Vestita di luce 

a Raquel Naveira 

Per me 

quando si sveste 

la mia donna 

si veste con la luce dei miei occhi. 

Salvator d’Anna




 A RITMO DI SAMBA 

Voglio in pelle di gatto 
la mia carta 
di identità, 
stirata in una cuica 
per farmi riconoscere felice 
cittadino del mondo di domani, 
il paese che ha il mondo per bandiera, 
dove a ritmo di samba puoi pregare 
senza più ipocrisie, in allegria 
sciogliere un canto 
che sia accetto al Dio 
dei poveri, che sono 
il buon lievito dell’umanità, 
dove in ogni favela tra il fogliame 
verde dei morros, 
come in ogni quarto 
dei grattacieli 
o dentro le esclusive 
magioni, 
ogni Natale verrà al mondo il figlio 
dell’ uomo-Dio 
redento-Redentore; 
la terra eletta dove la mia mano 
potrà cogliere senza più sbagliare 
dal ramo tentatore della scienza 
il frutto dell’amore. 

Salvator d Anna

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag.48




POEMA DELL’ESSERE COSÌ 

Io so la solitudine. 
È piccolina, fatta come me, 
gracile, triste 
e fuma tutte le malinconie 
che chiunque da sempre abbia fumato. 
Fa poesia ispirata 
al Modernismo senza usar l’inglese 
come Gonçalves Dias . .. 
È vagabonda come Baudelaire, 
beve la moltitudine in un sorso 
ubriacandosi alla perdizione 
per non smettere mai 
d’ essere l’ubriaca prediletta 
delle taverne con le porte aperte 
a tutti. 
lo so la solitudine . .. 
È la coscienza, 
il rifugio, la chiave d’ogni porta 
che custodisce
il segreto di essere così. .. 
Essa non è mai morta 
dentro di chi non è già morto prima.

Wanda Cristina Cunha

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 43.




 ALLITTERAZIONE IN “F” 

Voglio danzare dentro la poesia 
con te 
come il popolo può danzare dentro 
le istituzioni. 
Voglio con te ancheggiare in ogni rima 
come il popolo dentro il suo salario. 
Ora io scelgo per la nostra vita 
un’ allitterazione 
in effe: 
figli, felicità, tutto in famiglia 
con fagioli e farina … E con la festa 
della folla che fodera la fame 
col foot-ball ed un po’ di fantasia. 

Wanda Cristina Cunha

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 43.




 Francesco Grisi, Maria e il Vecchio ed. Rusconi, s.i.p. 

“Allora”: la congiunzione segna non di rado, nel romanzo, l’inizio di un capitolo, di un periodo, introduce l’argomento piuttosto che avviarne la conclusione. È un modo confidenziale di narrare, o meglio, di comunicare, quasi la ripresa di un discorso appena interrotto, la sua prosecuzione, un conversare senza fine, continuamente arricchito, sempre sorprendente, magico, che attrae e crea attesa. Il messaggio è affidato a un modello di scrittura caratterizzato da un periodare dal taglio rapido, da un’essenzialità spinta, a volte, all’estremo limite: una prosa che affascina anche chi è legato alle forme tradizionali. Una soluzione convincente sotto i profili artistico e storico, che interpreta, cioè, senza abdicare all’eleganza del dettato, esigenze pratiche connesse con i ritmi di vita del nostro tempo. 

Digressioni, voli pindarici, ritorni, molti flash: è come una lunga corsa per non lasciare nulla di inespresso, nulla che provochi rimpianto per non essere divenuto parola, oggetto della creazione artistica. «L’antico è nel gesto – scrive Grisi – Il presente è nella parola.» Poesia dell’esistenza fissata nel suo fluire, prima del silenzio. Senza contare, poi, che la scrittura è, per gli eletti, salvezza, «È – dice il prof. Malaparte, protagonista del romanzo – una forma di preghiera nel rifugio ironico del mondo». Una prosa poetica, dunque, questa di Maria e il vecchio, nella quale spesso la proposizione secondaria esiste senza il puntello della reggente: un aggettivo, una congiunzione, un avverbio vengono isolati da una punteggiatura collocata con estrema libertà: una forma espressiva che non è puro gioco, ma risponde senza dubbio all’esigenza dello scrittore di sottolineatura, di volta in volta, di particolari stati d’animo e delle molteplici direzioni lungo le quali si snoda il pensiero (il lettore attento percorrerà a ritroso l’iter della creazione artistica). 

È la lezione dei futuristi moderatamente accolta, personalmente rielaborata e profondamente sentita nella sua carica di vitalità. 

«Il Futurismo è come un fiume carsico che tra le montagne si nasconde e all’improvviso appare» – scrive lo stesso Grisi (appassionato studioso del movimento, «allegro e ironico, terrorista e contestativa», e autore di un volume sull’argomento) su “Contenuti”, n o 1-1990. È in atto nel romanzo l’abbandono della «prigione rappresentata dalle forme tradizionali responsabili del “sacrificio della fantasia”, la quale, pertanto, può librarsi, esercitando la sua funzione di “provvidenza umana che ci libera dal male”» (sono tutte espressioni di Grisi, in “Contenuti”, n o 3 -1990). 

Maria e il vecchio si legge tutto d’un fiato: dialoghi, soliloqui, poesia e affresco; si pensi alle bellissime pagine su Roma nella luce settembrina, su Roma di notte col concerto delle sue fontane (dove tratti ben più rapidi e incisivi evocano lo stesso fascino de «Le notti romane» di Giorgio Vigolo); si pensi a quelle su Venezia, «città di vecchi e di amori disperati”, su Messina (con l’incontro della donna calabrese in nero, per sempre segnata dalla tragedia rusticana, un nero «che dilaga fino ad occupare i giardini e le pietre» e disperde i colori dal diorama di piazza Duomo); su Todi (città di pigri eppure patria del passionale Jacopone) e su Barcellona col ((sole che fiorisce negli occhi delle donne». Immagini fugaci, particolari sbozzati, un dialogare essenziale, a volte delirante, illuminano il microcosmo dei protagonisti, proiettandolo nel macrocosmo, e sollecitano il lettore all’immediata riflessione sul centimetro di scrittura. 

La meditazione è guidata e si allarga a ventaglio sulla vita, sull’amore, sulla morte, al di là di ogni logica comune, si concentra sulla “provvidenziale”pazzia, una pazzia attraente, coinvolgente, quella che dà sapore alla vita e apportafelicità all’uomo. Ed ecco l’elogio: «I pazzi inventano la vita», «I pazzi sono liberati». Così il protagonista afferma che Maria è una pazza con “la nonna-girasole”e “il padre-topo” e aggiunge con passione: «Bisognerebbe amare solo le pazze». «Anche io, professore Malaparte, cavaliere della Repubblica, non sono normale». 

Questo “vecchio” di cinquant’anni non si crogiuola nei rimpianti, ma ritrova gli slanci giovanili ed ora ha capito tutto della vita (e non era possibile capirlo prima), vuole gustarla nella sua essenza che è amore («Bisognerebbe vivere alla rovescia. Cominciare a novanta e finire a zero») e, come un fanciullo («L’amore è anche diventare infanzia»), vuole vivere ogni emozione nella sua intensità. La condizione di “vecchio” del protagonista è, fin qui, considerata nell’accezione positiva, quale momento di recupero dell’incanto dopo il disincanto, di acquisizione della coscienza del male di vivere ” normale” e piatto, di riflessione sull’ineluttabililità della morte e di approdo alla pienezza dell”‘amore fatto con l’anima”. È un recupero che muove dalla «disperata volontà di chiedere ancora dalla stagione stanca i frutti d’oro della giovinezza». 

“È l’autunno la stagione più bella della vita” – pare dica il prof. Malaparte, che riesce a sconfiggere la sua solitudine (che non vuol dire – precisa altrove lo stesso Grisi – “stare-solo”) tra le braccia della terrorista Maria, la quale ha nell’animo un misticismo che la redime ed una fede nell’utopia attraverso cui approdare alla libertà. 

Per lei esce dalla schiera dei “vivi già morti” che «all’apparenza si muovono. Piantano alberi e fanno affari. Ma sono in solitudine. Non hanno speranza… Sono nel sistema e vivono nell’ingranaggio». E ancora, «Maria è un fantasma per lottare contro la morte che viene». È l’illusione al di là dei confini del bene e del male, al di là di qualsiasi logica, come dicevamo. Approdo di un’inconsapevole ricerca, l’illusione si configura come amore-dolcezza-consolatoria del tarlo (il presentimento della morte) che è nel cuore dell’uomo, la morte che rende vana ogni lotta e “vince il toro e il torero” e che nel romanzo è presenza ossessiva, tenuta viva dalla figura del padre gravemente malato. «Anch’io – dice il prof. Malaparte – sarò come lui. E forse tra qualche anno mi porteranno in questo letto. E sarò in attesa, e allora, perché non vivere?» 

Ma l’illusione è polvere d’oro. Scivola tra le dita. Le intinge di luce. È sorriso. Impalpabile. E, poi, struggente memoria. Lo stile di Grisi ha un fascino contagioso. E l’esperienza irripetibile va ad arricchire quello che l’Autore chiama “sentimento del tempo”. 

Era già scontato, “ogni cosa doveva essere”. All’addio di Maria, l’amore-provvidenza, riappare lo spettro della morte, torna l’immagine sopita del padre e la sua visione del «carro di tenebre con il cavallo frustato» ed è il padre che, nell’immaginazione del prof. Malaparte, recita nell’aldilà Ezra Pound: «Come su fiori penduli la luce sfiorisce quando un vento li solleva. Se ne andava da me. Qualunque cosa avvenga un’ora fu piena di sole…». 

Un nuovo atteggiamento nei confronti della vita si accompagna, così, nel protagonista al desiderio del ritorno «nell’ombra degli uliveti. Una fetta di pane. L’acqua nel pozzo. L’alba negli occhi. E vivere così». (È questa una tra le molte pagine di intenso lirismo). 

Ora egli non può che autodefinirsi “savio” nell’accezione negativa del consenso, dell’accettazione della vita e della morte cosiddette “normali”, del “consumare il giorno”, l’uomo del “si”, che rientra nella schiera dei “vivi già morti”, un savio-morto appunto, che dinanzi al dramma dell’esistenza si fa schermo dell’ironia. 

Anna Maria Crisafulli Sartori

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 47-50.




 Walter Grillenberger: il viaggio e la foresta 

Nato a Eisenstadt (Burgenland) nel 1939, Walter Grillenberger si è affinato nell’Istituto superiore d’insegnamento di Vienna Strebendorf, in particolare – per qiuanto riguarda le discipline artistiche – alla scuola del Kuhn. Dal 1970 insegna educazione artistica, a Salisburgo, nelle scuole superiori. 

La sua partecipazione a mostre inizia nel 1965, Jugendring di Innsbruck. Le sue mostre personali, invece, cominciano nel 1974 a Oberwart; e si svolgono a Salisburgo, St. Johann, Hallein, nella sua città natale. Adesso la sua esposizione personale «Prospettive astratte», promossa dal ministero federale austriaco per l’Istruzione, a Roma nell’Istituto austriaco di cultura (che, da anni, svolge un’attività variegata e intensissima). 

I dipinti ad olio di Walter Grillenberger – come ricorda Michael Stadler, in catalogo – «mostrano una forte influenza del cubismo, la cui caratteristica è» la «trasformazione delle forme visive in geometriche e piane. Come i cubisti egli tratta il motivo illustrativo con logica analitica e realizza i suoi quadri a mente fredda. Partendo da uno schizzo, cerca di mettere in risalto» quanto punge il suo interesse «tralasciando tutto il resto». 

«Le forme realistiche vengono radicalmente semplificate. Le case» – «cubi colorati» – «mantengono però la loro realtà, come anche le figure che nelle loro forme arrotondale contrastano efficacemente con gli elementi a spigoli vivi». 

Si direbbe che gli oli di Grillenberger si presentano come intarsi tonali, pentagrammati coloristicamente e nella stessa sinuosità delle linee (forma e colore sono tutt’uno, e i rari chiaroscuri pongono in evidenza questo aspetto) al punto che gli spigoli – «vivi» se considerati isolatamente – forniscono anch’essi, nell’insieme del quadro, una musicale partecipazione all’andamento sinuoso dei diversissimi brani del puzzle. 

Case, animali, elementi decorativi, figure umane, si fondono a instaurare un paesaggio le cui profondità prospettiche si contrappuntano alla piana geometricità delle scomposizioni (e ricomposizioni). Ne risulta una scena mossa, vivace, in cui i colori chiari si lasciano assorbire da quelli scuri; e le connotazioni più stabili – essenzialmente statuarie – contribuiscono, per implicita metafora, a movimentare l’andamento della composizione. 

A ben guardare, ogni quadro è una giustapposizione di forme fisse le quali – nella sintesi racchiusa dai limiti della tela – riescono a darsi un timbro da opera in via di svolgimento; un trascorrere ininterrotto, asciutto ma fluente, sommesso però deciso. 

Questa astratta combinazione di cubismi possiede, dunque, un’attualità che travalica le possibili utilizzazioni illustrative. E indica un processo d’identificazione per cui costantemente il paesaggio – anche quello con figure – diviene foresta. Noi camminiamo velocemente nella foresta, ed è come se gli alberi si muovessero: passando davanti alla nostra sosta. 

Sarebbe un fenomeno analogo a quello di chi, dal treno, guarda fuggire i pali del telegrafo. Non lo è, in quanto tutto assurge alla dimensione della foresta: di tempo sospeso in luce soffusa. La civilizzazione non sarà o non si è avuta ancora; all’autore importa l’umana essenza, nella sua esplicazione meditativa che non è mai ferma: anzi, è sempre in un viaggio che non sappiamo se e quando potremo avere compiuto. 

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 41-42.




Tentativi di poesia e di comunicazioni

Secondo consuete valutazioni, la possibilità di comunicare sembra atto in sé che attende di manifestarsi: divenendo – fuori di sé – un fatto capace di suscitare conseguenze. Bisogna aggiungere che essa dipenderebbe da una disponibilità, connaturata all’oggetto. Ragionevolmente chiamiamo oggetto (nel plurale adatto alla nostra modestia) quello che di solito viene indicato come luogo da cui partirebbe la comunicazione, soggetto che comunemente si ritiene possa riceverne.

Infatti, quella disponibilità – nell’oggetto – è una finzione logica: non un elemento dinamico della comunicazione ma un antecedente della possibilità di comunicare, stabilmente insito, oggettivamente fisso, che fornisce segni decifrabili. Questa riflessione proviene dall’evento stesso del comunicare: non succede che passivamente si riceva comunicazione, ma che attivamente se ne prenda (è caratteristica dell’oggetto assumere ruoli passivi, l’attivarsi è proprio del soggetto). Nel terreno si rinvengono pietre sepolte, all’interno della persona la sua indole, così il soggetto trova nell’oggetto un’apparente disponibilità a comunicare.

Se nessuna disponibilità è passiva, quella intesa alla comunicazione non è trattenuta nell’oggetto; è semplicemente la disponibilità, del soggetto, a Tentativi di poesia e di comunicazione di Antonino Cremona riconoscere l’oggetto. La possibilità di comunicare è determinata, dunque, dalla capacità di lettura da parte del soggetto. A questo punto, la possibilità di comunicazione – atto in sé, il quale attende di manifestarsi (fuori di sé) come fatto capace di suscitare effetti – dipende da una disponibilità connaturata non all’oggetto ma al soggetto: è disponibilità a capire, con la conseguenza (ecco dunque: fuori di sé) di migliorare la conoscenza ed eventualmente il gusto (questi gli effetti). 

Nei rapporti fra persone, durante lo scambio delle notizie, ogni persona è – di volta in volta – soggetto e oggetto del comunicare; meglio: della comunicabilità. Tramite del possibile tentativo di comunicazione può essere una sostanza o una forma, non esistenti in natura ma create da persone: una sostanza grezza, perché priva di forma; una forma che ha sostanza materiale o concettuale, oppure materiale e concettuale insieme. Va, comunque, precisato che la comunicazione non è mai completa: per oscurità dell’elemento da riconoscere, per difetto della disponibilità a intendere, o per entrambi i motivi. Sicché la comunicazione non esiste come assoluto (peraltro, non vi è 1’assoluto); ma solamente esiste la comunicabilità, e in modo relativo. A questo riguardo bisogna puntualizzare che la forma è conseguenza della ricerca di espressione, però quasi mai tale ricerca permette di giungere alla forma che si voleva ottenere. Cosa si possa intendere per espressione cercheremo di proporre in seguito.

 

Questi appunti “banali” servono ad avvicinarci all’argomento “Poesia e comunicazione” in cui il Centro di cultura siciliana ‘G. Pitrè’ (Palermo, 28 e 29 novembre 1985) poneva alcuni interrogativi circa lo “spazio” che la poesia possa ancora trovare nell’”ampliarsi attuale dei sensi e dei mezzi del comunicare”; coltiva dubbi sul concetto di comunicazione poetica (“solo facilità discorsiva”?); infine – “poiché la poesia dei Siciliani è in genere sorvegliata dal senso della comunicazione” – è possibile “enucleare una linea isolana?”.

 

 

Certo; nessuno sa, né mai ha potuto apprendere, cos’è poesia. Avviene che se ne avverta l’odore, ed è lecito affermare che poesia sempre si è avuta in tutte le altitudini e latitudini. In ogni ipotesi la voce, lo scritto, la trasmissione elettronica e telematica, possono divenire supporto dei suoi trasferimenti.

 

Noi siamo di quelli che non s’incantano dinanzi alle meraviglie tecnologiche e scientifiche, anzi si avvedono delle devastazioni che ad esse si devono attribuire; abbiamo pure segnalato la scienza e la tecnologia – serve della politica di potere – come involuzione della civiltà, regresso della vita: a nulla giova che si possa estendere le nozioni se nel concreto questo impedisce di approfondire la conoscenza già acquisita, persino rende disumano il mondo.

 

Si dirà che ogni cosa ha un’origine e una fine, dunque anche la poesia potrà avere la sua fine magari telematica. I discorsi, però, sulla morte dell’arte – o della filosofia – non ci sollecitano: perché tutto è relativo, niente è mai definito, l’anno Mille è stato preannunziato invano tante volte contro la mente. Badiamo, invece, all’origine della poesia: ch’è il canto. La scrittura è trascrizione del canto; il fatto che quasi mai, da secoli, la poesia venga cantata non sopprime la necessità di musica in cui la poesia si forma; anche la spezzatura del verso è un segno musicale.

Che la scrittura a mano, o a stampa, possa essere sostituita con altra è solo un fatto meccanico: riguarda il supporto scrittorio, non l’atto ideativo – né il fatto ideativo – della poesia. La tendenza (alquanto barbina e suicida) a sostituire la macchina alla persona potrà forse indurre a trovare poesie – o tentativi di poesia – delle macchine, non certo da mettere insieme alle poesie (o tentativi di poesia) delle persone. Ragionare con una macchina potrà essere un passatempo, istruttivo e delizioso, mai un ragionamento fra persone: anche se vi siano macchine raziocinanti meglio che persone.

 

Pure ci è utile il secondo quesito. La poesia e ciascun’arte non sono mai state lievi da fare, né da intendere. La qualità dell’arte ha spessore in rispondenza alla capacità espressiva dell’artista. L’immediata percezione non trasforma i connotati del cartello pubblicitario, anzi li distingue; la trascinante emotività di un eloquio – pure se composto in fraseggi con ritmi e immagini, luci e coloriture – si ferma alla soglia della poesia, perché non sfiora la metafora. La ricerca di espressione non si raggela nel coniugare immagini: perviene all’esposizione delle metafore.

La poesia autentica si fa dura all’ascolto; ha bisogno di più letture, penetrazione graduale nei suoi strati. Per quanto ci riguarda, non siamo peggio eretici del nostro solito se escludiamo che qualsiasi testo – solo perché composto in versi – possa avere significatodi poesia.

 

In ultimo, i siciliani. Se quella dei nostri autori fosse “sorvegliata dal senso della comunicazione” e non (appunto) dal senso della poesia, siamo propensi a ritenere che sarebbe davvero infima. L’intento comunicativo impone un semplificare che non è limpidezza, ma fa parte dei sistemi divulgativi; invece, l’intento (meglio: l’esigenza) della poesia costringe, a un approfondimento della ricerca di esprimersi.

La comunicazione esterna, peraltro, è un evento occasionale ed estraneo: la ricerca dell’espressione, infatti, è il tentativo del poeta di comunicare con la propria scrittura. Come gli altri tentativi, neppure questo spesso riesce.

 Non si prenda questa posizione come un adeguamento alla cosiddetta scrittura automatica: non si accorderebbe con l’avversione al telematicismo e con l’adesione, invece, ai difetti umani. Né si pensi a un riflusso di ermetismo (scuola inventata da alcuni critici, rifugio – come tutte le scuole – di autori bisognosi di farsi proteggere); s’è possibile, ci si consenta di tentare qualcosa di svincolato dalle mode.

 

Dati i precedenti dei vari ‘ismi’ in Sicilia, andremmo guardinghi nel segnare una linea continua nella poesia dei siciliani. E potremmo anche temere pericoli di delimitazioni, d’incasellature  Quest’isola non ha mai avuto una cultura isolata, tanto più se la ‘cultura’ va intesa in termini antropologici. Essa  non è mai stata solo un crocevia del Mediterraneo; oggi, contro ogni apparenza, è terraferma nei flutti del mare.

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 34-36.




 Premessa a un discorso su Quasimodo a cinquant’anni dal «Premio Nobel» 

di Antonino Cremona 

Vi è stato un tempo in cui le tazze avevano due manici, affinché si potesse bere agevolmente. Epitteto, però, diceva che non solo le tazze ma – generalmente – ogni cosa ha due manici; molto tempo dopo, gli entusiasti del premiatismo si sono accorti del rovescio della medaglia: un secondo manico, di forma diversa. In definitiva, Epitteto ci informava che vi è più di un modo per prendere le cose: prima da un manico, poi dall’altro, e ciascuna volta l’oggetto risulta diverso. A certo punto, le tazze hanno perso un manico: per effetto di un assolutismo unidirezionale. Sicché è rimasto un solo modo per prendere le cose. Infine, l’invenzione del bicchiere ha eliminato anche l’ultimo manico: non vi è più modo di prendere le cose. Rimane, però, l’avvertenza di Epitteto: alle idee, agli argomenti, alle persone, alle cose, ci si può accostare in modi diversi; intanto, possiedono diversi modi di manifestarsi. Un autore può essere preso – come si dice – per quello che è, o nel contesto del suo tempo. Ancora: può essere colto negli elementi che ci tramanda, o per la marea dei suoi discepoli. 

Ma queste sono soltanto delle apparenze. Infatti, nessun autore può mai essere «quello che è» (la sua opera non può venire considerata come se il resto del mondo non esistesse). Ogni autore consiste, invece, nella sua storia; ch’è composta di due parti: la prima, sino al momento in cui produce; la seconda – in perenne formazione – inizia nel momento in cui ha smesso di produrre. A volte, l’assegnazione di un premio Nobel (o la semplice pubblicazione dell’opera omnia) vale un decesso. Non è stato il caso di Montale, né di Quasimodo. 

La prima parte della storia di un autore è la sua opera che si va formando, e pure vi appartengono gli effetti della sua opera ancora in via di composizione; la seconda parte della sua storia sono gli effetti dell’ opera ormai conclusa, anzi interrotta da un qualche evento. Ma vi è da sospettare che l’opera è di quell’autore in quanto è di sua scrittura: egli e il suo ambiente si esprimono attraverso quella scrittura. Pure vi è da considerare che nessun autore ha bottega, non si sceglie i propri adepti, non li conosce nemmeno; lavora per suo conto (non è un artista – pittore, o scultore, architetto – di tipo rinascimentale), non si occupa di discepoli. Se ve ne sono, stanno fuori dall’officina; si trovano fra i suoi lettori. 

Dalle nostre parti, non abbiamo autori di letteratura che possano essere conosciuti attraverso i loro adepti. Si vuole dire che l’opera di Salvatore Quasimodo non può essere valutata guardandone i seguaci ed epigoni: il fatto che vi siano quasimodiani segnala la forza di suggestione che l’autore è capace di imprime re, ma non può attribuire a lui alcuna responsabilità (appunto, non ha bottega) circa gli esiti dei suoi ospiti. I quali, come avviene al seguito di ogni fortuna letteraria, hanno frainteso il senso della sua scrittura. Equivocano le derivazioni decadentistiche – certamente quelle che provengono dal più fine decadentismo degli europei – scarabocchiando paesaggi in forma di bozzetto; sicché il civismo meridionalistico di Quasimodo viene tradotto in un disgustoso lamento sulle proprie sorti, e su quelle di un Sud inesistente; l’emigrazione si presenta, in questo modo, ancora più esecrabile. 

Le dimensioni dell’opera di Quasimodo si accrescono, e si arricchiscono, quanto più essa si inoltra nella seconda parte della sua storia. Sicché diviene pressante che vengano condotte alcune indagini: rintracciare le influenze quasimodee su altri traduttori e poeti; così pure i legami di Quasimodo con i suoi contemporanei e i suoi antecedenti. 

I suoi contemporanei non sono autori delle altre latitudini. Sono, innanzitutto, la gente (non necessariamente la sola gente di cultura) con cui egli è vissuto nei vari luoghi della sua vita; e sono i libri delle sue letture. I suoi contemporanei, dunque, si risolvono nelle riflessioni: dovute a persone che vivevano con lui (direttamente, oppure attraverso quanto egli era disposto a ricevere dalle loro attività artistiche). Una critica attenta a componenti di questo tipo darebbe risultati amari al criticismo astratto: troverebbe, peraltro, notevoli – e quasi sconosciute – personalità accanto e intorno a Quasimodo e lui accanto e attorno a costoro. Per conseguenza, si ridurrebbe l’immagine del poeta in una luce di solitudine all’interno della triade ermetica. 

Certo, un poeta è sempre un passero solitario; ma in senso diverso da quello per cui possa divenire un migratore . sperduto. Chi è privo di passione per la solitudine – un amore appassionato, quasi esclusivo – non riesce a scrivere, mai: la vocazione del poeta è la vocazione alle proprie riflessioni solitarie, pubbliche e private. 

La solitudine di Quasimodo è tutta un fervore di relazioni, di scambi, di interessi, con quelli che possono essere ritenuti i suoi contemporanei, ma anche i suoi antecedenti, di tante epoche, con i quali ha tenuto contatti da contemporaneo. 

Stranamente, il concetto di ermetismo non è una sintesi a posteriori. È – invece – un ritrovato di critici, in linea parallela allo sviluppo dell’attività di alcuni poeti e saggisti. È una sorta di programma, come quello che Adriano Tilgher stese a un certo punto del lavoro teatrale di Luigi Pirandello. Sappiamo tutti che i programmi in materia d’arte sono tentativi ogni volta falliti. L’arte se ne va sempre per il suo verso, sfuggendo alle regole. Va a finire che, rispetto alla gabbia messa su da Tilgher, Pirandello ha poi sbagliato; e che, allo scopo di rinserrarsi in quella gabbia, Pirandello cerchi di non sbagliare: con alcune conseguenze rispetto a se stesso. Va, pure, a finire che l’ermetismo rimane un’ipotesi; un movimento poetico nel quale (paradossalmente) tutto è fermo, e non vi sta dentro nemmeno un autore: ovvero alcuni letterati, che la poesia ha lasciato in desolazione (così nel romanticismo, nel classicismo, negli ismi). 

Ne viene fuori che la triade si allarga. Interrogati, uno ad uno, i componenti della triade negano di farne parte (non solo di appartenere alla triade, ma allo stesso ermetismo), e oggettivamente non vi appartengono. Ognuno si è messo nella propria solitudine: lavora all’intemo della propria poetica. La triade si allarga perché – indicata con persone di varie generazioni, circostanza che metodologicamente non sembra idonea, e l’ermetismo non essendo esistito, almeno come denominatore comune – bisogna che altri poeti di pari dignità (qui non si dice di analoghe dimensioni della scrittura, se non per pochissimi, fra i quali Umberto Saba) siano riconosciuti attivi nel primo sessantennio del ventesimo secolo in lingua italiana. D’accordo, la vita operativa di ciascuno dei tre è andata generalmente oltre quel tempo, e le date stanno bene solo al calendario. Né conviene fidarsi delle dichiarazioni di poetica, quantunque ogni scrittore avverta il dovere di farle conoscere. 

Del resto, ciascun autore conosce se stesso in breve misura. E ogni proposito viene puntualmente smentito dal risultato dell’arte; tant’è che si generano (ad esempio) le poesie a cannocchiale: l’una appresso all’altra, nella rincorsa ad esprimere quella determinata sensazione che, invece, sempre più a fondo si rintana. In verità, ogni autore è altro da sé; ciascuna opera è diversa da come l’autore riesce a vederla. Perché quello che resta, che vale, è solo quanto ognuno venga a trarne. Io non ne so nulla (saggiamente rispondeva Eugenio Montale): sono soltanto l’autore. Nei fatti, non sappiamo se si stava nel giusto durante il lunghissimo tempo in cui il poema di Dante è apparso privo di interesse; né se Petrarca s’indovinava quando riteneva di avere consegnato ai versi latini il meglio della sua espressione, o se gli attuali studi rivalutati vi conducano)e prose di pensiero del Leopardi allo stesso livello dei suoi Canti. Solamente sappiamo quanto, oggi, ci capita di avvalorarci dell’opera di ognuno. 

Questi dell’ultima triade (in ordine d’ingresso: Ungaretti, Montale, Quasimodo) sono comunque riconoscibili maestri di quanti si siano successivamente dedicati alla scrittura delle parole (esclusi, dunque, quelli che scrivono suoni in forma di parole e i telematici) perché diedero segno di come la poesia dovesse scriversi senza maiuscole. Intanto senza le maiuscole dei crepuscolari, iniziarono ad avvicinare la poesia ai suoi lettori, allontanandola dalla letteratura; non solo dalla retorica, dal patriottardismo, dal nazionalismo, dalla magniloquenza. Sognarono e fecero poesia pura: lirica quanto più viene ad essere, insieme, civile; attratta quanto più ci persuade. E quanto il suo oggetto si localizza tanto riesce universale. 

Le dichiarazioni di Quasimodo rispecchiano (ed è un’eccezione) la sua poetica. Nel Discorso sulla poesia Quasimodo si appassiona contro i filosofi (che gli appaiono «i nemici naturali dei poeti»: bisogna dire a torto, se non s’intende che sta discorrendo di quelli che presumono di avere definitivamente sistemato il mondo), però siede nell’essenza del proprio lavoro quando ribadisce che la letteratura «si riflette» mentre la poesia «si fa». Ed è vero: stiano i letterati nei loro paludamenti, con mitrie e aureole; decantino, invece, i poeti le voci del tempo, uniscano spazi, ritrovino l’uomo e i suoi miti, la natura femminile e maschile della terra, operando in precisa umiltà, ma nella consapevolezza di offrirsi come trasgressori di forme e di contenuti, come irregolari nei sistemi precostituiti, dunque vittime possibili. 

E, ancora, Quasimodo s’incentra nel colmo dei propri significati quando separa le questioni grevi della morale dalla libertà della poesia: nella quale nulla può avere un senso immorale, o morale, ma unicamente poetico (concetto, da tempo, acquisito a proposito delle arti figurative ma tuttora non del tutto penetrato nelle valutazioni della parola scritta). E in quanto è trasgressione, la poesia è libertà; in quanto è creazione, è verità; «non insegnano, i poeti, che a vivere»: forse è questo il valore sociale della poesia (la socialità su cui il poeta insiste e alla quale assegna valore etico). 

In noi si scolpisce questo passaggio del Discorso sulla poesia (apparso nel 1956, come appendice a Il falso e vero verde), che individua responsabilità senza limiti: «Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente. E poesia è libertà e verità di quel tempo e non modulazioni astratte del sentimento.» Questo si tentava di indicare: un autore ci appartiene, quale che sia la sua epoca, per la misura di libertà e di verità che per suo tramite riusciamo a riconoscere nel nostro tempo. 

Negli «autoritratti critici» (raccolti da Ferdinando Camon nel 1965 nel volume Il mestiere di poeta) Quasimodo teneva a fare evidente questo concetto: «La ricerca di un linguaggio è la ragione principale della poesia.» E avvertiva: non si confonda il linguaggio con la filologia; si distingua la creazione del linguaggio poetico dall’ elaborazione filologica. In tutti e tre i periodi della sua lirica (l’iniziale collegamento stilnovistico, poi quello coevo alla rivisitazione dei classici, infine il periodo della più assoluta laicizzazione) Quasimodo non smise la ricerca (da poeta autentico, non poteva considerarla esaurita) anzi fece costante l’approfondimento dell’espressione nella qualita della parola, una quantità metrica ricca delle proprie risonanze, in contrasto con la qualità dannunziana. Quantità anteriore, in Quasimodo, allo stesso famoso suo accenno «al palo del telegrafo», cioè a un oggetto considerato impoetico. Sta nella sua musica quantitativa la capacità di elevare il canto da situazioni e cose impoetiche; la stessa capacità di rivelare originaria e inalienabile l’intonazione della sua voce. Ciò è in una tale efficienza che fu Quasimodo a dare ai classici, traducendoli, il proprio linguaggio. Lui stesso sapeva «non di una chiarezza ricevuta, ma di una chiarezza data» (intervista a Camon). Questo argomento suggerisce la particolarità del lindore della sua scrittura, che riconduce nell’area del canto pure se intrisa – o forse proprio per questo – delle materialità e delle crisi della sua epoca. Bisogna, riconoscere che il suo dettato diviene canto, perché si fa: crea e si crea, così come, in origine, la poesia era musica per la cetra. 

Un’ultima cosa, a chiudere questa premessa a un discorso su Quasimodo. Può dispiacere ad alcuni, che preferiscono gli itinerari consueti (nazionali o di influenza europea); può essere gradita, invece, a quanti vedono la cosiddetta lingua italiana come filiazione di parlate siciliane – pure se (ragionevolmente) non considerano quella che comunemente si chiama letteratura siciliana come una letteratura nazionale, di una nazione Sicilia che in ambito di cultura non vi è mai stata perché sempre si è fatta sintesi e insieme lievito della vita mediterranea – però è utile tentare un’indagine a proposito di quanto derivi (e sia affine) a Quasimodo e quanto alla sua parola, immagine, metafora, si ricolleghi – nel senso della poesia – dentro l’area, sua, mediterranea (quest’altro mondo assai spesso dimenticato, anche da noi stessi che lo respiriamo). 

Antonino Cremona 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 3-6.




Occhi aperti

Questo posso dirti: l’azzurro
martin pescatore, torrente Vitanza
un mitra che brucia alto nell’aria,
una macchina in fuga; mezzogiorno
suonava nei polsi contratti,
nel cuore delle pietre, nei margini
vibranti della strada; mezzogiorno
si sfaceva nella polvere
che ti annera gli occhi
non dico parole
ma fatti. Il grido d’uccello
la ruota che sbanda, il suo segno
lungo indeciso a centro di strada
l’albero che si fermò rattrappito
senza più vento
che importa dirti
se faceva politica – ora ch’è morto –
come si fermò sul margine
della discesa cadendo
come i suoi occhi rotondi erano aperti:
se difendeva un’idea e la mafia l’ha ucciso.
Accanto al suo volto
lo scarpone del carabiniere;
dimentica ch’era mezzogiorno segnato
da un azzurro martin pescatore
che il mare s’era fatto secco lontano
quando fu sparato, il rapporto
dice soltanto il suo nome e ch’è morto.

Antonino Cremona

(Il gelsomino, Parma, Intelisano, 1968)

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pag. 54.




 L’espressione e l’abitante 

La riscrittura della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ad opera di Stefano Rodotà [L’Espresso, 1989, n. 4, supplemento “I diritti del Duemila”], si colloca nel massimo interesse fra le innumerevoli iniziative che celebrano il bicentenario. 

Duecento anni d’involuzione politica – e di regresso dentro la tecnologia – sono troppi, per non lasciare profonde rughe nel sorriso della Rivoluzione Francese. 

Bonapartismo, rinfocolamenti monarchici, disuguaglianze borghesi, fascismo, superomismo più o meno tragico (e più o meno consapevole), devianze dagli scopi della dichiarazione d’indipendenza americana ponendo una dottrina di tipo imperialistico, travisamenti della Rivoluzione d’Ottobre alla ricerca di quanti possano diventare “più uguali” degli altri, sembrerebbero avere svanito i sogni di Marianne in ogni direzione. 

Tuttavia, per fare un solo esempio, la carta costituzionale della Repubblica italiana direttamente ha linfa dalla Dichiarazione del 1789: a volte, usando parole di senso uguale a quello francese. 

Si capisce. Anche i decenni trascorsi dalla Costituzione italiana sono troppi; dunque sorgono esigenze nuove, da più acute riflessioni, mentre alcune regole sembrano decadere. 

Rodotà avvisa, ragionevolmente, che il “depotenziamento dei diritti” può anche essere determinato dalla proliferazione; sicché appare consigliabile incentivare concreti istituti di libertà, piuttosto che darsi alla proclamazione di altri diritti. 

Forse, il concetto può essere precisato in questo modo: nessuna dichiarazione di libertà assume reale valore se non viene messa in pratica; invece che estendere l’area dei diritti, a ciascuno dei quali peraltro corrisponde un dovere, bisogna approfondire la nozione dei diritti già dichiarati. 

Questo andare alle radici è, comunque, un buon metodo. Assai spesso, le devianze insorgono perché si è smarrito il senso delle origini. 

E quello che vale per la Dichiarazione [1789] ugualmente ha valore riguardo alla carta costituzionale, poiché essa si forma come una sorta di regolamento dei principi primari. 

Innanzitutto, guardiamo le nuove proposte di Rodotà: diritto “ad un patrimonio genetico non manipolato”; divieto di “ogni raccolta di informazioni che possa essere usata a fini” discriminanti: conoscenza delle “fonti di finanziamento di tutti i mezzi d’informazione”; lavoro “minimo garantito”: diritto “al riposo e alla sicurezza sociale”; partecipazione di tutti “alle decisioni che riguardano la pace e la guerra, la sopravvivenza di specie, ambienti e culture, la conservazione dei beni che costituiscono il patrimonio comune dell’umanità”. Ancora: possibilità che tutti agiscano “per l’attuazione del diritto all’ambiente e il pieno godimento dei beni collettivi”; diritto “di asilo nel caso di persecuzione”; diritto di tutti ad agire in giudizio per la tutela “degli interessi di rilevanza collettiva”: obbligo di pronunzia giudiziaria “in tempi ragionevoli”, e di motivazione degli atti che limitano la libertà personale: assenza di presunzioni, circa la responsabilità penale e la cosiddetta pericolosità: diritto di ognuno a “controllare l’uso delle risorse pubbliche”: pubblicità delle posizioni contributive; obbligo della “solidarietà politica, economica e sociale”: non sono ammesse “la pena di morte e la pena dell’ergastolo”. 

A chiusura, e in limpido ricalco della Dichiarazione 1789, “Tutti hanno diritto di cercare la felicità”. In buona sostanza, la riscrittura dà conto del vivo dibattito svolto negli ultimi anni. Ma l’attenzione si appunta sull’art. 11. 

Garantire “ogni forma di espressione artistica” sembra limitativo. Facciamo esempio dal caso dei Versetti satanici (o Versi satanici, come qualcuno traduce), sperabilmente ormai decaduto: pure se il Comitato internazionale per la difesa di Salman Rushdie, c/o Box 19 London SEI ILX, sembra tuttora – in modo anglosassone – battere cassa. 

Gli integralisti islamici hanno decretato che quel libro non appartiene a nessuno genere d’arte; hanno pure stabilito ch’è soltanto un testo blasfemo, sicché l’autore va senz’altro ucciso. Sicuramente ognuno (compresi gli integralisti di ciascuna religione) è legittimato ad avere, e trasmettere, opinioni sui lavori d’arte: questo campo – e così le considerazioni di carattere storico, o filosofico – non è una riserva di caccia, giacché non vi è motivo per precluderlo. 

A parte la faccenda occorsa a Flaubert con Madame Bovary (e a tanti altri, in momenti cruciali nello sviluppo della narrativa), mettiamo i Versetti vengano giudicati da un tribunale che non sentenzia uccisioni; ma che si permette decidere se quel libro appartenga all’arte; e, non ritenendolo di genere artistico, emetta condanna dell’autore sia pure al pagamento di un penny. Rushdie, ogni altro, rimarrebbe in balìa del giudizio incompetente – e inconferente – ma per legge valido. 

Se ognuno è legittimato ad avere proprie opinioni sull’arte, non si può consentire che possano averne i giudici quando scrivono sentenze: le opinioni trasfuse in un atto esecutivo prevalgono – senza alcuna ragione – sul pensiero di altri, magari più esperti e di migliore finezza nel valutare le cose artistiche. Ed è già inammissibile che prevalgano sull’opinione dell’autore; comunque non si può ammettere che vengano sancite in sentenza, pure se l’autore non abbia opinione alcuna del proprio lavoro. 

Bisogna, dunque, dire ch’è garantita – semplicemente – ogni forma di espressione: nessuno potrà mai negare che un’espressione esista, qualunque possa esserne il senso. 

In qualche parte bisognerebbe, poi, inserire il diritto dell’abitante: cioè il divieto di discriminazione in riferimento alla nazionalità; di modo che chiunque si trovi ad abitare in altro Stato possa usare le leggi che regolano la vita dei cittadini, anche se non ha la cittadinanza di quello Stato: in quanto persona (essere umano). 

Antonino Cremona

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 11-13.