I versi della “ferita” 

La luce: il paradigma della nostra cultura. Il punto di riferimento di filosofi, scienziati, letterati, artisti, poeti e creatori di miti. 

Prometeo: la personificazione di quel paradigma e del mito che lo raffigura come il conoscere che si identifica con il vedere e il pre-vedere Pro- meteis -, l’eroe che rapì il segreto agli dei. 

Prometeo, l’esploratore e il creatore che della luce scopre l’uso del fuoco come fucina e del raggio la funzione di «laser incisore». Il fuoco fa dell’uomo un faber, un poieta e un artigiano. Il raggio-laser ne fa una mano per “ferire” la notte del tempo, aprirne il contenitore e farsi pre-veggente di tutte le possibilità che la realtà virtuale nelle sue interazioni può fare emergere. 

Il raggio di luce rapito agli dei, però, in-cidendo si ri-flette, torna indietro e ferisce Prometeo destinandolo al dolore di una ferita, cui la storia ha dato versioni diverse. 

Qui prendiamo una delle quattro versioni che circolano sulla leggenda. Prometeo viene condannato dagli dei. Sulla roccia del Caucaso, un’aquila gli becca continuamente il fegato perché la sua ferita-apertura non si rimargini e il suo dolore sia permanente. Il dolore fu tanto che egli si schiacciò così profondamente contro la roccia da diventare tutt’uno con essa. 

Memoria della colpa e del castigo? Memoria della “ferita” come processo ininterrotto e infinito intrattenimento presso la fonte delle emergenze del novum? Necessità di farsi tutt’uno con le concrezioni del tempo e impossibilità di sfuggire all’ambiguità e all’ambivalenza della “ferita” come raggio incidente eri-flettente? 

Il richiamo del mito prometeico e l’associazione con il poeta Romano Cammarata di Per dare colore al tempo, lungi dal restaurare modelli di lettura moderno-illuministici o romantici, ci sopraggiunge dalla lettura delle poesie dell’autore siciliano, che, come poeta, al pari dell’eroe greco, si intramette nel processo del tempo fattosi pagina bianca. Incisa dallo stile o dalla parola del poeta, la pagina del tempo si fa rappresentazione del processo, che è ferita-apertura, e raffigurazione del suo inscindibile carico concrezionale di dolori-eventi. 

I versi che in particolare hanno fatto scattare la molla della associazione sono i seguenti tre di tre testi diversi (versi e testi che per intensità e incisività hanno una loro peculiare seduzione lirica): “pilastri crudeli / piantati nella carne” (pag. 35); “ed io scoglio”” (pag. 83); “I ricordi come sassi” (pag. 92). 

Il dolore, che è una delle costanti più appariscenti del libro, come nella leggenda di Prometeo su riportata, ha schiacciato il nostro poeta sino al punto di farlo diventare tutt’uno con la roccia dello “scoglio” e fino al punto che le “ferite” causategli dai “pilastri crudeli” (analogia con le beccate dell’aquila) anziché tenergli viva la memoria gliene pietrificano i ricordi nella concrezione dei sassi. 

Il dolore, si potrebbe confermare, come dice una metafora d’uso, uccide l’anima delle persone e la rende – puntualizza il poeta – pietrificata spoglia ob-iecta: “anima appesa ad un chiodo / sono un’anima morta” (pag. 25). 

Di straordinaria corposità il primo di questi ultimi versi, il secondo, che si articola nella contraddizione semantica della figura dell’antitesi – «dell’anima morta» -, però, ci ricorda che l’anima di questo poeta non è di pietra né tanto meno morta. 

Come, del resto, potrebbe morire l’anima che è psiche, vento, spirito vitale, vita? 

Altrove lo stesso poeta, infatti, ci dice che quella stessa anima è i suoni di una chitarra o che ha ” sete di luce”, o che “la vita si arrampica / su per la luce / si scalda di sole / Un grido / mi lacera dentro / mentre scendo / scale d’angoscia” (pag. 75). 

Il dolore del poeta, dunque, nella sua ambiguità ha una polifunzionalità vettoriale e una significanza, scandita più dal ritmo del senso che della punteggiatura, che indirizza verso una dimensione che non è solo fisica, psicoanalitica ed esistenziale. Essa è anche ontogenetica. E’ una ferita-apertura che ha una tensione fluente verso l’origine e il tempo, e di questi ha l’oscuro fondo che assorbe e ni-entifica: 

«I ricordi 
uccelli migratori 
tornano sempre 
all’origine / … / 
cerco un tempo 
uno spazio 
vecchie dimensioni / … / 
Il tempo rotolando 
beffardo sulla mia vita 
ha dato a me 
nuova dimensione 
Non trovo i margini 
i nomi delle cose 
non trovo i simboli 
miti realtà 
e disperato cerco 
vane coordinate» (pag. 51) 

Il tempo è ciò che attraversa e scandaglia il nostro poeta come suono e luce che si fa parola. Suono in quanto intermittenza di bassa frequenza. Luce in quanto sequenza ondosa di alta frequenza, a volte “grido”. Parola perché stile / o che ferisce e taglia, dall’interno del flusso, il continuum temporale per spezzarlo, appunto, con la de-cisione e coglierlo nel dran (dramma) dell’evento stesso che destina la vita della persona. Il movimento e la successione dei versi, che simulano, rappresentano e raffigurano l’azione, si fanno poesia che narra i momenti della sofferenza del poeta, del poeta che vorrebbe essere processo e al contempo sottrarvisi. Da ciò il dolore. Quella di Romano Cammarata, infatti, è una possibilità impossibile che permane come costante variabile della vita. Il dolore così non diventa una spia della morte che disgrega il corpo e la mente, bensì il grido della vita che cerca nuovi equilibri, che lotta contro l’oblio, la quiete della morte e del ni-ente. 

A questo tipo di percorso, secondo noi, il poeta piega bene, con le variazioni dell’usato, ma rispondenti alla sensibilità del nostro tempo, gli strumenti della inventio, dispositio, elocutio e altri espedienti d’arte, che risultano connessi e articolati sul piano degli assi linguistici. 

Cammarata insiste molto, per esempio, con le anafore, le ripetizioni, la dispositio, intra e inter verso, per mettere in evidenza e in primo piano ciò che più lo preme e lo urge, così da evitare che l’assunto di fondo – la dolorosa ricerca – risulti monotona, ripetizione risaputa senza novità e sfumature d’approfondimento. 

Singolare, nella sua viva ed efficace rivisitazione, il luogo retorico della definizione che determina, affidandola alla coniugazione del verbo essere, l’identità dell’anima con il proprio di una chitarra e dei suoi suoni: 

«Sono l’anima di una chitarra 
i suoi sonori accordi 
sono le mie vesti 
vivo nell’intimo del legno» (pag. 24). 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.3, 1992, pagg. 19-22.




Gaetano Longo, Diario di un pagano, MCMXCVII Campanotto Editore, Paisan di Prato (UD) 1997, pp. 90.

Presentato con testi divisi in tre ambienti – VISIONI DI VIAGGIO, DIARIO DI UN PAGANO, INTERVALLI MACEDONI -, il poeta triestino, Gaetano Longo, per i tipi di Campanotto, pubblica il suo nuovo libro di poesie Diario di un pagano. 

Come nel precedente libro, Atmosfera di tatuaggio, Longo tematizza il quotidie personale e storico con sapiente leggerezza poetica e tagliente vena ironica per farne oggetto di riflessione critica e offrirlo in pasto all’intelligenza viva e malinconica per una realtà che sempre più spesso offende gli stessi limiti nazionali ed etici del vivere. 

L’intertestualità più ampia Trieste, Parigi, Zagreb, Ulisse e Omero, Genesi, Skopje, il lago di Ohrid, l’ubriacane, l’orgasmo, il mago, ecc. – diventano il pre-testo più agile e provocatorio per passare a setaccio se stessi e le ideologie di copertura della falsa coscienza. 

«C’è odore di pace & noial nella notte profonda e rossa I bagnata e sudataI vuota di clacson e parole I … I Dov’è il diavolo e l’acqua santa?» 

«Me ne vado con passo vellutatol in giro per la città scuraI I Con un po’ d’impegno ucciderò la nottel Con qualche trucco arriverò a domaniI e con un po’ di fortuna inventerò l’alba. E gli ortodossi posero monasteri e cattedrali I perché tutti avessero luoghi di riposo e di rifugiai E i musulmani posero le montagne e le moschee I … I E i cattolici posero ancora un dio con chiese/ … I». 

L’uso ironico dell’intertestualità e il senso di una forte malinconia per una realtà che contraddice le promesse che aveva avanzato prima di nascere fanno del racconto poematico di Gaetano Longa un testo poetico che coniuga perfettamente il gioco della poesia e quello del giudizio etico-politico dello spettatore che non è né “il poeta cieco” né l’attore “disinteressato” sebbene coscienza critica ed estraniante. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pagg.62-63.




 G. Bella, Congiure celesti, Catania, Prova d’Autore, 1991, pagg. 225. 

Presentando i dieci racconti che formano Congiure celesti di Giuseppe Bella, S. Lanuzza dice dell’affinità dell’autore d’esordio con i padri fondatori della letteratura del “realismo magico”: Gogol, Landolfi e Bulgakov. Forse si potrebbe anche dire che gioca l’immaginario kafkiano delle metamorfosi, se è vero che il corpo delle ombre, degli indizi, delle ipotesi. delle intuizioni, delle interpretazioni ‘congetturali’ del de-lirio dei vari personaggi prendono forma e configurazione secondo i termini di una “congiura celeste” che fonde sogno e realtà, enigmi e paradigmi, conscio e inconscio, razionale e irrazionale e attraversa sia i soggetti che la loro soggettività. Questo cum-iurare celeste, quindi strutturalmente e metafisicamente dato, poi, sine nomine e polimorfo, quanto permanentemente soglia, si versa come in un ‘bricco’ -i vari protagonisti-, che così si vedono e si dicono come un ça parle lacaniano. 

G. Bella, insomma, conosce l’arte e il mestiere di scrivere letteratura. In realtà, già fin dal titolo -Congiure celesti-, che categorizza i vari racconti, il sintagma stesso è una spia più che indicativa. Un macrosistema complesso che interagisce con chiusure e aperture permanenti con altri sottosistemi -i vari racconti-, altrettanto complessi ma autonomi, dove l’inventio, la dispositio e l’elocutio di volta in volta tracciano un itinerario seducente quanto logico, ineccepibile e unico ma sempre differenziato sul piano dell’intreccio narrativo e del tempo che miscela attività reale e onirica, eventi e congetture. E se facessimo incontrare i personaggi di Bella e le loro vicende con il poeta-fingitore di Pessoa e il poeta viandante di Machado? 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pag. 62.




E. Schembari, Le macchie sul muro. Pisa, Tacchi ed., 1993, pagg. 111 

“La mia vita? …m’affacciai alla finestra, ho guardato il giardino e già ero grande. Poi ho guardato il pino alto… e già avevo i capelli bianchi. Poi mi sono girata a guardare le case del paese ed ero una vecchia… E mi sono coricata in questo letto, ad attendere la morte. È accaduto tutto quasi nello stesso momento. Cosa ho visto, nella vita? Niente!. .. Si vive per morire… Anch’io, un giorno, non avrei visto più nessuno, non avrei sentito, né detto parole e non mi sarebbe importato di nulla: né della luna, né della verità, né dei fantasmi, né dei bottoni perduti, né dei miei genitori, né delle macchie sul muro e nemmeno della nonna e della sua morte». Sono solo alcune delle pennellate del racconto di Schembari, di un racconto che si snoda con eleganza stilistica e vivacità di immagini, stampate con leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità di implicazioni. 

L’estetica delle Lezioni americane di Italo Calvino sembra che qui trovi pieno e personale campo di sperimentazione; nel racconto di E. Schembari, la realtà, la vita, il tempo è una trama, una rete complessa dove l’immaginario scrive e deforma le cose per diritto di diversità e libertà. 

Il pensiero della morte e del niente che sembrano dominare la narrazione, che si svolge con equilibrio tra passione e distacco narrativo, non hanno niente di cupo e pessimistico; sono soltanto le macchie sul muro. Ieri si sarebbe detto e scritto sui muri e sulla carta: “vogliamo l’immaginazione al potere”. 

I/L protagonista/i – la nonna e il nipote “matti” – del racconto, al di là del puro e semplice intento pedagogico-politico, in fondo, non sono altro che la negazione e il rifiuto di quanti, cose, persone, eventi, si impegnano a voler fare morire e nientificare la tua diversità e la tua libertà d’essere e di vivere. 

Tra i fili della propria rete, il racconto possiede anche colorazioni espressive che hanno recuperato e valorizzato la funzione significativa di diversi stilemi del linguaggio e dell’ambiente siciliano. arricchendo, così, il raccontare stesso di una memoria culturale che non deve essere annullata in tempi di omologazione tecnologica. 

La morte e il niente di Macchie sul muro è il nihilismo dei liberi. di chi non ha nessun possesso da perdere, di chi, come diceva un certo autore di Al di là del bene e del male, sa che i fatti sono stupidi come i vitelli, e di chi, come Schembari, scrive che la morte, forse, è un fiume e/o un sole. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 45-46.




E. Bonventre, Leone assiro, ed. Tracce, Pescara, 1993, pagg. 36

Rileggere le poesie di E. Bonventre alla luce del quadro interpretativo offerto da P. Valery per guardare la complessità – l’imprevedibilità essenziale -, questa è l’intuizione che mi è rimasta dopo la lettura. 

I titoli delle poesie fanno da cornice certa e referenza culturale classica inequivocabile per seguire lo stile del verso che, tra il modello epigrammatico e quello aforismatico, snoda il dis-corso delle emergenze poetiche. La figurazione e 

riconfigurazione possibile e continua dell’immaginario-reale, che vitalizza le poesie, si esistenzia però nell’incertezza dei paradossi autoriflessivi – (<< ••• / La Storia non consiste! / Ciò che pensa il grande Fratello / è sempre più Storia della Storia di prima») – o prende voce nella seduzione errante con cui, personificati metaforicamente gli elementi e fattane trasgressione semantica, il poeta, vago ed evocativo, sogna di una zeriba che raccoglie la voce del vento della “libertà Mandela” o di una chimera: «Un’altalena il mare / unico amico il mare / perché ti ricordo?». 

Intreccio di classico e di contemporaneo, la poesia di Bonventre è certamente traccia e testimonianza di come il linguaggio poetico, accanto agli altri linguaggi della società tecnologica, conservi intatta la propria vitalità e una propria ricerca ineliminabile per dire la pluralità delle cose. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pag. 48.




Domenico Cara, Bajlcàl, Milano, Editrice grafiche abidue, p. 1324

 Non posso evitare di dire che ho letto Bajlcàl, l’ultimo libro di poesie di Domenico Cara, che fra l’altro è una penna che non scrive solo poesia e di poesia, in compagnia delle indicazioni di percorso che lo stesso autore ha dato con una sua nota a fine testo e di quelle dell’introduzione di Mario Lunetta, che, a sua volta, cita, la figura del “poetaforista” di Stefano Lanuzza. 

Bajlcàl è una raccolta di poesie che si suddivide in quattro parti: Arpa omofona, Charme assoluto (monoloquio sull’altrove), Flotiglia dell’orsa e Camera delle similitudini. 

Non azzardo nessuna cucitura tra questi quattro sottoinsiemi e l’insieme della raccolta. 

Dico solo che parole-luoghi come “interrogazioni, tempo, ironia, metafisica, logos, contingenza, caduta, altrove, lineamenti di realtà, aliquota del quotidiano, piazza, trascendenza, il punto dell’effimero, caso, caos, aleatorio, ecc. , erano quelle/i che mi prendevano con più insistenza e che più di ogni altra rete di connessione si ponevano come centro di gravitazione orbitale nel tentativo di un mio rapporto più ravvicinato col detto e il non detto della poesia di Cara. 

Non saprei spiegare perfettamente perché, ma sicuramente cercavo un filo, una trama, delle tracce, dei frammenti, anche aforismatici, a me familiari e da utilizzare come tali per “colloquiare”, si fa per dire, con il testo del poeta nel suo flusso di “accumulo barocco”, interrotto dalla necessaria discontinuità della scrittura e della scrittura poetica in particolare che si concretizza nella polimorfia del verso. 

Mi sono venuti in aiuto due versi di Maurice Blanchot – “Parlava, andando di parola in parola / per consumare la sua presenza” – che Cara ha utilizzato a fronte come segno d’incipit per la poesia Le trascendenze, l’attesa, l’oblio (p. 101). 

Domenico Cara, infatti, consumando le presenze sotterranee del «lago> , di Bajakàl nella consistenza della scrittura che si erode nella coesistenza oscillante tra profondità e limpidezza di pensiero e di sintassi, pone la sua poesia in un rapporto permanente di interrogazione col tempo. Un tempo che sosta divenendo in un ininterrotto seguirsi, senza principio e senza fine, di presenza e di assenza, dove la consumazione è una cancellazione senza la conservazione della memoria: il gioco dell’acqua del mare, ma anche del «lago>, quando il vento innesca il moto delle onde. 

“. . . la parole indicibile” così dice e non dice, e le “. . .cicali invisibili” consumando la loro invisibilità nella corporeità del canto cancellano il loro suono nei segni che vengono tradotti in scrittura, in un “ritorno” che Nietzsche chiama “eterno”. 

La citazione è un altro “luogo” dove Cara e Blanchot mi hanno portato, ma non chiedetemene una ragione logocentrica. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 82-83.




D. Cara, Ornamenti per sella, Bologna, Ed. del drago di seta, 1994, pagg. 58.

Il cavaliere che monta la “sella” del cavallo della scrittura e ne orna con lo stile la superficie non euclidea o a curvatura costante negativa – spazio, appunto, a “sella”-, come dicono gli artisti delle geometrie non classiche, è Esco. Esco sa che i sentieri di questo spazio sono quelli che si declinano con la consistenza delle dune del deserto o delle scie delle onde del mare. Si può dire che Esco, in questa nuova esperienza scritturale di Cara, sia la stessa scrittura che giocando sul piano non lineare degli assi logolinguistici del viaggio de-lirante del pensiero in cammino (.Adesso la fissità si è spostata e, quindi, c’è per tutti noi una possibilità di parlare…-, .A quanto pare, qualcuno ride di noi stamattina, taglia a metà le ragioni irreali come un uovo sodo e bianchissimo… -, aggruma e colora, quasi per nascosta aspirazione e vocazione conoscitiva, “casuali” significati e sensi congetturali e/o, a volte, aforismatici, argomentativi, inaspettate emergenze e “brezze casuali”: .Un modo diverso di pensare alla felicità è di sognare una foglia vagante•. 

Questo modo di viaggiare su uno “spazio a sella e in tempo miscelato”, dove la linearità del discorso cede il posto alla parola dei nodi, non fa perdere, tuttavia, la pregnanza e l’efficacia della scrittura e dei messaggi-non messaggi. I nodi infatti sono legati dalla concreta contingenza della rete discontinua-continua della vista, dell’ascolto, del gusto, dell’immaginario polifonico e dell’improbabile probabile di cui possono dire, deposto il terrore dell’aut aut, solo gli universi delle logiche che sposano la pienezza del tempo come miscela. Nei luoghi dove la leggerezza o l’esattezza della scrittura devono curvare i “bordi” della soglia attraversamento non dicibile – e decidere il passaggio del “referente” al livello del tra-dotto, il piano della pagina porta anche le tracce dello zoccolo dell’ironia (Il suo orgasmo era un’estasi nazionale…•. Non è un caso che Cara, ad apertura del testo, si presenta in compagnia di Majakovski, Ionesco e altri cavalieri della penna. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 62-63.




D. Cara, La conservazione dell’oggetto poetico, Ed. Laboratorio. Milano, 1993. pagg. 367

Dopo Traversata dell’azzardo, quasi un repertorio della poesia degli anni Ottanta e un rapporto sulle illusioni irrazionali. pubblicato per i tipi della Forum/Quinta Generazione, Domenico Cara dà alle stampe La conservazione dell’oggetto poetico. 

L’opera non vuole essere un’antologia bensì un repertorio di stili e referenze modali dal momento che non esiste più la Poesia ma “versioni di poesia”. 

Con l’attenzione alla lingua usata dagli autori inclusi. Cara divide il suo lavoro in quattro sezioni: l – i nodi dell’epoca: selva continua, nutrimento, allegoria, 2 – l’origine dei fili. indispensabilità della proporzione. 3 – dai lacerti dell’emozione, altra esistenza. 4 – Tornare dal fondo, consegnarsi all·assente. 

Non è senza ironia che l’autore del rapporto ci presenta La conservazione dell’oggetto poetico: le varie scritture poetiche, infatti, strappate alla solitudine del monologo o di un finto colloquio con un alter ego, vengono verbometaforizzate entro comici appese ai chiodi delle “autopsie… sali nell’acqua…”. D’altronde oggi non c’è indagine e riflessione sulla scrittura che non viva di ironia, se la lingua è diventata campo ermeneutico, orizzonte di realizzazione e derealizzazione che fonda e sfonda allegorie, spaesamenti, nostalgie fondative, assenze nichilistiche o altro. 

In ogni caso, dice l’autore, quella degli anni Novanta è una ‘poesia uscita per sempre dalle sincopatie della maniera e quindi libera di essere collocata nella rianimazione dei suoi equilibri». I poeti, così, raccontandosi nell’età che li attraversa con tutta la tensione di una realtà inquieta e dai bordi indefiniti, si interrogano e danno voce a· dei “versi” che triangolano gli eventi tra l’assurdo, l’immaginario e altri intrecci, facendo della “conservazione dell’oggetto poetico” una poesia come poesie che si collocano nei luoghi delle domande e delle risposte irrinunciabili. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno V, n.2, 1993, pagg. 46-47..




 Boris Vishiski, Gli occhi del pittore

Pasian di Prato (Udine), Campanotto Editore, 1997, pagg. 170. 

“Gli occhi del pittore” è l’ultimo romanzo dello scrittore macedone, Boris Vishiski, che Matilde Contino ha tradotto in lingua italiana dopo Corona di Sabbia dello stesso autore. 

La traduzione ha reso perfettamente l’intreccio dei vari livelli del testo. Ne conserva la fluidità, la freschezza e l’incisività poietica che, tra implicanze di varia natura, articola e struttura il tessuto del romanzo. 

Realtà, fatti, eventi, storia, immaginario e immaginale, sogno, razionale e irrazionale, proiezioni psico-affettive e costruzioni “surreali” … sono miscelati e distesi con effetti d’intesa e costante tensione letteraria. Il perno della costruzione letteraria è, ormai, quello che nell’opera di Boris Vishiski può essere considerato un ideologema: un personaggio che vive la propria condizione socio-umana come una differenza di separata alterità, la cui complessa e sicura identità di singolo e di cittadino libero è permanentemente minacciata di distruzione. 

Per alcuni aspetti, lo sviluppo dell’intreccio sembra richiamare le tematiche dell’alienazione e della perdita d’identità dei personaggi kafkiani. Ai personaggi di Kafka il potere frustrante e deviante del “Castello” si presentava con l’impenetrabilità comunicativa e quasi metafisica. Al personaggio di Vishiski la violenza del potere, forte e ossessiva, continua e inafferrabile metamorfosi in agguato, si presenta con tutta la visibilità e la volontà dichiarata di annichilimento. 

I frammenti della vita di Marco sono la dolorosa allegoria di un ordine che ha distrutto e perso, per volontà di un potere assurdo quanto inaccettabile, a volte oscuro e inspiegabile, il senso delle relazioni umane e politiche plurali. 

Per contrasto, il messaggio dell’opera, ci sembra essere, fortunatamente, un invito alla resistenza e all’attacco vigile. 

Antonino Contiliano 

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 50-51.




Angela Scandaliato-Maria Gerardi, La Giudecca di Sciacca. Gli Ospedali della città, Castelvetrano, Edizioni Mazzotta, 1990.

 Il testo, scritto a due mani, è uno spaccato della storia di Sciacca tra il XIV, XV, XVI e XVII secolo, la cui narrazione pesca nell’humus dei diversi strati sociali e nei rapporti di gerarchie e dominanze, sottomissioni e sfruttamenti, lotte aperte e clandestine, diplomatiche e non per il controllo del potere. 

Il lavoro, corredato da opportune note, rimandi in appendici, riproduzioni di documenti d’epoca già noti o inediti, indicazioni bibliografiche d’obbligo e da una inequivocabile chiave di lettura che si rifà alla storia come “lotta di classe”, affonda il bisturi dello stilo ricostruttivo nelle “zone d’ombra” e nella “microstoria” della Sciacca dei secoli sopra indicati. 

Da un confronto con il presente, verrebbe voglia di rispolverare Giabattista Vico con i suoi “corsi e ricorsi” o quanto meno ripensare a certe devianze delle istituzioni come a una costante piuttosto che come a un fatto “congiunturale”. 

Sono gli ebrei e il loro rapporto con il potere politico-economico laico e religioso-cattolico locale, i poveri, le prostitute, i vagabondi e il loro rapporto con le logiche ideologiche forcaiole e torchianti della classe dominante del tempo e i relativi ricambi, il vero soggetto che processa e giudica un’epoca e i suoi cosidetti governanti, più della sapiente ricostruzione delle autrici che a quelli hanno prestato la penna per dare loro voce e possibilità di memoria storica per gli altri. 

I capi d’imputazione: assenza dello Stato, clientelismo, compravendita del potere, compreso quello di far giustizia col “privilegio” – legge privata -, favoreggiamento della prostituzione anche come propaganda di “antitodo” contro la peste, sfruttamenti e peculati nelle istituzioni assistenziali (vedi ospedali), dominio di un’ “etica” improntata al più cieco e abietto clericalismo cattolico, che additava ebrei, poveri, prostitute e vagabondi come causa dei malesseri più diffuse perché “diversi”: gli estranei come male irriducibile al bene e alle “buone norme”. 

Senza misconoscere l’apporto della Gerardi, ci sembra che la mano della Scandaliato, ricca anche di una sua esperienza nella “microstoria” degli eventi della poiesis, sia quella che più abbia dato luce e filo alle “zone d’ombra” della storta di Sciacca del periodo preso in esame, anche perché la sappiamo versata in questi studi, senza nulla togliere, peraltro, ad altri che perseguono obiettivi analoghi. 

Nel segnalare l’evento editoriale consigliamo la lettura dell’opera che, fra gli altri pregi o difetti che altri possano trovarvi, sicuramente non ha accademismi da officiare. 

Antonino Contiliano

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pagg. 81-82.