IL «QUADRATO» … E LA SUA CERCHIATURA 

Che cosa siamo 
al di là del quadrato in cui viviamo?
E passiamo la vita dentro quattro pareti riquadrate e lavoriamo 
tra muri divisori, ravvivati 
da tanti quadri appesi 
ove case e paesaggi sono enigmi, 
e fanciulli inquadrati 
sorridono sorrisi su misura. 
I parallelepipedi stradali 
altro non sono che le quadrature 
formali 
di questa nostra vita circolare 
che non quadra tra il mio 
e il tuo quartiere. 
L’occhio del sole 
sembra squadrare il mondo per disfare 
il buio, ma rimane un gioco d’ombre 
nelle teste quadrate, che non fanno 
orientare il quadrante del buon senso. 
È la contraddizione che non svela 
il senso circolare del mistero 
per cui noi siamo al mondo 
ed il dissenso 
della natura e della creazione 
che non consente la sua quadratura 
alla radice. 
Così ognuno si inquadra entro se stesso 
e l’orma 
che il nostro passo lascia 
è solo un’ombra, 
di cui non resta traccia … 

Composizione di Maria de Lourdes Alba ricomposta da Salvator dAnna per condivisione

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 35.




 DUNQUE È FINITA? 

Pane e burro e il riso coi fagioli 
il latte col caffè … 
E l’aroma? Non c’è. 
I tuoi sguardi, il sorriso sulle labbra 
e le parole … 
E l’amore? Non c’ è. 
La macchina da scrivere 
e l’orologio per marcare il tempo 
al lavoro, alla vita … 
Dunque è finita? 

Maria de Lourdes Alba 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 51.




 DOVE LA PACE? 

Dove la pace 
se non negli occhi tuoi? 
Dove si poseranno le mie labbra 
se non su quelle tue dopo il tuo canto? 
Alla scuola dei passeri hai appreso 
la danza e i volteggi negli spazi: 
non serviva la logica del volo.
Smisurato è l’azzurro, senza inizio 
e senza fine, 
come il brillìo continuo dei tuoi occhi, come la vita. 

Maria de Lourdes Alba 

da “Spiragli”, 2008, n. 2 – Antologia 




AVANTI IL DIVORZIO

L’umile verità è il motto che Anna Franchi toglie da Una Vita del Maupassant e trascrive nella prima pagina del suo romanzo Avanti il divorzio (ed. Sandron).

Il titolo contrasta un poco con l’epigrafe, perché manifesta l’intenzione di sostenere una tesi, mentre l’arte del Maupassant, e del Flaubert suo maestro, e di tutti gli osservatori della realtà, aveva ed ha come canone l’obbiettivismo e l’impersonalità più rigorosi. Il che non vuol già dire che i libri di quegli scrittori non contengano insegnamenti; li contengono bensì allo stato – diremo – latente, inespressi, come li racchiude la stessa vita che vi si specchia. Anna Franchi, invece, non solamente sostiene una tesi, ma combatte una vera battaglia contro l’indissolubilità del vincolo matrimoniale; e, se non ce lo dicesse il titolo dell’opera sua, ce lo direbbe la calda prefazione che per essa ha scritto il Berenini.

Il romanzo diretto espressamente a dimostrare una tesi filosofica corre il rischio di sacrificare le ragioni dell’arte a quelle della filosofia. Per far toccar con mano la necessità del divorzio, l’autrice ha accumulato sul capo di Ettore Streno, marito di Anna Mirello, tali e tanti vizi e colpe e turpitudini e infamie, da farne un essere ributtante e mostruoso. Non è che, sciaguratamente, uomini simili non esistano in quella viva realtà dove l’autrice, con virile proponimento, esercita il suo spirito indagatore; né è da negare al romanziere il diritto di rappresentare, dove occorra, anche l’orrido; ma la rappresentazione ha da essere governata dal gusto artistico, dal senso della bellezza.

Tutta presa dalla tesi, l’autrice bada invece non tanto a produrre un’impressione estetica quanto a dimostrare l’urgenza d’un provvedimento sociale; e il male è che la stessa evidenza della dimostrazione, alla quale ella sacrifica la bellezza dell’impressione, potrà essere negata o semplicemente discussa.

Dinanzi all’opera d’arte, il lettore resta più o meno commosso secondo la maggiore o la minore efficacia dell’artista; invitato a persuadersi d’una verità, egli può discutere, ed osservare allora, per esempio, che se il matrimonio della protagonista è riuscito tanto male, la cosa non era imprevedibile, perché Ettore Streno, fin da quando si presentò ad Anna Mirello, rivelò qualche cosa della sua pessima indole, tanto che la giovane fidanzata provò disinganni, amarezze e qualche moto di repulsione istintiva. Lo sposò, nonostante, con l’illusione dell’amore, per le lusinghe della vanità, in uno stato di mezza incoscienza e quasi d’automatismo; e qui appunto l’osservazione della scrittrice è felicissima; ma il lettore chiamato a pronunziarsi sulla moralità del caso, osserverà, se è avversario del divorzio, che la protagonista non ha tanto da prendersela con le leggi della famiglia, quanto contro la sua leggerezza ed incoscienza.

Un fautore del divorzio obbietterà, al contrario, che appunto perché gli uomini e particolarmente le donne, da giovani, possono essere incoscienti come Anna Mirello, appunto perciò la società deve dar loro la possibilità e il mezzo del rimedio. Il partigiano del matrimonio indissolubile replicherà con altre ragioni, alle quali l’avversario non mancherà di opporre altre; ed ecco nascere un dibattito dove c’era da produrre una commozione.

Ora, a provocare un dibattito utile è lecito credere più adatta l’esposizione dei casi reali e non dei romanzeschi. Dall’opera d’arte, senza dubbio, s’irraggia quella «luce vivificatrice» della quale parla il Berenini; ma disgraziatamente, l’intenzione di far opera artistica non s’accorda con quella di fare nello stesso tempo opera persuasiva; ed a quest’ultima giova molto più la «nuda, arida forma della statistica, e la severa autopsia psicologica e antropologica ».

Federico De Roberto

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 32-33.




REQUIEM PER UN IMPERO DEL NEGRO B. H. OBAMA 

 Una poesia-presagio di Joanyr de Oliveira 

 

Barack Hussein Obama 
punta la prora sulla Casa Bianca. 
Viene da lontananze il suo sorriso 
sventolando bandiere solidarie 
d’amore 
nel crogiolo di razze ch’è nel mondo. 
A te, compagno Obama, il benvenuto! 
La terra è pronta 
a seguire i tuoi passi 
per l’allegria ch’emana dal tuo viso. 
Mentre intristisce la tua patria bianca 
e un mostro di mattoni 
(ormai in-stabili) 
e i posteri (i suoi postumi?) 
decretano la fine del gigante 
nel coro di lamenti di un tramonto 
nel caos, 
sii benvenuto, amico . .. 
(Gli imperi 
hanno tutti un’aurora ed un tramonto: 
così awenne il tracollo dei Macedoni, 
dei Romani, dei Franchi, degli Inglesi 
o di altre potenze, grazie a Dio . .. ) 
Chissà che alle tue mani, 
amico Obama, 
non tocchi di dirigere il cammino 
dell ‘avido Zio Sam alla sua fossa, 
preludio 
al requiem che Wall Street 
ha guadagnato. 
Già l’USA più non usa calpestare 
l’onore 
di popoli indigenti e indifesi, 
né osa proclamarsi più sceriffo 
del mondo intero .. . Il dollaro 
smagnsce 
e insonne si corrode nel confronto 
con l’euro neonato. Non gli resta 
che il ripudio di tutti i meridiani. 
Caro fratello Obama, 
è pena che tu sia entrato in scena 
in un clima confuso di tragedie, 
costretto a camminare tra le fiamme 
appiccate nel cuore dell’Oriente 
da incaute mani. 
Meriti dunque un canto che confonda 
quanti sotto qualunque latitudine 
da “Spiragli”, 2008, n. 2 – Antologia 
stanno a discriminare e che risuoni 
sui ruderi del continente nero 
sino all’ estremo sud. 
Di te conservo tristi ricordanze 
di quelli che preclusero ai tuoi avi 
le porte ai sogni. 
Anche se in te confido, amico mio, 
e nella gente tua semplice e onesta, 
labirinti antivedo e abissi, il buio 
dalla mano di Dio predestinato 
sui vaticini di profeti falsi 
per i falsi cristiani, falsi amici 
dei popoli, dell ‘uomo, 
cO,struttori di imperi che hanno sparso 
lacrime sulla terra. 

Brasilia, 8 giugno 2008 

Joanyr De Oliveira

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 46-55.




BABELE

 lì dove Iddio confuse le lingue della terra. 
Genesi, 11,9 
Sogni 
accesi sui gradini della notte. 
Dove risiede il Dio 
con lo scettro di fuoco sui reami? 
Lingue di pietra 
in abissi di simboli. Fonemi 
in processione 
nelle forme febbrili 
dell’ invisibile. 
Ecco Babele, 
che si distende lungo le muraglie 
del tempo. 
Le gole nelle mani doloranti 
e in spirali di vento. 
Joanyr de Oliveira 

Tempo de ceifar, Thesaurus, Brasilia, 2002

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 45.




Palermo 1890, terra promessa nella visione romanzesca di Paul Bourget 

di Jean Paul De Nola 

Più di una volta – in altri momenti, piuttosto remoti, ed in altre sedi1 – ho avuto la grata occasione di attirare l’attenzione sulla presenza in Sicilia nell’inverno 1890-91 del romanziere francese Paul Bourget e della giovane moglie, Minnie David, e sulle ricadute letterarie di tale soggiorno. 

La ricaduta più importante sarà il romanzo La Terre Promise, concepito nella capitale dell’isola – più precisamente nell’Hotel de France2 in piazza Marina -, steso tra settembre del 1891, a Beaulieu, ed aprile dell’anno successivo, a Roma, per essere pubblicato a Parigi nel 1892. 

La trama del romanzo si svolge a Palermo da novembre 1886 a febbraio 1887, dunque più o meno la stessa stagione durante la quale lo scrittore aveva soggiornato in città, il che gli permette di darci osservazioni meteorologiche concordanti, e che lo sono rimaste. Il novembre siciliano, soave e luminoso, si oppone al novembre parigino, «freddo, sinistro e nero». Dicembre resta clemente, ma riserva anche giornate di pioggia torrenziale, di vento scatenato, di scirocco polveroso e bruciante, che contrasta con certe albe fredde dell’ inverno isolano. 

Il titolo La Terre Promise potrebbe alludere alla città climatica di Palermo e alla sua Conca d’Oro, la cui aria pura garantiva – in quel tempo! – un miglioramento rapido per i malati e una guarigione completa per i convalescenti. Ma quella «Terra Promessa» indica piuttosto il lido sereno e piacevole ove presume di approdare uno scapolo parigino, Francis Nayrac, dopo aver lasciato il mare tumultuoso delle avventure prenuziali; si tratta della felicità tranquilla che il matrimonio con una giovane di ottima famiglia e alta moralità permette di sperare. Ma tale speranza non verrà esaudita, perchè il diavolo ci metterà la coda. 

Nello stesso albergo che Nayrac ha scelto per trascorrervi un inverno gradevole in compagnia della fidanzata, Mademoiselle Henriette Scilly, e della futura suocera, convalescente, in quell’albergo – che Bourget chiama «Hotel Continental» – sbarca, senza averlo fatto apposta, la sua ex-amante, da lui accusata dei più neri tradimenti, ma la cui innocenza risulterà alla fine palese. Quella signora, Pauline Raffraye, diventata vedova, e gravemente malata, è madre di una ragazzina, Adèle, la cui paternità è da attribuire a Francis. Questi ritiene che Madame Raffraye sia venuta a Palermo per ricattarlo in presenza delle due donne virtuose, madre e figlia, che ignorano tutto del suo passato libertino. 

A questo punto bisogna segnalare che Bourget si definiva – in qualche preziosa confidenza che ho raccolta nel mio libro Paul Bourget à Palerme (cit.) – «adolphiste», cioè incapace di troncare, al momento del matrimonio, ogni precedente legame, proprio come il protagonista dell’ Adolphe di Benjamin Constant non riusciva a formalizzare la fine del suo amore per ElIénore. Ora, con tre antiche fiamme il romanziere non si era ancora deciso a rompere definitivamente. Si tratta probabilmente di tre belle Israelite, tutte e tre maritate: la Triestina Louise Morpurgo, sposata con il banchiere Louis Cahen d’Anvers, la di lei cognata, Louila Warschawska, Ucraina, moglie del compositore Albert Cahen d’Anvers (che possedeva un castelletto settecentesco a Champs-sur-Marne), e Maria Warschawska, sorella di Louila e consorte di Edouard Kahn. Dobbiamo queste rivelazioni alla grossa monografia di Michel Mansu3, anche se ho dovuto «sollecitare» molto il testo di questo studioso, particolarmente discreto e reticente quando si tratta di svelare rapporti sentimentali, che lui sa annegare nel mare dei particolari eruditi. 

Nei tormenti dove si dibatte il fidanzato Francis Nayrac è lecito vedere una proiezione autobiografica del timore di Bourget, novello sposo, di vedere apparire nella hall dell’ Hotel de France una di quelle tre pregresse «ispiratrici»: Louise, Loulia o Maria … Possiamo aggiungere che Minnie David, Ebrea anche lei, come le famiglie Cahen, Morpurgo, Poliakoff, Warschawska, e probabilmente Kahn ed Ephrussi – che Bourget frequentava a Parigi -, era stata «demoiselle de compagnie» in casa di Louise Cahen d’Anvers. E aggiungiamo ancora che Minnie «était persécutée par le souvenir du passé de son mari dont elle [était] jalouse si curieusement et rétrospectivement»4. 

A proposito, come si comporta Francis in presenza dell’inaspettata signora? Si lascia prendere dal panico e si conduce maldestramente. Non riuscirà a farsi perdonare da Madame Raffraye le sue ingiuste offese, ma nello stesso tempo vede rompere irrevocabilmente il fidanzamento con Mademoiselle Scilly, la quale decide di votarsi ormai a Dio per espiare le colpe dell’ex-fidanzato, colpevole di aver abbandonato la piccola Adèle, colpevole soprattutto di aver mentito e recitato la commedia. 

La Terre Promise appartiene alla seconda maniera di Bourget, quella che inizia nel 1889 con Le Disciple, per culminare nel 1901 con la conversione completa dello scrittore al cattolicesimo. Il romanzo ottempera quindi ad una triplice direttiva letteraria: la psicologia (analisi delle anime tormentate di Francis, Henriette, Pauline), l’idealismo (pittura dell’ alta borghesia, ben vestita e benpensante, della Belle Epoque) e la moralità (implicita condanna dell’ adulterio, del mancato riconoscimento dei figli naturali, della menzogna). 

Esistono due testimonianze inedite sulla permanenza palermitana di Paul Bourget e di sua moglie Minnie David: i diari di viaggio della coppia, che ho potuto consultare nella biblioteca dell’Istituto Cattolico di Parigi, e anche citare e commentare nel mio articolo «Nouveaux témoignages sur la présence de Paul et Minnie Bourget en Sicile» (cit.). Ma laddove i quaderni napoletani del romanziere – pubblicati, insieme a quelli della moglie, da M.me Martin-Gistucci5 – contengono note erudite che svelano uno studio approfondito delle opere d’arte viste (chiese, tombe, statue, affreschi, quadri), non c’è nei diari palermitani del Nostro alcun accenno alla città di Palermo o ai paesaggi isolani. Non vi troviamo altro che commenti di letture, pulsioni narrati ve, qualche verso improvvisato, alcune citazioni di autori. Non c’è, ripetiamolo, alcuna annotazione relativa a monumenti od opere d’arte; a maggior ragione non c’è alcuna scenetta schizzata al vivo, alcuna menzione delle persone conosciute sul posto. Un tale diario Bourget avrebbe potuto tenerlo tanto a Parigi, a casa sua, quanto a Palermo, all’Hotel de France; non è affatto una relazione di viaggio. 

Anche Madame Bourget ha lasciato nelle sue pagine siciliane solo appunti di letture, meditazioni, poesie, a parte due relazioni di gite fatte a Girgenti (in compagnia del principe Francesco Lanza di Scalea) ed a Segesta, tanto per far cosa gradita al marito: «Paul desidera che io scriva a memoria tutto quanto potrò ricordarmi sulla Sicilia, perché il nostro soggiorno in questo paese non rimanga senza frutto per il mio sviluppo morale»6. 

Ma almeno il romanzo le cui vicende Bourget decise di ambientare a Palermo, La Terre Promise, l’avrà ispirato un po’ meglio di quanto lo lasciano presagire i suddetti diari di viaggio o anche quelle Sensations d’/tafie (1891), che non varcano lo Stretto di Messina? In altre parole: il romanzo ci offre un’evocazione di Palermo negli anni 1890? Temo proprio di no: questa città per lui non è altro che una scenografia teatrale. La trama si sarebbe potuto svolgere parimenti ad Algeri, al Cairo o nell’isola di Madera, gli altri luoghi climatici che i medici di quel tempo consigliavano ai propri pazienti. 

La scena è allestita, non lo neghiamo: vediamo per esempio Villa Tasca, magnifico giardino subtropicale. Questo sito si presta ad una descrizione diurna e soleggiata (nel l° capitolo de La Terre Promise) e ad un’altra, notturna e sepolcrale, nel capitolo V. Romanticamente, le due descrizioni riflettono lo stato d’animo, prima sereno, poi disperato, del protagonista del romanzo. O vediamo l’ Hotel Continental, costruzione ottocentesca che doveva sorgere nell’area occupata oggi dal parcheggio del Jolly Hotel: l’edificio era dotato di un terreno da tennis, di una cappella anglicana e di un tempi etto greco. Ma probabilmente il romanziere ha inventato quell’Hotel Continental, perché il fabbricato di cui i vecchi Palermitani conservano la memoria non era destinato a funzioni alberghiere. 

Comunque, dalle finestre della rotonda di quell’albergo immaginario si scopriva un triplice panorama: il mare; il Foro Italico (già Borbonico), i due porti (mercantile e di diporto), il Monte Pellegrino; la città e la Conca d’Oro. 

L’autore ci porta a spasso nel Giardino Inglese, nei cui dintorni Madame Raffraye affitterà un villino; si passa da Monreale e dal sobborgo della Rocca; troviamo qualche accenno alla Cattedrale, ai musei, ai Quattro Canti di Città. Ma Bourget non si ricorda il nome del Corso Vittorio Emanuele, che fu il Cassaro degli Arabi, la Via Marmorea dei Normanni, la Via Toledo degli Spagnoli. D’altronde anche Goethe, nella /tafienische Reise, si mostra poco preciso: parla semplicemente della «strada più lunga», che percorre la città «dal mare fino alla montagna» (che sarebbe l’attuale Corso Vittorio Emanuele, con il prolungamento di Corso Calatafimi). 

Tutto questo rimane visibilmente una scenografia composta di alcuni must turistici. Nessun rapporto lega i quattro principali personaggi, frequentatori di Cosmopolis, alla popolazione cittadina. Appena troviamo un riferimento alla «strette botteghe dove i mercanti stanno silenziosi ed indifferenti come nei bazar turchi» ed alle «vetture cariche di finocchio e dipinte con scene rozzamente colorate». A prescindere da questi due accenni rapidi, il popolo ed il colore locale non occupano nessun posto nel libro; questo non deve stupirci, perché nel 190l vedremo che i quaderni napoletani del romanziere non daranno spazio all’atmosfera particolarissima della città più pittoresca d’Europa (anzi, la sola città orientale che non abbia un quartiere europeo, come disse un viaggiatore). 

Dirò di più: non solo i personaggi della Terre Promise non hanno contatti con il popolo, non speravo tanto, ma essi non tengono rapporti con i ceti alti della città dove trascorrono quattro mesi della propria vita. «Non conosciamo nessuno in città», dice Madame Scilly. E infatti la signora, la signorina e il giovane non prendono i pasti nella sala da pranzo dell’albergo, possibile luogo di socializzazione, ma nel salotto della propria suite; essi non visitano quasi mai la sala di lettura dell’esercizio, scendono a malapena in giardino, hanno portato con sé i propri domestici da Parigi. Guardando da più vicino, scopriamo che frequentano lo stesso, per necessità, alcune persone: alla cattedrale, il confessore, Francese per caso; il medico che hanno scelto, il dottor Teresi, che ha lo studio in via Maqueda e parla ottimamente la loro lingua; gl’impiegati della banca7 dove i nostri villeggianti hanno a che fare, impiegati che Mademoiselle Scilly tratta comicamente da «maffiusi» (alla siciliana, ma con doppia f). 

A questi tre tipi di frequentazione forzata – il prete, per la salvezza dell’ anima, il medico, per la salute del corpo, la banca, per i bisogni del portafoglio – si aggiunge, pure per forza, la figura del proprietario dell’ albergo, il cavaliere Francesco Renda, ma si tratta di un personaggio talmente senofilo e anglomano che egli rimane Italiano solo per l’anagrafe: mandava a Londra il bucato da lavare! 

Neanche Pauline Raffraye conosceva a Palermo qualcuno al di fuori del proprio medico. 

Nondimeno Paul e Minnie Bourget avevano conosciuto la buona società isolana durante quei mesi della loro permanenza: esponenti dell’ aristocrazia, come i principi Lanza di Scalea, Lanza di Trabia e Tasca di Cutò; letterati come Ferdinando di Giorgi, Federico De Roberto, Giuseppe Pipitone Federico, Ignazio Virzì; giocatori al Club Geraci8 ed al Circolo degli Avvocati; andavano talvolta a teatro (Garibaldi, Mangano, Massimo). Si ha l’impressione che la coppia francese considerava Palermo una città coloniale, dove gli stranieri escono raramente dai quartieri «bianchi». Sappiamo che, se Palermo possiede certi rioni di origine e apparenza araba, ne ha altri, contrariamente forse alla Napoli ottocentesca, dove ci si potrebbe credere a Parigi o a Milano. Fino a ieri qualche signora degli ambienti consolari si spostava unicamente dal Circolo della Vela a Villa Igiea e dali’ Hotel des Palmes al Club dell’Unione, ignorando tutto della miseria, dei misteri e del fascino dei quattro antichi mandamenti. A dir il vero, bisogna osservare che gli amici siciliani dei Bourget non facevano nulla per incoraggiare l’interesse per gli aspetti popolari della città. Non leggiamo nel diario intimo di Ferdinando di Giorgi9 che un movimento di curiosità dei coniugi Bourget che li spinge ad entrare in un teatro dei pupi è oggetto della sorpresa un po’ scandalizzata del giovane dandy? In ogni modo, né l’osservazione del ceto basso, né l’amicizia con la gente più raffinata hanno lasciato tracce nel romanzo, forse neanche nella memoria di Paul Bourget. I personaggi del suo romanzo si muovono dunque davanti ad una scenografia di cartapesta. 

Il resto della Sicilia non è trattato meglio della capitale, se eccettuiamo un viaggio in ferrovia da Palermo a Catania10, che fa apparire agli occhi di Francis Nayrac alcuni scorci sul paesaggio: mare, monti e pianure. Catania è definita «una strana città dove le circostanze lo imprigionavano». Quella «stranezza» della città etnea non è spiegata, ma la possiamo attribuire facilmente alla nerezza della pietra lavica servita alla ricostruzione, e alla monotonia della pianta urbana, tracciata con la funicella dopo il disastroso terremoto del 1793. 

I dintorni della città, per quanto aspri siano, svegliano un certo interesse nel romanziere ed offrono un contrasto con il paesaggio ameno che circondava Palermo. Contrariamente alla teoria romantica della natura vista attraverso uno stato d’animo – il paesaggio sembra allegro quando siamo felici, pare triste quando riflette la nostra tristezza11 – Bourget crea qui un’opposizione a forma di chiasmo: angosciato, Francis non sopportava più l’orizzonte tranquillo di Palermo, mentre la cupa landa etnea gli procura quasi un sollievo. 

Si può concludere che, sia nella Terre Promise che in un successivo romanzo, ambientato a Roma, Cosmopolis (1893), le due città – il capoluogo dell’isola e la capitale nazionale – forniscono all’azione dei due romanzi solo uno sfondo intercambiabile, dato che Bourget non vuole dipingere un ambiente caratteristico, ma l’alta società internazionale, chiaramente spersonalizzata, e che egli mira soprattutto alla «verosomiglianza complessiva», per forza un po’ opaca, del paesaggio urbano e naturale12. 

Jean Paul De Nola

NOTE 

1 Paul Bourget à Palerme et d’autres pages de littérature française et comparée (Paris, Nizet, 1979). Il volume contiene quattordici lettere inedite di Paul Bourget nonché un «pasti che» dello stile del romanziere francese, Un viaggio di Larcher in Sicilia, dovuto allo scrittore palermitano Ferdinando di Giorgi (1869-1929). 
– «Nouveaux Témoignages sur la présence de Paul et Minnie Bourget en Sicile», in: Paul Bourgel el l’Italie, a cura di Marie-Gracieuse Martin Gistucci (Genève, Slatkine, 1985). Quel mio saggio riecheggia i diari dei coniugi Bourget in Sicilia e contiene sei lettere inedite al principe e alla principessa Lanza di Scalea. 
– «Palermo, città climatica» , in : Palermo, mensile della Provincia, agosto-settembre 1994, pp. 60-61. 
2 Più tardi trasformato in Casa del Goliardo e recentemente restaurato, a cura dell’Università di Palermo, sotto il Rettorato del prof. Giuseppe Silvestri. 
3 Un Moderne, Paul Bourgel, de l’enfance au Disciple, Paris, Les Belles-Lettres, nouvelle édition, 1968. 
4 Estratto dal diario intimo di Giuseppe Primoli, citato da Silvia Disegni , «Lettres de Bourget au comte Primoli», in : Revue d’Histoire Littéraire de la France, juin
2009, pp. 427-448. 
5 Journaux croisés, s.1. (Chambéry), Centre d’études franco-italien, Universités de Turin et de Savoie, 1978. 
6 Traduco una citazione del diario di Minnie Bourget, riportata in «Nouveaux Témoignages…» (cit.). 
7 Tale banca, il Credito Siciliano Orientale, si sarebbe trovata pure in via Maqueda, in un palazzo antico costruito per un luogotenente di Pietro d’Aragona. Ma le guide
dell ‘ epoca non menzionano nessun istituto bancario di questo nome. 
8 Nell’omonimo palazzo sul Corso Vittorio Emanuele, rimasto diroccato dalle bombe della seconda Guerra mondiale. 
9 Di cui ho citato alcuni brani in Paul Bourget à Palerme, ciI. 
10 Il percorso durava quasi otto ore più di un secolo fa; oggi tre ore, purché non intervengano ritardi o scioperi. Ma una lettera arrivava in ventiquattro ore da Palermo a Catania; nella stessa città giungeva anche in giornata. 
11 Come sopra abbiamo potuto costatare nell’evocazione diurna e notturna di Villa Tasca. 
12 Marcello Spaziani ha illustrato, nel saggio «La Roma di Paul Bourget» (in: Paul Bourget et l ltalie, cit.), il procedimento di «photomontage» con cui Bourget ha evocato la Città Eterna in Cosmopolis. 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 17-21.




 INTIMITÀ GRAFICA 

Stringi il mio corpo-sei senza interlinee 
rimani unito a me senza uno spazio 
e poi scriviamo un titolo d’amore 
su due colonne. 

Lenita Miranda de Figueiredo 

(da Meia noite especial, Ila Palma, Sào Paulo) 

(Trad. di Renzo Mazzone)

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 51.




 Nella pensione della Raimunda 

racconto di Paulo Dantas 

A Simao Dìas, mia città natale, terreno della mia infanzia, c’è un largo della matrice con tante palme imperiali. Ricordo bene che in un canto c’era la pensione gestita dalla Raimunda, che passava per figlioccia di mio padre. Era una signora un po’ scaduta in anni ma d’un’allegria che contagiava tutto e tutti. Sempre un sorriso in bocca. 

Nella casa c’era una camera riservata dove lei amava ricevere ospiti illustri di passaggio, che del resto godevano di un trattamento speciale, la cosiddetta camera dei principi. 

La Raimunda era esperta in assedi amorosi, cui i gentiluomini stentavano a sottrarsi. Una volta capitò a un romantico senatore del Sergipe, il quale, per sottrarsi all’insidia, pensò di venir meno … L’indomani la Raimonda non risparmiò la notizia. Il che per qualsiasi uomo è la fine. 

Una notte, anch’io fui vittima degli assalti, ma restammo buoni amici, avendo prima assistito a un film melodrammatico: Imitazione della vita, con la Raimunda sciolta in un fiume di lacrime. Lei piangeva ed io piangevo, in un soave convivio. Senza dopo. 

Ma ora viene il meglio. Una notte arrivò in pensione un uomo strano, tipico esemplare dell’ antropologia turistica: era andato a raccogliere materiale di prima mano per un romanzo sulla guerra dei Canudos; aveva esplorato vari villaggi dell’interno, dove gli abitanti diffidenti non aprono bocca. L’uomo non era altro che il romanziere peruviano Mario Vargas Llosa. 

Era notte e il popolo della pensione era nel sonno. Lui a letto, in una vestaglia verde e nera, alla luce di un lume da comodino, leggeva Os Sertoes di Euclides da Cunha. 

Fu allora che irruppe in camera la Raimunda esclamando: «Eta homem danado de bonito!» nella sua lingua di casa. 

Il letterato, preso alla sprovvista, si chiuse a riccio protestando: «Yo nada disso, non non», un misto luso-hispanico. 

Non invento storie. Fui testimone oculare. Vidi il romanziere gentiluomo, svestito così com’era a letto, correre per il largo della matrice e la Raimunda appresso a chiamarlo come si chiama un cagnolino scappato dalla cuccia. 

E chiaro che un uomo così, adusato a donne di mondo e d’ogni lingua, giammai poteva intendere la sfrenatezza di quella donna cruda. 

Il gran romanziere non aveva intuito un gran tema da romanzo. 

trad. Renzo Mazzone 

da «Literatura Brasileira», n. 45, Sào Paulo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pag. 43.




VINCENZO BORRUSO, Alle radici della 194/78. Pratiche abortive e controllo delle nascite in Sicilia, collana di studi sociologici «Processi culturali, Ila Palma, Palermo, 2007.

Antiche pratiche abortive nella Sicilia contadina 

L’aborto è una piaga sociale fin dalla notte dei tempi; anche nell’antichità le maternità indesiderate erano spesso oggetto di decisioni estreme, mai semplici da prendere. Solo nel ‘900 si è affacciata, e poi diffusa, la tesi che lo Stato debba garantire alle donne che si ritrovano in questa situazione di potere decidere (da sole) se interrompere la propria gravidanza. Fino al 1975 l’aborto era in Italia ancora una pratica illegale: uno degli ultimi paesi europei a considerarlo un reato. Ciò non significava che gli aborti non avvenissero: anzi le donne italiane, già svantaggiate da una legislazione punitiva nei confronti della contraccezione, quando incappavano in una gravidanza non voluta si dovevano rivolgere clandestinamente alle famigerate mammane, donne senza scrupoli che, con mezzi assolutamente non idonei, risolvevano il problema, talvolta al prezzo della vita. 

A rivivere il clima di quegli anni, il dranuna dell’aborto clandestino, è il siciliano medico-scrittore Vincenzo Borruso, nel libro Pratiche abortive e controllo delle nascite in Sicilia, edito quarant’anni fa in maniera quasi clandestina per lo scalpore che destava il tema trattato, ed ora in nuova edizione con il titolo Alle radici della 194178, proprio perché la legge 194 è riuscita in gran parte a eliminare la piaga degli aborti clandestini. 

Il libro è il risultato di una accurata indagine sul campo e un excursus sulle tradizioni popolari siciliane e non siciliane in merito, sul controllo delle nascite nella storia, sulle legislazioni dei vari paesi. Molto articolato e interessante è il capitolo dedicato alla consistente classificazione dei farmaci utilizzati e capaci, a dosi adatte, di provocare un aborto. Tra questi vale la pena di ricordare i veleni minerali, sconosciuti alle giovani generazioni, come il fosforo bianco che veniva ricavato dalla infusione delle capocchie dei fiammiferi, o tra gli alcaloidi il tabacco, la cui nicotina è capace di produrre contrazioni, e la cosiddetta segale cornuta, la cui droga è ricavata da un fungo parassita che, nelle annate piovose soprattutto, innesta le spighe della segale. Ancora l’olio di ricino, la ruta, lo zafferano, il prezzemolo che nella storia dell’ aborto criminoso e della medicina in generale in Sicilia occupa un posto a sé. Interessante è anche il capitolo dedicato alle manovre fisiche (marce forzate, il sollevamento e il trasporto di grossi pesi, i bagni caldi e freddi …) e alle applicazioni strumentali (ago ad uncinetto, l’ago da materassaio, pezzi di fili di ferro, stecche da ombrello, stecche da arbusto, spilloni da capelli da calza …) nella provocazione criminosa dell’aborto che hanno seguito, modificandosi, lo sviluppo dell’ arte medica e di quella ostetrica in particolare, così come è successo per l’uso di farmaci e droghe. Oggi, per fortuna, molte di queste situazioni non si verificano più. La medicina è cresciuta così come è cresciuta l’istruzione delle donne e delle coppie. 

Riprendere queste pagine, ricordare l’ambiente sociale e culturale dal quale hanno avuto inizio le battaglie, ricordare le difficoltà esistenti per una corretta educazione alla salute, è sicuramente, come sostiene l’autore, di grande utilità per fare comprendere ai cittadini i mutamenti che i progressi della medicina hanno provocato nei rapporti fra l’uomo e le malattie e nella percezione dei bisogni di salute all’ interno della società contemporanea. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 55-56.