La ragazza che voleva i pantaloni 

Che grande invenzione, la pubblicità! Avete mai pensato alla pubblicità e a quante cose fa venir fuori? Basta solo mettere in moto un marchingegno, perché la cosa, quasi a forza d’inerzia, vada da sé, senza bisogno di altri spintoni. 

La pubblicità è come il pettegolezzo delle comari: inizialmente prende le mosse da una, e poi… poi coinvolge tutto l’abitato! Basta solo iniziare, anzi, l’importante è iniziare, perché subito si troveranno i proseliti, magari si costituiranno due fronti (non secoli!) «l’un contro l’altro armato», ma poco importa, tutto tirerà acqua al mulino, e questo macinerà, e come! 

Prendete il libro di Lara Cardella, della ragazza che voleva i pantaloni. Ci troviamo dinanzi ad uno dei miracoli veramente grandi che la pubblicità ha fatto da qualche mese a questa parte. L’annuncio di una pubblicazione, un’intervista sollecitata all’autrice di Volevo i pantaloni, e qualche ingenua affermazione: è bastato tanto poco per imbastire un fuoco d’artificio di cui tuttora si sentono i rimbombi. 

Tanto poco per dare il via al marchingegno di cui abbiamo parlato. Un fatto puramente paesano o, se volete, provinciale, in pochi giorni è divenuto un caso nazionale. Se n’è occupata la televisione con l’impeccabile Enzo Biagi, Canale 5 con l’accattivante pacioccone Maurizio Costanzo, e tutta una serie di giornali e rotocalchi. 

Ne valeva la pena? Ma tutto è lecito, quando c’è in palio il denaro. Perché diversamente non si spiega. Sfruttare le pur minime occasioni è una delle leggi di mercato. E l’occasione è stata sfruttata puntando sull’ingenuità della gente o, meglio, toccandola nel suo perbenismo, perché alla maschera in Sicilia ci si tiene ancora ed è prassi mostrarsi per quelli che non si è. 

Parlavamo di affermazione ingenua, poco fa. Ed in verità, cosa ha detto Lara Cardella dei licatesi – essi non vengono menzionati nel libro – che scrutano con gli occhi le ragazze, quasi le volessero spogliare? Forse che, quando si vedono delle belle ragazze, non è delizia guardarle? E questo non si verifica in qualsiasi altro paese di provincia del mondo e, magari, in una grande città? Anzi, dobbiamo dire che, con questi mezzi d’informazione di massa, differenziazioni comportamentali tra abitanti di paese o di città non ce ne sono o, tutt’al più, le distanze si sono molto ravvicinate. 

L’affermazione della Cardella da una parte e il risentimento paesano dall’altra hanno fatto traboccare l’acqua dal bicchiere ed è stata subito polemica aperta, quasi una caccia alla strega, a Lara Cardella, che s’è dovuta rinchiudere in casa ed aspettare tempi migliori. 

La gente di questo splendido paese costiero dell’agrigentino, bagnato dal mare ancora intatto e dominato dall’altura di Montesole (un tempo, ohimè, terra ridente di mandorli e d’ulivi, con qua e là qualche casina nobiliare, ora devastata da un abusivismo edilizio che qui non si arresta), ha gridato allo scandalo, ha contestato; insomma, ha fatto tanta di quella cagnara che ha persino coinvolto la stessa amministrazione comunale a tralasciare i problemi urgenti per interessarsi al caso. 

Il primo cittadino s’è dato un gran da fare, ha telefonato a destra e a manca per essere ospitato in televisione e così rigettare pubblicamente le affermazioni della «ribelle»: nella sua veste di sindaco doveva tranquillizzare gli animi, dicendo le cose come stanno. D’altronde, c’era dimezzo la reputazione di tutto un paese; persino la politica ne veniva toccata, e la politica nelle nostre parti non va toccata… 

Mi chiedo ancora: era necessaria questa messa in scena? Certo che se non si fosse dato peso alla cosa, il tutto sarebbe passato inosservato. Non sarebbe stata lesa la rispettabilità dei molti che a ben altro hanno da pensare, e di tutto potevano parlare tranne della ragazza dei pantaloni. Non sarebbe successo niente, e chi se la doveva sentire – non solo a Licata – se la sarebbe sentita. 

A fatto avvenuto, così come sono andate le cose, la cittadinanza tutta non ne è uscita indenne o, per lo meno, non ha fatto una bella figura dinanzi all’opinione pubblica nazionale. Il silenzio, vero che non è sempre d’oro, ma sicuramente non avrebbe fatto sbagliare! 

Così, questo chiasso è servito solo a far scattare il marchingegno della pubblicità con pochissime spese iniziali o, meglio, a spese del perbenismo risentito dei licatesi. E chi ne trae vantaggio è la Mondadori che vende il libro primo classificato. 

La giovane Cardella va incoraggiata e spronata a continuare la strada intrapresa dello scrivere ma senza badare alle varie voci che si dicono, perché, quando c’è di mezzo il meschino denaro, si fa in fretta a montare le persone. 

Gran brutta cosa è poi la delusione… 

Alcuni, senza perderci tempo, col fiuto finissimo che li caratterizza, hanno parlato di «caso letterario», non sapendo che così offendono la dignità artistica ed umana di tanti scrittori meritevolissimi, i quali o sono passati inosservati e tuttora aspettano giustizia , o la loro opera è stata apprezzata fuori prima che il pubblico nostrano «bestia varia e scanzonata» se ne potesse interessare. È il caso di Svevo o, per non andar lontano, del siciliano Tomasi di Lampedusa. 

Di Lara Cardella ci sarebbe poco da dire, se non fosse stato per questa montatura. Volevo i pantaloni è un libretto animato solo dagli ardori e dalla fede giovanili: vuole essere una denuncia sociale e tale è, vera o inventata che sia. Ma più che romanzo – così come l’autrice lo presenta -, perché romanzo non è, parlerei di documento, restando nell’ambito della denuncia, dato che dal vizio e dalla depravazione non viene intravista alcuna via d’uscita. 

Zio Vincenzino o ziaVannina, l’uno vale l’altra, se per superare le difficoltà economiche essa si vende a questo o a quello, dimostrandosi superficiale, vuota e, persino, banale. Ma anche l’io scrivente si chiude nella rassegnazione e all’ultimo niente fa per cambiare quella realtà che prima aveva contestato e deriso. 

La trama è esilissima, e tutta incentrata sulle figure dell’uomo-padrone e della donna-oggetto. Tema che, a dir la verità, a noi sembra inattuale o molto limitato nella sua casistica. Con la televisione che ci propina volgarità a mai finire e che viene seguita dalla mattina alla sera da casalinghe e da collaboratrici familiari, si è avuta un’evoluzione (o involuzione?) veramente sorprendente in tutti i ceti sociali e nei paesetti più lontani, dove si assiste ad eccessi d’usi e di costumi che non si riscontrano neppure nelle stesse grandi città. 

Il successo del libretto sta solo nel lassismo proprio dell’uomo di oggi e nella capacità di assecondarlo da parte di chi detiene il potere culturale, sfruttando al massimo ogni occasione per far quattrini. Alle case editrici – e il nostro caso è lampante – non interessa un’opera dal suo lato artisticoculturale, bensì dall’introito che ne potrebbe derivare: e se le previsioni fanno ben sperare, vada pure a farsi benedire la morale o l’elevazione culturale della gente! 

La realtà è che ci troviamo dinanzi ad un decadimento etico senza alternative e tutto sembra inclinare verso l’accettazione passiva di una situazione che mortifica e ripugna, se lo Stato non si farà garante esso stesso di moralità. Diversamente le cose andranno così, alla deriva, e il peggio dovrà ancora venire. Anche perché uomini culturalmente validi e preparati, che veramente hanno qualcosa da dire, sono nell’impossibilità di operare, tagliati fuori come sono da un sistema che impone, anche in modo occulto, la sua volontà. Ne risente la scuola, e ne vive la sua crisi la famiglia, se di crisi si può parlare, perché fortemente scissa negli affetti più intimi e negli interessi. 

La disgregazione del nucleo familiare, facilitata anche dai ritmi della vita moderna, ha messo ancor più in discussione il rapporto genitori-figli, non nei termini tradizionali della questione, ma come disinteresse ed egoismo spinti all’esagerazione: e da qui è venuta meno tutta una serie di valori fondamentali per la convivenza sociale. 

L’amore, il rispetto degli altri, l’amicizia leale e disinteressata sembra siano stati accantonati per dare spazio ad ogni specie di materialità dilagante che costituisce, come in un circolo chiuso, il polo d’interesse dell’uomo odierno, anche se egli fa difficoltà a riconoscersi in questo stato di bruttura e di miseria. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 27-30.




 La poesia popolare siciliana   

La poesia popolare è un aspetto e un mezzo della cultura d’un popolo attraverso cui egli manifesta e trasmette il suo animo. Oggi lo studioso si trova dinanzi ad un campo aperto e non del tutto conosciuto. D’altronde, lo studio delle tradizioni popolari si è sviluppato a partire dal XIX secolo, quando cominciavano ad essere scientificamente riconosciute le scienze umane, in cui rientrano l’antropologia, l’etnografia, la demopsicologia e la demologia. 

I primi studi e raccolte di poesia popolare risalgono agli inizi dell’Ottocento (lo stesso Leopardi pubblicò nello Zibaldone alcune canzonette recanatesi), ma quelli che subito acquistarono rilievo sono: Saggio di canti popolari della provincia di Marittima e di Campagna (1830) di P. E. Visconti e Canti popolari toscani corsi illirici greci (1841) di N. Tommaseo. Gli autori, che sorsero un po’ dovunque nelle regioni d’Italia1, furono influenzati dalle istanze romantiche, tendenti a rivolgersi e a valorizzare il popolo e a ciò che sapeva di popolare. 

Una questione aperta e dibattuta, a proposito della poesia popolare, consiste nel fatto se si debba ritenere o non un derivato da quella colta. Molti studiosi sono portati a ritenerlo. Ma, come già aveva intuito Giuseppe Pitrè, va tenuto presente un distinguo; cioè, tanta parte di poesia viene dal popolo; altra, ma in minima quantità, è di derivazione colta o semicolta (lo si nota da come è gestita la parola e dalla struttura del verso più elaborata), assorbita dal popolo e con diverse varianti elaborata e tramandata. 

La poesia popolare nasce da un fatto di cultura, insito nelle condizioni di vita del popolo, che subisce influssi e richiami degli eventi verificatisi. Ma quello che qui si vuole sottolineare è che l’evento storico, il fatto di cronaca o la realtà di ogni giorno, che è pure storia vissuta, vengono filtrati dal sentimento che, interiorizzandoli, li elabora in senso lirico. Questo giustifica il canto, sicché tanta parte della poesia popolare non si giustifica se non con il canto, che è l’espressione più naturale per esprimere gli stati d’animo. Va detto anche che la parola nella poesia popolare gioca un ruolo importante, perché spesso ricorre ai doppi sensi e al figurato che la carica di significati diversi. Questa poesia ci fa veramente conoscere l’indole del popolo, che, in fondo, è docile, nonostante l’accanirsi delle vicissitudini ed una politica che spesso non risolve i suoi problemi e la rende restìa e ribelle. 

I canti popolari siciliani, di solito, sono costituiti da strambotti, distici, stornelli, mottetti, serenate, canzoni, canti di circostanza, storie sacre e profane, filastrocche, ninne-nanne ed altro. I loro contenuti sono vari (di amore o di rabbia, epico-lirici, religiosi, storici, agresti, e in ogni caso partecipano lo stato d’animo e il vissuto del poeta. 

«Cu’ voli puisia vegna ‘n Sicilia 
Ca porta la bannera di vittoria 
Li so’ nnimici nn’avirannu ‘nvidia 
Ca Diu ci desi ad idda tanta gloria 
Canti canzuni n’avi centu milia 
E lu po’ diri cu grannizza e boria 
Evviva, evviva sempri la Sicilia 
La terra di l’amuri e di la gloria2». 

Qual è la motivazione di tanta poesia? Senza dubbio, essa va ricercata nel dolore e, perciò, nel bisogno di un riscatto che, al momento, trova solo nella parola e nel canto lo strumento idoneo. Sicché, anche il motivo più spesso ricorrente, quello dell’amore, canta amarezze e difficoltà d’ogni sorta, e lo stesso amore non può concretarsi, perché uno dei due innamorati manca di dote e non ottiene il consenso dei genitori. 

«Bedda, pi’ amari a tia li me nun vonnu, 
ni la me casa cci ha statu lu ‘mpernu3». 

Nonostante tutto, l’innamorato spererà e insisterà, perché possa realizzarsi il suo sogno d’amore: 

«Vinni a cantari ‘cca e lu fici apposta, 
pi’ vidiri si to’ ma’ cala la testa4». 
A volte l’innamorato dimentica o, meglio, accantona ogni angustia per esternare il suo sentimento, e allora esalta la bellezza della sua donna ricorrendo ad immagini della natura: 

«Vaju di notti comu va la luna, 
Vaju circannu a tia, stilla Diana. 
Bedda, ca si’ cchiù bedda di ‘na parma, 
‘nzoccu ti metti a lu pettu t’adurna5». 

Si noti il riferimento letterario «stilla», al posto di stidda, ma pure «Diana» è un’acquisizione dotta, anche se riscontrabile nella terminologia popolare, contadina e marinara. L’immagine è bella; l’innamorato è come chi, annaspando nel buio, cerca la luce, sicuro di trovare appagamento. 

In altri componimenti, l’amante esprime il suo amore e, al tempo stesso, vuole esserne rassicurato 

(«Bedda, li to’ biddizzi li prutennu», canta il poeta), perché teme la concorrenza e s’ingelosisce. 
«Bedda, li to’ biddizzi li prutennu, 
e si ad antru li duni, mi nni lagnu; 
siddu li duni a quarchi strafazzeri, 
si li va ‘ ccancia pi’ un pezzu di pani. 
Dunali a mia ca sugnu arginteri; 
iu ti li fermu e ti portu li ciavi, 
e ti li nesciu a li festi sulleni: 
Mezzaustu, Suttemmiru e Natali6». 

Spesso l’amore s’accompagna al tempo della raccolta che, alleviando le fatiche, fa sperare bene per meglio vivere e accettare la vita. 

«Bedda mia, 
lu tempu vinni di cogghiri racina; 
lu viddanu s’incammina, 
nni la vigna si ‘nni va. 
Lu poviru la spremi 
e la metti ‘ ntra li vutti. 
Bedda mia, 
cuntenti tutti, 
quannu poi si vivirà7. 

Il tempo della raccolta infonde un senso di gioia: è il momento in cui il contadino vede concretati i suoi sacrifici. Nei suoi movimenti, negli ampi gesti che l’accompagnano c’è piena accettazione della vita, ma anche sincera riconoscenza della divinità, che fa pensare ai ringraziamenti e alle propizi azioni degli antichi pagani. Ne sono chiaro esempio le feste che si facevano a raccolto com-plessivo avvenuto (e che tuttora nelle nostre contrade si fanno), oppure i canti che per le varie occasioni si cantavano, come quelli della mietitura o quelli dell’aia, che con varianti più o meno vistose sono presenti dovunque in Sicilia. Nella poesia popolare questo intreccio di sacro e di profano è abbastanza presente. Assillata dai bisogni, la povera gente si rivolge a Dio o ai Santi per risolvere i conflitti o per essere tutelata e aiutata («Duna a tutti la saluti, / a li figghi e a li niputi, / e pi’ nantri piccatura, / tu ci preghi a lu Signuri. / Tanti genti fannu guerra / ni li posti di ‘sta terra, / astutati ‘sti furnaci, / o Riggina di la paci8», ma anche per scongiurare malanni o allontanare da sé eventuali malocchi di chi la vuole male: 

«Iu mi curcu pi’ durmiri 
‘nni stu sonnu pozzu muriri, 
e si ‘un aju ‘u cumpissuri 
mi cumpessu cu vu’, miu Signuri. 
Tri stizzi di sangu di Gesù, 
tri fila di capiddi di Maria, 
attaccati e liati manu, vucca e cori 
a cu’ mali a mia voli9». 
Di qui alla maledizione il passo è breve: 
«Cu’ voli mali a mia: scippati l’occi, 
du puntareddi appizzati a li gricci. 
Cci nn’addisiddu cimici e pidocci, 
quantu frummentu cc’è, favi e linticci10». 

Al poeta popolare non sfuggono i fatti storici, lontani o più recenti, in cui esalta il sentimento collettivo nazionale che per poco fa dimenticare la miseria. Come in questa ottava, riferita ai Vespri, in cui lo sfogo e la rabbia per i maltrattamenti subìti sono forti. 

«Nun v’azzardati a vèniri ‘n Sicilia, 
ch’hannu juratu salarvi li coria; 
e sempri ca virriti ‘ntra Sicilia, 
la Francia sunirà sempri martoria. 
Oggi, a cu’ dici Chichiri ‘n Sicilia, 
si cci tagghia lu coddu pri so’ gloria; 
e quannu si dirà: qui fu Sicilia, 
finirà di la Francia la memoria11». 

Il popolo siciliano, come fu passivo nel subire le peggiori angherie dai propri sovrani e dai signori locali, mai sopportò quelle infertegli dai dominatori stranieri. Si nota, ad esempio, da un componimento che risale al 1866, In piena dominazione piemontese. 

«Lu tempu è fattu niuru, 
vinniru arre’ li lutti: 
comu si pò risistiri? 
Hamu a tinìri tutti? .. 
Sentu friscura d’ariu, 
lu celu è picurinu; 
‘nca cc’è spiranza, populi, 
la burrasca è vicinu12!» 

C’era chi esaltava ancora la passeggiata garibaldina in Sicilia, ma altri lamentavano una spoliazione mai vista fino allora e parlavano di «granni tradimentu», auspicando tempi migliori. È, in fondo, ciò che Verga denuncia nella novella «Libertà», da leggere per comprendere meglio, fuori dell’ alone pubblicistico piemontese purtroppo ancora forte, la vera realtà della Sicilia e del Meridione in quegli anni. 

Anche le «storie» sacre, che si rifanno alle vite dei Santi o ai miracoli, e i fatti di cronaca (le «storie» profane) sono ben recepiti dal popolo che li fa argomento di discussione e di canto. Basti citare l’opera meritoria che svolsero (e che ancora, ma in minor misura nell’interno dell’ isola, svolgono) i cantastorie, per renderci conto di come il popolo sapeva fare propri i fatti e parteggiare per i protagonisti che, pure essi deboli, s’imponevano ed emergevano per i sentimenti di cui si fanno portatori. È il caso della «storia» della «Baronessa di Carini», abbastanza nota, o quella, me-no conosciuta, ma altrettanto coinvolgente, di «Scibilia nobili». 

È, questa, la «storia» di una giovane donna del trapanese che, rapita e portata a Tunisi dai pirati barbareschi, non viene riscattata dai genitori, perché, essendosi unita ad un giovane cavaliere senza il loro consenso, dicevano essere stati disonorati. A vuoto cadono le suppliche e le preghiere, i genitori saranno sordi ad ogni richiesta: e preferirono perdere una figlia, anziché l’oro del riscatto. Alla donna il bene le verrà dal giovane che non esiterà a rispondere: «Megghiu perdiri tant’oru / ca ‘n’amanti ‘un l’asciu cchiu!13» E la donna gli rimarrà molto obbligata e fedele; mentre per i parenti, che di lì a poco moriranno uno dopo l’altro, vestirà di rosso, per lo sposo indosserà per sempre un abito nero. 

Una «storia» che affascina, ben congegnata e costruita nelle parti che la compongono, ricca di annotazioni psicologiche e, soprattutto, rivelatrice d’un carattere forte che non s’abbatte facilmente e, anzi, resiste e trova il coraggio di reagire. 

«Lu me latti è biancu, bianchissimu, / sulu è dignu a li cristiani14». Così risponde ai corsari, che le dicono di dare il suo latte ai cani. Sono versi che rimangono impressi per la loro spontaneità, di una bellezza che tocca il cuore e lega per sempre a questa nobile figura di donna. 

Insieme con queste «storie» si diffondono anche le «storie» epiche. Il popolo vi è attratto per le figure emergenti, portatrici sempre di nobili ideali. È il caso della Storia di Fioravante e Rizzeri15, di cui riportiamo questi versi: 

(Madre) – Comu fu? Chi cosa ha statu? 
(Fioravanti) – Vaju a la morti ‘mmenzu 
a tanti genti, 
Strittuliatu ‘ntra sta surdatìa, 
Pi ‘n esseri di Cristu ubbidienti, 
Haju offisu a lu figghiu di Maria. 
Vaju a la morti e patirò turmenti, 
Accussì voli la furtuna mia. 
A vu’, matri, ‘un v’arraccumannu nenti, 
Matri, v’arraccumannu l’arma mia!’ 
(Madre) – Figghiu di lu mè cori e l’arma mia, 
Figghiu di lu mè cori e lu mè ciatu, 
Strittuliatu ‘ntra sta surdatìa: 
Stu corpu tantu beddu ‘ndilicatu! 
Sciugghitimillu pi ordini mia, 
Quantu sentu la cosa comu ha statu16! 

Come il popolo non poteva non apprezzare la lealtà di Fioravante e non partecipare nel contempo al dolore della madre che tutto tenterà per salvare il figlio? 
Altri motivi di canto sono dati dalle ninne-nanne e dalle filastrocche. Anche qui, nell’apparente semplicità del dettato, c’è una sottesa denuncia degli squilibri sociali e un
desiderio di migliorare la propria condizione, come in Alavò, per esempio, o in Chiovi, chiovi, chiovi, in cui la denuncia diventa satira che mette in ridicolo il barone,
laddove recita: «affaccia lu baruni / cu’ i causi a pinnuluni17». 
Chi può, spesso non spende nemmeno per il necessario, mentre chi vive in ristrettezze, tiene molto alla propria dignità e alla decenza. 

I motivi che danno contenuto alla poesia popolare sono tanti e tali da restare meravigliati. Ecco questa ottava, per esempio: 

«Masculiddu piruzzu d’oru 
dunni camina nasci lu violu; 
masculiddu piruzzu d’argentu, 
dunni camina ci nasci ‘u frummentu; 
masculiddu piruzzu d’addauru 
fa lu fruttu e fa lu ciavuru. 
Fimminazza piruzzu di chiuppu, 
‘un fa né ciauru e né fruttu18». 
da “Spiragli”, 2009, Saggi 
Si era in un periodo in cui il maschio aveva la preminenza; era lui a lavorare e a contribuire al mantenimento della famiglia. Perciò è esaltato, a differenza della donna
che spesso era di peso e si dava in sposa ancora in giovane età per contenere il bilancio familiare. 

Ancora: 

«’D pinu Saru mi purta’ a la Ciana, 
mancu mi detti ‘na ‘rrappa di racina. 
Cci firriavu di la tramuntana, 
mi nni cugghivu na fiscina cina19». 

In tempo di ristrettezze non erano rispettate nemmeno le buone creanze. Lo zio Rosario non offre niente, nemmeno un raspo d’uva, che il terreno generosamente gli dà, e alla faccia della taccagneria se la fa rubare. Per la gran parte del popolo era la fame, e la fame non tiene conto delle buone intenzioni. E, allora, ecco questa sestina: 

«Amici, a tutti quanti vogghiu beni, 
sintiti ca vi cuntu la raggiuni. 
Si fussi riccu, cunzassi li ceni 
e cummitassi tutti li pirsuni; 
ma haju lu cori me cinu di peni, 
ca mi sta abbianchiannu lu muluni20». 

La vita sembra sia registrata nei suoi palpiti, nelle aspirazioni, nei bisogni, nelle gioie del momento e persino nelle considerazioni esistenziali, di cui ad un certo punto il poeta si fa carico e ne sente il peso. Si era in tempi veramente duri, eppure si diceva – come si può notare – di tutto. La realtà è che la diffusione era orale, e la gente parlava, nonostante la chiusura delle classi sociali elevate; parlava e sfogava, se non altro, per scaricare le tensioni e condividere con gli altri il disagio di quella condizione, a differenza di oggi che, presi da una vita frenetica e stressante, non si riesce a comunicare e, più che mai, ci si chiude nel silenzio, bombardati come si è da mezzi di informazione sempre più sofisticati. Così non era un tempo quando, pur nella miseria e negli stenti, la gente si riuniva nelle case o all’aperto, e comunicava e si divertiva. Anche nei campi la vita era vissuta in modo diverso; non c’era ancora la meccanizzazione e gruppi di contadini jumatara sfidavano i duri lavori stagionali, parlando e cantando, e nel loro parlare e cantare c’era un dolore sotteso, non dovuto a rassegnazione, bensì alla constatazione dell’impari lotta, spesso sotterranea, che erano chiamati a sostenere con i padroni. Era nella mentalità dei nobili e dei ricchi feudatari che essi, i contadini, dovevano continuare a vivere la vita di sempre per sostenere l’economia del paese e per mantenere invariato l’ordine pubblico. Derivano di qui il dolore e la rabbia, di cui dicevamo. 

Se è vero che la povera gente era maltrattata e mancava di tutto, essa continuava a vivere la vita di sempre nella speranza, attaccata, com’era, ai valori dei padri. Ora l’uomo non ha fiducia in niente, è isolato, non è più nel disagio come prima, ma vive un malessere esistenziale ben più grande e insopportabile. E di questo deve essere consapevole e se vuole riprendersi ciò che gli appartiene, ha bisogno di recuperare, o ricrearsi, quei valori che gli facciano accettare ed amare la vita. 

Salvatore Vecchio

NOTE 

 
1 In Sicilia: Canti popolari siciliani di L. Vigo, che risale al 1857 (II ed. 1874) e, in aggiunta alla raccolta del Vigo, Canti popolari siciliani di S. Salomone-Marino (1867). In seguito, la ricerca acquistò maggiore prestigio con G. Pitrè, Canti popolari siciliani, 1870-’71 (II ed. 1891), i suoi Studi di poesia popolare (1972) e Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano (1889), ripubblicati nell’Edizione nazionale delle opere di Pitrè e Salomone Marino (Ila Palma) e, con C. Avolio, Canti popolari di Noto (1875). In seguito la ricerca e lo studio delle tradizioni popolari furono continuati da G. Cocchiara, Popolo e canti della Sicilia d’oggi (1923), Storia del folklore in Europa (1952) e altre opere che lo fecero conoscere in Italia e nel mondo. 
2 «Chi vuole poesia venga in Sicilia / che ha la bandiera della vittoria. / I suoi nemici ne avranno invidia, / ché Dio le diede tanta gloria. / Canti e canzoni ne ha in abbondanza / e lo può dire a gran voce e boria. / Evviva, evviva sempre la Sicilia, / la terra dell’amore e della gloria» (G. Cocchiara, Popolo e canti della Sicilia d’oggi, Palermo, Sandron, 1923). 
3 «Bella, ch’io ami te i miei non vogliono, / nella mia casa c’è stato l’inferno». 
4 «Bella, vengo a cantare qui e lo faccio apposta, / per vedere se tua madre cala la testa». 
5 «Vado di notte come va la luna, / vado cercando te, stella Diana. / Bella, e sei più bella di una palma, / ciò che al petto metti tutto t’adorna». 
6 «Bella, le tue bellezze le pretendo, / e se le dai ad un altro, io m’offendo; / se le da’ a qualche faccendiere, / va a barattarle per un pezzo di pane. / Dalle a me, che sono argentiere; io le chiudo e porto la chiave, / le prenderò nelle feste solenni: Mezzo Agosto, Settembre e Natale» (È un’ottava che proviene da Palma di Montechiaro, che celebra la festività della Madonna del Rosa-rio, patrona della città, 1’8 settembre). 
7 «Bella mia, / tempo è della vendemmia; / il villano s’incammina, / nella vigna se ne va. / Il povero l’uva spreme / e la mette nelle botti. / Bella mia, contenti tutti, / quando poi si berrà». 
8 «Dai a tutti la salute, / ai figli e ai nipoti, / e per noi peccatori, / pregaci il Signore. / Tante genti sono in guerra / in ogni parte della terra, / spegnete queste fornaci, / o Regina della pace». 
9 «Mi corico per dormire, / nel sonno posso morire, / e se non ho un confessore, / mi confesso con Voi, mio Signore. // Tre gocce di sangue di Gesù, / tre fili di capelli di Maria, / attaccate e legate mani, bocca e cuore / a chi male mi vuole». 
10 «A chi mi vuole male: cavate gli occhi, / conficcate due punteruoli nelle orecchie / gli auguro cimici e pidocchi, /tanti quanto frumento c’è, fave e lenticchie». 
11 «Non v’azzardate a venire in Sicilia: / hanno giurato di farvi le cuoia; / e ogni volta che verrete in Sicilia, / la Francia suonerà sempre a martorio. / Oggi, a chi dice Chichiri in Sicilia, / gli si taglia il collo per sua gloria; / e quando si dirà: qui fu Sicilia, / finirà della Francia la memoria». 
12 «II tempo è fatto nero, / siamo di nuovo ai lutti: / come si può resistere? / Dobbiamo sopportare tutti? .. // Sento frescura d’aria, / il cielo è pecorino; / perché c’è speranza, popolo, / la burrasca è vicina». 
13 «Meglio perdere tanto oro, / ché un amante non lo trovo più». 
14 «II mio latte è bianco, bianchissimo, / è solo degno dei cristiani». 
15 Si trova in G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, cit. 
16 (Madre) – Come fu? Cosa è stato? / … / (Fioravante) – Vado a morte in mezzo a tanta gente, / stretto tra la saltataglia, / per non essere ubbidiente a Cristo, / ho offeso il figlio di Maria. / Vado a morte e patirò tormenti, / così vuole la fortuna mia. / A voi, madre, non raccomando niente, / madre, vi raccomando l’anima mia! // (Madre) – Figlio del mio cuore e anima mia, / figlio del mio cuore e fiato mio, / stretto tra questa soldataglia: / corpo tanto bello e molto fine! / Liberatelo per ordine mio, / voglio sentire il fatto come è stato! 
17 « … S’ affaccia il barone / con i calzoni che gli vanno giù». 
18 «Maschietto, piedino d’oro, / dove cammina nasce un viottolo; / maschietto, piedino d’argento, / dove cammina nasce frumento; / maschietto, piedino d’alloro, / fa frutto e anche odore. / Femminaccia, piedino di pioppo, / non fa odore e nemmeno frutto». 
19 «Zio Rosario mi portò alla Chiana, / manco m’ha dato un raspo d’uva! / Vi andai da tramontana, e ne ho raccolto una cesta piena». 
20 «Amici, a tutti voglio bene, / sentite che vi dico la ragione. / S’io fossi ricco, imbandirei cene / e inviterei tutti quanti; / ma ho il cuore tanto afflitto / che mi si stanno imbiancando i capelli». 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 11-16.




 La poesia di Paolo Frosecchi 

Piazza del Limbo (pref. di A Gatto), Nuova Guaraldi Editrice, Firenze, pagg. 141, s.i.p. 

Di solito, quando si ha da fare con un pittore che scrive anche poesie, viene spontaneo riferirsi ai temi caratterizzanti le sue tele per meglio definirlo e conoscerlo. Non così avviene per la poesia del pittore Paolo Frosecchi (fiorentino di nascita – è del 24 – e milanese di adozione) che, se è una riconferma delle sue doti di artista, è nel contempo un viaggio interiore proteso alla ricerca di una identità più marcata. 

Giustamente Alfonso Gatto ha parlato di diario; e un diario proprio costituiscono queste poesie, se consideriamo che al centro di ognuna di esse c’è il poeta con i suoi ricordi, le nostalgie, i sentimenti che lo attaccano alla vita. 

La breve lirica Lunga strada, spoglia di ogni compiacimento verbale, ci dà l’esempio di questo voler scrutare dentro, e spiegarsi l’umana esistenza e ciò che essa ci riserba lungo il suo cammino. 

«Gli alberi neri» proiettano il poeta nell’età dell’infanzia, quando bastava un nonnulla per incuterci tanta paura e farci tremare. Un senso di nostalgia traspare da questi versi, ma Frosecchi non lo fa pesare, perché sa che a niente vale, se non a peggiorare le cose. L’ingenuità, la fede di una volta non ci sono più, e la realtà è ben altra cosa ora che «sono spezzati i rami». E dietro a questa realtà veramente pungente, la morte, l’inesorabile morte, che tutto tocca e non perdona. Ciò che rimane non è altro che il ricordo, nostalgico – abbiamo detto -, ma pieno di grande umanità. Come ne I lucarini, là dove la lucarina col suo «cuore piccino» piange il compagno morto: «Ritorna bambina / quand’era soltanto / una voce / un trillo / un trillo di trilli. / Si lascia morire / e non posso toccarla / chiuso come sono / da queste sbarre». Una bella lirica, questa, che gradatamente acquista il tono giusto per sciogliersi poi negli ultimi versi con la stessa cadenza iniziale. 

A volte il poeta è tutto preso da un fare polemico e sarcastico insieme, che non vuole essere affatto atteggiamento derisorio, ma nasce dalla consapevolezza di chi, non potendo sfuggire dinanzi ad una realtà come la morte, accetta, perché diversamente non può. Si legga, ad esempio, Storia, dove la collocazione degli stessi aggettivi («stupide pecore», «processione lenta», «bigio asfatto», «moccioso muso») ci dice l’indifferenza e il distacco propri di chi è abituato a considerare la vita come se non gli appartenesse. 

Altrove, però – vedi la lirica lo – lo scontento, che è poi dovuto ad un morboso sotteso attaccamento al mondo e alla vita che lo circonda, viene anche indirettamente evidenziato. 

Ma più che ogni altro motivo torna caro al poeta quello dell’amore, che occupa un posto di rilievo. Ancora, la figura femminile viene a stagliarsi meglio nel ricordo. E qui sta la bellezza di questi componimenti, perché nel ricordo tutto s’ingentilisce, anche se poi l’amara realtà si rivela diversa. 

In Richiamo c’è l’immagine di una donna restia, indifferente, appunto, al richiamo d’amore. 

Essa viene colta negli occhi che guardano nel buio e nell’atteggiamento di chi non dà alcuna importanza a tutto ciò che prima aveva costituito la sua gioia («Come in una danza / esci dalla tua pelle / contaminata d’amore / ti vesti di soli capelli / quei capelli neri / che passan tra le dita / quasi d’acqua»). Il poeta non trascura i «capelli neri», morbidi e leggeri come l’acqua che passa tra le dita, ma a niente vale il suo interesse, perché oramai la donna è sorda ad ogni richiamo. 

Ancora in Autunno riaffiora il ricordo di lei dai «grandi occhi / neri e neri e neri / di lucenti cristalli» che niente dicono ora al poeta, paragonati come sono alla foglia che si stacca morta. 

Chi ha avuto modo di ammirare alcuni quadri di Frosecchi pittore, avrà potuto notare che le donne mancano di affiatamento, e tra esse sono scostanti, quasi a voler proporre ognuna la sua bellezza. Nella lirica Le amiche, Violetta e Mammola, «bianche come ricotta / preparata su un piatto / si tenevano il mignolo / graziosamente allacciato», vanno arroganti nella loro candida grazia, desiderose solo di essere ammirate e amate. La realtà è che nella poesia Paolo Frosecchi ritrova il luogo idoneo a potere colloquiare con sé e con gli altri. E lo fa col tono discorsivo proprio della nostra migliore tradizione poetica, col risultato di una poesia scevra di ogni avanguardismo di moda, capace di parlare direttamente al cuore dei lettori. 

A volte il poeta usa un linguaggio spregiudicato – l’ha fatto bene notare per primo Alfonso Gatto, citando Natale -, ed è pure vero che se ne serve per trovare il tono giusto della sua ispirazione, riscontrabile, ad esempio, ne «l’amore dell’amore / che mi cresce e m’incanta». Poche parole bastano al Frosecchi per dire tutto il suo affetto di figlio e l’importanza che una madre ha nella vita di un uomo. Ma questi atteggiamenti ora spregiudicati ora di abbandono possono bene ascriversi ad una tendenza propria della lirica moderna, e non solo italiana. Sicché il poeta, quasi senza avvedersene, risente di tutto questo, e non può fare diversamente, in quanto è come un tributo che ciascuno di noi paga al proprio tempo. 

Frosecchi cade verso un modo di fare poesia sotto certi aspetti ermetica (Notte, Mendicante d’amore, Un urlo, per citarne alcune tra le più palesi), tentazione di non pochi poeti di questa seconda metà di secolo. A dire il vero, sono componimenti strutturalmente ben concepiti, e anche le immagini calzanti, ma non hanno quel calore e quella partecipazione a cui siamo abituati. Di questo il poeta se ne rende subito conto, e fa bene in tempo a cambiare strada e a ricalcare le orme della sua poesia più autentica. Si leggano, ad esempio, La magnolia e la ringhiera, o la già citata lo o, ancora, I segni, che sono tra le ultime liriche di questo libro Piazza del Limbo, dove colori e immagini bene appropriati ci restituiscono la giusta misura. 

La nostalgia, nella lirica Alle sette di sera, s’impossessa del poeta proprio sul far della sera, quando chiuso nella sua solitudine è assalito dal ricordo ancora troppo vivo per non far soffrire tanto l’uomo. Notate l’atmosfera, che è veramente propizia al pianto: una notte d’inverno e il ricordo di una primavera ben puntualizzata, il grigiore della morte e l’esuberanza della vita. 

C’è nella poesia di Paolo Frosecchi un non so che di classico e romantico insieme. La compostezza formale, la coloritura delle immagini,la partecipazione stessa del poeta in quelli che sono i suoi fantasmi creativi fanno di questa poesia il punto di partenza e di arrivo di una sensibilità moderna che affonda le sue radici in un solido retroterra culturale. Sicché, aprendo questo libro, il lettore si sente subito portato a leggerlo d’un fiato, perché alla memoria del passato il poeta affianca la sua spiccata sensilità di moderno, aperto ai problemi e ai richiami del mondo. La lirica L’esecuzione, che a prima lettura potrebbe apparire troppo prosastica («Mille e mille i cacciatori / sono partiti / coi fucili puntati / caricati a palla, / dietro la muta dei cani…»), è carica di tanta umanità, e il tono dimesso trova la sua piena giustificazione nello scontento proprio di chi vede la natura e il mondo andare giorno dopo giorno a rotoli. Scontento che, come in Primavera, viene subito meno all’approssimarsi della stagione primaverile, quando tutto ciò che sa di nuovo sembra esplodere .in una danza impazzita». 

Sono questi alti e bassi dell’animo sensibilissimo del poeta a dare credibilità a questo suo viaggio interiore, segno non dubbio di validità poetica e umana, destinato a riproporsi in una luce più chiara e con risultati migliori. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 62-65.




La poesia arabo-siciliana nel Medioevo 

Ci volle la venuta degli Arabi per far risvegliare la Sicilia dal sonno socioculturale in cui era caduta all’indomani della definitiva conquista da parte di Roma nel 209 a. C. Non dico che essa riprenderà l’antico splendore greco, ma per lo meno uscirà da quel torpore durato quasi otto secoli! Nel caos in cui era venuta a trovarsi, contesa com’era da Barbari e Bizantini, il diffondersi dei monasteri e l’opera dei monaci, soprattutto quella dei basiliani intorno all’VIII secolo, instaurarono un clima culturale molto ricco, ma furono gli Arabi a mettere ordine in Sicilia, ad aprirla all’ agricoltura e ai commerci e ad un nuovo clima di cultura, che ebbe le sue fasi migliori sotto i Kalbiti e i Normanni1. 

Gli Arabi, dopo un primo periodo di euforia religiosa e di intolleranza nei confronti dei miscredenti, abbandonarono la loro iniziale bellicosità, cercarono nuovi spazi e li trovarono un po’ dappertutto, in Spagna come in Sicilia e in terra d’Oriente. Specie laddove le popolazioni credevano in un solo Dio, essi si mostrarono subito tolleranti, perché in Sicilia nell’aprile dell’827 sbarcarono, insieme con le armi, il Corano e il diritto islamico, e i condottieri, a partire da Asad ibn al-Furàt, furono più abili conoscitori di diritto e teologi che guerrieri2. Questa predisposizione permise loro di crearsi attorno un clima di accettazione e di convivenza che garantì relativa pace. Perciò, la prima cosa a cui gli Arabi pensarono furono le moschee, che sorsero nel più breve tempo un po’ dovunque, ed esse divennero luoghi di preghiera e scuole, idonee ad interpretare il loro testo sacro e a diffonderne gli insegnamenti. 

Nell’ambito di questo clima in Sicilia fu in rapida ripresa la ·cultura e si sviluppò anche la poesia che, per le condizioni di vita, il nomadismo e la solitudine vissuti nei deserti dagli arabi carovanieri, era stata da sempre praticata, per cui, una volta sopito in Sicilia il rumore delle armi, il ricorso ai versi e alla rima recò un privilegiato diletto a tutti, sia agli emìri che alla gente qualunque. Sfortuna volle che tutto questo patrimonio poetico andasse dimenticato per lungo tempo e in parte perduto con la definitiva cacciata degli Arabi. Resta quel tanto che basta per farci un’idea di quella poesia che, seppure sbiadita, nonostante una consolidata ripetitiva prassi, testimonia una forte vitalità dovuta ai temi e al variegato modo di esprimerli. 

Il merito della riscoperta della poesia arabo-siciliana è di Michele Amari, che, mentre andava riordinando e pubblicando il materiale destinato alla sua monumentale Storia dei Musulmani di Sicilia (1854-1872), diede alle stampe nel 1857 a Lipsia Biblioteca arabo-siciliana. Di lì prese il via Poesia e arte degli Arabi di Spagna e di Sicilia di Adolf von Schack del 1865, mentre Celestino Schiaparelli, discepolo e amico di Amari, pubblicava a Roma nel 1897 il suo Canzoniere di Ibn Hamdis, l’unico arrivatoci completo, perché l’altro, quello di al-Billanubi, ci è pervenuto mutilo, tradotto sempre dallo Schiaparelli, ma non pubblicato fino al 1959, quando Umberto Rizzitano lo inserì nell’edizione curata per conto dell’Università del Cairo. Per la verità, di al-Billanubi è stata curata un’altra edizione, ampliata a 600 versi, dall’iraniano Hilal Nagi nel 19763. 

Di altri poeti conosciamo qualcosa da alcuni estratti dell’opera di Ibn al-Qattà, filologo, letterato e poeta siciliano (si sa che nacque in Sicilia nel 1041 e morì al Cairo nel 1121). L’opera era un’antologia, andata perduta, dal titolo La perla preziosa sui poeti dell’Isola, che riuniva 170 poeti per un ammontare di ben ventimila versi. Si tratta di poeti fioriti sotto i Kalbiti (947-1050), in un periodo tranquillo per la Sicilia. Un estratto è quello fatto da as-Sayrafi (morto nel 1147), curato e tradotto in italiano da Ignazio Di Matteo4, contenente 348 versi di 18 poeti. Dagli arabisti (U. Rizzitano, F. Gabrieli, A. Borruso e altri) il lavoro del Di Matteo è ritenuto meritorio dal lato filologico, ma non da quello critico, perché esagerato nei giudizi. A dire il vero, senza volere invadere il campo dell’ arabistica, tranne il componimento, di at-Tamimi, che fa riferimento alla guerra di conquista normanna, siamo dinanzi a temi e motivi della poesia araba preislamica e di quella neoclassica del periodo abbàside più splendido, che va dal 750 con Abu al- Abbas fino all’850 circa, con i califfi Harun alRashid e al-Ma’mun. Poi il califfato cominciò a perdere la sua unità e fu definitivamente abbattuto dall’invasione mongola del 1258. 

Altro estratto di poeti arabo-siciliani è quello inserito nell’antologia compilata da al-Isfahani (morto nel 1201). Ma tutto questo è ben poco rispetto a quella che sicuramente è stata la poesia arabosiciliana. Ci si auspica un’edizione completa perché il lettore interessato e il cultore di cose siciliane possa farsene un’idea più chiara. 

Abbiamo già detto che i temi sono quelli della poesia araba preislamica e neoc1assica. Basti sfogliare l’estratto di as-Sayrafi fatto da Di Matteo: l’elogio di sé o degli altri, l’amore, la descrizione di luoghi e di giardini, per lo più indeterminati, sul far della primavera, il vino con i suoi pregi e gli effetti che produce, la gnomicità e, ancora, la descrizione di fenomeni atmosferici, come il lampo, o oggetti vari (il liuto, il cero), ma anche l’arancia, la palma, o animali. Non manca il tema del dolore. Mancano gli accenni alla Sicilia, qua e là qualche richiamo storico, per il resto i temi sono ripetitivi e, come fa notare Francesco Gabrieli5, ripresi da altri poeti, spagnoli o orientali; ciò era di norma nella poesia araba di quel tempo. 

Il fatto che nella poesia araba siciliana manchino i richiami alla terra di Sicilia gli studiosi se lo spiegano dicendo che gli antologisti fecero volutamente una cernita, eliminando ciò che potesse far venire meno 1’orgoglio arabo ed essere di elogio anche indiretto ai nemici. Tranne che in qualcuno, solo nel Canzoniere di Ibn Hamdìs (nato tra il 1055/56, morto nel 1133) abbiamo riferimenti chiari di sicilianità. Ciò significa6 che, rimanendo un unicum, non fu toccato da mano estranea. Diversamente non si spiega come tanti altri poeti non fanno cenno alla loro terra, a cui erano certamente legati. 

Ma veniamo ad alcuni esempi che possono aiutarci a comprendere questa poesia che, se per certi aspetti è ridondante, mani eristica, per altri evidenzia una sensibilità artistica sintomo o di un disagio interiore o di una situazione che volge al peggio, come in al-Kalbi7, allusivo eppure profondo per il significato sotteso specie nei primi versi: 

Io conosco le tue colline, ora già misere, 
mentre erano delizia 
nei giorni in cui tu eri 
generoso verso le donne leggiadre, 
nei giorni in cui presso di te v’era 
un paradiso amato di donne 
dal seno benfatto e un inferno di delatori. 

Il poeta vanta la gioia piena della giovinezza, le donne «dal seno ben fatto» (immagine ritornante nei nostri poeti del ‘900, a partire da Cardarelli). Vero, il poeta vanta la sua stirpe ed esagera, eppure s’intravede in questi versi l’inesorabile fugacità del tempo e il tutto che gli va dietro rovinoso. Altrove c’è la perdita di una persona cara, di un figlio o di un fratello, che esprime un sentimento vero, un dolore sofferto che segna l’animo e commuove, allora come ora. Ibn Hamdis piange i cari morti e anche la perdita della sua serva. At-Tamimi8, piangendo il fratello morto, s’accorge che a niente vale la gnomicità di certe sue asserzioni, quando si è dinanzi ad una realtà che non può più essere cambiata. 

La morte non viene a te che all’improvviso: 
sta’ in guardia! 
Questo è il massimo degli avvertimenti. 
Sopporta pazientemente il nocumento 
che ti colpisce, 
in considerazione della sua utilità, 
perché spesso sorge un’utilità dal nocumento. 
[...] Oh, l’unico, la cui perdita io temevo, 
se avesse potuto giovarmi il mio timore per te! 


La poesia arabo-siciliana canta il vino e l’amore, la spensieratezza o il bisogno di dimenticare, o di alleviare la pena della lontananza. AI-Husayn b. Al-Qattà9 in una qasida dice: 

Il vino ci aiuta con la gioia: cessa dunque 
dal montare i giovani cammelli [...] 
E vieni di buon’ora a visitare il vino, 
il cui suono di fermentazione 
s’allontanò dopo altri suoni. 
E Nasr al-Katib10 così lo esalta: 
Un certo vino, puro di colore, fresco, 
fatto venire da lontano, che scaccia le tristezze. 
Se viene annacquato, tu immagini 
che nel suo calice sia penetrata 
una solida pietra preziosa di giacinto. 
E Ibn Hamdis11 sembra fargli eco: 
Vino di colore e odor rosa, mescolato 
all’acqua ti mostra stelle tra raggi di sole. 
Con esso cacciai le cure dell’animo, 
con una bevuta il cui ardore 
serpeggia gentile, quasi inavvertibile. 
L‘argentea mia mano, stringendo il bicchiere, 
ne ritrae le cinque dita dorate. 

Si può notare come i temi siano ritornanti in questa poesia e come i poeti sembrano emularsi a vicenda. E, in effetti, questi poeti spesso erano chiamati a partecipare a gare e a confrontarsi con gli altri per essere meglio accolti tra gli amici del signore e far parte della sua cerchia. Ibn Hamdìs dovette improvvisare versi, sfidato da al-Mùtamid, per diventare suo favorito. Ancora: 

Ecco il vino fresco: le sue bolle 
nel calice sembrano perle. 
Ha il colore del papavero, e di esso nel calice 
pare stendersi un manto. 
Camminavo al bagliore del lampo, 
e le tenebre, al rosseggiar della notte, 
parevano un negro che perdesse sangue 
dal naso12. 

La poesia araba classica e, ovviamente, la poesia arabo-siciliana, è definita barocca. Questa di Ibn Hamdìs, come di tanti altri poeti del periodo, è un esempio di barocchismo; il poeta ricorre ad immagini azzardate, ad artifici e a giuochi di parole che, a leggerli, sorprendono. La ricerca dell’effetto e i richiami sottesi sono una dimostrazione di alchimia della parola. Il lettore, resta stupito, per l’incalzare delle immagini che la parola suscita e presenta in modo imprevisto e gratuito. Il poeta diviene un giocoliere della parola, per raggiungere gli obiettivi sperati, calzanti e impregnati di un forte senso del reale. La tecnica è quella del concettismo, che consiste nell’individuare paragoni e svilupparli (le bolle simili a perle, il colore è quello del papavero, la velatura del vino nel bicchiere è come un manto, il lampo è l’ effetto del vino, l’energia che sprigiona rosseggiante richiama i fumi dell’alcol, e la notte, come un negro, è schiarita dal vino, paragonato al sangue dal naso). 

È tempo di bere per dimenticare: «l’ardore della sua fiamma brucia la tristezza nelle viscere», com’era per i Greci o i Romani, com’è tuttora, per quanti altri nel vino vogliano affogare l’amaro del vivere. Ibn Hamdìs ubbidisce a quello che era un manierismo di moda, ma lo fa con disinvoltura, senza appesantire il verso, a differenza di altri. 

In una poesia così hanno posto anche gli oggetti e gli strumenti, la frutta e, piante e i fiori, gli animali e gli insetti. Tutti offrono occasione di riflessione o lo spunto per aprirsi a un argomento caro al poeta, e tutto è descritto con meticolosa cura (il cero, il liuto, il bicchiere, la spada, l’arancia, la palma, gli anemoni, il cavallo). Ecco come Abu-I-Hasan Alì b. ar-Rahmàn al-Katib13 descrive l’arancia: 

Su, gioisci della tua arancia raccolta: 
è presente la felicità, quando essa è presente. 
Si dia il benvenuto alle guance dei rami, 
e sian benvenute le stelle degli alberi. 
Sembra che il cielo abbia profuso oro fino 
e che la terra ce ne abbia formato 
delle sfere lucenti. 

Ar-Rahmàn al Katib, come altri poeti, Ibn Hamdìs compreso, è attratto da questo frutto per la pienezza che gli è propria, in cui la sfericità e il colore vivo, solare, sono simbiosi di terra e di cielo. Nel suo componimento Ibn Hamdìs è però più sensuale: le arance, più che sembrare guance dei rami, s’avvicinano guancia a guancia e, più che essere come sfere lucenti, bruciano accanto a noi carboni roventi14. Ci troviamo davanti a poeti di forte immaginazione, abili nel verseggiare e con una propria personalità. 

Non sono trascurati neppure i fenomeni atmosferici, come la nuvola o il lampo, che a Buscri al-Katib15 fa ricordare il fuoco d’amore: 

È apparso il lampo dalla parte di al-Higiaz, 
facendomi ricordare di Sulma e di Sa ‘da: 
e tal ricordo mi fa soffrire. 
(Il lampo) risplende sul colore delle tenebre 
e sembra (nei suoi guizzi) 
come tante spade roteanti sulle vesti azzurre. 
Oh come eccellente è il lampo, il cui bagliore 
ha tormentato (il mio) cuore! 
È forse ogni amante tormentato per i lampi? 


Se in Buscri al-Katib il lampo ricorda gli amori e ne rinnova i tormenti, non così è in Ibn Hamdis16: 


In quella plaga buia, guizza nell’aria 
da occidente a oriente, 
quasi un razzo di nafta che dalle nuvole 
esce a incendiare le tenebre. 
Se ne durasse il bagliore nell’oscurità, 
parrebbe una traccia d’oro 
sulla pietra di paragone. 

In questi versi c’è già sentore di guerra. La nafta era soprattutto utilizzata per bruciare le navi, scompaginare il nemico e metterlo in grave difficoltà. 

Tra tutti i temi, quello dell’amore è il più frequente, con riferimenti presi da altri poeti, primo fra gli altri. Abu Nuwàs, il maggiore rappresentante della poesia araba dell’epoca abbaside, vissuto a Bagdad tra il 750 e l’815. Lo si nota in questi versi di al-Billanubi17: 

Mi hanno ucciso sguardi di donne simili a statue, 
fra un candore di denti e labbra 
di scura porpora; 
dopo aver detto che la mia giovanile follia 
si era ormai conclusa, 
eccola rendermi nuovamente pazzo d’amore 
e di passione. 

È una qasida ben congegnata, la cui struttura segue un canone preciso: quando la passione sembra essere sopita, ecco che l’apparire della donna fa agitare nel poeta il fantasma dell’amore che gli si ripresenta inaspettato. La donna, «la gazzella», con le sue malìe, paragonata alla «luna che lo spasimante venera, come chi in passato, indotto dalla tentazione, ha adorato gli idoli», fugge lontano, a causa di un malevolo detrattore, facendo sfumare ogni contatto e rendendo difficile la vita. Meglio affidarsi al «capo dei capi», il solo che può offrire tranquillità e pace. La nota encomiastica chiude il componimento; il poeta non chiede niente, elogia soltanto l’emiro a cui si riferisce, considerandolo come «una nuvola che profonde pioggia» e si sente tutelato. 

L’amore più spesso è sofferenza, sentimento inappagato o represso, come in as-Sa’di18: 

Sarei venuto, per l’ardente amore, a visitarti 
camminando sulla mia faccia o sul mio capo. 


o in Sadus an-nahwi19: 

È stata lunga questa notte, tanto da sembrare 
un secolo, senza mattino 
che illumina e senza aurora. 
E il fantasma (dell’amata) è stato avaro 
di unirsi (a me) durante la notte: 
oh meraviglia! Perfino il fantasma 
mi abbandona. 

Il sentimento amoroso è vissuto con trasporto e passionalità, e questo in genere da tutti i poeti, nei quali la sensualità è una caratteristica. La riscontriamo in Ibn Harndis20 che non sfugge a quest’ agone poetico spesso sfoggio di bravura e non datore di vera poesia. 

Dal seno ben formato, arriva sospirando 
e se ne va, ed il mio cuore resta 
come leone in petto a lei avvinghiato. 

E così in tanti altri versi d’amore: 

una guancia dal color di rosa, 
e un delicato ramoscello che si dondola 
con le mele. 

in cui Ibn Hamdìs, servendosi di immagini come queste, è fortemente allusivo e sensuale. Altrove, come fanno notare anche F. Gabrieli21 e A. Borruso22, il poeta alle immagini dà maggiore slancio e respiro e riesce a fare vera poesia, come in Un giardino o in Incontro, nei quali l’avvicendarsi dell’aurora dà il senso della pienezza e, al tempo stesso, è il tentativo, e anche il bisogno di voler fermare, perché non sfumi, e contemplare meglio, ora la bellezza della ragazza, ora la gioia d’amore 

sospirai sbigottito, ma solo sospirai 
per lo spuntar dell’aurora. 

nel timore che il sopraggiungere della luce del giorno non la porti via. La stessa sensibilità è nel frammento Stelle lucenti23. 

Non la finivo di bere al calice delle sue mani, 
e la saliva era condimento alla mia bevanda. 
Le stelle lucenti declinavano ad occidente, 
come cigni si tuffano in uno stagno. 

Anche qui la retorica e la ricerca smodata di immagini, che poi sono consuete nella poesia araba, passa in sott’ordine di fronte a queste stelle che, declinando, lasciano un alone di nostalgia per il tempo che se ne va e con esso le cose belle della vita, le donne, l’amore, mentre la vecchiaia incombe su ciascuno come uno stagno privo di vita. 

Ma il tempo di poetare dei poeti arabo- siciliani volgeva al termine. La splendida stagione kalbita si spense tra le liti intestine che portarono il disordine e la guerra. Difatti, quando le lotte di predominio diventarono più frequenti, ecco che furono pronti ad appropriarsi della Sicilia i Normanni, presenti già nel meridione d’Italia. Fu proprio durante la lotta fratricida tra Ibn-Turnnah di Siracusa e Ibn al-Hawwas di Castrogiovanni (Enna) che Ibn-Turnnah chiamò i Normanni in suo aiuto. 

Durante questa lotta e anche dopo molti poeti arabo-siciliani intrapresero la via dell’esilio: alcuni, come Ibn Hamdìs e Abu’l Arab, si diressero verso la Spagna, altri verso l’Africa o l’Oriente, come Ibn at-Tubi. In questa seconda fase declinante per gli Arabo-Siciliani, troviamo sprazzi di sicilianità abbastanza sinceri, come li possiamo cogliere in Abu’ l-Arab, poeta che, attaccato alla sua terra, dinanzi alla conquista dei Normanni, scelse di andare incontro ad un esilio incerto. 

Egli è tormentato dall’incertezza che l’idea dell’ esilio gli prospetta e dall’idea stessa di dover partire, essendo stata la Sicilia fatta propria dai Cristiani. Ecco il componimento nella traduzione di A. De Stefano24: 

Perché corro dietro a vane,fallaci speranze? 
Mi basta solo eh ‘io batta dritta la via. 
Ma dove ne andrò? Già l’anima mia esitante 
or verso Occidente, or verso Oriente si volge. 

Dopo questi interrogativi il poeta si fa consapevole della realtà e, con uno scatto d’orgoglio tutto siciliano, cerca di uscire dallo stato di depressione, facendosi coraggio, pensando che in fondo tutto è successo e a niente vale abbattersi. Meglio accettare la realtà, vivere dove capita e in mezzo ad altri uomini che gli sono fratelli. 

lo vivrò nel boschetto dove fanno nido le aquile. 
Nacqui dalla terra, qualunque terra mè buona, 
ogni uomo è mio fratello, il mondo è la mia patria. 

Abu’l-Arab è un cosmopolìta e anticipando idee proprie dell’Illuminismo: l’uomo cittadino del mondo, con un forte desiderio di integrarsi in esso e vivere la vita com’è giusto che sia, non essendo possibile altrimenti. Aspirazione di quanti con umiltà vengono a chiedere lavoro e un minimo di serenità, dato che nella loro terra vigono guerre e miseria. 

L’emiro Abu’l-Qasim Abd Allàh ibn Sulaymàn Yakhlaf al-kalbi25 canta il vino, l’amore, ma ha anche versi carichi di nostalgia per la Sicilia che ha dovuto abbandonare. 
Ha reso dolce la mia vita beata in quelle dimore 
dedicarmi al piacere dal vespro all’albeggiare; 
Laggiù l’anemone assomigliava 
ad una gota scintillante per peluria 
e nel colore della violetta sembravano 
amalgamarsi tenebre e luce; 
Il giglio aveva il candore delle cupole, 
con al centro aurei pistilli 
e sui teneri steli ammiravi i narcisi: 
parevano lanterne sospese ai sostegni; 
i cedri ricordavano cofanetti d’oro 
in ordinata serie, o seni di fanciulle. 

E ancora: 

Ho libato in giardini radiosi 
al garrulo tubare dei colombi [. . .] 
in un giardino che invaghisce, 
con la varietà delle vedute e il cinguettìo 
chi lo contempla; 

Ibn Sulaymàn apparentemente canta il vino e le gioie della vita al di là di ogni preoccupazione, ma sente dentro di sé tutto il rammarico che gli viene dalla mancanza di un bene di cui non può fare a meno, e che si porta nel cuore, e rivive ogni qual volta gli si presenti l’occasione: è la Sicilia ricca di colori, di suoni e di odori che vengono dagli opulenti giardini che allora circondavano Palermo e visti anche dalla località delle 

«Torri», citata ma difficile per noi localizzare. Qui il tema bacchico è di spunto al poeta per ritornare in quei luoghi carichi di ricordi dove consumò la spensierata giovinezza e dove nacquero le prime avvisaglie dei dissidi: 

Ho assaporato [il vino] in notturno [simposio], 
tenebroso come la mia sorte, 
e fra le incognite degli eventi. 
che portarono alla perdita dell’isola. 

Ritornando ad Ibn Hamdis, egli andò in esilio, prima a Siviglia, poi in Marocco e in Tunisia e, per ultimo, a Maiorca, dove morì. In lui, oltre ai temi della poesia classica, come abbiamo visto, c’è il rimpianto e la struggente nostalgia per la sua casa e per la terra che fu sua: 

Oh, custodisca Iddio una casa in Noto, 
e fluiscano 
su di lei le rigonfie nuvole! 
Ogni ora io me le raffiguro nel pensiero, 
e verso per lei gocce di scorrenti lacrime. 
Con nostalgiafiliare anelo alla patria, 
verso cui mi attirano 
le dimore delle belle donne. 
E chi ha lasciato il cuore a vestigio 
di una dimora, 
a quella brama col corpo fare ritorno. 

E ancora: 

Vento, perché non spremi la pioggia 
e non ne irrighi i campi assetati? 
Spingi verso di me le sterili nuvole, 
ch’io le riempia dell’acque delle mie lacrime. 
Abbeveri il mio pianto la terra dell’amore; 
possa esser sempre, 
nella sterilità, abbeverata di pianto!26. 

È uno tra i componimenti più belli della poesia arabo-siciliana: le immagini delle nuvole e delle piogge, il dolore dell’esule, sono forti per essere dimenticate. 

Il motivo del dolore fa tutt’uno con quello del ricordo; il sentimento del rimpianto si fa scontento: ormai è impossibile per lui potervi ritornare! 

Altri poeti, all’arrivo dei Normanni, rimasero in Sicilia, come Abd-ar-Rahmàn di Butera27, che elogia la munificenza del Regno: 

Non c’è vita serena, se non all’ombra 

della dolce Sicilia, 

sotto una dinastia che supera 

le cesaree dinastie dei re, 

e la gioia di vivere qui, tra i colori vivi di una primavera che dilata la sua luminosità sulle cose e sulle persone; o come Abd-ar-Rahmàn al-Itrabànishi28, il segretario trapanese, che esprime il desiderio che la pace possa durare e solo la bellezza del luogo e l’Amore possano dettare leggi. Egli cantò il fasto della corte di Ruggero II nel componimento dedicato alla villa reale della Favara, costruzione araba abbellita dai Normanni. 

Favara dal duplice lago, ogni desiderio 

in te assommi: 

vista soave e spettacol mirabile. 

Dove i tuoi due laghi s’incontrano, 

ivi l’amore s’accampa, 

e sul tuo canale la passione pianta le tende. 

Il poeta innalza un inno alla bellezza del luogo ed auspica la pace, la sola garante di prosperità e gioia di vivere; poi formula l’augurio che la felicità duri a lungo e le sciagure stiano lontane dalla Sicilia, e in cambio vi domini incontrastato l’Amore. È l’augurio nobilissimo di un animo innamorato della sua terra. 

I Normanni s’impadronirono della Sicilia gradatamente, nel corso di un trentennio, dal 1060 al 1091. Poi fu di nuovo la pace e un periodo di splendore per l’isola, un periodo in cui uomini di razza, lingua, religione diverse, convissero da cosmopoliti e cooperarono senza discriminazione, chiamati, alcuni, ad amministrare il Regno, altri, a nobilitarlo nella cultura e nell’arte, sempre sotto re 

Ruggero. Così la Sicilia ebbe i requisiti necessari per rendersi grande. La corte palermitana divenne centro di cultura e di scambio di idee. Vi si fecero acquisizioni scientifiche e traduzioni utili a conservare il patrimonio culturale antico, e lo stesso sovrano collaborò ai lavori, realizzando un’ integrazione di uomini e di culture senza precedenti.Un esempio di integrazione tra popoli diversi sotto Ruggero II è la Cappella Palatina, in cui c’è la contaminazione di elementi bizantini, arabi e latini, indice di grande creatività. Ma ce ne sono tanti, come il bellissimo esempio di arte arabo-normanna che è la Zisa, palazzo costruito da Guglielmo I, ricco di giardini lussureggianti e zampilli d’acqua. 

L’auspicio di Abd-ar-Rahmàn doveva, però, di lì a poco essere vanificato dall’egoismo e dal prepotere di baroni ed ecclesiastici che male vedevano la stima sovrana degli arabi di corte. Finì che re Ruggero, non potendo più controllare, anche perché ammalato, la situazione, cedette alle tante maligne insinuazioni che produssero le prime condanne con giudizi sommari. L’accusa di tradimento di Filippo al-Mahdia, gran consigliere di Ruggero, bastò a scatenare lotte e fatti di sangue che produssero, nel 1227, la relegazione di migliaia di Arabi a Lucera. Ciò avvenne sotto dominio svevo, con Federico II, e di lì una serie di lotte tese a disperderli, con conseguenze negative per la Sicilia. 

Salvatore Vecchio 

NOTE: 

1 S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, Torino, ERI, 1964, p. 130 e segg. 
2 U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo, S.F. Flaccovio, 1975, p. 139. 
3 A. Borruso, «La poesia araba in Sicilia nel Medioevo», in Saggi di cultura e letteratura araba, Mazara del Vallo, Liceo Adria, 1995, p. 95. 
4 I. Di Matteo, Antologia di poeti arabi siciliani, estratta da quella di lbn al-Qattà, Palermo, Archivio Storico Siciliano, 1935. 
5 F. Gabrieli, «Arabi di Sicilia e Arabi di Spagna», in Pagine arabo-siciliane, Mazara, LiceoAdria, 1986, p. 24-25. 
6 U. Rizzitano, «La Sicilia nella cultura araba», in Studi arabo-islamici in memoria di U. Rizzitano, Mazara, Liceo Adria, 1991, p. 291. 
7 I. Di Matteo, cit., p. 99. 
8 Ivi, p. 128. 
9 I vi, p. 100. 
10 Ivi, pag. 103. 
11 Ibn Harndìs, Poesie (a cura di A. Borruso), Mazara, Liceo Adria, 1987, p. 73. Traduzione di F. Gabrieli. 
12 Ibn Hamdìs, cit., p. 74. 
13 I. Di Matteo, cit., p. 123. 
14 Ibn Harndìs, cit., p. 30. 
15 I. Di Matteo, cit., p. 104. 
16 Ibn Hamdìs, cit., p. 45. 
17 U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, cit., 184. 
18 I. Di Matteo, cit., p. 102. 
19 Ivi, p. 102. 
20 Ibn Hamdìs, cit., p. 88. 
21 F. Gabrieli, lbn Hamdìs, Mazara, S.E.S., 1948, pp. 47-48. 
22 Ibn Harndìs, cit., p. 15. 
23 Ivi, p. 87. 
24 A. Di Stefano, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, Palermo, Ciuni, 1938, pp. 17-18. 
25 U. Rizzitano, Storia e cultura nella Sicilia saracena, cit., 181-182. 
26 F. Gabrieli, lbn Hamdìs, pp. 24 e 50. 
27 A. Di Stefano, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, cit., 15. 
28 Ivi, p. 16.

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 5-12.




 La cultura della guerra 

Molti sono per la guerra, perché sostengono sia un mezzo per il raggiungimento della pace1. Sembra assurdo: l’uomo anela alla pace, e intanto proclama la guerra; fa guerra per realizzare la pace. Ci troviamo dinanzi ai due schieramenti del si e del no, che perseguono (apparentemente) la stessa finalità con due strade diametralmente opposte: quanti vogliono la guerra, ritenuta capace di risolvere ogni controversia, e quanti la rinnegano, considerandola un crimine contro l’umanità. Due schieramenti “l’un contro l’altro armati” che ribadiscono la ferma convinzione di trovarsi nel vero e nel giusto. 

Sappiamo che non si è mai certi di essere nel vero e nel giusto, ma sappiamo, e siamo pienamente convinti, che l’uomo va rispettato nel suo essere profondo, nella sua umanità, per quello che è, capace di produrre dialogo. Ma questo è un aspetto che va ripreso; per il momento, riteniamo delineare sinteticamente le opposte culture che animano questi schieramenti e, poi, vogliamo richiamare all’attenzione alcuni filosofi e studiosi che hanno affrontato il tema della guerra. Qualche esempio soltanto, perché la sua letteratura è molto vasta. 

La cultura della destra, in Italia e nel mondo, è propensa alla guerra. Neoconservatrice e autoritaria in politica, aperta a tutte le istanze in economia. Il suo liberismo è portato ad avallare qualsiasi cosa torni utile e renda denaro, come il ricorso alla forza delle armi, il consumismo sfrenato, le tecnologie, spingendo la gente (persino la piccola e media borghesia, gli stessi operai e i giovani), delusa dai passati regimi a darsi ad un edonismo egoistico e privo di idealità; edonismo che devia dai veri problemi la gran parte di persone e lascia campo libero a poche per consolidare nel pubblico il loro privato. 

Altra cultura è quella della sinistra che offre una non piacevole immagine di sé, priva di un programma chiaro e unitario, tale da formulare proposte alternative concrete. E questo la porta spesso a litigi interni che la compromettono ad ogni momento. A proposito della guerra, essa non ha espresso una chiara posizione. Inoltre, quando il Consiglio di sicurezza dell’O.N.D. votò la risoluzione che legittimava l’intervento militare alleato, una buona parte del centro sinistra accettò favorevolmente la decisione, la quale fu un segno tangibile di asservimento alla maggiore potenza. Il disorientamento della sinistra è dovuto al fatto che, crollata l’ideologia marxista, deve contrastare la destra su un terreno (quello del capitalismo) che prima le era impraticabile. Sicché, i temi che affronta (l’economia, la giustizia, la scuola, la politica interna), sono gli stessi di quelli dei suoi oppositori. 

Chi si distanzia e differisce, è la sinistra più a sinistra, la radicale, molto sensibile ai grandi temi che travagliano la società italiana e il mondo, e li denuncia (la guerra, la globalizzazione, l’ambiente, i Paesi poveri), schierandosi senza tentennamenti dalla parte dei non-violenti, dei no global, degli ambientalisti, di chi chiede l’azzeramento dei debiti dei Paesi poveri. Sono temi che danno linfa a questa sinistra e la rendono credibile, perché s’avvicina alla politica dell ‘ uomo, denuncia l’emarginazione, gli abusi sconsiderati e gli scempi. 

1. – Al di là di ogni disputa, l’alternativa migliore sarebbe quella di restituire il suo vero ruolo alla politica. Si legga, a proposito, E. Peyretti, La politica è pace, Assisi, Cittadella ed., 1998, pag. 203.

E già siamo nell’ambito della terza cultura, quella dei movimenti, fuori dei canoni della politica ufficiale, sicuramente recepita, ma non accolta, perché va contro i molteplici interessi dei pochi, e semmai utilizzata il più delle volte dalle altre solo per fare retorica o essere di facciata, e non con l’intenzione di volerla attuare. È la cultura dei pacifisti, cioè, di coloro che rifiutano la guerra e contestano l’operato dei governi, i quali trascurano l’aspetto umano della vita, contribuendo a nullificare l’uomo, togliendogli dignità, valori acquisiti nel tempo, princìpi; ma è anche la cultura dei no global, che si battono per un mondo a misura d’uomo, contro l’ammasso di capitali da parte di sempre più agguerrite multinazionali, a scapito dei sempre più poveri. Ed è ancora la cultura degli ambientalisti, che rivendicano un mondo più sano a favore della vita. 

Prima di accennare al dibattito filosofico sulla guerra, va detto che il messaggio di Gesù è contro ogni tipo di guerra; così è anche il messaggio delle altre grandi religioni monoteistiche. Sono il fanatismo, l’intolleranza, i fondamentalismi che generano le guerre di religione, da quelle combattute dai crociati cristiani alle altre dei musulmani. È la situazione contingente che spesso fa deviare dal messaggio d’amore e di bene delle religioni; e questa devianza è dovuta ai condizionamenti politico-religiosi a cui l’uomo è sottoposto. Ne deriva che la storia che produce è un continuum di positività e di negatività. Lo constatiamo nella quotidianità tutti, lo affermano i filosofi, non ultimo G. B. Vico che, però, fa risalire questo intreccio ciclico, sempre allargato, alla Provvidenza, la quale dispiega così i piani della Divina sapienza2. Ma, in un mondo sempre più laicizzato, questa visione della storia cede il posto ad una maggiore consapevolezza delle capacità dell’ uomo, che, rispettoso per quanto voglia della volontà divina, reclama ed afferma in modo deciso il suo libero arbitrio. Sicché, imponendosi con la razionalità che gli è propria, agisce quasi sempre per fini utilitaristici, a cui assoggetta il senso della giustizia3, un modo di intendere la giustizia che non è, però, quella che alita in ciascuno di noi e che, a solo pensarla, abbraccia tutto, l’umano e il divino, la materialità e la spiritualità. Mentre l’ utile, qualunque sia, condiziona la giustizia, anzi la uccide, come afferma Kant4. E con essa la vita, perché l’utile porta a guerre nefaste, anche se si combattono in nome della democrazia e della pace; e i popoli che le subiscono vivono nell’estremo abbandono, nella miseria più nera e nell ‘ indifferenza di tutti. Per quale ragione? Per esportare, o imporre, con la forza delle armi la democrazia e la pace? E, ancora, si può parlare di missione umanitaria quando, partecipando in armi, si è alleati con i Paesi che hanno voluto la guerra? 

Questi interrogativi, che abbiamo sentito e spesso ci siamo posti negli ultimi tempi, sono dovuti ed hanno in sé la crisi dell’uomo, tanto teso a soddisfare i propri bisogni, quanto incapace di vedere e venire incontro a quelli degli altri. Allora, come si può volere la pace o, per lo meno, pretendere di vivere in pace, se non si è propensi ad accettare gli altri, e se si vuole imporre, più che dialogare e cooperare? Perché accanirsi a volere un ordine a senso unico? C’è in tutto questo una ragion d’essere che consiste nell’avvantaggiarsi della disgrazia altrui: più gli altri stanno male, tanto più si consolida la loro sudditanza, dal bisogno e dalla 

2 – G. B. Vico, Principi di Scienza Nuova, in Opere filosofiche (a cura di N. Badaloni – P. Cristofolini), Firenze, Sansoni, pagg. 393-394; 465-467. 

3 – U. Grozio, Prolegomini al diritto della guerra e della pace (a cura di G. Fassò), Napoli, Morano, 1979. 

4 – I. Kant, La metafisica dei costumi (a cura di G. Vidari), Laterza, Roma-Bari, 1983

politica. Chomsky scrive: «Strangolali, affamali; e dopo avrai le tue belle elezioni e tutti non faranno che parlare di quanto sia meravigliosa la democrazia5». Chiamiamola democrazia, se vogliamo! 

Ciò non fa che rispondere ad una politica di potenza che equivale a politica di menzogne: nel nome della democrazia, viene presentato per oro colato ciò che fa comodo a pochi, opponendo un fermo diniego alla coscienza che non può avallare un tale operato. Di qui la guerra e, ancora, il terrorismo. E l’uomo, pur di avere partita vinta, rinuncia alla politica, che è apertura, sapere ascoltare pareri diversi, consolidamento di punti d’incontro, smussamento di contrasti con intese e rapporti volti a pianificarli, e preferisce ricorrere alla guerra, cioè, usa la forza delle armi per imporsi sugli altri ed assoggettarli. 

Giorgio La Pira6 vedeva nel capitalismo l’ origine di tanti mali che affliggono l’ umanità. In effetti, nella corsa sfrenata verso l’accaparramento di nuove fonti di ricchezza, tutto diventa lecito e possibile, come la guerra, e tutto viene considerato un bene di interesse collettivo, quanto è feccia della peggiore specie. 

Agostino, Tommaso, Machiavelli, Moro, per un motivo o per un altro, avallano la teoria della guerra. Per Tommaso, forte dell’autorità di Agostino, una guerra può considerarsi giusta se è avallata dall’ autorità del principe, è sostenuta da giusta causa, e risponde a retta intenzione7. Non così la pensa Erasmo da Rotterdam, che, spirito libero, cosa singolare per i suoi tempi, condanna la guerra in ogni sua forma e parla di tolleranza e di solidarietà. 

«Dalla guerra ha origine il naufragio di ogni cosa buona e straripa il 

mare di tutte le sciagure; inoltre, non c’è malanno che si radica più tenacemente. 

La guerra semina guerra, dalla più piccola nasce la più grande, da 

una ne scaturiscono due da ciò che sembra uno scherzo una cosa seria e 

cruenta, e la pestilenza bellica nata altrove si propaga ai vicini e addirittura 

ai popoli più lontani ed estranei[…]. Il buon principe non intraprenderà mai, 

per nessuna ragione, una guerra se non quando, dopo aver tentato di tutto, 

vedrà che non si può evitare in nessun modo8». 

Ed Erasmo non manca di andare contro quanti (Agostino, Tommaso e tanti altri – Machiavelli già nel 1513 aveva enunciato la sua dottrina ne Il Principe; More nell’ Utopia, che è del 1516 -, pur detestando la guerra, si era pronunciato per la dottrina della guerra giusta) si allontanano dall’insegnamento evangelico, che esclude ogni forma di guerra nel nome della pace e della solidarietà tra gli uomini, e riprenderà questa sua convinzione con incrollabile fede nel Lamento della pace (1517), perché la tolleranza e la convivenza pacifica trovino accoglienza nell’umano sodalizio. 

5 – N. Chomsky, Il golpe silenzioso (Segreti, bugie, crimini e democrazia), Casale M., Ed. PIEMME, 2004, pag. 135. 

6 – G. La Pira, “Lettera a Pio XII”, «Corriere della Sera», 3 gennaio 2004. 

7 – T. d’Aquino, Summa Theologica, II, q. 40, a. 1 (trad. di L. A. Perotto, in Scritti politici), Milano, Massimo, 1985. Nonostante S. Tommaso ammetta la guerra giusta, promossa da uno Stato che abbia validi motivi, essa «deve poggiare su una retta intenzione volta al ripristino della giustizia per far trionfare il bene». La “retta intenzione” nella guerra attuale contro l’Iraq non c’è. Le menzogne che sono state dette e sono a tutti note confermano questa affermazione. 

8 – E. da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano (trad. di A. Morisi Guerra), Roma, Signorelli, 1992.

Negli uomini di grande cultura c’è la ferma convinzione che solo la pace permette di vivere da uomini, solo essa garantisce l’ordine, il rispetto, la prosperità 

nel progresso e nelle umane attività, solo essa consolida i rapporti tra i popoli e promuove i commerci, indispensabili per assicurare il benessere e migliorare la vita di tutti. 

A distanza di più di due secoli gli fa eco Kant, che non solo rifiuta la guerra, ma è contro ogni ingerenza straniera in uno Stato sovrano ed auspica l’ emancipazione dei popoli. Così scrive: 

«Per ciò che riguarda i rapporti stessi tra gli Stati, non può pretendersi 

da uno Stato che esso debba abolire la sua costituzione, anche se dispotica 

(ma che è pur sempre la più forte in rapporto ai nemici esterni), finché 

tale Stato corre il pericolo di essere assorbito da altri Stati: perciò deve 

anche essere permesso rinviare l’attuazione di quel disegno a tempo migliore9». 

Ciò significa che, nel momento in cui un popolo, stanco e deluso del regime che lo governa, comincia a ribellarsi, boicottando e sommuovendo tutto ciò che gli è possibile, per allontanarlo, solo allora può essere motivato l’intervento di una forza multinazionale, a tutela dei diritti dell’uomo e per garantire il ritorno alla normalità. Venendo all’attualità, l’O.N.U. sarebbe potuta intervenire, qualora in Iraq ci fossero state le premesse per farlo. Non c’erano, non è intervenuta ed ha fatto bene. Chi si è arrogato il compito di farlo, fu l’America, scavalcando l’O.N.U., facendole perdere tanta credibilità. Sicché, se prima era auspicata una sua ricostituzione per renderla più democratica e credibile, tanto più ora che è stata delegittimata. Qualcuno dirà che gli Stati Uniti avevano tutte le loro buone ragioni per farlo. Ma, premesso che niente viene dal niente (conferma ciò un principio del Karma, secondo cui, tutte le azioni di bene o di male ritornano al mittente in bene o in male), la guerra, di certo, non risolve i problemi, anzi li inasprisce e li ingrandisce. I fatti attuali lo dimostrano. 

Riprendendo il discorso, qualche decennio dopo la presa di posizione di Kant, un altro tedesco, il generale prussiano Karl von Clausewitz10, stratega ed esperto di arte militare, dopo aver definito la guerra «un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà», aggiunge che essa è «un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua concatenazione con altri mezzi». Da bravo generale prussiano, che dovette contrastare j disegni imperialistici di Napoleone, Clausewitz non poteva non far sua la realistica lezione di Machiavelli e di Hobbes: aggredire per non essere aggrediti, o prima di essere aggrediti. Ma così l’uomo sembra essere destinato a vivere in un continuo stato di guerra, e non può sperare di essere nella pace, fino a quando, a catena, alla forza delle armi risponderà con la forza. 

Von Clausewitz fu uno dei primi assertori della guerra preventiva. Quella che ha voluto ed ha fatto Bush, evidentemente spinto da un insieme di interessi e da tutta una filosofia che si riallaccia al pensiero di Leo Strauss per tramite di molti suoi seguaci neo-conservatori e vicini all’ amministrazione americana, come il vice Segretario di Stato Paul Wolfowitz. Strauss ritiene che la giustizia sia espressione del più forte e che il governante possa servirsi del potere a proprio vantaggio. È la politica machiavellica che deve impersonare l’astuzia e la giustizia. A senso unico, evidentemente! 

9 – I. Kant, Per la pace perpetua (La pace come destinazione etica e politica dell’umanità), a cura di M. Pancaldi, Roma, Armando ed., 2004, pagg. 107-108. 

10 – K. von Clausewitz, Della guerra (trad. di A. Bollati – E. Canevari), Milano, Mondadori, 1996.

Nell’uomo è più radicata la cultura della guerra che non quella della pace. Questa convinzione nasce dal fatto che la guerra viene considerata come la panacèa contro ogni forma di male, l’unico rimedio capace di dare soluzione alle più intrigate controversie che travagli ano il mondo. Ma in base a quale norma i fautori l’avallano e i governanti la dichiarano? I primi, ritenendosi detentori del vero, vogliono realizzare ed affermare i propri principi, i secondi, forti delle armi, se ne fanno paladini e, nuovi crociati, seminano stragi e morte nel nome di finte idealità e di nutriti interessi. E per raggiungere tali scopi, ricorrono alla menzogna in politica che fornisce alibi e attira dalla loro parte il consenso dei molti. 

Nell’era delle grandi comunicazioni, ora che veramente sono state abbattute le distanze e il mondo diventa sempre più piccolo, non dovrebbero esistere scontri frontali, e tutto dovrebbe svolgersi nel segno del dialogo, che costruisce e mai distrugge. La guerra è guerra, e non può mai essere considerata giusta. Norberto Bobbio11 ha analizzato nei vari aspetti la teoria della guerra giusta, ed è venuto alla conclusione che è impossibile poter delimitare il giusto dall’ ingiusto, perché mancano la “certezza dei criteri di giudizio e l’imparzialità di chi deve giudicare”. Ne deriva che è una teoria che non ha modo di esistere, come tante altre, specie in un tempo in cui le armi sono più che sofisticate, e il danno che si arreca è sempre maggiore del torto subito. Sono coloro che vogliono veder giustificato il loro operato agli occhi delle popolazioni che ricorrono a risoluzioni e si inventano orpelli giustificatori; sono quelli che prima fanno a meno dell’O.N.U. e poi le chiedono di intervenire per vestire di legalità le loro azioni lesive di ogni diritto. 

L’O.N.U. può intervenire per salvaguardare la pace, non può essere faziosa. Se il suo scopo cardine è quello di mantenere la pace tra i popoli, il suo operato deve essere rivolto senza tentennamenti al bene12. Il mantenimento della pace è il suo fine primario, e pertanto è ribadito in quasi tutti gli articoli che lo Statuto contempla. Il VI capitolo riguarda la «soluzione pacifica delle controversie». L’Organizzazione non può soddisfare 1’interesse di un Paese o di alcuni, perché non perseguirebbe il bene di tutti e le sue soluzioni verrebbero a mancare di solidi principi di legalità; cioè, non agirebbe nello spirito per cui fu costituita, come si è verificato in questi ultimi tempi, facendosi coinvolgere da interessi nazionali, perdendo credito nella comunità internazionale. Perciò, fino a quando sarà snobbata e strumentalizzata dalla maggiore potenza, e alcuni Paesi godranno del diritto di veto, essa non potrà mai rispettare i suoi principi; fin quando i Paesi poveri dovranno elemosinare i miseri contributi, essi saranno sempre condizionati nel voto e, di conseguenza, avalleranno ciò che i potenti hanno già deciso. In politica è spesso invocata l’arma del ricatto, così come viene invocata la menzogna. Tommaso, in certe occasioni, come quando il politico non può farne a meno per raggiungere risultati benevoli, l’ammette13; ma è da stare sempre attenti 

11 – N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, Il Mulino, 1984: «La guerra è una procedura giudiziaria in cui maggiore male è inflitto non da chi non ha più diritto ma da chi ha più forza, anzi si verifica la situazione in cui non già la forza è al servizio del diritto, ma il diritto finisce per essere al servizio della forza. In sintesi: una qualsiasi procedura giudiziaria è istituita allo scopo di far vincere chi ha ragione. Ma il risultato della guerra è l’opposto: è quello di dar ragione a chi vince». 

12 – Il 1° punto del cap. I recita: «1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e a questo fine: prendere misure collettive efficaci per la prevenzione e la cessazione delle minacce alla pace, e per la soppressione degli atti di aggressione o di altre infrazioni della pace e pervenire con mezzi pacifici e conformemente ai principi della giustizia e del diritto internazionale, alla sistemazione o alla soluzione delle controversie internazionali o di quelle situazioni che potrebbero portare ad una violazione della pace…». 

13 – Tommaso d’Aquino, Op. cit.

e diffidare. Lo ha bene intuito Hannah Arendt14, che invita alla prudenza e a guardarci dai mistificatori, i quali spesso usano la menzogna per disorientare e distogliere dalla verità. Come è stato per l’intervento in Iraq. Si è parlato di minaccia irachena, di armi di distruzione di massa, di legami di AlQaeda con il regime di Saddam. Smascherate le menzogne, le vere ragioni vengono intuite, manon rivelate. E, intanto, si continua ad uccidere e a distruggere e, nel nome di ipocrite idealità, alcuni si arrogano il diritto di fare guerra. 

Va ancora ribadito che una guerra, per quanto le motivazioni possano farla avallare, non è mai giusta. E non lo è per tantissime ragioni: considerato che è il contrario della pace, basta questo per dire che essa non è giusta. Per questo va evitata o, per lo meno, vanno tentate tutte le soluzioni possibili perché non si faccia; e, poi, perché, la guerra è un torto nei riguardi di innumerevoli vite innocenti, è tanta distruzione di beni, è un danno spesso irreparabile all’ambiente, è un rinnegare la razionalità, come dire, un regresso dell’ essere-uomo, che si chiude inequivocabilmente nell’egoismo. 

Robert Kagan, in un suo recente libro dal titolo: Il diritto di fare guerra15 difende a spada tratta gli U.S.A., come se fosse un loro diritto fare guerra in nome della collettività («Fin dall’inizio, la politica estera statunitense non ha mirato solo a difendere e promuovere gli interessi materiali nazionali» e, quasi novelli Enea, designati dal fato a reggere i destini del mondo, a perseguire i principi irrinunciabili del liberalismo. Li difende nella scelta della guerra contro l’Iraq e si rammarica che gran parte degli Europei non li abbia seguiti, motivando la sua presa di posizione con la perdita di controllo sulla politica americana16. 

Lasciamo agli altri la possibilità di valutare ancor meglio questi punti di vista. Crediamo, comunque, che la gran parte degli Europei, consapevole delle tante aberranti guerre subite nei secoli nel proprio territorio, e delle altre che tuttora si combattono nel pianeta, si renda ben conto dell’errore che gli Americani continuano a commettere. Riguardo a quanto Kagan scrive, secondo noi: 1) non è questione di perdita di controllo della politica estera americana da parte europea, bensì di attribuzione di senso ai valori e di credibilità17. L’Europa, che ha dietro di sé una cultura millenaria, ha radicati nel suo senso originario i principi di libertà, di democrazia, di uguaglianza e, anche con difficoltà, li persegue. Non così è per l’America, che veste di utilitarismo politico-economico questi valori e li svuota di senso. È questa perdita di senso che disorienta l’Europa e il mondo. 2) Gli Stati Uniti perseguono il liberalismo universale a parole, e non sono credibili; nei fatti, impongono agli altri la loro visione del mondo, come è stato in Afghanistan, in Iraq e in altri Paesi, e quelli che non l’accettano, sono potenziali nemici, suscettibili di andare ad allungare la lista degli “Stati canaglia”. 

14 – H. Arendt: «La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata fra le virtù politiche e le bugie sono sempre state considerate giustificate negli affari politici». (Politica e menzogna, 1972. Trad. it. Milano, Sugarco, 1985). 

15 – R. Kagan, Il diritto di fare guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità (trad. it. di S. Giuliese), Milano, Mondadori, 2004, pag. 55. 

16 – Id., cit., pagg. 16-18: «…evidenziarono una crescente preoccupazione per i problemi intrinseci alla nuova struttura, in particolar modo la rapida perdita di controllo da parte dell’Europa. […] Gli europei non temono che gli Stati Uniti vogliano controllarli; sono solo consapevoli di aver perso il controllo su di essi e, di conseguenza, sulla conduzione degli affari internazionali». 

17 – A proposito, cfr. il discorso di Dominique de Villepin, ministro degli esteri francese, tenuto al Consiglio di Sicurezza delle N.U. il 3 marzo 2003.

La verità è che, come la storia insegna, il modo unipolare di condurre la politica internazionale è stato nocivo a tutti gli imperi del passato ed è nocivo all’America, che da decenni ormai si è imbarcata in guerre che la destabilizzano all’estero e nei suoi Stati. La crisi economica, le pressioni dei grandi trust, la perdita del potere di acquisto dei salari, la disoccupazione, l’insicurezza e la criminalità, oltremodo diffusa, questa, tra i giovani, offrono un’immagine non tanto bella. Ma ai potenti interessa la potenza, poco importa la miseria dei tanti, anzi, se ne fanno scudo per portare avanti i loro disegni, perché la miseria, come le stragi, alimentano la retorica, che rende credibile il loro operato, e ingrandiscono il nazionalismo. 

Intanto, molti intellettuali americani hanno preso le distanze e criticano l’amministrazione Bush. Interessante, a proposito, è il contributo del sociologo Michael Mann, che passa in rassegna la politica americana di questi ultimi anni e suggerisce un cambiamento di rotta, se non vuole evitare il peggio, cioè, il crollo, se non un disastro per sé e per il mondo. Tra l’altro, scrive: 

«È un Impero incoerente, con un militarismo superattivo e arrogantemente 

sicuro di sé che finirà per distruggersi. Per compensare i propri limiti, 

i nuovi imperialisti si attaccano con accanimento crescente all’unico elemento 

di forza di cui dispongono in abbondanza: la devastazione offensiva 

militare. La mia conclusione è che il nuovo imperialismo americano sta 

diventando il nuovo militarismo americano. Ma non basta all’Impero. Chi 

di spada ferisce … 18». 

Difficile dire, a questo punto, fino a quanto la caduta del Muro di Berlino abbia giovato all’ umanità! È certo che in questi ultimi decenni stiamo assistendo a guerre disumane dettate da una folle superbia e da una tracotanza inaudita, la hybris che rode gli animi e non s’arresta, anzi, inebria ed esalta chi vi si trova dentro, da soldati o da resistenti, e istiga al sangue e agli orrori. Chris Hedges, come soldato prima e poi come giornalista, ha potuto sperimentare questo nelle sue varie missioni di guerra e lo descrive nel suo utile, e certamente scomodo, libro Il fascino oscuro della guerra. 

«Quando assumiamo la droga della guerra proviamo esattamente ciò 

che provano i nostri nemici, compresi i fondamentalisti islamici che 

definiamo alieni, barbari e incivili. È lo stesso narcotico che anch’ io 

ho consumato per anni. E come per ogni tossicodipendente in fase di 

recupero, una parte di me continua ad avere nostalgia della semplicità 

e dell’ euforia della guerra … 19». 

La guerra abitua ad uccidere e a guardare in faccia la morte, trascina nel baratro come una droga e per molti è come il richiamo della foresta; e l’ individuo cessa di essere, perché in essa non c’è posto per il sentimento e la morale. Il soldato e il combattente si spogliano della loro umanità e nel loro bruto cinismo commettono le atrocità più inaudite di cui non sempre veniamo a conoscenza, perché ben poco sfugge alla censura di guerra. Ogni notizia e le stesse immagini vengono filtrate, e non è facile farsi idea chiara della situazione. La pubblicità, i mezzi di informazione, la pressione che si esercita sui giornalisti devono, direttamente o 

18 – M. Mann, L’Impero impotente (trad. it. di Gianna Lonza), Casale M., Ed. PIEMME, pag. 26. 

19 – C. Hedges, Il fascino oscuro della guerra (trad. di M. G. Cavallo), Roma-Bari, Ed. Laterza, 2004, pag. 7. 

non, offuscare la verità. Si conoscono spesso le malefatte del nemico, le perdite inflittegli, ma non le nostre o quelle che subiamo. Ogni giorno conosciamo il numero di morti dei resistenti e non quello dei morti tra gli occupanti. 

C’è, inoltre, uno scatenamento di forze che dà dell’antidemocratico e fanatico estremista a chi, per dire come la pensa e voler fare gli interessi di tutti, dice e afferma il contrario. Anche questo va inscritto nella cultura della guerra! Sicché, per caso veniamo informati dei maltrattamenti ai prigionieri, mentre fanno vedere le stragi delle bombe irachene, e non dei bombardamenti alleati. E se filtra qualcosa che oscura la propria immagine, viene considerato un caso isolato o un incidente. Intanto tanti innocenti perdono la vita e le loro morti passano inosservate. Cosa importa degli altri? 

«Noi piangiamo le vittime degli attacchi alle Torri gemelle. Le loro 

foto tappezzano i muri della metropolitana. Piangiamo i vigili del fuoco, 

ed è giusto. Ma siamo ciechi alle sofferenze dei tanti che in Medio Oriente 

abbiamo schiacciato insieme ai nostri alleati, ignorandone per decenni diritti. 

Sembra che loro non contino niente20». 

La cultura della guerra non accetta l’Altro, se non in condizioni di inferiorità. Nella filosofia contemporanea il ricorso all’ Altro è abbastanza ricorrente21. Il Me vive in rapporto con l’Altro, e non c’è esclusione; diversamente si cade nell’egoismo, e l’egoismo genera l’odio, che è alla base di ogni dissidio e del terrorismo internazionale, il quale non ha niente a che vedere con quello nazionale, perché questo è relativamente facile da individuare e colpire, quello è un fantasma che accomuna nell’odio quanti di diverse nazionalità hanno visto invaso il loro Paese e distrutto; è un irriducibile fantasma che colpisce con la stessa crudeltà con cui altri hanno colpito e colpiscono; e in esso non c’è affatto nichilismo, a differenza di quanto ritiene André Glucksmann22: c’è senz’ altro la ferma volontà di servirsi di qualsiasi mezzo, anche il più nefasto e disumano, pur di vedere i propri Paesi di origine riscattati e resi liberi dall’ingerenza straniera. Cos’altro possono fare i tanti gruppi nazionalisti disseminati per il mondo per fermare il terrorismo degli Stati? Allora, anziché muovere una crociata contro l’ internazionalismo terroristico, non sarebbe più proficuo sradicare le cause? Non sarebbe un bene per tutti? Certo. Ma nessuno vuole la soluzione. La crociata al terrorismo alimenta la retorica della guerra, e i suoi responsabili hanno una ragione in più per spingere altri Paesi a mettersi dalla loro parte. 

Riprendendo quanto si affermava all’inizio, questo è il risultato di un uso improprio della politica, che guarda al particolare e non accetta l’Altro; è un diniego della politica che, innanzitutto, è dialogo che avvicina e non divide. Ma oggi non si dialoga; si sproloquia ed agisce solo dietro la spinta di denaro o di un utile. Oggi l’uomo ha perso l’uso della parola e non è capace di rapportarsi agli 

20 – Op. cit., pag. 17. 

21 – Tanti filosofi hanno rivolto la loro attenzione all’argomento che si rivela molto interessante e ricco di approcci. Cfr., tra gli altri, E. Lévinas, Difficile libertà (trad. it. di G. Penati), Brescia, La Scuola, 2000. 

22 – Il filosofo francese ha presentato la relazione «L’escalation di violenza da Hitler a Bin Laden» al Convegno “Ulisse o Titanic? Libertà e distruzione nella cultura contemporanea”, tenutosi a Palermo il 9 e il 10 ottobre 2004. La relazione è stata pubblicata sul “Giornale di Sicilia”. Glucksmann discorre a senso unico e, come tanti, non si pone il problema dell’Altro. 

23 – G. Monbiot, L’era del consenso (Manifesto per un nuovo ordine mondiale), trad. it. di E. Valdrè, Milano, Lonanesi, 2004.

altri. Eppure si dice portatore di pace, di giustizia, di democrazia, mentre calpesta le leggi elementari della democrazia, non cerca la giustizia, rinnega la pace. In cambio, è pronto ad ogni guerra per sete di dominio e di ricchezza. 

A questo punto, ci si chiede: cosa si può fare? È certo che non si può rimanere passivi; perciò, bisogna parlare di tutto questo per dar vita a movimenti di massa che, se non mandino a casa, condizionino perlomeno i governi. Fare opera di divulgazione significa appropriarsi la politica, comunicare con gli altri, parlare, scambiare idee, formulare proposte, che vuol dire allargare il consenso, creare le premesse per un cambiamento radicale, a favore di un nuovo ordine mondiale, come lo ha bene delineato Monbiot23, con cifre alla mano (e non è idealismo), in cui l’uomo possa essere se stesso e in condizioni adeguate ai suoi bisogni. Che vuol dire riprendersi l’umanità, riconoscersi tra pari ed essere nella pace, contro ogni forma di cieco egoismo e di spietata brutalità delle guerre dei nostri giorni. 

Salvatore Vecchio




 La «ricerca» di Ionesco 

La quête intermittente, Paris, Gallimard, 1987. 

Eugenio Ionesco non finisce mai di sorprenderci. Quasi ottantenne (è nato a Slatina, in Romania, nel 1912), con questo nuovo libro, affronta il pubblico con fierezza ed orgoglio per difendere ancora una volta il suo teatro e, nello stesso tempo, è ansioso e preoccupato per la vecchiaia che avanza, le difficoltà finanziarie, l’incerto avvenire della sua donna Rodica e della figlia Marie-France. 

La quête intermittente è un diario, il diario dell’anima di Ionesco, che è poi una continuazione del Journal en miettes del 1967. Viene scritto tra l’estate del 1986 e il gennaio dell’87 a Saint-Gall, dove festeggia i suoi cinquant’anni di matrimonio, e Le Rondon, un posto tranquillo dove passa l’estate in un pensionato per anziani con Rodica. 

L’autore è più disteso, tante focosità battagliere in lui si sono spente e, all’approssimarsi della morte, vuole continuare il dialogo con se stesso, a volte, per rafforzare le sue convinzioni e restare fermo in certe sue posizioni, a volte, per sentirsi vivo e presente a sé e agli altri. Quello che Ionesco insegue è un po’ più di tranquillità, di giustizia, dopo una vita spesa per la «ricerca» del vero, al di là di ogni convenzionalismo, per il bene dell’uomo e di certi ideali che essi solo fanno affrontare con dignità la morte. 

Così come Bérenger di Le roi se meurt, giunto verso la fine dei suoi giorni terreni, consapevole che l’ineluttabile passo dovrà pur compiersi, egli si rivolge indietro negli anni intravedendovi la gioventù, i parenti, tanti degli amici più cari, ohimè!, passati per sempre, le fedi incrollabili, che ora non gli dicono niente, il dubbio ritornante, forse l’unico che non l’ha mai lasciato… 

Ionesco è scrittore di grande umanità e di finissima sensibilità: e quello a cui egli si rivolge è il mondo, il suo vissuto di uomo e di artista in cerca ancora di una identità, che è segno di vitalità umana oltre che intellettuale. La sua «ricerca» consiste in un continuo interrogarsi, in un manifestarsi per non tradire il suo io e rivelarsi nella sua interezza. 

Prima di tutto, il libro è un canto di riconoscenza e di amore rivolto a Rodica (ed è l’elogio più bello che una moglie possa ricevere) ed offre anche spunto a Ionesco per manifestare il suo amore paterno, le sue premure e preoccupazioni per l’unica figlia che, quasi indifesa, per l’avanzata età del padre, ha da affrontare il mondo sempre più pieno di insidie e di malvagità. 

«A côté de moi, allongée, elle lit. Sereinement. Mon amour n’est pas irréel, 
l’amour n’est pas irréel. La vie de l’amour est d’une réalité irréfutable. Je 
suis certain, maintenant, que l’amour est éternellement irréfutable» (pag. 34). 

E ancora: 

«La nuit tombe. De nouveau, la panique. Elle est si fragile! Si fragile, la 
pauvre, ma petite. Et moi-meme si fragile… 

Je pense aussi à Marie-France. Pauvre petite, elle aussi» (pag. 86). Ma, a parte questo che è uno degli aspetti più caratterizzanti dell’opera, Ionesco non perde l’occasione per parlare di teatro ed imporre anche la sua presenza, ad onta di chi ne vorrebbe sminuita la portata artistico-letteraria. Gli si rinfaccia di non essere stato comunista, quando tutti si atteggiavano a comunisti e maoisti, come Sartre, seguendo le direzioni del vento. 

«On n’avait pas le droit d’etre anticommuniste quand les encore «jeunes» 
philosophes étaient communistes, il fallait etre stalinien, maoiste avee eux, 
et, maintenant, après eux, dire qu’on s’était trompé: la lumière ne devait 
venir que par eux» (pag. 43). 

Ionesco non ha fatto mai politica attiva o, per lo meno, la sua è stata sempre la politica dell’uomo per l’uomo, nel senso che alla base di ogni suo scritto, sia una pièce o un romanzo c’è la ricerca e la riscoperta di quei valori che, messe da parte ingiustizie e malignità, fanno veramente umano l’uomo. Sicché critica ogni tipo di ideologia, gli uomini ammalati di «rinocerontite» (vedi Rhinocéros del 1959) e propugna la via verso un mondo migliore, dove siano finalmente debellati i soprusi e le violenze. 

Contro coloro che fanno Beckett promotore del «teatro dell’assurdo», che Ionesco preferisce chiamare «teatro nuovo» o «d’avanguardia», egli porta le sue pezze d’appoggio, citando nomi di autori ed opere, rivendicando a sé, con La Cantatrice chauve del 1950, il ruolo di iniziatore di questo teatro «d’avanguardia», «una avant-garde toujours vivante, puisque depuis les années 1950, ce théatre, très caractéristique, n’a pas eu de relève» (pag. 46), e fa i nomi di Adamov, di Tardieu, Weingarten e altri, mentre En attendant Godot è del ’53. 

Ionesco crede nel teatro e, come tale, non può sopportare le meschinità degli arrampicatori di specchi. Per questo motivo, non risparmia nessuno, critici ed impresari teatrali che fanno il bello e il cattivo tempo, a scapito del teatro e dell’arte. 

La ricerca della verità altro non è che ricerca di Dio: e questo costituisce un altro aspetto del libro, aspetto che, per la verità, Ionesco ha sentito e vissuto sempre intensamente. Sin dalle sue prime pièces, c’è l’anelito della religiosità che a poco a poco andrà prendendo contorni ben delineati: ne Les Chaises (1952), i due vecchi s’uccidono per unirsi agli «invisibili», superando così la loro solitudine, ne La Soif et la Faim (1965), il protagonista Jean tende ad una vita migliore che solo dopo la morte può sperare, ne Le roi se meurt (1962), Bérenger I accetta la morte con serenità, confortato dall’amore e dalla speranza e, ancora, negli ultimi lavori, dove è più marcato il senso religioso della vita e l’approdo nella fede. Basti ricordare il libretto Maximilian Kolbe. Ma, più propriamente, in questo La quête intermittente, c’è la professione di una credenza fortemente cristiana e cattolica, anche se Ionesco non è mai pago per quel suo bisogno di comunicazione profonda che tende istaurare tra lui e il mondo, tra il finito e l’infinito, con Dio. 

Un libro, questo, che troviamo utilissimo per la comprensione dell’opera dell’autore, per conoscere meglio Eugenio Ionesco che mai, come ora, si è messo a nudo e si è palesato così per intero. Ma non è solo questo che ci fa accostare a La quête intermittente: esso è una chiave di lettura importantissima e indispensabile per quanti si vogliono accostare alla sua drammaturgia e, in generale, al «nuovo teatro», che veramente ha dell’originale e risponde appieno alle esigenze dell’uomo, mai come ora in cerca della sua vera identità. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno I, n.2, 1989, pagg. 39-41.




L’imperdonabile errore di Cagliostro

L’imperdonabile errore di Cagliostro

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 41-46.




 L’Umanesimo siciliano 

Nella vita sociale e nella cultura siciliana il passaggio dal Regno al Viceregno non fu senza ripercussioni negative. Innanzitutto fu negativo il fatto che era venuta meno la Corte, da sempre centro di irradiazione culturale: e se già nel primo Quattrocento l’Umanesimo peninsulare poteva dirsi affermato, non così fu nell’Isola, perché esso ricevette decisivo impulso solo con la salita al trono di Napoli di Alfonso V nel 1442. 

Le vicissitudini politiche e le difficoltà economico-sociali dovute alle guerre e alle varie calamità, il sorgere di nuove professioni, avevano attutito l’interesse verso gli antichi, ma non l’avevano spento del tutto. Se sotto la dominazione araba la Sicilia aveva favorito lo scambio tra culture diverse e aveva fatto parlare di un suo protoumanesimo fin dal tempo dei Normanni, e se il fervido studio, la ricerca e la conoscenza dei classici, le traduzioni dal greco in latino, o dall’arabo in latino, furono continuati dagli Svevi, ora, ravvivati dal mecenatismo di Alfonso il Magnanimo, lo studio e l’amore per i classici si tradussero come in un modello di vita a cui guardare, la molla da cui sarebbe partita la spinta della conoscenza dei moderni. 

Negli uomini più geniali gli studi umanistici non costituirono un mondo a sé, non furono solo imitazione, ma un momento di riflessione, di pensosità, come quella che traspare dai volti di Antonello da Messina, che sembra voler penetrare la problematicità della vita. 

Ma il fatto che la Sicilia era priva della Corte e la cultura monopolio delle città (Messina prima di tutte, e poi Palermo, Catania e le altre minori) fece sì che gli interessi venissero convogliati nel versante giuridico-scientifico, cioè, verso studi che avessero una maggiore attinenza con la vita pratica, in modo da soddisfare le esigenze dei signori e delle nuove classi sociali emergenti, quelle dei borghesi e dei professionisti. 

L’università di Catania, istituita da Alfonso nel 1444 fu elargitrice di sapere scientifico e giuridico, ma non di quello umanistico. I letterati, per approfondire i loro studi e divulgare le loro opere, furono costretti ad andare fuori dalla Sicilia. Poi, magari, alcuni ritornavano, come Caio Caloria Ponzio o Giovanni Marrasio, ma molti andavano per non tornare più. Questo costituì un motivo di impoverimento della cultura siciliana che vedeva rimpicciolita la schiera dei suoi letterati, ma fu anche un modo per tenersi collegata all’Italia e all’Europa, come dimostrano i carteggi tra letterati siciliani e uomini di cultura del Continente. 

Le città siciliane, economicamente e socialmente più avanzate detenevano – dicevamo – il monopolio della cultura e se ne servivano a tutto vantaggio dei loro interessi. Essendo molto vivo il campanilismo tra esse, si voleva offrire un’immagine di sé il più possibile evoluta e aperta a tutte le istanze. Questo fece si che esse agevolassero gli studenti, dando ai più promettenti borse di studio per consentire loro la frequenza delle università in altre città italiane. Questi investimenti nella cultura si traducevano nella possibilità di avere nel giro di pochi anni uomini preparati e abili anche nell’amministrare le loro città, come fu per Antonio Cassarino o per Giovanni Naso da Corleone, i quali ricoprirono la carica di segretari comunali a Palermo. 

I letterati siciliani che operarono in Sicilia dovettero sostanzialmente fare i conti con la realtà cittadina. Per fare un nome, citiamo Giovanni Marrasio di Noto, nei cui scritti (quelli degli ultimi anni) è evidente il lavorio esistenziale della società siciliana. Non così fu per gli altri che, pur mantenendo sempre i contatti con la Sicilia, rimasero fuori. Sicché il loro classicismo è impregnato di una visione elegiaca della vita verso cui furono proiettati. Antonio Beccadelli il Panormita o Giovanni Aurispa, furono instancabili propagatori di studi classici.; ad Aurispa dobbiamo la conoscenza di gran parte degli autori greci per averne portati i codici da Costantinopoli. 

L’amore per gli antichi fu molto vivo in Sicilia. La mentalità dell’uomo nuovo era già aperta ad altre strade ed era sentita la necessità di adeguarvisi. Dovunque sorsero scuole che ebbero maestri insigni e scolari altrettanto validi da succedere ai loro maestri nell’insegnamento o a portare fuori dell’Isola la loro dottrina. Alcuni ebbero onori e riconoscimenti tali da divenire confidenti di re (il Panormita nella corte di Alfonso e di Ferdinando a Napoli, o Aurispa, che fu segretario dell’imperatore Giovanni Paleologo di Costantinopoli, e lo stesso Pietro Ransano); altri tennero le cattedre dei maggiori atenei del tempo (Filippo Barberis, che ebbe interessi un po’ in tutte le discipline umanistiche, Antonio Cassarino e Giovanni Naso); altri ancora portarono l’Umanesimo in Europa. È il caso di Lucio Marineo e di Lucio Flaminio, che andarono ad insegnare a Salamanca, di Pietro Ransano, che fu ambasciatore in Francia e in Ungheria, dove rimase diversi anni, di Cataldo Parisio Siculo, che insegnò in Portogallo, di Giovanni Antonio Provina, che andò fino in Irlanda e tanti ancora. 

Abbiamo voluto ricordare alcuni nomi per dare un’idea della vivacità culturale del Quattrocento siciliano, che non sarebbe potuto essere tale, se in Sicilia non ci fossero state quelle premesse indispensabili a favorire gli studi. E, in verità, Messina e Palermo furono due poli di indiscussa cultura; l’una perché fu aperta ai commerci e per essi fu luogo di incontri e di scambi editoriali, l’altra perché non solo era la sede vicereale e, quindi, centro di attrattiva politica e di rigurgito di idee, anche perché ebbe vivo quel senso di primato che le derivava dalla memoria della gloria passata, per cui cercò di adeguarsi alle nuove realtà, chiamando a sé uomini di provata cultura, come Giovanni Naso, fatto venire dallo studio di Napoli con la promessa di un lauto stipendio. 

Non meno contavano nel panorama culturale siciliano gli altri centri minori, che vantavano nomi di tutto rispetto: da Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa, che vide in opera Tommaso Ciaula, a Marsala, che fu sede prestigiosa di studi umanistici (Schifaldo, Capozio e, più tardi, Colocasio). Da Trapani a Mazara del Vallo, da Agrigento ad Alcamo, un po’ dovunque, si studiò greco e latino, si emularono gli antichi e si scrisse nella loro lingua, trascurando la propria, che nel secolo precedente aveva raggiunto nella prosa una dignità letteraria invidiabile. 

Il volgare siciliano venne così accantonato, a tutto vantaggio del toscano emergente; esso fu usato sia in prosa che in poesia per soddisfare solo l’esigenza della cultura di interesse popolare, specialmente quella religiosa, ma non fu più curato come nel passato e perse a poco a poco in dignità. Anche perché l’influsso del toscano, con l’introduzione della stampa, cominciò ad essere più insistente, e gli uomini del tempo non si resero consapevolmente conto di quanto stesse avvenendo a scapito della loro lingua. 

Tirando le conclusioni, in Sicilia nel Quattrocento ci furono un’attività culturale e una ripresa degli studi che la fecero uscire dall’ambiente angusto regionale e le aprirono la prospettiva di maggiori contatti con la terraferma che, se da un lato le costò la perdita del primato in campo linguistico, dall’altro le consenti un maggiore utilizzo delle proprie energie intellettuali che in termini culturali si tradusse nel dare un’immagine diversa di sé e nel sapersi imporre con uomini preparati in ogni campo dello scibile, i quali occuparono in Italia e in Europa cattedre e cariche prestigiosissime. 

Ne risulta così un quadro variegato, ricco di stimoli, contrariamente a quanto si possa pensare di una Sicilia relegata entro angusti limiti culturali e chiusa dai suoi mari. Era il vento della nuova età che anche in quest’estremo lembo dell’Occidente, crocevia di incontri e di scontri con l’Oriente, portava la brezza di un rinnovamento radicale che investiva tutti e tutto nel segno di una fiducia incondizionata nell’uomo e nelle sue scoperte che di lì a poco dovevano rivoluzionare per sempre il vecchio mondo. 

*** 

Da alcuni nomi che già abbiamo menzionato risulta chiaro che la Sicilia partecipò con una presenza abbastanza massiccia all’Umanesimo italiano ed europeo, contribuendo in larga misura alla diffusione e alla conoscenza della cultura classica. 

Operando in Italia e in Europa, gli Umanisti siciliani, facendo propri i temi ricorrenti, scrissero le loro opere in latino, indirizzandole alle persone colte. Quelli che, invece, restarono in patria, dovettero adeguarsi alla realtà siciliana, dove operavano anche sporadiche figure di mecenati, come Guglielmo Raimondo e Giovanni Tommaso, conti di Adernò. 

Gli Umanisti del primo Quattrocento, regnante Alfonso il Magnanimo (1416-1458), si sentirono principalmente attratti dal clima culturale italiano, e molti di essi che avevano studiato nelle università del Continente spesso preferirono rimanervi ad occupare le cattedre più importanti o, ritornando in Sicilia, mantenere sempre i contatti con gli amici che avevano lasciato, come era stato per Tommaso Caloria che, appunto, mantenne un 

rapporto epistolare con l’amico Petrarca, e come fu per Marrasio e altri che rientrarono in patria. Ci fu un cambiamento di tendenza quando, nel secondo Quattrocento, la Spagna cominciò a farsi più presente. Allora furono molti quelli che abbandonarono la Sicilia o le cattedre universitarie italiane per andare in Spagna o in altri Paesi europei. 

Alla corte di Alfonso il Magnanimo giunse, dopo aver girato mezza Italia per studio e per bisogno innato di conoscere uomini e luoghi, Antonio Beccadelli, detto il Panormita (chiamato anche Bologna per l’origine bolognese della sua famiglia, nato a Palermo nel 1394), che, figura irrequieta e intraprendente di uomo e di letterato, andò alla ricerca di codici antichi, incurante delle spese, e li studiò con l’amore proprio dei suoi tempi. 

Non ancora ventenne, si trasferi a Bologna e poi a Firenze, dove conobbe e divenne amico di Giovanni Aurispa, che lo inseri nell’ambiente letterario e lo raccomandò al pontefice Martino V, che nel 1419 si trovava in quella città. Di lì passò a Padova, a Pavia, a Roma, insegnando latino e greco e continuando gli studi giuridici, e a Siena, dove scrisse i componimenti che fanno parte dell’Hennaphroditus, pubblicato nel 1425. 

Ben presto divenne amico del duca Filippo Maria Visconti che nel 1429 lo volle insegnante nello Studio di Pavia. Un soggiorno, questo, che risultò proficuo, perché qui portò a termine il commento a otto commedie di Plauto e buona parte delle Epistolae gallicae, che rispecchiano la vita spensierata del loro autore, scritte in un latino semplice e piacevole, tra le gioie e i divertimenti. Lo stesso stato d’animo lo ritroviamo nelle Epistolae campanae, scritte a Napoli, quando già era segretario di re Alfonso. Nel 1432 fu a Parma e qui ricevette la corona d’alloro dall’imperatore Sigismondo. 

Stancatosi dell’insegnamento, abbandonò Pavia e finì per mettersi al servizio di Alfonso. Ma potè trovare la tranquillità economica e spirituale quando questi si impadronì di Napoli. Da allora il Panormita fu onorato e ammirato per la sua intensa attività culturale in seno al “Portico Antoniano”, da lui fondato e che dopo la sua morte, avvenuta nel 1471, prese il nome di “Accademia Pontaniana”, dal nome del suo successore, Giovanni Pontano. 

Al periodo napoletano, oltre alle epistole menzionate, risale l’opera, scritta nel 1455, De dictis et factis Alphonsi regis, che è un omaggio al suo potente benefattore e che raccoglie aneddoti e sentenze che mettono in risalto la disponibilità e la bontà d’animo del re. Tutto in un latino elegante e agile, ma non ha più niente della poesia gioiosa e piena di vita dell’Hennaphroditus e delle Epistolae. La tranquillità economica gli fece perdere lo slancio interiore, ricco di arguzia e propenso all’amore, proprio di uno che aveva saputo modernamente conciliare la piacevole innamorata poesia di Catullo e gli strali infuocati di Marziale. 

Palermitani e amici di Antonio Beccadelli, anch’essi rappresentanti di spicco dell’Umanesimo non soltanto meridionale e siciliano, furono Ransano (1428-1492) e Gravina (1453-1528). Pietro Ransano, fine letterato, storico e teologo, fu vescovo di Lucera, dove morì, e appartenne all’ordine domenicano. Nel 1488, e fino al 1490, fu inviato da Ferdinando come ambasciatore in Ungherìa presso la corte di Mattia Corvino. A questo periodo si riferisce l’Epitome rerum hungaricarum. 

Pietro Gravina, socio dell’ “Accademia Pontaniana” e vicino per personalità e interessi al Panormita, fu filosofo, abile oratore e poeta. Gli piacque vivere gaiamente, lontano dalle contese e dalle malignità, curando, piuttosto, molto le amicizie, tra cui quelle di letterati e poeti, come Pontano e Sannazaro, e non disdegnando di rivolgere le sue lodi ora a questo ora a quel protettore per garantirsi sempre, senza preoccupazioni di sorta, una vita agiata da gaudente. Per questo fu stimato e amato dal suo mecenate, Giovan Francesco di Capua, conte di Palena, che prima di morire lo nominò erede dei suoi beni e gli pubblicò le poesie. 

Pietro Gravina scrisse libri di Frammenti, Selve, Elegie, Epigrammi (pubblicati nell’opera Carmina), un Carme epico per Consalvo di Cordova, Epistolae et orationes, e tutte in un latino scorrevole e facile, con qua e là spunti di vera poesia, mentre nella gran parte dei versi abbonda di loquacità, dandosi più all’estro parolaio che ai veri sentimenti. 

Di Noto, a cui dobbiamo tanti umanisti, fu Giovanni Aurispa (13761459), instancabile ricercatore in Italia e a Costantinopoli di classici greci e grande ellenista. A lui si deve l’aver fatto conoscere all’Occidente la quasi totalità della letteratura greca (Platone, gli storici, l’Antologia Palatina e tantissimi altri autori) rimasta per lunghi secoli inesplorata. Di qui i suoi frequenti viaggi nelle varie città italiane (Firenze, Bologna, Venezia, Ferrara, città dove morì). viaggi, questi, che gli fruttarono il ritrovamento e l’acquisto di centinaia di codici e l’ammirazione di tanti estimatori e letterati, come Bracciolini, Valla, Filelfo, Ambrogio Camaldolese, che se lo contesero, chiamandolo ad insegnare nelle loro università. Il Panormita lo invitò insistentemente a Napoli, per farlo socio del suo sodalizio, offrendogli l’ospitalità e gli onori del re, e 

Ambrogio Camaldolese lo aiutò fmanziariamente ad acquistare molti codici. 

L’insegnamento, il commercio e la cura che ebbe per gli antichi lo distolsero da una produzione propria che si ridusse ad alcune traduzioni dal greco in latino e a pochi componimenti e letture, sempre in latino, che ne evidenziano la forte personalità, la ben ferrata conoscenza linguistica e il raggiunto equilibrio umano e spirituale. 

Sempre Noto diede i natali a tanti umanisti, alcuni dei quali già incontrati, come Riginaldo Montoro, che insegnò a Salamanca, altri, come Giovanni Antonio Provina, letterato e storico, al servizio di re Ferdinando il Cattolico, Antonio Cassarino e Giovanni Marrasio. 

Antonio Cassarino, che fu insegnante a Palermo (era nato nel 1379, e morto a Genova nel 1444, quando, per sfuggire a un tumulto vandalico popolare e porsi in salvo, cadde da una finestra), si trasferì prima a Costantinopoli per perfezionarsi nella lingua, e qui le sue lezioni furono seguite da un folto pubblico e vennero lodate dallo stesso Imperatore; poi, ritornato in Italia, emulo del concittadino Aurispa, passò ad insegnare nelle più importanti città, traducendo i classici, ma scrivendo poco di proprio. Di lui ci rimangono le traduzioni di Plutarco e della Repubblica e della Politica di Platone, con alcune lettere e orazioni. 

Poeta, amico di Leonardo Bruni e di Maffeo Vegio, fu Giovanni Marrasio, nato nei primi anni del ‘400 e morto probabilmente nel 1471, anno della morte del Panormita, che ne apprese la notizia e ne fu addolorato. Del poco che si sa di lui, dalla natia Noto si recò per studio a Siena, dove conobbe Antonio Beccadelli e nel 1425 compose l’Angelinetum, dedicato ad Angelina Piccolomini, divenendo famoso più del dovuto, non tanto per il merito poetico e la sua conoscenza del latino, quanto per il tema amoroso e per la polemica che l’operetta suscitò. Da Siena poi passò a Firenze, a Padova e a Ferrara. Sappiamo anche che verso il 1450 prese gli ordini minori e che poi ritornò in Sicilia, dove il contatto con l’ambiente e la diversa realtà segnano nella sua poesia una svolta che gli fece abbandonare il tono classico d’ispirazione petrarchesca per una più pacata partecipe accettazione della vita. 

Altri Umanisti siciliani furono il corleonese Giovanni Naso, autore oltre che delle Consuetudini della città di Palermo, di un poema in lode di re Giovanni II, in occasione della vittoria su Barcellona che gli offri lo spunto per esaltare Palermo e le sue origini, e di alcuni componimenti di ispirazione beccadelliana, in cui, comunque, evidenzia una buona conoscenza tecnica modellata sull’opera di Virgilio; Giacomo Mirabella, ellenista, autore della traduzione A Nicode, di Isocrate; il domenicano Tommaso Schifaldo (1430?1494?), marsalese, insegnante in diverse città dell’Isola, filologo, poeta e autore di opere storiche; fra Filippo Barberis (1426-1487), anch’egli domenicano, di Siracusa, e, come lo Schifaldo, versatile e proficuo autore di opere filosofiche e di storia sacra e profana (Virorum illustrium cronica). 

Furono famosi i suoi Opuscula, di varia argomentazione. Con essi ricordiamo l’agrigentino Nicolò Valla e Antonio Flaminio di Mineo, operante, quest’ultimo, a Roma nella seconda metà del secolo, dove tenne una scuola di latino e greco. Di lui ci sono giunte due lettere, mentre di Valla, che soggiornò anche per diverso tempo a Roma, abbiamo alcuni componimenti in prosa e in versi e una grammatica, scritti in latino e un Vocabolarium vulgare cum latino. Il Vocabolarium fu pubblicato a Firenze nel 1500, e fu il primo vocabolario in dialetto siciliano che, però, riproduce in gran parte le voci della parlata di Agrigento. 

Se questi e altri non ricordati furono gli Umanisti siciliani che svolsero la loro opera in Italia e in Sicilia molti furono quelli che portarono l’Umanesimo nella Penisola Iberica e in Europa. Lo stesso fra Filippo Barberis andò fino in Ungheria, alla corte di Mattia Corvino, e nella Spagna di re Giovanni, ma, mentre egli rientrò, altri preferirono rimanere all’estero. E’ il caso di Lucio Marineo, da Vizzini, che dopo aver studiato alla scuola di Giovanni Naso, si recò a Roma, dove divenne amico e frequentò l’Accademia di Giulio Pomponio Leto, e di qui in Spagna, diffondendo con le sue opere (fu autore di carmi in latino e di una grammatica) e il suo insegnamento l’Umanesimo siciliano. 

Suoi colleghi di insegnamento a Salamanca furono Pietro Santeramo, di Messina; Lucio Flaminio, autore di orazioni, epistole e di un commento a Plinio, e Parisio Cataldo Siculo, che andò ad insegnare in Portogallo, giurista e autore di componimenti poetici in latino. 

Vanno particolarmente ricordati per le loro opere il mazarese Angelo 

Callimaco, autore di lettere e di un componimento, De Laudibus Messanae, dove elogia Messina e la Sicilia, ricorrendo al mito e alla storia; e Priamo 

Capozio, di Marsala, che si spinse fino in Germania, insegnando a Dresda e a Lipsia, e fu autore di un poemetto dal titolo Federiceide, composto e pubblicato a Lipsia nel 1488. Una recente edizione si deve al compianto amico Giacomo Sammartano, corredata di traduzione e delle poche notizie biografiche che di lui si conoscono. 

Capozio, rientrato a Palermo probabilmente nel 1511, occupò la carica di avvocato fiscale; questa carica fu causa della sua morte, avvenuta nel 1517, durante la sommossa di Luca Squarcialupo 

La Federiceide fu dedicata al suo grande mecenate, Federico III di Sassonia, discendente di Federico, margravio di Meissen, fondatore della dinastia. Capozio narra le imprese di quest’ultimo, vincitore di Adolfo di Germania che ne ostacolava l’ascesa al trono.

È un componimento encomiastico in esametri latini di bella fattura con spunti paesaggistici e con riferimenti biblico-mitologici che bene conciliano l’elemento pagano a quello cristiano. Il poemetto ha una sua importanza storica rilevante, perché, oltre a costituire un documento dell’Umanesimo siciliano in terra europea, esso s’inquadra in un filone artistico preciso, quello della poesia epica, che tanto posto occupa nella letteratura rinascimentale. L’Umanesimo siciliano non fu, come si può ben notare, limitato alle grandi città dell’Isola; anche le più piccole (Vizzini, Mineo, o le più distanti dai centri di influenza) furono vivide di cultura (è il caso di Mazara, di Marsala, della stessa Alcamo) che non restò entro i confini della Sicilia, ma ebbe un’ampia risonanza in Italia e in tutta l’Europa. 

Salvatore Vecchio 

NOTA BIBLIOGRAFICA 

Per un ulteriore approfondimento, si consultino: 
F. De Stefano, Storia della Sicilia dal sec. XI al sec. XIX, Bari, 1948; 
V. Titone, La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia, Bologna, 1955; 
L. Natoli, La civiltà siciliana del sec. XI, Palermo, 1895; 
S. Sala, La Sicilia e l’Umanesimo, in <<Archivio Storico Siciliano», 1933; 
G. Sammartano, L’Umanesimo in Sicilia, in «Umanisti marsalesi. Tommaso Schifaldo e 
Vincenzo Colocasio», Marsala, 1969.

Da “Spiragli”, anno IX, n.2, 1997, pagg. 5-13.




Ionesco. Tra la vita e il sogno 

 Lo spettatore o il lettore, sulle prime, dinanzi ad un’opera di Ionesco, non sa se quello che gli viene prospettato è un sogno , o un insieme di sogni, oppure la trasposizione personalissima della realtà su un piano puramente surreale. Se ne renderà subito conto, però. È certo che in Ionesco c’è una dosata commistione di vita e di sogno, di realtà, quale essa è, e come gli si presenta, e di aspirazioni. Alla base di tutta l’opera ioneschiana c’è questo, e nel tendere verso l’altro va vista e spiegata la tensione che l’attraversa, magari manifestantesi sotto forma di contenuta comicità o di disarmante drammaticità. 

Questo modo di vedere la vita e le cose Ionesco se lo è portato dietro per sempre ed è sintomatico di tutta la sua produzione. Sicuramente, però, le cause vanno ricercate nell’ambiente familiare della sua infanzia e nel clima socio-politico incerto caratterizzante quegli anni di guerra. Fatto sta che un momento veramente felice, che ricorderà con nostalgia, lo vivrà lontano dai suoi e lontano da Parigi, alla Chapelle-Anthenaise, in Maienna, quando verrà affidato, assieme alla sorella Marilena, ad una famiglia di contadini. Ionesco non dimenticherà mai quel soggiorno e questo luogo di sogno, anzi per lui costituirà un “paradiso perduto” a cui guarderà sempre con i suoi occhi adulti. 

* 

*     * 

Era nato a Slatina, in Romania, nel 1909, da Eugenio Ionesco, e da Teresa Ipcar, francese. Già, all’età di due anni fu portato a Parigi, dove il padre avrebbe dovuto preparare una tesi in diritto. Il piccolo Eugenio passò i primi anni, immerso nei suoi giuochi di bambino, con la madre e la sorella, anche se ben presto dovette conoscere le brutture della vita e affrontare tante difficoltà di ordine materiale e carenze di affetto, perché il padre nel 1916 ritornò a Bucarest, lasciando la famigliola, dove si risposò con la scusa di essere stato lasciato dalla moglie, incurante dei figli. È del 1917, nel bel mezzo della guerra, il soggiorno alla Chapelle-Anthenaise, nella fattoria chiamata “Il mulino”: 

«A otto, nove, dieci anni, quando soggiornavo al Mulino tutto era gioia, tutto era presenza. Le stagioni sembravano dispiegarsi nello spazio. Il mondo era un decoro, con i colori ora scuri ora chiari, con i fiori e le erbe che apparivano e disparivano, venendo verso di noi, e poi allontanandosi, sciogliendosi sotto i nostri occhi, tanto che noi stessi restavamo al nostro posto, guardando passare il tempo, pur rimanendone fuori(1)». 

Un mondo di sogno che gli rimarrà per sempre impresso – dicevamo e che ricorderà qua e là nei suoi scritti. A parte nel racconto La vase, da cui Heinz von’Cramer realizzò un film, girato sul posto e che ebbe come attore lo stesso lonesco, c’è l’aspirazione al mondo dell’infanzia nella Soif et la Faim, dove Jean, il protagonista, anela, ma invano, alla felicità. 

Alla Chapelle-Anthenaise rimase due anni appena, fino al 1919, quando dovette fare ritorno a Parigi, città che avrebbe dovuto lasciare sul finire del 1922 per raggiungere il padre a Bucarest, dove il giovane avrebbe studiato il rumeno. Qui portò a termine i suoi studi medi e nel 1929 si iscrisse alla facoltà di lettere di Bucarest. Ben presto però i rapporti con il padre e la matrigna divennero tesi, tanto che andò ad abitare con la madre, che intanto era anche lei ritornata a Bucarest. 

«Padre, non ci siamo mai capiti… Mi senti? lo ti ubbidirò, perdonaci, noi ti abbiamo già perdonato… Mostra il viso! (il Polizzotto rimane fermo.) Eri rigido, forse non eri nemmeno troppo cattivo. Può darsi, non per colpa tua. No. Odiavo la tua violenza, il tuo egoismo. Non ho avuto alcuna pietà per le tue debolezze. E mi picchiavi. Ma sono stato più duro di te. Il mio disprezzo ti ha colpito ancora più forte. È il mio disprezzo che ti ha ucciso. Vero? Ascolta… Dovevo vendicare mia madre… Dovevo farlo. In che cosa consisteva il mio dovere? Lo dovevo veramente? .. Ella ha perdonato, ma io ho continuato a vendicarla… A che serve la vendetta? È sempre il vendicatore che soffre…(2)». 

Dopo tanti anni (siamo press’a poco nel ’52, anche se Victimes du devoir porta la data del ’53), Ionesco rivive questi stati d’animo a tu per tu con i fantasmi rivisitati, seppure irriconoscibili, del padre e della madre. Così, per Ionesco, è la rilettura di un reale che ha segnato la sua vita e che riaffiora qua e là in una trasposizione scenica dai toni e dai colori diversi. Quasi una liberazione dai sensi repressi, una confessione – come lui stesso la chiama – sulla scena del profondo che solo ora emerge e che a lungo si è portato dietro. 

Gli anni che vanno dal 1930 al 1950 sono anni di formazione letteraria e di fervida attesa. Fa molti incontri, a cominciare da quelli con Tristan Tzara e i poeti surrealisti che lo invoglieranno a scrivere poesie (Elégies pour étres minuscules (Elegie per esseri minuscoli), 1931, e a interessarsi di letteratura. Sono gli anni delle sue prime collaborazioni a giornali e riviste: “Azi” (Oggi), “Critica” (La critica), “Floarea de foc” (Il fiore di fuoco), “Idea Romàneascà” (L’idea rumena), “Vremea” (Il tempo), “Viata literarà” (La vita letteraria), “Zodiac” (Lo zodiaco), “Facla” (La fiaccola). Ma questi, specialmente i primi, sono anche gli anni di maggiori scontri con il padre che lo avrebbe voluto indirizzare a studi scientifici. C’è, a proposito di quegli alterchi, una bella pagina in cui Ionesco, per bocca di Jean, protagonista suo alter ego di Voyages chez les morts (Viaggi tra i morti), rivive come in un susseguirsi di quadri quei divieti e soprusi paterni: 

«Quando ero studente, entravi nella mia stanzetta. Cercavi nei miei cassetti. Mi controllavi i quaderni e non vi trovavi che caricature al posto dei compiti assegnatimi dai maestri, dai professori. Mi facevi ripetere le lezioni, me le facevi recitare, senza che sapessi una parola […]. 

Tu me frappais. Mais j’ai été plus dur que toi. Mon mépris t’a frappé beaucoup plus fort. C’est mon mépris qui t’a tué. N’est-ce pas? Écoute… Je devais venger ma mère… Je le devais… OÙ était mon devoir? Le devais-je vraiment?… Elle a pardonné, mais moi j’ai continué d’assumer sa vengeance… À quoi sert la vengeance? C’est toujours le vengeur qui souffre…

Mi schiaffeggiavi, mi picchiavi, ma essi, i miei professori, non tenevano affatto conto dei miei zeri in matematica, essi, avevano fiducia (…). 

Ora sto regolando i miei conti con te e ti rinfaccio tutto ciò che hai voluto impedirmi di fare, tu, pater familias cieco(3) 

Nel 1938 lo troviamo di ritorno a Parigi per svolgere una tesi su “Il peccato e la morte nella poesia francese da Baudelaire in poi”. Intanto si era già sposato nel 1936 con Rodica Burileanu, da cui nel ’44 ebbe la figlia Marie-France. Per vivere dovette esercitare diversi :r;nestieri, il più consono quello di correttore di bozze presso una casa editrice. 

In questo periodo tradusse diversi autori rumeni in francese (Povel Don, Urmuz) e scrisse Frammenti di diario (1946). Se da un lato, questo, per Ionesco, è un periodo di ristrettezze economiche, dall’altro, è denso di arricchimenti culturali e di nuove amicizie (Jean Gabriel Gros, Jean Torte!’ Nicolas Bataille). Il lavoro di correttore di bozze gli fece acquisire una maggiore dimestichezza lessicale e lo aprì a nuovi modi espressivi. È certo, comunque, che la ricerca formale e il giuoco lessicale lo indussero tra il 1948 e il 1949 ad avvicinarsi al teatro con una bozza (L’Anglais sans proJessew1 di quella che sarà La Cantatrice chauve, rappresentata n l maggio del 1950, tra molta disapprovazione e pochi consensi, fra cui quello di André Breton che la considerò un’opera surrealista. Da questo momento in poi, voler delineare la vita di Ionesco è percorrere le tappe della sua produzione teatrale. 

* 

*     * 

Alla Cantatrice chauve, sempre dello stesso anno, affianca La Leçon e Jacques ou la Soumission. Sia l’una che l’altra, all’inizio, non ebbero tanto successo e ci volle qualche anno prima che il grande pubblico le apprezzasse fino ad essere ininterrottamente rappresentate in tutto il mondo. Era il totale distacco dalla tradizione, ed esse costituivano l’anticipazione del nuovo, il linguaggio dissacrante e strambo, il vario impasto, ricco di allusioni, del narrato, ma era, soprattutto, la mancanza di dimestichezza che si aveva con questo “nuovo teatro” che teneva lontano il pubblico. Pubblico che in quegli anni era costituito prevalentemente dal ceto medio borghese, quella classe sociale scopertamente attaccata dall’Autore perché certo gli riportava davanti la figura patema e quella di uomini come lui. 

Se è vero, come è facile constatare e come lo stesso Ionesco afferma nei suoi scritti, che la fonte primaria della sua ispirazione sta nel proiettarsi verso il passato, l’autoritarismo esacerbato, l’accanimento del Professore di La Leçon, la sua ripetitività, e l’insistere oltre la volontà dell’Allieva, riportano sulla scena il passato dell’autore, il padre sempre in attrito, in contrasto con il giovane Ionesco, portato verso le lettere, piuttosto che verso le scienze e le pratiche attività. In Jacques ou la Soumission c’è, invece, la presa di coscienza del personaggio Jacques, il portavoce di Ionesco, che, rimasto stordito dall’invadente materialità, vuole chiudersi in sé e rifiuta ogni cosa, a differenza degli altri, incoerenti e sordi ad ogni richiamo che possa prospettare loro una vita più umana. Jacques, per la verità, vi tenta, sotto il segno della propria libertà e dando corpo al suo sentimento di amore per Roberta, ma tutt’intorno è l’incomprensione, la chiusura. 

Il teatro è, per Ionesco, la proiezione sulla scena di una realtà molto sofferta, rivissuta e, perciò, resa più vera dalla spoliazione che il tempo ha operato di ogni risentimento personale. Tutto è presentato come se si svolgesse fuori dalla realtà, come sogno che, però, di tanto in tanto riaffiora, mettendo in dubbio le nostre certezze. 

Tra le opere scritte nel ’51, oltre alle Chaises, ci sono Le Salon de l’automobile e L’avenir est dans les oeuJs, mentre del ’52 è Victimes du devoir. Se L’avenir est dans les oeuJs è la continuazione caricaturale e conformistica di Jacques ou la Soumission, Les Chaises è la rappresentazione dell’assenza, del vuoto, della proliferazione degli oggetti e, pessimisticamente, dal punto di vista umano, del nulla. 

Ionesco confessa di avere inizialmente immaginato un vecchio in mezzo a tante sedie, senza pensare né a ciò che avrebbe potuto significare, né ad un’eventuale prosecuzione della scena. A pensarei, gli venne in mente l’idea del vuoto, della solitudine, e su quella prima immagine scrisse la “farsa tragica” (così è il sottotitolo) dei due vecchi che, delusi dell’attesa di un Oratore, si uccidono. La proliferazione degli oggetti (le sedie), il linguaggio ricco di contraddizioni, la finzione scenica dei due che parlano con altri invisibili, le frequenti volute ripetizioni, i suoni e le voci onomatopeiche, tendono ad accelerare l’azione, fino all’esasperazione e al suicidio. 

Les Chaises, che fu rappresentata al Teatro Lancry da Sylvain Dhomme il 22 aprile del 1952, ebbe una fredda accoglienza di pubblico e di critica, ma non mancarono gli apprezzamenti, quelli di Adamov, Beckett, Anouilh, Queneau, che sottolineavano la novità e le doti dell’autore. 

Il decennio degli anni Cinquanta vedrà moltiplicarsi le rappresentazioni delle opere ioneschiane che cominciano a uscire dal circuito parigino e francese per inserirsi in uno più vasto, europeo. Di questi anni, a parte quelle ricordate, sono: Amedée ou Comment s’en débarasser, L’Impromptu de l’Alma, Le Nouveau Locataire, Theur sans gages, Rhinocéros. Se in Amedée ou Comment s’en débarasser, scritta nell’agosto del 1953, si assiste ancora alla proliferazione degli oggetti (i funghi, un cadavere che s’ingrandisce fuori misura), se alla base di questa pièce c’è l’aspirazione alla libertà, nel senso pieno della parola, e se nel Nouveau Locataire, a parte i mobili che vanno occupando quasi tutta la stanza, limitando l’azione del nuovo inquilino, c’è l’esigenza di salvaguardare l’uomo dall’invadente materialità, ciò vuol dire che Ionesco non ha mai perso di mira la realtà con cui si è chiamati a confrontarsi, e da questo momento s’interesserà di più a tutto quanto ci riguarda da vicino: il rapporto con gli altri, oltre che con se stessi. 

Il suo modo di procedere sarà sempre lo stesso: prenderà spunto da un sogno (Ionesco stesso racconta di avere sognato un cadavere che s’ingrandiva a dismisura) o partirà da una realtà per denunciare a se stesso e agli altri i mali della società. È il caso di Theur sans gages, scritta nel 1957. Vi incontriamo per la prima volta il nome di Bérenger che ritroveremo in molte altre pièces. È l’alter ego dell’autore, un cittadino che vuole scoprire l’assassino, chi semina il “male” nella “Città radiosa”, quale era il mondo in origine e quale potrebbe ancora essere. Bérenger, da solo e nell’indifferenza degli altri, vuole anche capire il perché dell’uccisione, vuole rendersi conto di quel gesto insulso. 

La pace, lontano dai rumori della città, gli anni passati alla ChapelleAnthenaise, tornano alla mente di Ionesco, e vorrebbe (invano!) riviverli, ma a niente valgono i buoni propositi, se il sicario («n crimine non paga. Non commettete altri crimini, e sarete pagato») rimane nell’ostinazione. 

«Ascoltate. Voglio farvi una confessione lacerante. Spesso, io stesso dubito di tutto. Non ditelo a nessuno. Dubito dell’utilità della vita, dei valori di tutte le dialettiche. Non so più come regolarmi, può darsi che non ci sia né verità né carità. In questo caso, siate filosofo: se tutto è vanità, se la carità è vanità, anche il crimine è vanità… Sareste stupido se, sapendo che tutto è polvere, valorizzaste il crimine, perché sarebbe come dare un prezzo alla vita… Prendere tutto sul serio… ed essere in piena contraddizione con voi stesso(4)» 

Il “male”, impossibile da estirpare, è di ostacolo alla realizzazione di una vita migliore e condiziona qualsiasi attività. Sicché il clima della guerra fredda che si respirava in quegli anni e la brutta esperienza di quella da poco cessata, piena di nefandezze e di atrocità, ispirano al drammaturgo un’altra opera. RhinDcéros (1958), in cui, attaccando ogni forma di dittatura, va contro la massificazione dilagante che annulla lo slancio individuale e pianifica le coscienze. 

Siamo nel 1958, anno della “controversia londinese(5)”. Si rimprovera a Ionesco. con opere come questa. e le altre che seguiranno subito dopo (Le Roi se meurt, Le Piéton de l’atT. scritte nel 1962. La Soif et la Fatm.1964. Jeux de massacre. 1969). il fatto di essersi dato al teatro éngagé. lui che aveva rimproverato questo a Brecht. a Sartre. a Camus. allo stesso Adamov e ad altri. E l’accusa gli viene mossa sia da quelli che fin dal suo esordio lo avevano sostenuto. e che ora si sentivano come “traditi” (è il caso della Tynan). sia dai detrattOri. abituati a vedere Ionesco nella prospettiva di antiteatro. 

Ionesco si allontanava dal suo modo di fare teatro, ma non per fare politica, da cui si guardò bene, bensì illuso di potere in qualche modo essere utile agli altri, visto che l’uomo, pur travagliato da forti crisi interiori, è portato a trascurare certe verità che sono sotto gli occhi di tutti: la morte, dall’indifferenza, prospettandosi un mondo umano più giusto, migliore. Ma si è nell’ambito del tentativo, perché l’uomo, nonostante tutto, è attaccato alla terra, a questa sua esistenza terrena, e anche se anela a qualcosa che lo sollevi spiritualmente, difficile è poterne uscire. Ed ecco la delusione, quella dei protagonisti di Le Piéton de l’air e di La So!! et la Faim e, quindi, dello stesso Ionesco che si vedrà costretto a riprendere il teatro degli inizi. 

La giustificazione al titolo che abbiamo dato a queste pagine è nel continuo oscillare tra la realtà e la mancata realizzazione di una aspirazione, seppure nobilissima, che non permette a Ionesco una pur minima tranquillità. Il sogno gli si infrange d’un colpo e il suo voler uscire dal pessimismo, che è insito nell’uomo, diviene impossibile e quasi fa difficoltà a riconoscervisi. Ne Le Piéton de l’air, che prende origine da un sogno(61, e che è l’aspirazione icaria al volo, Bérenger perde ogni speranza e non vuole più insistere, perché nessuno lo segue, nessuno gli dà retta e, quindi, anche a volere, è nell’impossibilità di agire. Così, ne La So!! et la Faim(7) , dove Jean, il protagonista è proteso verso la felicità. 

Gli anni Sessanta portarono Ionesco alla notorietà di pubblico e di critica. Le sue pièces venivano rappresentate e riproposte senza sosta un po’ dovunque, in Europa e nel mondo, e ormai Ionesco, divenuto un personaggio di rilievo, cominciava a partecipare con più assiduità al dibattito culturale con inteIVenti su giornali e riviste. Più frequenti divenivano anche i suoi viaggi all’estero che gli fruttarono tante conferenze e dibattiti. Ora, alla produzione teatrale, abbina pure quella critica (Notes et contre-notes, 1962; Joumal en miettes, 1967; Présent passé. Passé présent 1968; Découvertes, 1969) e si accosta sempre più alla pittura, ritenendola idonea, più che la parola, già molto abusata, a portare avanti la ricerca intrapresa con la sua opera drammatica, e tracciando la stessa parobola, perviene al figurativo, essendo partito prima con l’astratto. 

 

È il colore, la luce esplodente, la certezza che squarcia il buio, il bisogno 

di pace interiore che lo spinge a trovare nuove forme, a continuare la ricerca, 

che è, per Ionesco, “intermittente”, come titolerà un suo libro del 1987, ed 

è un uscire allo scoperto per dire le ragioni che lo hanno spinto ad operare 

nella vita e nell’arte, per difendere ancora una volta il suo teatro. 

Ionesco continuò, nonostante tutto, a pubblicare. Macbett è del 1972; 

segue Ce jonnidable bordeU, tratto dal romanzo Le Silitaire (1973) e pubblicato 

da Gallimard nel 1975, lo stesso anno di L’homme aux valices. Tra 

queste opere e Voyages chez les morts del 1981 vanno collocate due raccolte 

di articoli vari: Antitotes (1977) e Un homme en questiofl. (1979). 

Siamo, in modo diverso, dinanzi agli stessi temi. La lotta per il potere, 

in Macbett. messi da parte i nobili sentimenti, non fa che seminare la morte 

e la distruzione, mentre l’incomunicabilità chiude ancor più nella solitudine, 

in cui trova rifugio il Personaggio di Ce jonnidable bordel! Di là della 

solitudine, la distruzione e la morte, niente. Allo stesso modo dei personaggi 

di Sartre e di Camus, al Personaggio – così Ionesco chiama· il protagonista 

della pièce – non rimane altro che asserragliarsi in casa e starsene lontano 

da tutto e da tutti, perché impossibile vivere in condizioni esistenziali così 

miserevoli ed è veramente triste vivere questa vita, che è un “incredibile 

bordello!” Eppure, l’attaccamento alla vita permane ed è irresistibile: 

«11 Personaggio: Mascalzoni! Lasciatemi in pace! 

Si alza e getta loro un barattolo di conseroa e una 

bottiglia in testa. I personaggi scompaiono. 

Lasciatemi in pace! Luce! Luce! 

La luce del mattino inonda il palcoscenico. Non si 

sente più alcun rumore che viene da juori. I muri sono 

scomparsi, non c’è che un’intensa luce. Solo la poltrona 

resta sulla scena. 

l…1 

Ch’è? Non c’è nessuno! Ohe! Ohe! 

Si precipita, afferra una bottiglia di cognac, e la getta. 

Sto morendo di fame! Sto morendo di sete! 

Si guarda ancora attorno, lo spazio è vuoto, non c’è 

che la luce che viene un po’ da ogni parte. 

Cosa vuoI dire! Non vale più la pena, non c’è nessuno. Non ho capito 

un accidente, non capisco niente. Nessuno potrebbe comprendere. Tuttavia 

non sono meravigliato. È anche da meravigliarsi che non sia meravigliato. 

Molto strano(8)» 

La solitudine, la paura che essa incute, spinge ad amare la vita un po’ 

prima detestata. Siamo in presenza di due stati d’animo contrastanti che 

costituiscono la base di tutto il teatro ioneschiano: il contrasto fra ombra 

e luce, tra senso di vuoto (l’autore spesso ricorre al termine “cave” per indicare 

più propriamente il vuoto esistenziale) e presa di coscienza, tra la propensione 

ad agire e l’impossibilità a operare(9), per cui Ionesco, tramite il Personaggio, 

nella battuta finale (.Bello davvero questo scherzo, miei cari! Bello scherzo, 

signori e signore. Andatevi a immaginare uno scherzo simile! Uno scherzo 

simile! Che bordello! Ah là là, che incredibile bordello!1101.), spinge alla 

derisione. 

(. .. ) 

Que se passe-t-il? Il n’y a plus personnel Ohél Ohél 

n se précipite, prend une bouteille de cognac, il jette la bouteille. 

Je vais crever de faiml Je vais crever de soifl n regarde encore autour de lu~ l’espace est vide, il n’y a que cette lumière qui 

vient de toutes parts. 

Qu’est-ce que ça veut direi C’est p1us la peine, il n’y a personne. Je n’y ai rien com~ris. j.e 

ne comprends rien. Personne ne pourrait comprendre. Et cependant je ne sois pas etonne. 

C’est meme étonnant que je ne sois pas étonné. Bien étonnant•. 

Nel 1975 Jacques Mauclair rappresentò al Thèé1tre de l”Atelier L’homme 

aux valiges, e Berrnan, nel 1980, al Guggenheim Theater di New York, 

Voyages chez les morts. In entrambe le opere sono molto evidenti e 

accentuati gli elementi autobiografici, ombre che riaffiorano, indistinte, 

quasi come in un sogno: i ricordi dell’infanzia, le persone che la popolavano 

e che non ci sono più, i luoghi cari che gli rimasero impressi, nonostante 

i cambiamenti operati dal tempo e l”eté1. Se in Voyages chez les morts Ionesco 

proietta sul palcoscenico tanti quadri (diciannove, quante sono le scene in 

cui si svolge l”opera) che fanno rivivere il suo dramma familiare -il padre 

che abbandona la famigliola, le preoccupazioni finanziarie, i suoi rapporti 

con il padre e la matrigna -, ne L’homme aux valiges ripropone se stesso 

con il bagaglio della vita passata da cui è difficile distaccarsi. Anche qui 

gli elementi autobiografici ed onirici(1l) sono così bene miscelati che si 

confondono, e un senso di melanconica tristezza, carico di umorismo, 

attraversa la pièce, dall’inizio alla fine, per arrivare ad una dichiarata 

insoddisfazione: 

«PRIMO UOMO: Grazie per avermi portato le valigie. Da quando ho perso 

l”altra, non ho più la mia terza dimensione. Qualcosa mi manca, di intimo. 

Sono malato. Non si vede, chiaramente, come se non mi riguardasse(l2)». 

* 

*     * 

«Afin de calmer mon angoisse a’aije déjà dit?), afm de calmer mon 

angoisse, pour m’endormiTplus tranquille, la nuit, dans mon lit,je me rappelle 

les noms de tous ceux qui sont morts… de tous mes parents et wnis, et 

ennemis, qui sont morts, qui sont morts… fls sont des centaines… Je mejoue, 

à moi-méme, ma propre pièce, Le roi se meurt, dans le rol principali (13) •• 

Il 28 marw del 1994 l’autore di Le Roi se meurt moriva realmente, Quel 

pomeriggio di marzo, Ionesco se ne andava come se ne va Bérenger I, con 

la speranza nel cuore, anche se tutto gli crollava addosso, lasciando come 

testamendo spirituale La quete intermittente, il libro a cui affida le sue 

speranze, la ricerca del vero, i dubbi, l’idea della morte. E come Bérenger, 

consapevole che l’ineluttabile passo dovrà pure compiersi, egli si rivolge 

indietro negli anni, intravvedendovi la gioventù, i parenti, i tanti amici cari, 

ohimè!, passati per sempre, le fedi incrollabili che ora non gli dicono niente, 

il dubbio ritornante, forse l’unico che non l’ha mai lasciato per assillarlo 

ancora di più, il pensiero della morte e la presenza-assenza di Dio, 

Un libro, questo, in cui Ionesco si delinea come uomo e come artista, 

con i suoi affetti più cari, ma anche con i suoi timori causati dai detrattori 

della sua opera, i quali fanno Beckett promotore del «teatro dell’assurdo», 

che Ionesco preferisce chiamare semplicemente «teatro nuovo», o «teatro 

d’avanguardia» 

«D’ailleurs, Beckett n’est pas ce qu’on appelle un “membre” de lajamille 

de “l’absurde”: son humour provient d’ailleurs, appartient à une autre 

tradition, un autrejolckore, irlandais. En disant que Beckett est le promoteur 

du Thédtre de l”Absurde, en cachant que c’était moi. les joumalistes et les 

historiens littémires amateurs commettent une désinjormatiDn dont je suis 

victime, et qui est calculée. Parce que je ne leur plais pas! Pourquoi? Parce 

queje n’était pas communiste, au temps où il était malséant de ne pas l’etre. 

Ils ne m’ont pas pardonné d’avoir été antiçommuniste avant eux. C’était une 

impertinence. Ceci m’a été conft.rmé par Marcabru, Arrabal, et d’autres…(l4)» 

Ionesco porta le sue pezze d’appoggio, citando nomi di autori e opere, 

rivendicando a sé, con La cantatrice chauve del 1950, il ruolo di iniziatore 

di questo teatro d’avanguardia, .une avant-guarde toujours vivante, puisque 

depuis les années 1950, ce théé1tre, très caractéristiques, n’a pas eu de 

relève., e fa i nomi di Adamov, Tardieu, Weingarten e altri, mentre Enattenda11t 

Godo~ è del 1953. Ionesco crede nel teatro e, come tale, non può sopportare 

le meschinità degli arrampicatori di specchi. Per questo motivo, non 

risparmia nessuno, critici e impresari teatrali che fanno il bello e il cattivo 

tempo, a scapito del teatro e dell’arte. 

Tali amarezze, che sicuramente attutivano quello slancio proprio di 

Ionesco, già da tempo avevano spinto il Nostro a chiudersi in un dignitoso 

riserbo, anzi lo avevano indotto a darsi alla pittura, preferendo alle parole 

i colori. Così dice: «Per esistere, dunque, non mi resta altro che la pittura. 

Se cessassi di dipingere, sarei del tutto un disperato. I colori, e niente altro 

che i colori, sono il solo linguaggio che possa parlare, i colori mi dicono 

qualcosa. Essi sono ancora viventi, da quando per me le parole hanno 

perduto senso, valore, ogni espressione. I colori sono per me ancora di 

questo mondo: essi cantano, sono di questo mondo e sembra che mi 

congiungano all’Altro Mondo. Ritrovo in essi ciò che la parola ha perduto. 

Essi sono la parola: il disegno si, ma soprattutto il colore è parola, 

linguaggio, comunicazione, vita, ciò che mi può congiungere al resto, 

all’universo(15)». 

Déeouvertes (1969) e Le Blane et le Noir (1981), che si compongono di 

testi e di litografie di Ionesco, e le varie esposizioni fatte un po’ dovunque 

(Svizzera, Germania, Belgio) testimoniano l’interesse e la dedizione verso 

quest’arte che potrebbe apparire come un suo nuovo apprendistato, mentre, 

invece, è il mezzo con cui d’ora in poi porta avanti la sua ricerca dettata 

dal bisogno di comunicazione profonda tra sé e il mondo, tra il finito e 

l’infinito, di avvicinarsi a Dio. Come nel teatro, egli acuisce la tensione 

esistenziale, servendosi dell’astratto e utilizzando colori forti che dicono 

prepotente il bisogno di luce, che è calma interiore, amore verso gli altri 

e verso Dio. 

* 

*    * 

 

 

Come Pirandello. Ionesco era pervenuto al teatro in modo casuale. E se 

Pirandello se ne era servito per criticare il mondo borghese. mettendo sulla 

scena il dissidio esistente tra l’uomo e la società. tra quello che vorrebbe 

essere e quello che agli altri appare. Ionesco mette in discussione l’umana 

esistenza. dando più risalto a motivi e a – verità elementari. che fino ad allora 

erano apparsi marginali tanto da non interessare la letteratura. 

Il tema della solitudine. l’incomunicabilità. il rapporto di coppia. certa 

banalità che è nel linguaggio e, ancora. il conformismo e la materialità. la 

violenza. la morte (e. quindi. il bisogno di una certezza che faccia accettare 

la vita) è quanto sta alla base del teatro di Ionesco, e a questo va ascritta 

tutta la sua ricerca di uomo e di artista. che non può certo essere definita 

assurda. perché ci tocca da vicino ed è parte di noi, la più interessante. 

la più vera. la più umana. 

«On a dit quej’était un écrivain de l’absurde; il y a des mots comme ça 

qui courent les rues, c’est un mot à la mode qui ne le sera plus. En tout 

cas, il est dès maintenant assez vague pour ne plus rien vouloir dire et pour 

tout définir facilement. Si je ne suis pas oublié, dans quelque temps, il y 

aura un autre mat courant les rues, un autre mot reçu, pour me défmir moi 

et d’autres, sans nous définir (16)» 

Il teatro di Ionesco fu oggetto di incomprensione. e si parlò subito di 

assurdo. cosa che lo stesso drammaturgo rigettò. come lo conferma il passo 

riportato. chiamandolo. semmai. -sorprendente». In effetti, è vero che il 

suo teatro. già dalle prime pièces, disorientava per la tematica piuttosto 

inconsueta. perché tende fino all’inverosimile allo scavo interiore. ma 

sbalordiva anche per la novità con cui veniva posta. Perciò, il termine 

“assurdo” poteva essere giustificato dal punto di vista della drammaturgia 

(le sedie e gli oggetti che si moltiplicano, il dialogo che diviene insignificante 

e banale). non per ciò che vuole rappresentare (la materialità dilagante, 

l’incomunicabilità), considerato che è l’uomo al centro dell·interesse. l’uomo 

e i mali odierni che gli rendono difficile la vita. 

(16) E. Ionesco. Notes et contre-notes. cito pago 297: «È stato detto che ero uno scrtttore dell’assurdo; 

ci sono parole come questa che sono frequenti, una parola alla moda che non lo sarà più. In 

ogni caso. di primo acchito. è molto vaga per non voler dire niente e per definire tutto con facilità. 

se non sarò dimenticato. tra non molto. ci sarà un altro termine abusato. una parola confezionata. 

per designare me e gli altri. senza designarci». 

Ionesco, con il suo teatro, si è fatto paladino di un umanesimo da tanti 

reclamato, ma mai portato come lui alle estreme conseguenze. Le Roi se 

meurt, La Soif et la Faim sono le più aperte a questa intima esigenza 

dell’Autore, ma anche le altre, pur deridendo certi comportamenti, perseguono 

lo stesso obiettivo: è sempre l’uomo al centro del suo discorso, è l’uomo il 

suo interlocutore, ed è lui stesso, Ionesco che, in quanto tale, risente del 

disorientamento proprio dell’uomo di oggi e ricerca degli agganci, delle 

certezze che lo rendano più sereno e gli facciano accettare la vita. 

Il teatro di Ionesco tende alla realizzazione di un mondo migliore, lontano 

dai convenzionalismi, dalla materialità, dall’incomunicabilità che chiude e 

reprime. Sarà un sogno, un’utopia irrangiungibile: se non altro, da 

anticonformista amato e biasimato, Ionesco ha sfidato e ci sfida, volgendo 

tante volte lo sguardo nostalgico alla sua infanzia, alla Chapelle-Anthenaise, 

che, seppure lontana, per lui rappresentava ancora il mondo felice e vero 

verso cui spinse fino all’ultimo la sua ricerca. 

Salvatore Vecchio.

(1) Molti ricordi e annotazioni biografiche sono riportati in E. Ionesco, Journal en miettes, Paris, Gallimard, coll.”Idées”, 1973.
(2) E. Ionesco, Victimes du devoir, in “Théàtre complet”, Paris, Gallimard, 1991, pag. 222: «Père, nous ne nous sommes jamais compris… Peux-tu encore m’entendre? Je t’obéirai, pardonne-nous, nous t’avons pardonné… Montre ton visagel (Le Policier ne bouge pas.) Tu étais dur, tu n’étais peut-etre pas trop méchant. Ce n’est peut-étre pas ta faute. Ce n’est pas toi. Je haissais ta violence, ton égoisme. Je n’ai pas eu de pitié pour tes faiblesses. 
(3) lvi. pag. 1310: «Quand j’étais écol1er, tu entrals dans ma petite chambre. Tu cherchais dans mes tiroirs. Tu contròlais mes cahiers, tu n’y trouvais que des caricatures à la place des devoirs que m’imposaient mes maitres, mes professeurs. Tu me faisais répéter mes leçons, tu me les faisais réciter, je n’en savais pas un mot […] Tu me giflais, tu me battais, mais eux, mes professeurs, ne tenaient pas compte de mes zéros en mathématiques, eux, me faisaient confiance[…] Maintenant. je règle mes comptes avec toi et je te reproche tout ce que tu as voulu m’empècher de faire, toi, pater familias aveugle.
(4) lui, pagg. 533-534: «Écoutez, je vais’vous faire un aveu déchirant. Moi-meme, souvent, je doute de 
tout. Ne le répétez à personne. Je doute de l’utilité de la vie, du sens de la vie, de mes valeurs, et de 
toutes les dialectiques. Je ne sais plus à quoi m’en tenir, il n’y a ni vérité ni charité, peut-étre. Mais 
dans ce cas, soyez philosophe: si tout est vanité, si la charité est vanité, le crime aussi n’est que 
vanité…Vous ser1ez stupide si, en sachant que tout n’est que poussiére, vous donniez du prix au crime, 
car ce serait donner du prix à la vie… Ce serait prendre tout au sérieux… ainsi, vous voilà en pleine 
contradiction avec vous-méme». 
(5)Viene riportata, con i vari interventi, in E. lonesco, Notes et contre-rwtes, Parts, Gallimard, 1966, pagg. 137-164. che interessa tutti lLe Roi se meurt), e semina anche stragi nella collettività lJeux de massacre). E poco o niente può fare l’amore. Di qui l’aspirazione a uscire 
(6) C. Bonnefoy, Entretien avec Eugène Ionesco. Paris. Belfond. 1966, pago 74. 
(7) E. Jacquart, “Notice” in E. Ionesco. Théatre complet, cito pago 1763: «La fonction du symbole est ici d’ordre exploratoire. Ionesco cherchant à exprimer le sens de l’aventure spirituelle. filigrane de la condition humaine. En lui confluent des éléments réputés inconciliables – le réel et le réve, l’angoisse et l’espoir, le conscient et l’inconscient – bref. l’expérience globale de l’induvidu». 
(8) E. lonesco, Theàtre completo cit., pagg. 1200-1201: 
«Le Personnage: Sa1autsl Foutez-moi la paixl n se lève et leur Jette une boite de conserve et une bouteille à la tete. Les personnages disparaissent. Foutez-moi la paixl De la lumièrel De la lumièrel La lumière du matin se Jait sur le plateau. On n’endend plus aucun bruit venant du dehors. Les murs ont disparu, il n’y a plus qu’une grande lumière. SeuI le Jauteuil reste sur la scène.
(9) Cfr. “Mes pièces et moi”, in Notes et contre notes, cito pagg. 230-232. 
(lO) Iv~ pago 1201: -Quelle bonne blague, mes enfantsl Quelle blague m~ss~eurs-dames. A-ton 
pu imaginer une blague pareillel Une blague pareillel Quel bordell Ah la la, quel formidab1e bordell» 
(11) Un riscontro puntuale al racconto autobiografico e ai riferimenti dei tanti sogni ripqrtati nella pièce si ha in lonesco, Journal en miettes, cito 
(12) Iv~ pag. 1282: «PREMIER HOMME: Merci de m’avoir apporté mes valiges. Depuis que j’ai perdu l’autre, je n’ai plus ma troisième dimensiono Quelque chose me manque, de l’intérieur. Je suis infirme. ça ne se voit pas, évidemment, comme cela, à me regarder” 
(13) E. lonesco, La quete intennittente, Paris, Gallimard, 1987, pagg. 57-58: «Per tranquillizzarmi O’ho già detto?), per attutire la mia angoscia, per addormentarmi più sereno, la notte, nel letto, mi ricordo i nomi di coloro che sono morti… dei parenti e amici, e nemici, che sono morti… morti. .. Nell’ordine di centinaia… lo rappresento, per me stesso, la mia stessa pièce, n re muore, nel ruolo principalel•. 
(l4)Ivi. pag. 46: «Pertanto. Beckett non è uno che può dirsi “membro” della famiglia dell'”assurdo”: il suo humour proviene d’altrove, appartiene a un’altra tradizione. un altro folckore. irlandese. Dicendo che Beckett è l’tniziatore del Teatro dell’Assurdo. nascondendo che sono stato io, i giornalisti e gli storici letterari dilettanti fanno una disinformazione di cui sono vittima. di proposito. Perché non piaccio lorol Perché? Perché non ero comunista quando era da screanzati non esserlo. Non mi hanno perdonato di essere stato anticomunista prima di loro. Un’assurdità. Ciò mi è stato confermato da Marcabru, Arrabal. e altri …» 
(15) lui. pag. 13: «Il ne me reste donc encore pour exister que la peinture. Si je cessais de peindre. je serais totalement désespéré. Les couleurs. et rien encore que les couleurs. sont le seui langage que je puisse parler. les couleurs me disent quelque chose. Elle sont encore vivantes. tandis que les mots oot perdu pour moi senso valeur. toute expression. Les couleurs sont de ce monde. encore. pour moi; e11es chantent, elles sont de ce monde et 11 me semble qu’elles me relient à l’Autre Monde. Je retrouve en elles ce que la parole a perdu. Elles sont la parole: le dessin oui. mais surtout la couleur est parole. langage. communication. vie, tout ce qui peut me relier au reste, à l’uruvers». 

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 9-23.




Terzo Mondo e oltre.  Intervista a Carmelo Strano.

 Dopo la grande e ben riuscita mostra dei Figurini ritrovati di Sironi, Marsala, ad un anno di distanza, lancia un’altra sfida artistico-culturale al mondo intero e si fa portatrice di un messaggio che, a ben pensarci, potrebbe risolvere tanti mali delle società post-moderne. 

Ma se proprio a Marsala questo e altro, in campo artistico, si è fatto, il merito è – e va detto, perché bisogna riconoscerlo – dell’Ente Mostra di Pittura “Città di Marsala” che, grazie alla lungimiranza del suo presidente, dotto Francesco Perrone, e ad un Consiglio di amministrazione efficiente e sensibile non solo al problema dell’arte in sé, ma a quello che essa ha rappresentato per l’uomo di ogni tempo, si è rivelato un punto di richiamo fermo per gli artisti e un centro propulsore di arte di levatura internazionale. Basti dire che nell’arco di un trentennio ha dato vita ad una pinacoteca d’arte contemporanea tra le più ricche e certamente una delle più belle d’Italia. 

La mostra di quest’anno ha per titolo: «Terzo Mondo e oltre» e, a prima vista, potrebbe sembrare ambiziosa, ma non lo è, per il messaggio, di cui accennavamo, che se non ha niente di particolare, ha il pregio di scuotere sensibilmente la nostra suscettibilità di uomini del Duemila. 

I repentini capovolgimenti politico-sociali dei Paesi dell’Est. la crisi esistenziale della vecchia Europa che non vive di altro se non di uno sfrenato edonistico consumismo, l’esodo da un continente ad un altro di gente in cerca di migliori condizioni di vita, lasciano pensare a imprevedibili risvolti che negli anni a venire potrebbero mettere in forse l’esistenza stessa del nostro pianeta. 

L’uomo dei Paesi ricchi sa bene questo, e molto potrebbe fare per scongiurare ciò, se alla sua oculata esperienza di millenni abbinasse quella di altri popoli più giovani – nessuno escluso – meno assodata, ma non per questo meno interessante. Nei Paesi emarginati, del Terzo Mondo, si vive in modo genuino, spiritualmente meglio di quanto si pensi, e si sente la natura con i rumori, i palpiti, i colori che il mondo industrializzato ormai disconosce. Proprio dai Paesi poveri ci giunge questo messaggio che non è retorico – come spesso siamo abituati a sentire («ritorno all’Umanesimo», «Nuovo Umanesimo»), e poi si specula anche in questo – , ma insegnamento di vita, comportamento degno dell’essere uomini. 

La mostra di Marsala ha una grande importanza che non è soltanto artistica, perché l’arte è un mezzo e non il fine; l’obiettivo che si prefigge è additare la strada del vero recupero culturale e riportare, così facendo, l’uomo alle sue radici, alla terra, di cui non può fare a meno, perché ad essa porta il suo cordone ombelicale. L’evento artistico acquista, allora, una valenza altamente culturale e non ha altri interessi se non quello di riportare alla vita da cui stiamo sempre più allontanandoci. 

I Paesi del Terzo Mondo, da questo punto di vista, hanno molto da insegnare ai Paesi ricchi e, in un periodo di apertura politica e di crollo delle ideologie come il nostro, sono nelle condizioni di farlo, perché, rivitalizzando quanto negli ultimi c’é di buono, pongono un rimedio al vuoto profondo causato dall’assenza di valori fermi e duraturi. 

La semplicità del modo di dire, la genuinità, di cui questi popoli del Terzo Mondo si fanno portatori (il materiale e le tecniche usate dagli artisti che li rappresentano ne sono larga testimonianza), lontane anni luci dal Primo, esercitano un fascino inesprimibile e fanno riflettere. L’umile legno, la semplice pietra, tutto ciò, insomma, che la provvida natura dispensa da sempre agli uomini, sanno in modo mirabile ricondurre a quel senso di umanità che diversamente sembra impossibile recuperare. 

A conforto di queste brevi considerazioni, abbiamo voluto intervistare il curatore della mostra, il prof. Carmelo Strano, che altre volte si è interessato dell’argomento. 

Professore, qual è il movente della mostra? 
«La mostra ha come obiettivo la ricerca artistica dei Paesi del Terzo Mondo. Non ci sono motivi politici, e la molla che ci spinge è prettamente culturale, in quanto vuole, al di là del colore e di ogni condizionamento economico, avvicinare veramente i popoli. La mostra, anzi, ha l’ambizione di andare oltre i limiti geografici del Terzo Mondo, nel senso che vuole anche chiamare in causa Paesi che non sono economicamente del Terzo Mondo,bensì lontani geograficamente da quei Paesi considerati “centri”. Paesi lontani come l’Australia, l’Oceania, la Nuova Zelanda, ad esempio. Terzo Mondo e oltre, quindi! La motivazione è ideologica, non politica. La mostra tende a creare un’osmosi fra tutti i Paesi del mondo». 

Quali messaggi e quali insegnamenti potranno venirci da artisti del Terzo Mondo? Quali sono i vantaggi per la cultura e l’arte? 
«Tantissimi. E sono proprio questi possibili vantaggi che in un certo senso hanno fatto nascere !’idea della mostra. Una volta che sono caduti i grandi blocchi, l’umanità cammina su processi comunicativi sempre più aperti al dialogo, indipendentemente dalla condizione economico-geografica. I Paesi ricchi, presi come sono dall’industrializzazione e dai processi produttivi, hanno messo da parte la natura. Ecco, dal Terzo Mondo può arrivare questo contributo di rivitalizzazione, che innanzitutto dovrà ripristinare il rapporto tra natura e cultura, uno scambio che avvantaggerà molto l’arte, la quale ritornerà ad essere genuina espressione dell’umàna sensibilità. Sicché l’arte e la natura tenderanno a valorizzare l’uomo e si faranno portatrici di nuovi valori che niente hanno di effimero e di passeggero». 

In un suo articolo sulla rivista «D’Ars», Lei parla della fine della divisione del mondo culturale tra centro e periferia. Marsala e la Sicilia con la mostra che Lei sta preparando, per conto dell’Ente Mostra, restano periferie oppure, sia pure per un momento, assurgono al ruolo di centro di cultura mondiale? 
«Il cosiddetto centro languisce in un circuito microelettrico senza via d’uscita, perché ha perso quello slancio da cui veniva caratterizzato. Marsala ha avuto sempre l’ambizione di farsi indicare come porta del Mediterraneo. D’altronde, dai tempi più remoti, ha avuto rapporti economico-culturali, di scambio, con civiltà molto evolute. Adesso, vuole riprendersi questo ruolo e, dal momento che abbiamo coinvolto ambasciate, artisti, giornali, televisioni, Marsala si pone come simbolo al mondo intero, anche per l’attenzione che sta suscitando nei vari ambienti, da quelli politici a quelli artistico-culturali. Può sembrare un paradosso, ma non lo è; Marsala, o la Sicilia, di cui Marsala è simbolo, comunemente considerata periferia, in realtà è centro. Non commercialmente, intendiamoci, perché Parigi, Milano, Londra, o New York, ad esempio, detengono sempre l’egemonia in fatto di denaro. Ma fa cambiare aspetto il problema culturale. La periferia ha dimostrato di avere più sensibilità, più apertura; è più dinamica ed è portatrice di nuove idee». A dir la verità, queste ultime frasi del professor Strano ci fanno piacere. Abituati come siamo ad essere tacciati di provincialismo, a questo punto, vorremmo che provinciali lo fossimo veramente, anche se temo che i mass-media abbiano fatto opera di omogeneizzazione tale da far perdere la spontaneità e la genuinità proprie della gente che vive lontano dalle grandi città. Comunque, fondamentalmente vero è che la città è amorfa e che manca di calore umano. Non così è nei piccoli centri di periferia, dove la gente si conosce e si stima non per l’utile che se ne può ricavare, ma per il rapporto di amicizia che si è con essa instaurato. La spinta di vitalità che viene dal Terzo Mondo deve indurre i Paesi occidentali ad accettare il confronto, se vogliono recuperare la loro umanità. La mostra di Marsala vuole segnare il punto di inizio di questa apertura alla disponibilità, indispensabile per costruire le basi di un mondo migliore dove l’uomo, abolita ogni differenziazione culturale e in sintonia con l’ambiente che lo circonda, coopererà con gli altri, vivendo degnamente la sua vita. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 42.