio di dichiararlo in pubblico. Da anni Simona Cola chiede di essere analizzata perché si trovino le risposte. Se ognuno di noi possedesse in latenza queste capacità, perché non saperne di più per imparare ad usarle per autoguarirsi? Oppure, se ciò non risultasse possibile, perché non cercare di scoprire se le facoltà della Dott.ssa Cola siano causate da meccanismi fisici, chimici, elettrici o spirituali? Perché le sue mani guariscono? 

Ma nessuno, sembra, vuole sapere. Ed ecco il silenzio-stampa che titola il mio articolo. Alla Conferenza, come ho già detto, erano presenti le telecamere della RAI e i giornalisti dell’ANSA. È passata una settimana ed il silenzio è sceso come un avvoltoio su questa verità. Neppure due righe in ultima pagina, neppure la voce di un giornale di provincia. 

Che cosa c’è dietro questo silenzio? L’interesse dei rattoppatori di carne umana? La paura della verità? L’orgoglio del proprio sapere? La sfiducia nella mano che Dio tende sempre agli uomini, in un modo o nell’altro? 

I fautori del silenzio sono pregati di rivolgersi esclusivamente alla medicina ufficiale in caso di bisogno. Di non venirsi a curare con gli occhiali neri e un falso nome. Tarquinia grida, qualcuno ha risposto, ma ora il silenzio è calato di nuovo sulla necropoli etrusca, sulla verità, sulle mani di Simona Cola che continuano a: lavorare e a guarire. 

Credo che la medicina ufficiale non possa più sottrarsi e che debba affrontare anche questo problema. Se questo non accadesse, se tutti continuassero a tacere, non si scandalizzi più quel giornalista che senta citare la parola “miracolo”. Cos’altro resta all’uomo, se non la speranza che la Provvidenza invii ancora sulla terra dei nuovi apostoli che sappiano lenire i nostri mali fisici e spirituali? Altrimenti per noi non c’è speranza. Non c’è speranza di allontanare da noi la “vecchia con le forbici”, perché tagli quanti fili? – magari a vent’anni? Siamo tutti qui, lungo la strada che inevitabilmente conduce a Thanatos, con la sola possibilità di soffrire, per gli interessi di quegli uomini che hanno sputato sul “giuramento di Ippocrate”. In un mondo nel quale, ancora, Dio parla, ma non viene ascoltato. E tutto diventa Silenzio. Un silenzio di morte. 

Diana Garlant 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 11-15




 EMOZIONI 

 

Eu parlu cu li stiddi, 
e i stiddi lassanu u celu ‘ ncantatu 
e vennu supra a terra. 
Eu parlu cu lu mari, 
e l’unna si stenni supra la rina 
e tutti i pisciteddi cu i sireni si mettinu,
iddi puru, supra l’unna. 
Eu parlu cu li ciuri, 
e i margariti spuntanu ‘nte rocchi 
e i cunigghiedda vennu cu amuri 
e cantanu i cicali sutta u suli. 
Eu parlu comu si fussi profeta, 
e u ciavuru di ciuri 
s’ammisca cu lu cantu di l’oceddi. 
Quannu sugnu cu tia 
mi tremanu li gammi, 
mi batti ‘n pettu u cori forti forti 
e ‘un sacciu cchiù parlari. 

Erminio Gandolfo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 49.




La Comunità di salvezza come cura e terapia dell’uomo 

 di Claudia Gaeta 

La presente riflessione parte dalla domanda se per lo Stato moderno l’eugenetica, la scienza del giusto allevamento umano, non sia da considerare come un ideale di salvezza o sanità dei corpi. 

Nel mondo occidentale la parola salvezza rimanda immediatamente all’ambito del cattolicesimo ed è partendo dal suo contesto originario che si è indagata in varie sfaccettature fino a concludere che lo Stato ha fatto proprie queste istanze religiose, secolarizzandole e rendendole operative nel contesto socialel; slittamento, questo, posto in essere dalla stessa religione cattolica nel momento in cui sottolinea come non possa esserci salvezza, nemmeno sul piano prettamente individuale, al di fuori della comunità. 

Con la fondazione dello Stato moderno si ricrea, sul piano secolare, il grande ideale di comunità che era da sempre stato il pilastro portante del cattolicesimo. La comunità, in entrambi i casi, si configura come una «comunità di salvezza»2, nella quale salvezza viene ad indicare una «prospettiva» alla quale tutti i membri della comunità devono necessariamente aderire per salvaguardare la sanità/santità della comunità stessa: «Soltanto una razza intimamente sana potrà essere sicura del suo avvenire. Questo concetto ha valore universale e perenne perché corrisponde ad una legge generale della natura»3. 

Chiaramente essendo una prospettiva, la salvezza4 è anche un progetto che indirizza l’azione e la vita stessa. 

E, per rendere più chiaro il concetto, possiamo affermare che la salvezza svolge in ambito cattolico lo stesso ruolo che svolge l’utopia all’interno del pensiero politico, quello, cioè, di orientare «la condotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto»5, rivelando così la sua attuabilità nel futuro. È anche in virtù di ciò che la salvezza cattolica si fa nella storia, anzi la salvezza si identifica con la storia, col tragitto, cioè, che riconduce l’uomo al regno di Dio: «La salvezza è già realizzata, ma non ancora perfetta, cresce nella storia, esige impegno storico6», leggiamo in G. Mongillo. Lo stesso «destino di salvezza» è attribuito allo Stato moderno, soprattutto dopo aver fatto proprio il concetto positivistico di progresso e dopo essersi identificato con questo processo storico-naturale di continuo miglioramento. 

La prosecuzione nel cammino della salvezza implica un forte impegno politico, da cui tutti gli uomini non possono prescindere, in un rapporto di dipendenza che assoggetta l’intero essere umano al compimento di questa missione, ed è in questo senso che prende forza una normativizzazione assoluta della vita; dal momento che al di fuori della norma che ci dirige l’uomo rischia di perdere di vista la sua necessità. È indispensabile, quindi, forgiare uomini nuovi capaci di portare avanti questa missione, ma per far ciò è necessario in primo luogo incanalare la vita attraverso la normati-vizzazione dell’ uomo. 

Il problema sorge fattualmente nel momento in cui la vita, e quindi l’uomo come essere per la vita, si forma a partire da Dio o si identifica con lo Stato. Questi ultimi si definiscono come termini superiori di un’alleanza al di fuori della quale non c’è salvezza, ma dissoluzione, nella forma del peccato e della degenerazione. Questo sancisce la fine dell’ uomo come essere autodeterminantesi, soggetto primo del movimento della vita, per divenirne «oggetto» sul quale si esercita la forza di una vita sviluppata a partire dalla necessità. Necessità che si esplica a partire dalla normativizzazione della sua dinamicità. Canalizzando la dinamicità si nega, quindi, la libertà come possibilità incondizionata di scelta; si afferma, di conseguenza, una libertà ad un livello più alto proprio perché questa nasce dalla necessità di aderire ad una volontà superiore che ha creato e, quindi, preordinato il mondo. 

Con questo, si ha la trasformazione della vita come cominciamento in una vita per la salvezza, che è eterna e non più unica ma finalizzata ad un’identità superiore che la qualifica e la forma in prima istanza proprio dalla definizione del corpo, che altro non deve essere che la rappresentazione materiale di questo cosmo ordinato e funzionale. Non è, infatti, un caso che l’uomo sia stato creato ad immagine e somiglianza di Dio: «L’uomo nuovo che è creato a immagine di Dio nella giustizia e nella santità»? Quindi il corpo di Adamo, essendo ad immagine e somiglianza di Dio, fu creato secondo la bellezza e la bontà del Padre creatore8, in perfetta salute e non soggetto alla morte. Soltanto il peccato di Adamo introdusse nel mondo, e di conseguenza nel corpo dell’uomo, la bruttezza, la malattia e la morte come segno dell’ esplicita ribellione a Dio, dato, anche, che al di fuori della bellezza di Dio non esiste comunicazione, e quindi alleanza, fra le parti della comunità: 

Per ogni cosa, dunque, il bello ed il buono sono amabili e desiderabili; da ogni cosa sono prediletti. Grazie ad essi anche le cose inferiori amano quelle superiori, convertendosi ad esse; [ … ] quelle superiori amano le inferiori, provvedendo ad esse’. Non solo ma senza questa bellezza non esiste l’ordine per cui le cose sono state create: Per tutte le cose, infatti, c’è uno stato ed un moto che [ … ] colloca ciascuna cosa nella propria condizione e la dirige verso il proprio movimento [ … ]. Tutto ciò che proviene dal bello e dal buono, ed in essi risiede, si volge verso il bello e il buono”’. 

L’uomo nel contesto della comunità, pertanto, deve essere «curato» in tutti i suoi aspetti, proprio perché deve essere garantita la sua funzione di membro del corpo comunitario ed è in virtù di ciò che il pensiero cattolico delle origini assume la concezione dell’ uomo come unità inscindibile di anima e corpo. Quest’affermazione può spesso trarre in inganno perché nasconde in sé un dualismo basato sulla differenza di importanza fra i due termini del rapporto; infatti, il corpo è visto in funzione dell’anima, vissuta come la parte immortale del rapporto, l’unica che, almeno fino alla cosiddetta «resurrezione della carne», può assurgere a Dio con la morte della sua parte materiale, il corpo appunto. Il corpo più dell’anima determina il nostro essere perché non solo dà forma alla nostra vita, ma implicitamente la determina essendo esso l’elemento corruttibile del rapporto: 

Il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. [ … ] Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? [ … ] Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo11 ! 

Ma la chiusura nei confronti del corpo va oltre, arrivando ad affermare che nel momento in cui è quest’ultimo a determinare le azioni dell’ uomo, non solo non ci sarà sanità, ma ci sarà un fiorire del peccato, e quindi della malattia, che dovrà essere estirpato. 

Solo quando la carne, che è «piena di brame contrarie allo spirito» sta sotto il dominio dell’anima, noi siamo sani e liberi, e veramente sani e liberi. Allora infatti il corpo segue il giudizio dell’anima e segue la guida sicura di Dio. [ … ] Se infatti il terreno del nostro corpo non viene continuamente lavorato, restando incolto e inattivo, subito produce spine e rovi. Porta allora frutti che non verranno raccolti nei granai, ma dovranno essere sterminati col fuoco, secondo le parole del Signore: Ogni piantagione non coltivata dal mio Padre celeste verrà estirpata (Mt 15, 13). Dobbiamo dunque proteggere con cura ogni seme e germoglio nobile che abbiamo ricevuto dal giardino del divino seminatore. Con calma circospezione dobbiamo perciò curare che l’astuzia dell’odiato nemico non arrechi danno a questo dono di Dio e che nel giardino paradisiaco della virtù non germogli lo sterpame del vizio12. 

Secondo lo stesso principio, nel contesto dell’ organizzazione statale, la popolazione e la pianificazione della vita divengono così affari di Stato in nome della necessaria superiorità non solo degli interessi, ma proprio dello Stato in quanto essere naturale. È così che si arrivò alla formazione di un apparato statale per la salvaguardia della salute pubblica che passava inesorabilmente dalla determinazione a priori della «forma» della popolazione. Forma che poteva essere perseguita attraverso la coincidenza degli interessi dell’ eugenetica intesa come trasposizione artificiale di un meccanismo naturale quale la selezione della razza -, con lo Stato, anch’esso visto come prosieguo della Natura. 

I totalitarismi, ma anche i regimi cosiddetti democratici, fecero loro snodo portante la centralità dello Stato, facendo divenire questo il regolatore della vita pubblica e privata, il che comportava inesorabilmente l’espansione della sua necessità razionalizzatrice e moralizzatrice a livello globale partendo proprio dalla possibilità eugenetica di modellare il corpo e la vita del cittadino a sua immagine e somiglianza. Di conseguenza, l’essere umano è soltanto una delle parti dell’intero organismo, con un ruolo definito e una funzione specifica, per cui esso sarà sciolto nella sua biologicità, per essere governato dalle stesse leggi che regolano l’ordine naturale, favorendo un progressivo svuotamento dell’identità del singolo, ma anche, ad un livello più ampio, ponendo in essere un processo d’annullamento dell’umanità dell’uomo, inteso sempre più come appartenente alla specie, ad una specie omogenea alla quale si offre la possibilità di essere depurata ed allevata e, di conseguenza, salvata. Si può, a questo punto, meglio denotare il rapporto che intercorre con l’eugenetica di Stato, anch’essa nutrita dal desiderio di «riprogettare» il cittadino affinché col suo inserimento organico nella struttura statale portasse alla rigenerazione individuale e collettiva. Rigenerazione – morale ma anche necessariamente biologica – che sola può condurre la società civile verso il suo destino di miglioramento e di benessere. 

Non per tutti, comunque, è la salvezza, intesa come l’entrata nel cosmo della grazia, ma solo per un’élite che lo è per nascita. Per il resto della popolazione la via della salvezza è essenzialmente quella dell’obbedienza e del sacrificio, come sottolinea lo stesso Paolo quando afferma che: «ciò che Israele cercava non l’ha ottenuto, ma l’ha ottenuto soltanto la parte eletta»l3. Parole a cui fanno eco quelle di Galton, il fondatore dell’eugenetica, che la definì «la scienza del miglioramento della specie umana, garantendo alle razze o alle stirpi più adatte una migliore opportunità di prevalere rapidamente su quelle meno adatte» 14. Andando più a fondo è rinvenibile, già in ambito cattolico, l’idea per cui la diminuzione dei soggetti a cui è ascritta la caduta, o in termini contemporanei, la degenerazione, è utile, funzionale, diremmo, all’accrescimento del potere dei gentili; gentili che sono una parte del popolo, sicuramente la parte più alta: 

Ma se la loro caduta è stata la ricchezza del mondo e la loro diminuzione la ricchezza dei gentili, quanto più lo sarà la loro totalità15. 

È chiaro che la comunità di cui stiamo parlando è una comunità organica, ordinata e funzionale, perfettamente in linea con una concezione che inserisce il mondo umano in una visione predeterministica; in altre parole, sia lo Stato che la Chiesa concepiscono il mondo come inserito in una rete di valori e di volontà da cui non si può prescindere, perché diretta emanazione di una volontà superiore alla quale gli «inferiori» devono aderire con tutto il loro essere. Non solo, ma è presente anche una specificità per nascita, per la quale ognuno deve rispettare il suo ruolo e la sua funzione, se vuole contribuire alla sanità del corpo comunitario: 

Per la grazia che mi è stata data, io dico a ognuno di voi di non stimarsi più di quanto si deve, ma d’ispirarsi a sentimenti di giusta stima, ciascuno secondo la misura di fede che Iddio ha dispensato. Come infatti in un sol corpo abbiamo più membra e di queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così noi, benché in molti, formiamo un sol corpo in Cristo e, da singoli, siamo membra gli uni degli altri. Poiché noi abbiamo dei doni differenti secondo la grazia che ci è stata data: il dono della profezia, da usarsi in proporzione della fede; l’insegnante, nell’insegnare; l’esortatore, nell’esortare; il donatore, con liberalità; chi presiede, con premura; il compassionatore con gioia16. 

Ed ancora: «Secondo la natura di ciascuno, egli ha diviso il suo beneficio»l7. 

È qui che si apre la possibilità del peccato, dato che per la teologia cattolica «la vera essenza del peccato» sta «nell’opzione fondamentale con la quale si rifiuta di accettare la volontà di Dio come norma incondizionata della propria esistenza»18. 

Chiaramente anche lo Stato riconosce una volontà superiore che ha formato ed informato di sé la Natura e così come per il cattolico il peccato definisce la «condizione escludente» dalla comunità di salvezza, per lo Stato, diretta emanazione della natura, il peccato, divenuto sociale, viene identificato con la malattia, che è un ribellarsi alla sanità del corpo sociale/statale. Questa trasposizione di piano è supportata anche dal fatto che la malattia è da sempre, anche se in maniera più velata, interpretata come frutto di comportamenti morali sbagliatil9: 

Poiché ci è stato ordinato di tornare alla terra alla quale eravamo stati tratti e siano stati legati alla dolorosa carne, destinata alla morte per causa del peccato e soggetta per questo alle malattie, affinché talora, in una certa misura, i malati potessero guarire20. 

Più esattamente nella concezione statale si ha la sovrapposizione fra il male naturale (malattia) e il male morale (peccato)21, per cui, nel momento in cui viene sancita a livello scientifico la corrispondenza fra caratteri fisici, psichici e morali, la malattia diviene peccato. Il peccato, infatti, nella sua formulazione originaria è «l’infrazione di una legge», in altre parole la rottura di quell’ alleanza che costituisce il patto, cioè le regole, dell’alleanza. Sostanzialmente il peccato allontana l’uomo dalla comunità perché disintegra le sue relazioni con Dio e con gli uomini e non tende più a finalizzare l’uomo alla salvezza della comunità. 

Nel contesto statale, il cosiddetto deviante – dove per deviante si intende qualunque soggetto si discosti dai parametri fisici, psichici o morali socialmente dati, includendo al suo interno categorie molto diverse che vanno dal delinquente al malato – si sovrappone alla figura del peccatore e come quest’ultimo diviene, di conseguenza, la rappresentazione vivente, corporea diremmo, dell’individuo che si è posto al di fuori della comunità; esso, come ha affermato D. Chapman, «viene visto come una funzione del mantenimento dell’ordine costituito, un individuo costruito per rappresentare in sé, funzionalmente, […] con immagini stereotipiche formate da quelle caratteristiche che un dato sistema sociale ha interesse a presentare come negati ve ed oggetto di sanzione»22, proprio perché la devianza, così come il peccato, è la condizione che pone al di fuori della comunità stessa, tanto da indicare «un destino da evitare, più che dei comportamenti da evitare»23. Più che la condizione escludente, quella del peccatore/degenerato rappresenta già la condizione dell’escluso, di colui che si è distaccato dalla comunità24 e, quindi, dell’ altro, del «nemico» diremmo, usando una terminologia schmittiana, che rappresenta un pericolo per la comunità stessa non riconoscendone lo stesso fondamento superiore; in questa chiave, dunque, vanno lette affermazioni del genere: «Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde.25» Certo non è esclusa la possibilità di essere reintegrato all’ interno della collettività qualora si accetti la cura offerta da quest’ultima. 

Sovente, poi, caduti nelle malattie a motivo di castigo, siamo condannati a sopportare un’aspra e pesante cura onde sfuggire alle sofferenze della malattia. In tal caso il raziocinio ci persuade a non ripudiare né le amputazioni né le cauterizzazioni né l’asprezza dei rimedi amari e molesti né i digiuni né l’osservanza d’una dieta o di un particolare tipo che ne deriva per l’anima: colui il quale avrà fatto tesoro di quest’esempio, infatti, imparerà ad imitarlo nella cura di se stesso26. 

Ma non solo, perché essendo il peccato, così come la degenerazione, caratterizzato da questa forte dimensione sociale, la comunità non può subire «passivamente che il penitente si reintegri in essa», ma deve concedere «attivamente la sua appartenenza, attraverso l’atto del potere pubblico esercitato dal capo della comunità»27; se ciò non avviene per un libero atto della collettività allora la cura necessaria sarà la morte dell’individuo; rivelando, ancora una volta, la natura politica delle prescrizioni riguardanti la vita dell’uomo. 

La guarigione non garantisce dalla morte, ma libera dalla disperazione di essere-per-la-mor-te. [ … ] Guarire è cominciare a diventare capaci di assumere, condividere e sviluppare le concrete possibilità della condizione umana, anticipando la pienezza di umanità alla quale siamo chiamati in Cristo e ciò non solo sul piano personale, ma anche su quello socio-politico28. 

Infatti, l’uomo è guarito nel momento in cui si reintegra armonicamente col cosmo per il quale è stato creato, facendo fruttare a pieno proprio questa condizione esistenziale di «aderenza» alla realtà superiore, sia essa lo Stato o Dio; sottolineando, inoltre, che «nella visione cristiana della vita, la guarigione è emergere di armonia, solidarietà, trascendenza, e processo nel quale fluiscono iniziativa di Dio, risposta dell’uomo, solidarietà umana e inserimento nel mondo»29. 

Ma le somiglianze fra la concezione del peccato e quella della malattia non si fermano alla loro presunta «disfunzionalità» nei confronti della totalità, ma trovano la loro radice anche nelle categorie dell’ereditarietà e della trasmissione, nonché nella possibilità di propagarsi indefinitamente così come la sindrome degenerativa della razza avvertita come pericolo costante dallo Stato. È il motivo che ha portato Paolo di Tarso ad affermare che «come per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel cosmo e a causa del peccato la morte, e così la morte ha attraversato tutti gli uomini, per il fatto che tutti hanno peccato»30. Sappiamo esattamente che su queste due categorie si fondava tutto il pensiero medico-biologico novecentesco che fu responsabile di catalogare ed identificare le «vite indegne di vita». 

La piaga ereditaria del peccato forma e informa la vita prima ancora del suo farsi, tant’è che il bambino nasce peccatore a causa del peccato originale che si trasmette appunto per via ereditaria nell’atto del concepimento, ed è proprio in virtù di ciò che sia la Chiesa che lo Stato focalizzarono l’attenzione sul momento riproduttivo inserendolo nel contesto comunitario e ponendolo fuori dalla sfera privata. 

È a partire dalla biologia politica e dal concetto di salvezza, divenuta «sanità», che si definisce, allora, la «degenerazione/peccato» rivelandone così la sua realtà. È a questo che deve ovviare la comunità col potere terapeutico che gli è stato donato proprio per il suo essere in comunione con Dio – o con la Natura, come nel caso dello Stato moderno. 

Ma vi sono altre azioni per le quali le molteplici e numerose malattie dell’anima vengono sanate in modo eccelso, e quasi ineffabile: e se questa arte medica non fosse stata mandata da Dio ai popoli, non vi sarebbe nessuna speranza di salvezza per l’uomo, che tanto smodatamente avanza nel peccato; anche se considerando più profondamente le origini delle cose, ci si accorgerà che anche l’arte medica rivolta al corpo giunge agli uomini come dono di Dio, a cui dobbiamo attribuire la salvezza di tutte le cose e lo stato in cui si trovano31. 

Tutto questo è possibile attuando uno slittamento semantico da un mondo governato da Dio ad un mondo dove la forza primaria è la Natura, all’interno della quale il ruolo di «testa» (vedi le innumerevoli citazioni riguardo all’uomo come testa della natura in ambito cattolico) è svolto da un’élite che s’identifica con lo Stato che porta, con la morte dei degenerati – che sono tutti quelli che non «obbediscono» al canone biologico desiderato -, alla vita di quell’élite che così può sopravvivere incontaminata (e quindi liberata dalla possibilità della morte come depauperamento fisico, mentale e morale e, di conseguenza, del suo ruolo di guida) e far risplendere la razza che si fa attraverso il suo mantenersi «sana». In altre parole, lo Stato che si muove seguendo le leggi naturali si trova imbrigliato – o sarebbe meglio dire che all’interno di questa logica si trova «protetto» – nel determinismo naturale, che diviene così pianificazione dello sviluppo evolutivo, che non può avere altra direzione che quella di un progresso migliorativo. 

Per concludere, possiamo ora affermare che i dispositivi eugenetici di funzionamento degli Stati moderni (ricordiamo in particolare quello nazista) la normativizzazione assoluta della vita e la doppia chiusura del corpo32, altro non sono che gli stessi presupposti su cui poggia la teologia cattolica riguardo all’uomo come composto inscindibile di anima e corpo, con l’unica differenza sostanziale posta in essere dal terzo dispositivo’ quello cioè della soppressione anticipata della nascita, che è l’esatto rovesciamento in negativo del principio cattolico della difesa aprioristica della vita. Di una vita fatta coincidere con la nascita, ma anticipata al momento del concepimento a partire dal 1902, proprio in risposta all’introduzione di tecniche, quali l’aborto terapeutico o la possibilità del parto prematuro, che sottraevano l’ambito della nascita alla sfera della vita consacrata a Dio per consegnarla nelle mani della medicina33. 

Ponendo come discrimine all’appartenenza al corpo sociale l’aderenza a modelli, fisici e comportamentali, stabiliti a priori da coloro ai quali è stato assegnato il ruolo di guida della società al fine di garantire la funzionalità del sistema, diviene un passaggio carico di effetti sulla vita del singolo quello della «cura», che in ambito cattolico pare condensarsi attorno alla cura e alla salvezza dell’anima, mentre in ambito statale si concentra più sulla cura dei corpi, ma che, mutatis mutandis, si indirizza in ambedue i casi ad una presa in carico da parte del potere della vita, privata della sua variabilità. Questo dispositivo, ad un’analisi più attenta, svela la sua natura politica di meccanismo di funzionalità e autoconservazione del sistema, senza il quale non solo non c’è salvezza, ma cadrebbero anche i presupposti di una vita comunitaria: «La salvezza per essere integrale e plenaria deve concernere tutto l’uomo considerato come unità di corpo-anima e ciò sia come individuo, sia come gruppo e società»34. 

Claudia Gaeta

NOTE 

1 «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti» (C. Schmitt, Le categorie del ‘politico‘, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 61). 
2 Z. Alsezeghy, Confessione dei peccati, in G. Bargaglio – S. Dianich (a cura di), Dizionario di teologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), p. 176. 
3 J G. Landra, Difendiamo nella maternità le qualità della razza, in «Difesa della razza”, II, n. 4 (20 dicembre 1938), pp. 6-8. 
4 Sottolineiamo per inciso che la salvezza è un archetipo culturale, in altre parole è un’idea in-nata che viene trasmessa all’individuo in virtù della sua appartenenza ad una collettività. È in questo senso che vogliamo indagare l’archetipo della salvezza nelle sue due più grandi rappresentazioni storiche, il cattolicesimo e i totalitarismi novecenteschi, o meglio, lo Stato moderno. 
5 Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1967, p. 201. 
6 D. Mongillo, Esistenza cristiana, in Dizionario di teologia, cit., p.438. L’autore afferma più avanti anche che: «L’uomo chiamato alla salvezza è quello stesso che vive nella storia e pertanto non può né esimersi dal convivere con gli altri, né pensare che tutte le vie di impegno siano autentica liberazione» (ivi). 
7 Paolo di Tarso, Lettera agli Efesini, 4:24; cfr. anche Colossesi 3: l0. 
8 «Il bello sussistente (cioè Dio) si chiama bellezza, a causa di questa bellezza ch’esso comunica a tutte le cose, ciascuna secondo la sua misura» (Pseudo-Dionigi Areopagita, “I nomi divini”, 4, 7.10 in Dizionario di teologia, cit., p. 105.) 
9 Pseudo-Dionigi Areopagita, “I nomi divini”, 4, 7.10 in Dizionario di teologia, cit., p. 106. 
10 Ivi. Notiamo qui per inciso che questa identificazione fra bontà e bellezza è l’equazione che sta alla base degli studi di Lombroso. 
11 Paolo di Tarso, Prima lettera ai Corinzi, 6, 13-20. 
12 Leone Magno, “Sermoni”, 81 in Dizionario di teologia, cit., p. 226. 
13 Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 11. 7. 
14 F. Galton, Inquiries into Human Faculty, Mc Millian & co., London, 1892, p. 17. 
15 Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 11. 12. 
16 Id., 12.13. 
17 Clemente Alessandrino, Stròmata, 7, 2, in AA.VV., La teologia dei Padri. Dio-Creazione-Uomo-Peccato, Città Nuova, Roma, 1981, p. 118. 
18 Z. Alsezeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., p. 176. 
19 «Spesso, invece, le malattie sono punizioni dei peccati, mandateci per convertirci» (Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, 5, in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 277.) Ma anche: «Dio poi suscita la malattia in coloro per i quali è più utile avere le membra impedite piuttosto che agili e pronte nel muoversi verso il peccato» (Basilio il Grande, Omelia «Dio non è l’autore del male», 2-3,5 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 342.) 
20 Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, l in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 276. 
21 «In quanto realtà umana, il peccato è da intendersi come realtà morale: è un atto morale negativo dell’uomo; in quanto da una parte il valore morale, la legge e la norma sono perfezioni inerenti alla dignità della persona umana, anzi sono la stessa dignità della persona umana definita in sé e nelle sue componenti, e dall’ altra l’agire umano è la libera attuazione di questa dignità in modo corrispondente o non corrispondente ad essa, il peccato inteso moralmente si riduce ad essere la non-corrispondenza tra la dignità umana (valore, legge, norma) e la sua libera attuazione, ad essere cioè una disarmonia della compagine umana, una diminuzione dell’uomo nella sua dignità, che ne diviene il criterio, l’origine, il contenuto negativo, e messa in atto precisamente della peculiarità caratteristica, che è il costitutivo supremo di quella dignità personale come valore, legge e norma, e che è appunto la libertà umana: il peccato è allora la contrapposizione che è immanente alla libertà umana costituente la dignità della persona umana, e che dispone, cioè pone liberamente, della sua dignità in senso contrario ad essa» (A. Molinaro, “Peccato”, in in Dizionario di teologia, cit., p. 2031). 
22 D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, Einaudi, Torino, 1971 , pp. XI-XII. 
23 Ibidem , p. XII. 
24 «La chiesa […] come comunità vivificata dallo Spirito santo. Il peccato è un distaccarsi interno di questa comunità» (Z. Alszeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., p. 179). 
25 Luca, 11 ,23 . 
26 Basilio il Grande, Regole lunghe, 55, 4 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 277. 
27 Z. Alszeghy, “Confessione dei peccati”, in Dizionario di teologia, cit., pp. 179-80. 
28 D. Mongillo, “Esistenza cristiana”, in Dizionario di teologia, cit., p. 431 . 
29 Idem , p. 433. 
30 Paolo, Lettera ai Romani, 5, 12. 
31 Agostino, I costumi della Chiesa cattolica, 1,55.56 in AA.VV., La teologia dei Padri, cit., p. 267 . 
32 Cfr. R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004, p. XVI. 
33 Cfr. E. Betta, Le forme del decidere: norme cattoliche per l’ostetricia abortiva, in A. Menzione (a cura di), Specchio della popolazione. La percezione dei falli e problemi demografici nel passato, Forum, Udine, 2003, pp. 105-119. 
34 C. Vagaggini, “Storia della salvezza”, in Dizionario di teologia, cit., p. 1574.

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 3-10.




Danza rituale

Viene qualcuno e ti veste
di foglie come un dio solare
estate matta ti dà da bere
finché si avvelena
il tuo sangue chiaro e raro
poi ti fa ballare
davanti alle stelle
e non hai un nome e non credi più
in chi e come e dove
la mia parola, in un sabato venduto
a tutti i mercati della vita,
accetta di uccidere gli amori
e i sogni a metà
dimenticato nella morte dello scritto
all’ombra vecchia del paradiso.

Dan Fruntelata

(Poeti romeni d’oggi, Palermo, Ila Palma, 1989)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 56.




 Ruzar Briffa, un poeta lirico maltese 

Il tormento della vita e della parola 

Nella schiera dei poeti maltesi che hanno svolto la loro attività nella prima metà del Novecento e hanno appena sfogliato la seconda, il nome di Ruzar Briffa (1906-1963) emerge con una sua individualità inconfondibile. Rappresenta soprattutto un filo diretto tra quel presente e un futuro molto diverso. Quel presente è identificabile soprattutto per una gamma di ragioni con le impostazioni più tipiche dell’Ottocento romantico che sotto l’influsso dell’esperienza italiana diede contenuto e forma all’ispirazione dell’isola; quel futuro è caratterizzato da una graduale presa di coscienza alimentata da esigenze di una società trasformata sotto vari profili. 

Non era stata soltanto o maggiormente la volontà di scrivere in lingua maltese, l’idioma antico di origine araba, a condurre questo medico schivo e solitario e sperimentare in forma poetica. La sua vocazione era fondamentalmente quella di dover riflettere sul patire, sulla vita come sofferenza ineluttabile, e non di coltivare, come era di moda, il dialetto che ancora richiedeva l’attenzione scientifica del filologo e il contributo raffinato di validi letterati. 

Il pregio lirico dell’opera di Brilla emana da una coscienza che si trovò in grado di parlare con sé in versi, e poi di mettere questi schizzi personali sulla carta con grande, anche se finalmente superato, tormento. Dal profondo dissidio tra la sofferenza dell’essere e la felicità dello scrivere, anche se il processo della creazione è in ultima analisi una continuazione o addirittura una estensione della prima, nasce il paradosso della lirica del mistero, una parola autentica che vuole presentarsi come alternativa unica e insostituibile al vivere stesso. Il non voler vivere si traduce nel voler scrivere. Dall’infelicità dell’atto umano scaturisce la felicità dell’atto creativo. 

La condizione storica del romanticismo maltese 

Nata come coscienza nazionale in seguito ad una lunga, ininterrotta tradizione di silenzio e di rassegnazione, la letteratura maltese è un fenomeno recente. Mikiel Anton Vassalli (1764-1829), oggi noto come il padre della lingua maltese e conosciuto da tutti come un patriota di stampo romantico, riassume in sé la nuova volontà di affermarsi di una piccola comunità che è arrivata finalmente, quasi nella pienezza dei tempi, alla scoperta del suo essere, alla consapevolezza della sua identità particolare e unica, basata su una lingua, una storia, una religione, una civiltà, tutti elementi che formano un insieme am10nico. L’utilizzazione della lingua maltese diventò presto una presa di coscienza, e non poteva rinchiudersi facilmente nei confini strettissimi di un puro esercizio scientifico. La nascita di una letteratura in dialetto, dunque, significava anche la elaborazione automatica di un ambizioso corpo di principi e di sentimenti contenenti la giustificazione culturale e politica del concetto della nazionalità, e di conseguenza il sostegno su cui posa la pretesa dell’autonomia nazionale. 

Il nazionalismo subentrava letterariamente e finiva col diventare la ragione d’essere delle strutture politiche messe in atto durante l’arco di tempo che va dalla prima metà dell’Ottocento fino all’acquisto dell’indipendenza nel 1964. La poesia e la narrativa dell’Ottocento e del primo Novecento, dunque, costituiscono un deposito eminentemente patriottico, cioè, una rottura “moderna” con il passato indifferente e passivo, ispirato soltanto ai canoni classici dell’imitazione e della attenta, fedelissima continuazione della tradizione e dei suoi sacri modelli. 

Il poeta nazionale di Malta, Dun Karm (1871-1961), scrittore in lingua italiana e dal 1912 maggiormente in lingua maltese, andava scoprendo con decisione e con calma il senso dell’individualità dell’isola. Sperimentando nella lingua incolta, sfruttandone le nascoste potenzialità espressive, Dun Karm andava elaborando una intera, quasi sistematica, sublimazione del concetto romantico della patria, trasformandolo in un culto legato al binomio mazziniano del diritto e del dovere del cittadino libero. L’origine etnica, l’unità popolare evidenziata da una vasta gamma di motivi e di costumi, la funzione storico-culturale, oltre che morale, della fede cristiana lungo i secoli e nel mondo contemporaneo, le qualità distintive del paesaggio e delle forme architettoniche, la ricchezza spontanea e naturale del parlare quotidiano delle masse prive di una propria formazione culturale, il significato democratico delle antiche vicende storiche: sono alcuni dei motivi che trovano nel poeta “politico” la loro trasformazione estetica. 

Accanto al filo oggettivo, estroverso, che mette in piena evidenza l’identità collettiva e che dà ampio rilievo alla tematica dell’individualità nazionale, cresce anche l’ansia di un io turbato con la propria, singolare, solitaria presenza nel cosmo. 

Insieme al senso “felice” dell’isola nazionale si acquista anche il senso “infelice” dell’isola universale. La elaborazione della poetica della cittadinanza civile non fa dimenticare il bisogno di definire e di conoscere nelle sue più remote e struggenti implicazioni la poetica della cittadinanza cosmica. Con la traduzione dei Sepolcri foscoliani (L-Oqbra, 1936), Dun Karm introduce con sicurezza nella poetica maltese i grandi temi del processo della vita e della morte, e gli interrogativi sul problema della sopravvivenza. 

Sono temi che si insinuano già, anche se ancora privi di una forma letteraria di rilievo e lontani dalle complessità di spiriti veramente inquieti e sofferti,nelle liriche di Gian Antonio Vassallo (1817-1868), Richard Taylor (1818-1868), Guzè Muscat Azzopardi (1853-1927), Anton Muscat Fenech (1854-1910) e di Dwardu Cachia (1858-1907. Ma con Dun Karm assumono pure il carattere di modelli letterari, di archetipi tematico-formali, e sono di una importanza decisiva nel quadro dell’ispirazione maltese dei decenni successivi. Spettava ad altri poeti arrivare anche loro alla scoperta del filone soggettivo, introverso, riflessivo del romanticismo ottocentesco e dei residui neo-romantici ancora vivi nel primo Novecento europeo e continuati in varie sfumature fino ad oggi. Dai confini di una stretta concezione nazionale e sociale la poesia maltese si avviava verso gli spazi della tematica universale. 

La lirica del tormento esistenziale 

Nell’opera di Brilla la causa poetica diventa del tutto autonoma dalla causa linguistica. Comporre lirica non significava più contribuire alla normalizzazione e al recupero dell’incolto idioma antico. La distinzione tra interesse filologico e accademico nella lingua, e necessità psicologica di espressione poetica in quella lingua diventò netta, anche se Briffa stesso si pronunciò del tutto favorevole all’uso del maltese e al suo completo riconoscimento in sede culturale e sociale. 

Con Brilla si ha la figura del poeta integrale, cioè della personalità che riassume nell’atto poetico tutti i vari, multiformi aspetti dell’essere, professionale, sociale, familiare, civile. 

Essere poeta significa investire l’esistenza di un contenuto e di una forma particolare. L’intuizione lirica e non la poesia della letteratura e della rigidità formale, il senso del mistero e non la consapevolezza delle certezza nazionale, la lingua ricostruita con sofferenza dalle rovine di una sensibilità malinconica e non la normalizzazione decisa della sintassi e del lessico: in queste scelte, intimamente legate tra di loro, appare la figura del poeta come essere quasi privato, racchiuso in sé, piegato su se stesso, separato dalle masse, ispirato soltanto ai sussurri che si fanno sentire nel suo intimo angoscioso, del tutto noncurante della problematica storico-culturale. Lo sfondo di Briffa non è l’età contemporanea ma un eterno mondo di solitudine, privazione e tristezza. Le dimensioni del luogo e del tempo, mai evidenze di dati precisi, sono forme archetipiche entro cui quasi tutte le sue brevi meditazioni trovano una cornice per presentarsi come poesia, cioè come parola, sfida al silenzio continuo: 

Il-ferha ta’ bla tarf li jien poeta 
darba hassejt, 
u bkejt 
bil-qalb mim ija 
x’hin l-oghna holm tal-hajja 
ghannejt. 
(Mill-Gdid Poeta, vv. 1-6) 

(Ho provato una volta la felicità infinita di essere poeta, e piansi con un cuore pieno, mentre cantavo i più ricchi sogni della vita). Di nuovo poeta, vv. 1-6. 

I suoi luoghi sono spazi desolati, lontani dalle città della convivenza, distinti dal mondo dell’attualità; ad esempio, cimiteri, cattedrali dimenticate, castelli, vecchie chiese, spiagge lontane, strade disabitate, tombe, chiese demolite, fontane salutarie, città desolate. I suoi tempi e le sue stagioni sono momenti e periodi facilmente identificabili con la sofferenza, ad esempio, l’inverno, la notte, le ore della tempesta. Il passato con le sue ricordanze amaramente nostalgiche è un presente continuo, una “eternità” storica vissuta entro cui l’esperienza diventa psicologica, e il presente perde la sua attualità per diventare momento ambiguo dominato dalla memoria: 

Qatt ma Kien hemm il-bierah, 
m’hemrnx ghada jew pitghada, 
il-bniedem fassal wahdu 
il-jiem tac-civiltà … 
Imm’A1la halaq qablu 
it-tul t’Eternità. 
(Il-Hadd fìlghaxi ja, vv. 13-18) 

(Non c’era mai ieri, non c’è domani e dopodomani, l’uomo disegnò da solo i giorni della civiltà . . . ma Dio creò prima di lui la lunghezza di una Eternità). La sera della domenica. vv. 13-18. 

L’insistenza su vocaboli che evocano limitatezza, tenerezza, introversione, 

timidezza, piccolezza richiede una precisa interpretazione. Il linguaggio poetico di Briffa costituisce già un concentrarsi su un tipo particolare di lessico: è scelto istintivamente. con criteri psicologici, e non letterariamente, con criteri stilistici. Invece di cercare di ampliare il proprio vocabolario e di trovare le parole meno note, più antiche e pure (cioè di origine semitica, siccome il concetto di purezza, ormai da tempo superato, significava l’eliminazione dei vocaboli di origine latina), il poeta riduce il suo dizionario ad un glossario quasi specializzato, ispirato soltanto alla tematica del tormento esistenziale. Non risale mai alla superficie l’ambizione di chi desidera dare evidenza della vastità e dell’efficacia espressiva della lingua tradizionalmente incolta. Passando dalla langue alla parole Brilla arriva ad una lingua scheletrica, scarna e del tutto priva di ogni elemento decorativo. Non c’è un rifacimento della comune lingua parlata: si tratta di una riduzione estrema, evidenza letteraria di un retrocedere psicologico. Anche la poetica della lingua diventa così un documento di una particolare vicenda interiore. 

Dati i limiti entro cui poteva svolgersi l’attività letteraria, e considerando il grave svantaggio storico imposto sull’antico idioma di origine araba, sempre vissuto in condizione di subalternanza culturale e politica rispetto alla tradizione latina dell’isola, una tale scelta “linguistica” (così appare a prima vista, e così è anche, ma non soltanto, nel quadro della vita culturale maltese del primo Novecento) costituisce una importante novità nella storia della poesia del Paese. Significa l’affemlarsi del contenuto sulla forma, il superamento del preconcetto che attività linguistica equivale a attività creativa. Tirando le somme, dunque, ciò significa che il contenuto (l’atto poetico) non doveva dipendere più dalle condizioni del programma di ricostruzione sintattica e lessicale\ oltre che morfologica, della lingua popolare. Poetare ora significava soltanto scoprire la propria metalingua entro la lingua, restringere ancora, tormentare i nuovi modi, ricrearsi una forma espressiva che in ultima analisi non contribuisce in nessun modo all’avanzamento della lingua in termini di standardizzazione scientifica e colta. 

La forma dello spirito 

Trovandosi privo di una propria formazione letteraria, essendo un medico occupatissimo, Briffa aveva paradossalmente il vantaggio di poter distanziarsi senza polemiche dai formalismi, necessari storicamente nell’ambito della breve storia letteraria della lingua maltese, e richiesti dalla condizione difficile dell’idioma non ancora sufficientemente elaborato in sede estetica, dei suoi contemporanei come Anastasio Cuschieri (18761962). Ninu Cremona (1880-1972). Gorg Zammit (n. 1908), Gorg Pisani (n. 1909). Karmenu Vassallo (n. 1913). Guze Chetcuti (n. 1914) e altri. Messo in questa foto di gruppo, Briffa si isola anche come poeta e non soltanto, caratteristicamente, come persona umana. La sua distanza psicologica si traduce presto in distanza linguistica e formale, quasi per mettere in evidenza il fatto che la prima condizione fosse la causa della seconda, e che tra l’uomo e l’artista non potesse esserci alcun spazio. 

La sua lingua ridotta, costituendo un compromesso con il silenzio e con il mutismo, è frammentata, sciolta e sconvolta. Il lessico è scarno e “povero” oggettivamente, fedele alla condizione di privazione e di negazione che l’autore intende proiettare. Le forme si creano nel processo dello scrivere, anche se spesso 

utilizzano le stanze precise della tradizione, particolarmente la quartina. Entro la formalità, comunque, cresce il nervosismo personale di chi non trova facilmente lo spazio adatto allo spirito in cerca di comunicazione. 

Il contrasto con l’impressione che viene fuori dall’opera collettiva dei contemporanei ha condotto Dun Karm, troppo avaro di solito a collaudare i suoi colleghi, a conoscere in Briffa un autentico poeta. In fondo si tratta di un anti-letterato valido che ha prodotto alcune delle liriche più belle scritte in maltese nella prima metà del Novecento. 

È una condizione paradossale. Questa bellezza sta soprattutto nell’informalità, che presto dà prova dell’intraducibilità del testo. 

Tradurre Briffa significa veramente tradirlo, renderlo contrario a se stesso, cioè stereotipato, formale e ovvio, quasi banale. 

La spontaneità risiede soprattutto nella naturalezza istintiva, antiaccademica, con cui ha colto dopo lunghi periodi di riflessione (come lui stesso ha dichiarato in una rarissima lettera di chiarifica, e come mostra la sequenza cronologica delle sue opere, spesso separate l’una dalla seguente con ampi spazi di mesi e di anni) la forma pronta ad essere semplicemente registrata su un pezzettino di carta. Cogliendo il momento opportuno. dovuto alla sua psicologia di sconvolto pensatore, disorganico e deciso sentimentalmente, che sente e che non concepisce, Brilla riesce a creare la forma nell’atto stesso di trascriverla. Scrivere significa qui, dunque, tradurre la poesia interiore in poesia esteriore, arrestare il sentire attraverso lo scrivere. 

I suoi momenti tradotti in lirica costituiscono i primi passi della poesia maltese nel mondo della modernità novecentesca. Il contenuto è ancora quello tipico dei partecipanti ottocenleschi all’angst esistenziale. Da Keats a Leopardi, da Shelley a Foscolo, ci sono voci europee di primo piano che trovano eco, remotamente, nei suoi scritti. Sono tutti, comunque, riecheggiamenti di mediazione culturalmente inevitabile, perché il tormento è rivissuto interamente in prima persona. Le sfortune personali, di carattere sentimentale, e l’indole naturale di uno spirito perfidamente malinconico e depresso fin dalla fanciullezza sono essenzialmente i “modelli” veri e propri che hanno tanto influito sul suo animo. È l’uomo che ha formato il poeta, e non la grande tradizione letteraria, anche se questa non può essere assente come esemplificazione di archetipi in cui partecipa la coscienza del singolo in una data condizione personale. 

Le tensioni rivissute a livello privato, dunque, conducono al bisogno di creare pure le proprie modalità espressive. Il diarismo, la psicologia in cui si riassume tutta la poetica di Briffa, spiega l’intero procedimento: i temi della tradizione sono sofferte dall’individuo, e la trascrizione personale riesce a crearsi le forme “private” che placano di più le esigenze dello spirito. 

La prima lirica, Lacryma e rerum (1924), e l’ultima, Ballatella tal Funtana 

(1962), non sono molto diverse. Si prestano facilmente ad un confronto che le definisce come tappe lontane di un unico ininterrotto procedimento stilistico e formale. esprimente una sola preoccupazione. La monotematicità, una delle conclusioni acquisite attraverso un tale confronto, mette ancora in risalto la condizione da cui parte la poesia di Briffa: l’uomo richiede una sua espressione, ed è l’uomo, al di là della storia letteraria del continente e del proprio Paese, che deve ricostruirsi le forme. Il diario è diventato poesia; è una fortuna per la cultura maltese, ma non è che una necessità che il poeta, se avesse potuto, ne avrebbe presto fatto a meno. È infatti con grande difficoltà, e malgrado la sua indifferenza. che la moglie e un intimo amico lo hanno mosso a raccogliere le sue liriche nel 

1960, tre anni prima della morte. Del resto, la biografia storica non è in nessun modo distante dalla biografia poetica. 

La stessa malinconia esistenziale unisce l’azione dell’uomo con la parola del poeta siccome le due dimensioni nascono entro una sola storia che non separa il fisico dallo spirituale, identificando il vivere con il patire. 

Oliver Friggieri 

 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 24-31.




 La visita di Luigi Capuana a Malta

La prima edizione della rivista «Malta letteraria» (*), pubblicata in settembre 1904, aveva già dato spazio a Sorrisino, una novella di Luigi Capuana1. Nel 1910 Antonio Deni, uno dei siciliani che collaboravano alla rivista, pubblicò un ampio resoconto della festa celebrata all’Università di Catania nell’occasione del giubileo letterario dello scrittore2. 

Quasi a consolidare sempre di più questo inevitabile avvicinamento tra le due coscienze letterarie che, superando la visuale astratta del romanticismo, dovevano affrontare la problematica socio-economica, e che accanto alla visione risorgimentale sentivano anche esigenze molto pratiche, il 12 dicembre 1910 Capuana visitò l’isola come ospite dello scrittore giornalista maltese Agostini Levanzin (1872-1955). che così descrisse l’evento: «Lunedì scorso arrivò il famoso romanziere italiano Luigi Capuana, professore di letteratura italiana presso l’Università di Catania. Mi scriveva da lungo tempo esprimendo il grande desiderio di fare una visita alla nostra isola e ora è arrivato. È l’autore di numerosi bei romanzi… Spero che ci conceda una conferenza degna della sue capacità3». 

Fu “L’Avvenire” a divulgare la notizia: «Porgiamo un ossequioso e reverente saluto all’illustre letterato, scrittore e poeta Luigi Capuana, professore dello Ateneo catanese, il quale ha onorato la nostra isola di una sua visita che, ci è grato sapere, durerà per vari giorni …Parecchi nostri giovani studiosi si sono recati ad ossequiare il rinomato scrittore al Hotel d’Angleterre dove alloggia. Possa il nostro distinto ospite godere di un soggiorno piacevole tra noi. Ed ora un voto. Non potrebbe egli regalarci una delle sue applaudite conferenze che tanto entusiasmarono in Italia? Lo speriamo4». Due giorni dopo lo stesso giornale diede ampia informazione biografica e letteraria sul romanziere e continuò: «Noi siamo certi che l’illustre letterato italiano è talmente noto al nostro pubblico intelligente da non aver bisogno di presentazione: anzi sappiamo che già parecchie persone, tra le più colte del paese, si onorano a tenergli compagnia durante la sua breve permanenza tra noi5». 

Agostino Levanzin scrisse anche sul giornale “Malta” per meglio pubblicizzare questa visita presso i letterati. Nel suo articolo, oltre ad un profilo biografico, letterario e critico, Levanzin evidenzia la sua amicizia con il siciliano: «Il nostro gradito ospite è una delle più fulgide figure della letteratura italiana contemporanea. Il suo ingegno policromo è di una versatilità meravigliosa: critico de’ più autorevoli, romanziere de’ più ricercati, novelliere per bambini de’ più spontanei e simpatici, drammaturgo de’ più applauditi, conferenziere dalla parola calda ed affascinante, è pure un profondo psicologo ed ha pubblicato lavori interessantissimi sulla scottante questione dello spiritismo… Figli non ha: è astemio,  feroce,  fotografo,  spiritista convinto, modestissimo allo eccesso, amico  sincero, ama i giovani e procura sempre di incoraggiarli, parlatore arguto e piacevole, ed uno di quelli che trattano con squisita gentilezza e cordiale ospitalità con tutti quelli che, fortunati, vengono in contatto con loro. lo non dimenticherò mai la grata accoglienza che mi fece a Catania, quando, sentendo del mio arrivo colà, venne al Hotel per condurmi a casa sua in carrozza dove mi trattò con una espansione e famigliarità eccezionali in un uomo del suo valore… Abbia intanto l’augurio affettuoso di tutti gli ammiratori del genio latino per una lunga e felice permanenza fra noi6». 

Durante il suo soggiorno Capuana visitò il Collegio Flore, uno dei centri educativi più importanti del periodo, «dove si trattenne per oltre due ore, accompagnato in giro pel nuovo e grandioso locale, dal direttore Flores… e si compiacque che’ per opera sua anche Malta possa gareggiare, se non sorpassare in fatto d’Istituto d’Educazione, con le Città più importanti del continente7». 

Il governatore britannico di Malta tenne un pranzo in suo onore. Fu anche intrattenuto a colazione al Casinò Maltese della Valletta durante il quale gli intervenuti chiesero il suo autografo; tra questi c’erano diversi scrittori maltesi, ad esempio Luigi Randon, Arturo Mercieca, Giovanni Roncali ed Enrico Magro. Fu intrattenuto anche dagli studenti e da G. F. Inglott, uno dei collaboratori di “Malta letteraria”. Agostino Levanzin lo invitò a casa sua e lo presentò a vari intellettuali maltesi. «Fu anche accolto dal rettore dell’Università e nei pochi giorni del suo soggiorno non passò neanche un’ora senza essere accompagnato da qualcuno che gli voleva bene8». Il 25 dicembre al Collegio Flores si organizzò una funzione religiosa per la notte di Natale, e alle ore 10,30 Capuana lesse due dei suoi bozzetti per quella festa9, Capuana ritornò in Sicilia a bordo della nave Enna il martedì 27 dicembre 1910.10 Poco dopo la sua partenza due giornali pubblicarono due suoi lavori, la novella Un anniversario11e un lungo studio sul novellista francese Alfonso Daddet12. 

Il breve soggiorno di Capuana a Malta è significativo per la conferenza che lesse il lunedì 26 dicembre «nella gran sala del Collegio Flores innanzi ad una scelta accolta di signore e signori, ammiratori del grande romanziere italiano13». Due giorni prima della conferenza Levanzin scrisse un lungo articolo sul proprio giornale “In-Nahla” dichiarandosi contento dell’onore che lo scrittore aveva fatto all’isola con la sua visita, invitando il pubblico a dargli una meritata accoglienza che metta in luce la capacità  dei maltesi di stimare  le  persone che valgono. Tale 

comportamento è un passo positivo perché smentisce l’accusa di arretratezza spesso rivolta contro i maltesi. Levanzin auspica che Capuana «si ricorderà della nostra cara isola nelle sue valide opere future» e conclude augurandosi che con tale accoglienza «mostriamo di essere capaci di apprezzare i grandi uomini e particolarmente quelli legati alla lingua italiana, che è la lingua della nostra civiltà14». 

La pubblica presenza di un noto scrittore italiano a Malta agli inizi del secolo rischiava di essere interpretata e sfruttata anche politicamente. La questione della lingua, che metteva in dubbio il ruolo concesso tradizionalmente all’italiano nella vita ufficiale e culturale dell’isola e che indicava l’avanzata dell’inglese come alternativa di comunicazione culturale e internazionale, e che chiedeva al maltese, l’idioma incolto di origine semitica, una sua giustificazione culturale e politica, serviva come presa di coscienza a favore della tesi della latinità del paese e come decisa presa di posizione contro la minaccia di una così detta devastante anglicizzazione. 

“Risorgimento” prese subito lo spunto da questa complessa problematica, citando il nome di Capuana come sostenitore della tesi più antica. Asserendo che la sua visita riuscì graditissima, ricordò pure l’amicizia del siciliano con il romanziere maltese Levanzin: «Egli ha sempre, come ci ha detto l’egregio amico signor Levanzin Agostino editore dell’«In-Nahla». cercato di festeggiare ogni maltese letterato che si portò mai a Catania». Affermò anche che Capuana si interessò molto «della malaugurata questione della lingua» che, secondo il giornale, «stupidamente si era sollevata qui da un governo spensierato che… ben la sollevò senza badare alle ripercussioni, all’eco, ai riverberi che avrebbe potuto avere (come infatti ebbe) lontano e nella diplomazia europea». Comunque, continua lo scrittore anonimo, «il grande siciliano ha poi saputo colle sue maniere affabili. e squisitamente gentili, e col suo fare espansivo che rammentava… ‘il gentil sangue latino’, accattivarsi l’amore, la simpatia, l’amicizia di tutti anche di coloro che in politica o nelle sue idee letterarie non ne condividono le opinioni». Il giornale ritiene che, anche se Capuana riuscì a evitare la politica, la sua visita ha dato luogo spesso e forse sempre a manifestazione schietta dell’italianità di Malta15. 

È facile sospettare che Capuana fosse consapevole del rischio che correva se si fosse pronunciato pubblicamente in qualche modo su temi altrimenti neutrali come la storia e l’identità di Malta e il rapporto culturale tra l’isola e l’Italia. Arturo Mercieca, poeta e politico, ricorda che durante una adunanza tenuta al Casinò Maltese, una organizzazione che sosteneva l’italianità dell’isola, a Capuana «venne richiesto di presiedere e pronunciare il brindisi d’onore… eravamo ansiosi di ascoltare un forbito discorso del Capuana. Ci toccò però rimanere a bocca asciutta quando egli levatosi a rispondere disse: ‘Signori, io sono uno scrittore, non un oratore; dunque, grazie, grazie, grazie’16». 

 

La conferenza, pubblicata interamente su “L’Avvenire”17, prende le mosse da alcuni dei principi più noti del pensiero letterario dell’epoca ed è tutt’una con le idee caratteristiche dello scrittore. Capuana parla del contegno con cui la Scienza si comporta verso l’Arte e viceversa. Di fronte alle scoperte che hanno rivelato forze fisiche mai prima sospettate, si capisce perché la creazione d’arte è stimata cosa primitiva e infantile. L’Arte non poteva dunque rimanere estranea allo svolgimento con cui veniva radicalmente rinnovato il sapere umano. Siccome nell’Arte non agisce la facoltà superiore dell’intelligenza ma l’immaginazione, gli artisti sono stati costretti a domandarsi fino a che punto l’Arte possa assimilarsi le dottrine scientifiche. Non volevano vedersi tagliati fuori dalla società, sentirsi accusare di agire in un mondo fittizio. 

Così Capuana riassume l’accusa rivolta dalla Scienza contro gli artisti: «Se volete che l’Arte sia qualcosa di vitale e che eserciti una funzione efficace nell’organismo della società, scendete dalle nuvole… Siate apostoli, profeti o poeti… ogni vostra pagina sia un’eco dei vostri dolori, delle vostre aspirazioni, delle vostre lotte… Gridate, urlate con noi, piangete, esaltatevi con noi… Noi non troviamo quasi nessun riflesso, nessun accenno di tutto questo nei vostri lavori d’arte e perciò buttiamo via il volume». Gli artisti avrebbero potuto rispondere che avevano sempre aderito a questi propositi, ma entro i confini della letteratura stessa c’era già la coscienza del rinnovamento. Capuana si sofferma su quella che definisce «la forma d’arte più specialmente moderna, il romanzo», che fino a Balzac era «una specie di fiaba per adulti» in cui «la fantasia… regnava da sovrana assoluta». Con Balzac penetrava nel romanzo l’idea dell’osservazione immediata del luogo e dell’ambiente e nessun angolo della vita rimaneva escluso dalla rappresentazione narrativa. 

Purtroppo Zola passò il confine con cui l’Arte rischia di non riuscire opera d’arte. È giusto trasportare il metodo positivo nello studio del soggetto e inserire nella forma una severità scientifica. Ma pretendere che l’opera d’arte potesse assumere valore scientifico, cioè .far servire la concezione artistica al preconcetto d’una teorica scientifica», è un’assurdità. Capuana ritiene che concetti scientifici, filosofici, religiosi, mistici, estetici hanno inquinato l’opera d’arte, e insiste sul tema centrale del suo discorso: «il carattere precipuo dell’opera d’arte consiste unicamente nella forma che ogni concetto vi prende». Prosegue polemizzando contro l’abuso di “dare al concetto una eccessiva preponderanza sulla forma», e arriva alla sua conclusione più determinante: «compito dell’Arte è creare, fare … concorrenza allo stato civile, mettendo al mondo creature superiori alle creature ordinarie pel fatto che sono creature immortali». Il loro valore sostanziale non consiste nel concetto ma nella forma, e la loro dimensione didattica è incidentale. Capuana cita due esempi estremi che mettono in risalto la perdita dell’equilibrio richiesto dall’atto creativo; l’Arte non deve essere strumento di mistica e sociale propaganda come vuole Tolstoi, e neanche una produttrice di bellezza come vuole D’Annunzio. Queste posizioni sottomettono la forma al contenuto, la letteratura al concetto. «La risposta più ovvia sarebbe l’Arte sia l’Arte e nient’altro che l’Arte… ha un’essenza sua propria, un organismo spirituale da non essere confuso con altri organismi spirituali». Capuana conclude il suo discorso auspicando che l’Arte riprenda la coscienza del suo precipuo valore consistente esclusivamente nella forma, riconoscendo che la sua funzione è veramente diversa da quella della Scienza, della morale e della religione. Il suo invito finale è rivolto agli scrittori maltesi: «che, tra i giovani studiosi qui cortesemente convenuti si trovi già un perfettissimo degenerato cioè un genio capace di produrre tale opera d’Arte da onorare fino alla fine dei secoli questa nobilissima isola alla quale esprimo davanti a voi il mio affettuoso e rispettoso saluto». 

Oliver Friggeri

(*) Abbreviazioni dei titoli dei giornali e di riviste maltesi: 
A – “L’Avvenire”; M. – “Malta”; M.L. – “Malta letteraria”; N. – “In Nahala”; R. – “Risorgimento”. 
(1) Cfr. M.L. I, 5, sett. 1904, pp. 139-144. 
(2) Cfr. A. Deni, Per il giubileo letterario di Luigi Capuana, M.L., VII, 71-72, marzo-aprile 1910, pp. 74-77. 
(3) A. Levanzin, Frak, N, III, 12C, 17/12/1910, p. 954.
(4) A.• I. 155. 13/12/1910. p. 3. 
(5) A., I, 157. 15/12/1910. p. 2.
(6). A. Levanzin. Luigi Capuana. M., XXVIII, 8136, 17/12/1910. p. 2. L’autore maltese racconta lo stesso episodio a Catania anche in N.• III, 121, 24/12/1910. p. 963.
(7) A., I, 158, 16/12/1910, p. 2. 
(8) N., III, 121, 24/12/1910, p. 963; A., I, 162, 21/12/1910, p. 2. 
(9) A., I, 164, 23/12/1910, p. 2. 
(10) N., III, 122, 31/12/1910, p. 971. 
(11) Cfr. M., XXVIII, 8145,28/12/1910, p. 2. 
(12) Cfr. R XXXV, 7921, 29/12/1910, p. ~; XXXVI, 7922, 2/1/1911, p.l.; XXXVI, 7924, 9/1/1911, p. 3; XXXVI, 7925,12/1/1911, p. 3; XXXVI, 7926,16/1/1911, p. 3; XXXVI, 7927, 19/1/1911, p. 3. XXXVI, 7928, 23/1/1911, p. 3; “Risorgimento” aveva già concesso ampio spazio alla visita di Capuana, dando un sommario delle sue attività letterarie e mostrando la propria stima nei suoi confronti (cfr. R XXXV, 7918, 19/12/1910, p. 3).
(13) A., I, 167, 27/12/1910, p. 2; cfr. anche M., XXVIII, 8140, 22/12/1910, p. 2.
(14) N., III, 121, 24/12/1910, p. 963. 
(15) Spectator, Il prof. commend. Capuana a Malta., R, XXXV, 7921, 29/12/1910, pp. 1-2.
(16) A. Mercieca, Le mie vicende, Malta, Tipografia San Giuseppe 1946, p. 92.
(17) Cfr. Arte e scienza – Conferenza dci prof. Luigi Capuana letta ieri nel Collegio Flores, A, I, 167, 27/12/1910, pp. 1-2.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 29-29




 GIORNI E NOTTI 

La luce e il buio 
intrecciano canzoni all ‘ infinito 
in queste nostre vite. 
È melodia la rosa che si apre 
è melodia il fiore che appassisce. 
Hanno un ritmo gli uccelli 
che si librano in volo nell’immenso 
lontano … 
Un andare di passi quasi umano 
si percepisce 
leggero come quello d’un bambino 
lungo il cammino 
del sole sino all’ora della luna. 
C’è la tempesta 
che sconvolge per aria foglie morte 
ma aiuta a rinverdire nuovi rami. 
C’è un forte aroma delle nostre vite: 
amore, 
è l’amore che esala il suo profumo 
sotto i raggi del sole che riluce 
sin che si appaga. 

Eugenia Freire

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 36.




VINCENZO MESSINA, Con rispetto spar- lando, Ila Palma, Palermo, 2006.

 Un libro sconsigliato dall’autore, che si consiglia come diversivo 

Con rispetto sparlando è un esilarante spaccato di vita quotidiana, e lo stile del libro è già rivelato dalle due righe che arricchiscono la copertina: «Questo testo contiene espressioni dialettali scurrili e sgrammaticate. Se ne sconsiglia la lettura a chi è avvezzo a tuccarisilla c’a cammisa; frasi che sicuramente non introducono ad un’ opera arci filosofica e tediosa. L’ autore racconta con tresemplici episodi, tutti e tre ambientati in Sicilia, alcune caratteristiche che facilmente si possono riscontrare nella vita quotidiana. 

Il primo racconto si svolge a Palermo e il protagonista è lo stesso autore che decide volontariamente di imbarcarsi nel lungo e complicato percorso per ottenere la famosa placchetta «H»; non perché ne abbia realmente bisogno ma perché misteriosamente utile e potente. In chiave comica e satirica l’autore tratta il tema tristemente attuale del «tocca e fuggi » per ottenere ciò che si vuole pur non avendone diritto, e della estrema facilità di chi, pur non avendone diritto, riesce ad ottenere la misteriosa «H». 

Il secondo brano è ambientato a Pantelleria. Protagonisti un gruppo di musicisti palermitani che si imbarcano, nel senso letterale del termine, per l’isola per una notte … pantesca. Un transfer tristemente comico a causa di una serie di inconvenienti che attanagliano i musicisti siciliani. Anche qui, a mio parere, si mette in luce la tendenza, diffusa un po’ ovunque, di provare a fregare l’altro; soprattutto quando l’ altro non è della zona. 

Il terzo ed ultimo brano è un episodio tragi-comico che intreccia due realtà della vita maschile: la difficile convivenza tra il sesso maschile e quello femminile e la prostata. Particolarmente piacevole la conversazione tra il protagonista ed il medico, in cui le uscite in dialetto dell’ autore colorano ed aumentano la comicità della situazione. 

Consiglierei il testo ai siciliani ma non solo, grazie anche al «glossario» finale che spiega i coloriti ed appropriati termini dialettali utilizzati. 

Con rispetto sparlando è un libro che si legge d’un fiato, che diverte senza cadere nel banale e che, nello stesso tempo, fa riflettere su piccoli-grandi spunti che emergono dalla lettura. 

Elisa Fontana 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 64-65.




SALVO LOMBARDO, La clandestina dell’Aldilà, Editrice Sicilander, Partinico, 2007.

Un nuovo romanzo, complesso da raccontare, ma coinvolgente da leggere. La sua storia è un pretesto per parlare dell’uomo, della sua vita distratta e sempre di fretta, della sua anima confusa dal frastuono della vita moderna. 

La protagonista del romanzo non è una persona in carne ed ossa, come il lettore si aspetterebbe, ma un Soffio Vitale, Habel in ebraico, che impersona il desiderio dell’uomo di dare un senso alla propria vita, di trovare il significato ultimo della propria esistenza. 

Il libro inizia con la risalita di Habel nell’Eden; espediente che permette all’autore di introdurre il lettore in questo mondo immaginario e di intrattenerlo sulla creazione del mondo, e sul disegno divino. Nella seconda parte Habel viene promossa ad Aghné, non più quindi semplice Soffio Vitale ma Anima completa, e le viene assegnata una missione sulla terra. In seguito a un imprevisto, l’Anima si trova a viaggiare, spinta dalla sua curiosità insaziabile, da clandestina sull’Arca delle Anime. Tutta questa parte è incentrata sul viaggio di Aghné, sui mondi che visita e le anime che conosce. Infine l’Anima, si incarna in una bambina e riesce a portare a termine in modo esemplare la sua missione terrena, l’Amore. La protagonista, prima come Soffio Vitale e poi come Anima, non smette mai di interrogarsi sul perché della vita. Infatti, sia i singolari personaggi incontrati che le esperienze vissute sono espedienti che le permettono di crescere, e giungere all’illuminazione. 

Il lettore, durante questo viaggio, rimane incantato non solo dalla descrizione degli scenari e dei colori, ma soprattutto dalla semplicità e spontaneità con cui vengono trattate tematiche forti e impegnati ve, come l’arroganza, l’amore e la pace. Il linguaggio usato da Salvo Lombardo è semplice, ed emotivamente intrigante tanto da invitarti a leggere d’un fiato l’intero romanzo; ma soprattutto è da notare la fanciullesca ed incantata descrizione dell’ambiente onirico circostante che, attraverso l’emozione e la suggestione dell’ Anima-protagonista, meraviglia anche il lettore. Questo finisce per riflettere ed interrogarsi sulla vita e sui suoi valori. 

L’odissea di quest’ Anima è un misto di fantasia e realtà, sensazioni immaginarie ed altre realmente esperite nei numerosi viaggi di documentazione che, Salvo Lombardo ha compiuto, a supporto della della credibilità del racconto. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 62.




SALVATORE GIULIANO, Corrado Ursi, l’Uomo dell’Amen e dell’Alleluja, collana «Memorie / Testimonianze», Ila Palma, Palermo, 2007.

 Una nuova figura esemplare dell’apostolato cattolico in Italia 

Salvatore Giuliano è riuscito a fotografare la figura del cardinale Ursi e la sua eroica azione pastorale, l’uomo che è stato promotore di una novità assoluta per il suo tempo: infatti, seguendo l’esempio di papa Giovanni XXIII e Paolo VI, convocò, nel 30° Sinodo, non solo i religiosi ma anche rappresentanti del mondo laico, risvegliando l’interesse della comunità cristiana tutta. 

Per la documentazione del testo, Salvatore Giuliano ha utilizzato come fonti gli scritti lasciati dal cardinale alla diocesi, oltre i molteplici articoli, i lavori accademici e le testimonianze orali. Ovviamente, come lo stesso autore afferma, Corrado Ursi non ha mai avuto l’intenzione di creare un manuale di teologia, quindi gli scritti sono sempre da intercalare con le sue azioni pratiche. 

Dopo una motivata prefazione del cardinale Crescenzio Sepe, successore di Ursi nella cattedra di S. Aspreno, il testo si divide in due parti. Nella prima si delinea il profilo umano e spirituale del cardinale, con la descrizione dei passaggi principali: la formazione, il ministero di rettore, l’episcopato e l’esperienza del Concilio Vaticano II. La seconda parte è dedicata all’ illustrazione dei tre pilastri del programma pastorale dell’arcivescovo di Napoli. Si può quindi suddividere in tre sezioni. La prima dedicata alla Cristologia pasquale, che si concretizza nell’eucaristia. La seconda relativa all’Ecclesiologia pastorale, centrata sul vivere intensamente il momento «della tenda», ossia la comunione eucaristica, per poi diventare Chiesa <<della strada», impegnata nell’aiuto missionario. La terza incentrata sulla Teologia ecumenica, con cui il cardinale Ursi riuscì a creare un clima di fiducia tra le confessioni cristiane di Napoli. Per lui la fede in Cristo è fede nella Chiesa, in quanto la comunità dei credenti è soggetto di fede. 

Don Giuliano usa, nel suo testo, un linguaggio lineare, che permette al lettore di crearsi un’immagine completa del cardinale Ursi, con la vita esemplare e il corredo delle sue rilevanti attività sociali, che ne santificano la figura. 

Lisa Fontana

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 59.