PASQUALINO BARRECA, Lerodìa, prefazione di Dante Maffia, collana «Poesia/ Oggi», I.l.a. Palma, Palermo, 2003. Lerodìa,

Lerodìa, o delle piccole cose di un magistrato-poeta 

«Occorre che 1’amore assuma la sua vera forma e dimensione: una finestra sul mondo che crea il vero pensiero, mentre la poesia resta la sola memoria del tempo che registra per intero l’essenza dell’uomo.» 

Si avverte già da queste poche righe, tratte dall’ epigrafe del magistrato Pasqualino Barreca e riportata da Dante Maffia che ha curato la prefazione al libro Lerodìa, o delle piccole cose, l’esigenza di lasciare una traccia del proprio passaggio sulla terra, di dire al mondo che, nonostante le avversità e il dolore, la vita è piena di ricchezze e soprattutto di amore; quell’ amore che Barreca ha il merito di saper raccontare nelle percezioni, nelle sensazioni. 

In questo libro, che non a caso s’intitola Lerodìa, o delle piccole cose, il poeta medita sul mondo, sull’uomo, sulla presenza umana nella storia. Spesso, nei suoi versi, ricorre il senso del nulla, delle stagioni che passano, della vecchiaia: Temo la vecchiaia / con la vista spenta, / l’udito debole le carni stanche e flosce, della morte: La morte gioca col vecchio / come il gatto col topo; e nonostante si renda conto che molto è stato distrutto, alterato o reso inutile, quando i suoi versi toccano l’amore si fanno leggeri, penetranti, insinuano l’unico orizzonte oltre il quale è ancora salvo un futuro possibile, la speranza: Ma per l’uomo l’amore è la vita / il dolore del cuore / il principio del sogno / la luce sperata / la finestra aperta sulla scena del mondo. 

Una poesia ricca di riflessioni, di pensieri: pensare è parlare senza parole / è solo sentire, piena di momenti e battiti umani resi con grazia e delicatezza poetica, e ciò contribuisce a renderla varia ma pure limpida. 

C’è nei versi la vita, ci sono i sentimenti, le sensazioni del poeta, i suoi ricordi di una Sicilia che egli ridisegna non con tratti convenzionali ma attraverso stilemi essenziali; la sua poesia è fatta di immagini concrete, dipinte in modo vigoroso. Ciò che colpisce dell’arte di Barreca è l’autenticità del linguaggio e il poeta non si preoccupa, come sostiene Dante Maffia, di adoperare vari registri linguistici. La sua poesia non ha timori riverenziali; è originale e mira a ricavare suggestioni, sempre con naturalezza creativa, Autenticità ma pure nitidezza di linguaggio, che esprime momenti particolari, di ispirazione. Una poesia ben organizzata e realizzata, ricca di realtà umana e pure di denuncia. 

Un libro ben articolato, una scrittura dove ognuno di noi si può ritrovare, in uno stile semplice ed efficace, ricco di sensibilità umana. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 51-52.




 PAOLO PINTACUDA, Il paese delle ombre. Sceneggiatura per un film sui desaparecidos,collana «Scene & Schermi», I.l.a Palma, Palermo – São Paulo. 

I desaparecidos nella cultura. Un dramma da non dimenticare 

Tra il 1976 e il 1983 in Argentina scomparvero 30 mila cittadini: oppositori politici, intellettuali, studenti, sindacalisti, religiosi e persino bambini. Furono sequestrati , torturati e fatti sparire nel nulla. La repressione fu parte di un piano preordinato e sistematico, eseguito da militari agli ordini dei comandi delle forze armate. Ebbe così inizio il più grande genocidio della storia argentina. Le operazioni venivano compiute nei posti di lavoro dei ricercati o per strada in pieno giorno, ma la maggioranza dei sequestri avveniva di notte, in casa delle vittime. La vittima veniva catturata e incappucciata, poi trascinata fino alle macchine che aspettavano mentre il resto del gruppo rubava tutto quello che poteva, minacciando il resto della famiglia. Anche nei casi in cui i vicini o i parenti riuscivano a dare l’allarme, la polizia non arrivava mai. Si incominciò così a capire l’inutilità di sporgere denuncia. I corpi venivano sepolti in fosse comuni. bruciati o mutilati per evitarne il riconoscimento; centinaia furono anche i prigionieri narcotizzati e gettati in mare dagli aerei militari. La maggioranza della popolazione era terrorizzata. Non era facile trovare testimoni. Nessuno aveva visto nulla. In questo modo migliaia di persone diedero forma a una fantasmatica categoria: i desaparecidos. 

Il clima di quegli anni è perfettamente riportato nel lavoro di Paolo Pintacuda, Il paese delle ombre. L’autore ripercorre le strade di una tragedia prevedibile e forse evitabile, che in un crescendo di commozione ci porta dallo spaccato di vita quotidiano dei protagonisti fino ai limiti della violenza protetta dalle istituzioni. Vi è la crudeltà degli esecutori, l’inutile rabbia degli oppositori del regime, la disperazione dei parenti delle vittime ma anche la rassegnata indifferenza di molti cittadini, come quella del protagonista Jorge, che si ostina a non capire che non vive in un paese normale. Fino a quando non prende coscienza della verità, scoprendola nel modo più drammatico, cioè subendola in prima persona. 

Il libro ha il merito di insistere non solo sulle efferate torture ma piuttosto sul dramma psicologico della vicenda. Una narrazione chiara, in una sceneggiatura accurata, quella di Pintacuda: uno sguardo lucido e crudo su un periodo storico popolato di molte ombre e pochi spiragli di speranze, ma sul quale si cerca di fare luce per avere giustizia. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 58.




 FRANCESCO CANFORA, La libera fattoria degli animali, collana di narrativa, I.l.a Palma, Palermo – Sao Paulo. 

L’utopia del comunismo, come volevasi dimostrare 

Questo libro di Francesco Canfora, avvocato a Roma e scrittore, trova diretta ispirazione nella famosa Fattoria degli animali, di George Orwell nei primi anni quaranta del Novecento. Il romanzo, ambientato in una fattoria situata nelle verdi campagne dell’Inghilterra, è una parodia della riuscita iniziale, del graduale tradimento e del definitivo fallimento della rivoluzione sovietica. Un modo ironico di Orwell per sottolineare l’utopia del comunismo, in quanto nessun uomo riuscirà mai a debellare il desiderio di potere. 

Il racconto rinnova e modifica la storia della fattoria ribelle. Egli non solo mostra, con velata amarezza, le difficoltà che gli uomini, sotto le vesti di animali di una lontana fattoria, incontrano per gestire la propria organizzazione sociale e la propria libertà, ma esamina anche, con sottile ironia, il comportamento complessivo degli animali. Questa, infatti, è la vera protagonista del racconto. 

È il popolo che si smarrisce dietro i propri egoismi e che, per paura di perdere la libertà, trova alla fine, a differenza di quanto avviene nel libro di Orwell, la forza di ribellarsi riacquistando la propria dignità. 

Giocato mirabilmente sui registri del comico e del grottesco, il racconto è una spietata disamina delle mostruosità che può produrre una politica intesa come puro e cinico esercizio del potere, quale che sia l’ideologia che la informa; ed è anche un accorato richiamo alla necessità affinché i valori etici continuino a trionfare sulle ragioni diaboliche del predominio sociale e della sopraffazione economica. È un libro che parla al cuore delle persone, dal forte significato allusivo, che unisce ricchezza di tematiche ad uno stile ponderato nella sua semplicità, e fluente nella proposizione. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 55-56.




DANIELA MUSUMECI, Doveri d’allegria, con disegni originali di Sabrina De Pasquale Mafai, collana «Poesia/Oggi», I.l.a. Palma, Palermo-Sao Paulo, 2006

C’è forse tra i doveri anche quello di essere semplici creature umane 

È questa la prima antologia organica di Daniela Musumeci, divisa per argomenti: gli amori, l’impegno politico, il mestiere di scrivere, la corrispondenza con la natura, il ricordo di chi non c’è più e, infine, la meditazione. Ciascun percorso si sviluppa diacronicamente dalla metà degli anni Settanta a oggi: si va dalla Padova degli anni di piombo (riconoscibile anche se non nominata) alla morte di Karol Woytila, passando per le manifestazioni non violente contro i missili a Comiso e per le stragi di mafia. 

Non è un diario, né un testamento spirituale oppure è entrambe le cose. Rappresenta, ad ogni modo, una sorta di viaggio interiore che dalle emozioni profonde ascende, lentamente e dolorosamente, verso il rasserenamento e il distacco: dov’era anima viene facendosi, a fatica, spirito. Le piccole scene di vita quotidiana, suggestive di un qualche desiderio o di una riflessione, si alternano a rapidi, taglienti aforismi; gli squarci di paesaggio agli enigmi della coscienza, senza alcuna pretesa didascalica. 

Nonostante le spezzature dei versi, la musica resta quella dei ritmi classici, endecasillabi e settenari, lievitati nel cuore di chi ha cari innanzi tutto i lirici e i tragici greci; ma ci sono poi rimandi, seppur non espliciti, a Lorca, Neruda, Ungaretti, come pure a poeti della beat generation e infine alle voci femminili; le più amate, Emily Dickinson e Cristina Campo. Uno sguardo libero, di fronte alle vicissitudini storiche e ai tormenti personali, insieme alla immedesimazione con la natura, sono il frutto della consuetudine con le filosofie orientali, con gli haiku giapponesi, per esempio, che ispirano l’omaggio a Kiarostami: aspirazioni a una trasparenza mai perfettamente realizzata e di cui si va continuamente in cerca. 

C’è una sorta di nodo tra poesia e filosofia che diventa inestricabile proprio quando è più lento: «la poesia è la dimora dell’Essere», avvertiva Heidegger; è dall’ ascolto della poesia (Dichtung), che ci viene dettata, che nasce la filosofia. Scrivere è dunque un modo di distillare esperienze per farne archetipi condivisibili, occasioni di compassione. 

Un modo per suggerire a chi legge, attraverso la delizia della fatica ermeneutica, un lavoro di scrittura. E allora forse è così che si piega l’ossimoro nel titolo: abbiamo tutti un dovere d’allegria nei confronti di ciò che esiste e di ciò che accade, dovere di gratitudine e di levità, che può farci tornare in mente altrettanto bene Violetta Parra o Giobbe. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pag. 57.




CRISTINA GIORCELLI, Abito e identità. Ricerche di storia letteraria e culturale, voI. VI, I.l.a.- Palma, Palermo-Roma.

L’abito come racconto del sé e rappresentazione della società 

L’identità è un abito, cucito su misura, aderente alla pelle dell’uomo. Di un tessuto elaborato, un ordito di fili tesi, plasmabili. I fili della auto-percezione, della visione e delle pretese che gli altri hanno su di noi. I fili di «come noi crediamo che l’altro ci percepisca». 

In tutte le epoche ci sono state contraddizioni , ma sicuramente non così forti come quelle che stiamo vivendo ora tra universalismo e particolarismo. Ai nostri giorni, la consapevolezza sia del carattere limitante dell’identità, come della prigionia del ruolo (habitus sta a significare sia vestito che modo di essere) ha istituito una aperta dialettica che sfiora le categorie del pensiero metafisico, tra i termini abito e identità. Proprio tale dialettica è stata oggetto di una approfondita e dettagliata ricerca interdisciplinare e interdipartimentale, una trasversalità più che appropriata al tema in oggetto, iniziata dieci anni fa da Cristina Giorcelli, direttrice del Dipartimento di studi americani all’Università di Roma Tre, già al suo sesto volume di ricerche di storia letteraria e culturale. 

Come leggiamo in apertura del volume, da secoli l’adagio «l’abito non fa il monaco» ha cercato di consolare coloro il cui apparire non dava testimonianza del loro essere. L’abito, dunque, come mezzo di comunicazione che produce un’informazione: l’io si veste e si traveste nel grande teatro del mondo. Questo sesto volume, come il quarto e il quinto, è dedicato agli accessori; «il soggetto maschile come quello femminile non ha una identità visiva se non grazie ai vestiti e agli ornamenti». L’ accessorio da sempre è stato considerato territorio dell’inventività: tanto numerosi e così differenti, gli accessori, come osserva Derrida, completano l’abbigliamento nella misura in cui questo manca di qualche cosa, diventando così indispensabili. Ossimorico per eccellenza, in quanto ornamento dell’abbigliamento, indicatore della classe sociale, segnalatore di uno stato civile o di un’appartenenza religiosa, ha finito per focalizzare su di sé l’attenzione dell’ arte, della moda, del pensiero in genere. 

I saggi del presente volume indagano il problema abitolidentità attraverso interventi che si riferiscono alle culture statunitense, francese e greco-classica in un’epoca che va dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri, in generi diversi come la letteratura, il cinema, la filosofia e il mito. Particolarmente interessante è sicuramente il saggio della stilista Anna Masotti, dedicato alla nonna, la celebre fondatrice del marchio «La Perla», Ada Masotti. Il saggio ripercorre, dalla nascita fino ai nostri giorni, la storia del gruppo «La Perla», nome scelto, non a caso, per alludere ad uno stile prezioso e armoniosamente femminile, unico nel suo genere. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 44-45.




ANGELA GIANNITRAPANI, Profili di donne, collana «Le Giade», I.l.a. Palma, Palermo, 2007

 

Sette suggestivi profili di donne un positivo esordio in narrativa 

Un’antologia di racconti a carattere introspettivo, in cui la vicenda è un delicato contorno allo studio psicologico, è merce rara in un panorama editoriale monopolizzato dai romanzi ad effetto e ancora più raro è trovare racconti che esplorano l’universo femminile come in un flash, in una istantanea a colori. 

Per esplorare la femminilità nelle sue forme più articolate, la neo-scrittrice siciliana Angela Giannitrapani ha messo insieme sette racconti che analizzano periodi differenti dell’ esistenza anche se tutti appartengono ad una maturità della vita e raccontano donne diverse. Inquietudine e ottimismo si mischiano in questa raccolta di sguardi femminili. Qui si racconta di frammenti di vita, di sentimenti quotidiani, di momenti iniziali o conclusivi di una crisi. A volte ci si imbatte in momenti anche scomodi, in sgradevoli disvelamenti di debolezze, come, ad esempio, il legame che unisce la madre con la figlia ormai donna. 

L’autrice non va alla ricerca di drammi, di avvenimenti eclatanti, più o meno veritieri. In ogni suo racconto c’è una lente di ingrandimento, un caleidoscopio di umanità. Tutto respira la semplicità di un dettato che nasce dall’osservazione della realtà quotidiana, degli avvenimenti che, seppur colti in punta di penna, risultano densi nel loro significato e nelle riflessioni che ne scaturiscono. Sono piccoli ma suggestivi racconti di fatti familiari, spesso intriganti, che lasciano un alone di mistero e si leggono con una semplicità di incredibile pregio. Racconti brevi ma intensi, ironici, bizzarri, ma anche dolorosi. Una varietà apprezzabile anche nello stile che varia da brano a brano, in cui già si riconosce la maturità della scrittrice. 

Vera Da Giuliana

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 57-58.




La terra 

Quando gli artigli dell’Aquila 
s’aggrapparono alla crosta della Luna 
e apparvero montagne grige 
crateri bui 
e distese incenerite di silenzio 
una voce 
varcò gli spazi: 
– bella 
meravigliosamente bella 
resta la Terra 
dove il verde degli alberi 
cancella gli autunni 
e fiorisce 
di pensieri e di sogni 
il sangue umano. 

Dino D’Erice 

Nota introduttiva




 La montagna 

La montagna tu la guardi: ciuffi verdi 
s’affacciano dagli spacchi delle rocce 
spezzano il grigio uniforme 
la patina di noia 
fioriscono di giallo 
ginestre aperte al cielo. 
È viva la montagna 
e tu non sei nato ancora 
uomo 
tu 
sei nei semi che premono 
le viscere profonde con la forza dei millenni 
ancora chiusi 
nel guscio dell’infinito. 
Il vento 
strappa rami di sole 
e li depone festoso 
sulla cima. 

Dino D’Erice 

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pag. 48.

 




 Il suo amore 

Il suo amore 
era senza effusioni 
e senza parole. 
Il suo amore 
era la cura con cui stirava 
i miei vestiti 
carezzando ogni piega. 
Il suo amore 
era la veglia per spiare 
il mio rientro in casa 
ogni volta che la sera tardavo. 
Il suo amore 
era il bacio che posava 
sulla mia fronte al mattino 
credendomi ancora addormentato. 
Mia madre era nata nella valle 
desolata del Tangi 
ove la vita 
ha l’asprezza delle pietre 
affioranti dalla terra arida 
e l’amore 
è voce di silenzio 
che solo l’anima avverte. 
Col suo carattere forte 
mia madre 
così mi amava: in silenzio. 

Dino D’Erice 

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pag. 46.




 IL PROFUMO DELLA VITA 

Alla casetta solitaria (coi tufi smozzicati e le crepe alle pareti) 
sita 
sul muraglione della ferrovia 
l’estate 
arrivava con folate calde 
di vento 
e odori intensi 
di grano mietuto e di fieno 
ammucchiato a ruota 
in mezzo ai campi. 
Sulla fronte larga di mio padre 
che s’affrettava a ripulire 
il fondo dell’aia 
invaso dall’erbaccia 
si spianavano 
le rughe d’ansia scavate 
da un anno lunghissimo d’attesa. 
Il perché mi sfuggiva. A nove anni 
ignoravo 
che il profumo della vita 
è l’odore del frutto maturo 
nato 
dal seme 
messo a dimora 
con le nostre mani. 

Dino D’Erice 

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pag. 45.