Faceva un caldo soffocante quella notte in cui uccisi la mia piccola Aldonza. Il profumo del gelsomino era denso e dolciastro. Il silenzio della notte era squarciato dal latrato di un cane.
Non ricordo se ci fosse la luna nel cielo; ma se ci fosse stata, non avrebbe potuto impedirsi di velare il suo volto per la vergogna e il dolore, mentre la vecchia pianta di gelsomino si contorceva, salendo su per gli spalti del castello a riempire l’aria con l’essenza inebriante dei suoi mille fiori bianchi, così piccoli e così impertinenti.
Quella notte di agosto, io, Antonio Piero Barresi, principe di Militello e signore della terra, consumai il delitto più odioso: mi vendicai dell’innocenza e della purezza. In preda all’ira e alla gelosia, strangolai mia moglie, dopo averla tormentata per ore con domande crudeli e meschine, mentre lei mi guardava sempre fisso negli occhi, negando fieramente ogni colpa.
Spezzai il suo corpo, così fragile e così pervicace come i fiorellini del gelsomino, finché non si afflosciò fra le mie mani, senza opporre più alcuna resistenza. Ma non riuscii a spegnere la luce dei suoi occhi verdi, che mi fissavano ancora dal bel volto senza vita e che continuano a fissarmi tuttora, ovunque io vada.
Se sono sfuggito alla giustizia umana, per via del mio rango, giacché nessuna Corte Criminale ha osato condannarmi, non posso certo sfuggire alla mia coscienza, che è implacabile. Da anni digiuno spesso e mi privo di tutte le comodità. Dormo sul pavimento, ai piedi del letto che ci accolse entrambi, Aldonza e io, ai tempi felici della nostra unione, a contatto con la pietra dura e fredda, come dura e fredda è la pietra che pesa sul suo corpo.
Avevo incontrato Aldonza per la prima volta nel castello di suo padre, Raimondo Santapau, marchese di Licodia. Avevo desiderato possedere i suoi pensieri, prima ancora che il suo corpo. Esile e slanciato, esso non aveva certo la forza di seduzione prepotente delle contadine dalle forme morbide che avevano frequentato il mio letto. I suoi capelli castani erano raccolti in una lunga treccia dai riflessi colore del rame e gli occhi erano di un verde caldo e profondo come l’Oriente, con pagliuzze dorate disseminate in mezzo all’iride e concentrate intorno alla pupilla. Avevano una bellezza ammaliante, luciferina.
I primi mesi dopo il matrimonio furono i più felici. Aldonza era innamorata e l’amore la rendeva bella e florida come una rosa nel suo pieno splendore. Ma c’erano momenti in cui la sorprendevo assente e distaccata, come se i suoi pensieri fossero volati via, chissà dove, inaccessibili al mio possesso. Alle mie domande non sapeva dare una risposta e talvolta aveva una tale difficoltà a tornare in sé che decisi di non farci caso; faceva parte del suo carattere e io l’amavo troppo, per farla soffrire con la mia curiosità. Del resto, la cosa succedeva più di rado, se l’assillavo con domande.
L’inverno molto freddo e una grave carestia colpì il territorio di Militello. A valle la neve imbiancava i tetti delle case che si stringevano come un gregge impaurito intorno alla chiesa di Santa Maria. Le piante di gelsomino dormivano sotto la coltre gelata, mentre i ramoscelli più sottili si arrampicavano disperati verso l’alto, ma ormai ridotti a un ammasso di arbusti secchi da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Antologia che scricchiolavano al solo sfiorarli.
Aldonza mi aveva chiesto il permesso di ospitare i poveri del paese nei locali adiacenti al cortile del castello, per sfamarli e dar loro un riparo dal freddo. Il suo entusiasmo era insolito e imprevisto, più forte della mia riluttanza. E così decisi di dargliela vinta, come si fa a volte con i capricci delle donne, soprattutto quando non costa quasi nulla accontentarle.
Per settimane il cortile fu occupato da una folla di presenze silenziose che si animava soltanto all’ora della distribuzione del cibo, quando la stessa Aldonza compariva in cima allo scalone per sorvegliare che tutto procedesse con ordine. I miei fratelli mi avevano raccontato che in mia assenza Aldonza scendeva in mezzo a quella gentaglia e si soffermava ad accarezzare i bambini. Quando ero presente, lei non osava mai farlo, né feci mai nulla per incoraggiarla.
Prima che finisse l’inverno dovetti lasciarla, per correre in Spagna al fianco di re Giovanni. Quando giunse il momento di separarci, solo i suoi occhi pieni di lacrime tradivano l’angoscia. Il suo corpo rimaneva immobile, senza un gesto, nella penombra di una fredda mattinata invernale. I suoi pensieri mi erano già preclusi. Nell’istante in cui l’abbracciavo, sentivo che per lei era come se già fossi andato via.
Mi allontanavo in groppa al mio cavallo, seguito dagi uomini più fidati, mentre un vento gelido tagliava la faccia ed entrava nelle ossa. Pensavo ad Aldonza e alla tristezza dei suoi occhi. Mi chiedevo come mai una donna intelligente e colta come lei, che spesso mi aveva affrontato in certe discussioni, dandomi prova della loquacità e delle sue conoscenze in vari campi dello scibile, potesse invece, nei momenti in cui erano in gioco le sue emozioni più forti, restare muta e impassibile, incapace di reagire a qualsiasi stimolo, quasi privata improvvisamente dello spirito. Forse era un suo modo speciale per difendersi dalle aggressioni del mondo: opporre sempre una superficie dura e impenetrabile, come la pietra che non conosce il dolore.
Avevo affidato l’amministrazione dei beni al fedele segretario Pietro Caruso. Ci tenevo che vegliasse sui miei fratelli Luigi e Cola, più volte incoscienti e buoni a nulla. Per questa ragione chiesi a Pietro di essere duro con loro e di non soddisfare sempre le loro continue richieste di denaro. Magari avessi potuto immaginare che ciò sarebbe stato causa di tanto odio!
i dalla Spagna in piena estate e mi fermai per pochi giorni a Palermo per risolvere alcune questioni. Fu qui che mi raggiunse un messo che i miei fratelli avevano inviato per portarmi la notizia che Aldonza e Pietro erano diventati amanti e se la spassavano fra feste e ricevimenti.
Non potrei dire con assoluta certezza, se davvero credetti a quell’infamia. Ma essa, per il solo fatto di essere stata pronunziata, mi fece perdere il lume della ragione, e da quel momento diventò impossibile per me discernere la verità dall’inganno. Ecco il motivo dei silenzi e delle stranezze! Ecco spiegato tutto! Adesso mi era tutto chiaro come la luce del sole.
Come furia scatenata lasciai la città e mi lanciai al galoppo in direzione di Militello. Mille pensieri assalivano la mia mente e opprimevano il mio cuore. E se davvero Aldonza mi avesse tradito? Pietro Caruso era un uomo molto galante e di bell’aspetto, talmente da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Antologia abile nella danza, che lo chiamavano “Bieddupedi”. Mi sembrava di vederli, mentre danzavano, e magari ridevano, mentre si abbandonava a gesti e parole che un tempo erano stati solo per me.
A dire il vero, non riuscivo a credere che la mia piccola Aldonza avesse potuto farmi questo. Ma c’era un’idea che mi torturava ed era che, seppure innocente, Aldonza era ugualmente colpevole, per aver fatto sì che una tale infamia andasse per il mondo a macchiare il mio nome.
Giunsi a Militello sul calar della notte, in uno stato di sovreccitazione indicibile. Mi precipitai da Pietro e lo torturai per farlo parlare, ma non riuscii ad ottenere alcuna ammissione di colpa. Lo trascinai sugli spalti del castello e tornai alla carica con le domande, minacciando di buttarlo di sotto.
Non so, forse avrebbe ancora potuto salvarsi, se avesse continuato a negare. Ma all’ultimo momento Pietro non seppe rinunciare a prendersi una rivincita sulla mia caparbietà e insinuò: “Signore, io non ho mai fatto simile peccato, nè mai mi è venuto in mente di farlo, ma, ad ogni modo, se l’avessi fatto, tornerei a farlo”.
Persi il controllo. Il profumo del gelsomino era troppo forte. L’afa era davvero insopportabile. Ero come una furia scatenata, mentre spingevo giù quel disgraziato e in un baleno lo raggiungevo sulla piazza sottostante. Era ancora vivo. Ma non avevo saziato la mia sete di vendetta. Lo legai alla coda del cavallo e lo trascinai per le strade del paese, fino alla casa di sua madre.
A quella vista, la vecchia rimase impietrita dal dolore. Non potevo tollerare l’atteggiamento fiero e le imposi di cantare e suonare con il tamburello davanti al corpo straziato del figlio.
Poi, fu la volta di Aldonza. Ritornato al castello, ordinai che me la conducessero davanti e cominciai a tempestarla di domande crudeli e incalzanti che non sortivano altro effetto, se non quello di farla irrigidire, fiera e dignitosa com’era. Afferrai il suo collo esile e strinsi con rabbia, fino a sentire il respiro smorzarsi in un rantolo leggero.
Calda era quella notte in cui uccisi la mja Aldonza, e denso e dolciastro il profumo del gelsomino. Si sentiva solo il latrato di un cane.
Non so quanto tempo la strinsi ancora e non so se ci fosse la luna alta nel cielo. Quando tornai in me e mi resi conto che era morta, chiamai le guardie e ordinai di appenderla con una corda alla cisterna del baglio.
Fu l’ultima volta che la vidi, la piccola Aldonza! Rimase appesa per tutta la notte, finché qualcuno la tirò giù e la depose in una fossa accanto alla chiesa di Santa Maria. Ma il suo spirito torna spesso a trovarmi per rimanere a guardarmi muto e silenzioso.
Allora il profumo del gelsomino invase l’aria con i suoi effluvi nauseanti, e da lontano si udì un canto triste. Una voce sommessa che ripete all’infinito le parole con cui una vecchia madre, ballando sul cadavere del figlio, mi ha maledetto per sempre: Autu signuri ccu ssa biunna testa mi fai cantari ccu la dogghia in cori a ogni santu veni la so festa e a tia, signuri, viniri ti voli Brigida Fagone.
Brigida Fagone
Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 51-53.