F. Provenzano, Il Fascio dei Lavoratori di Ravanusa

Caltanissetta, Terzo Millennio Ed., 2001, pagg. 200. 

Il Fascio dei Lavoratori in Sicilia costituisce, pur nella sua breve esistenza (1892-1893), un momento fulgido, irripetibile, della storia isolana e nazionale. I lavoratori siciliani, da sempre abbrutiti e resi schiavi dalle classi agiate, scoprendo l’arma dell ‘ associazionismo, fanno sentire forte la loro presenza e riescono a creare quelle premesse che facevano bene sperare in un riscatto ricco di aspettative. Ma per poco, perché il governo Crispi troncò con la forza delle armi quelle speranze nel 1894, quando pose sotto assedio l’Isola. 

Francesco Provenzano, con questo suo lavoro, che va letto e diffuso ovunque, e soprattutto nelle scuole e tra i giovani, contribuisce a far luce ad una pagina bella della storia del XIX secolo, ripercorrendo, con l’ acume di storico qual è, quel felice momento di Ravanusa (e di tutta la Sicilia), paese agricolo-minerario dell’entroterra agrigentino, con risorse e problemi identici a tante altre realtà isolane, bisognose tutte di un significativo cambio di rotta per uscire dall’arretratezza e migliorare il tenore di vita degli abitanti. 

Il libro consta di tre parti (“Ravanusa nel 1893”, “I Fasci dei Lavoratori in Sicilia”, “Il Fascio dei lavoratori a Ravanusa e gli avvenimenti del 1893”), tutte corredate di altrettante sezioni, con fotografie e documenti che calano nella realtà del momento il lettore e lo coinvolgono. Chiudono il lavoro una ricca rassegna di contributi risalenti agli anni 1987-1994, e un ritratto che lo scrittore e critico letterario Giuseppe Zagarrìo delinea del padre, dott. Vito, che del fascio di Ravanusa fu un accanito promotore e protagonista. 




F. Leni di Spadafora, Storia dei Siciliani (a cura di S. Vecchio), Caltanissetta, TEV, 1991, pagg. 230.

 

Questa di Leni di Spadafora è un’opera di particolare interesse culturale per la Sicilia e quanti ad essa si avvicinano, e la Tecnicografica Editoriale di Caltanissetta ha fatto bene a riproporre, in linda veste tipografica, curata e arricchita di note da S. Vecchio, abbellita da splendide fotografie a colori e in bianco e nero. 

Indubbiamente è un’opera di divulgazione che, però, vuole mettere in risalto il carattere dei Siciliani e l’enorme patrimonio storico culturale di cui sono depositari. 

<<Il bisogno di verità spinge il Nostro – scrive S. Vecchio – a servirsi di tutto ciò che può riuscire utile a dare un’immagine obiettiva della Sicilia. Per questo non trascura niente del popolo siciliano: l’arte, la letteratura, la cultura in genere, ogni tipo di documento storico o letterario insomma, che possa contribuire alla riuscita del suo intento… 

L’Autore, pur smussando certi particolari, non perde di vista la continuità storica e dà un quadro completo della Sicilia, servendosi di un linguaggio privo di ogni ridondanza ed ampollosità. E, ancora, come se non bastasse, si legge d’un fiato, perché il Nostro vive e sente il fatto storico in prima persona, partecipando le emozioni, le gioie, il dolore che gli eventi rivissuti a tavolino gli procurano>>. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pag. 57.




F. Incandela, Ailanto, Castelvetrano (Tp), Mazzotta Ed., 1996, pagg. 58.

Se la poesia è offrire e offrirsi,quello che in questo libro sorprende è la sincerità con cui Francesca Incandela espone stati d’animo e sentimenti. E non è poco, se consideriamo l’artificiosità che è in tanta poesia d’oggi. 

Più che il tono discorsivo, che spesso perde e scade nel prosastico, ci piace sottolineare l’accento lirico ben riuscito, la cesellatura del verso di alcune che riteniamo siano le liriche più belle di tutta la silloge. Si vedano “Sud”, “Selena”, “Indefinito”, “Non voglio”, “Terra”, dove evidente è la partecipazione , e pregnanti sono le immagini, sia che si riferiscano alle realtà sociali della sua terra o a situazioni intimo-esistenziali. In ogni caso, c’è la misura del verso e la sensibilità del poeta. 

Tra tutte citiamo “Sud”: « Ho intrecciato / fili di grano / nel paesaggio aspro / della mia Sicilia / solo papaveri rossi nella radura… / sgorghi di sangue / in terra ferita.» Sono pochi versi, in cui F. Incandela riesce bene a dire la sofferenza di chi vede deturpata l’immagine della sua terra che, se non ci fosse la bruttura del sangue sparso, sarebbe color oro del grano e rosso di papaveri. 

Un’altra lirica, anch’essa breve, ma bella e luminosa come la fanciulla che ritrae, è “Eleonora” ( « Hai negli occhi / da cerbiatta / le mani impacciate / coi seni ancor acerbi. / Improvvisi i tuoi rossori / sotto l’azzurro / pastello del cielo »). La poetessa la ferma sulla carta con poche, concise parole, per paura che il tempo possa sfiorarne la bellezza. 

Speriamo che Francesca Incandela possa darci altre prove come queste, ed è il nostro augurio, per continuare sicura e trovare la strada giusta da seguire. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno IX, n.1, 1997, pag. 44.




F. Centonze, Al di là della siepe di bosso (Romanzo), Firenze, 1995.

Dalla Prefazione al romanzo dell’amico Antonino De Rosalia pubblichiamo questo breve stralcio che sintetizza la portata umana e letteraria di Ferruccio Centonze: 

-Anche questa volta l’opera del Nostro nasce sotto il segno della pietà umana, ma si tratta di una pietà più sofferta, perché la penosità dei fatti narrati coinvolge l’autore più direttamente […]. La materia, insomma, ha un fondo autobiografico molto spesso, e non nel senso in cui ogni scrittura di poeta è, inevitabilmente, autobiografica, bensì in quello, più proprio di trasfigurazione di esperienze in gran parte realmente “partecipate”. La pietà, allora, non è più rivolta verso taluni soggetti o ambienti esterni, che peraltro l’umana considerazione salva dal rischio del nudo colore realistico, ma appartiene in uguale misura al narrato e al narrante, si tramuta quindi in sincera tristezza e pervade uomini e cose: sunt lacrimae rerum, con quel che segue». 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno VII, n.2, 1995, pagg. 31-32.

 




F. Boesch, Boris L. Pastemak (poeta e uomo incompreso), Roma, Edizioni del Giano, 1991, pag 47.

L’agile volumetto (il saggio è stato premiato a Grosseto “Premio Maremma ’90) traccia, in un quadro d’insieme, la figura e l’opera di Pasternak, mettendone in evidenza il pensiero e la poesia. 

L’Autrice, per affinità di sangue e di sentire (suo padre era russo, è amorevolmente attratta dalla personalità dell’uomo e del poeta. E questo affetto trapela dallo scritto, anche se la stessa Boesèh lo confessa nell’Introduzione. 

Il libretto risulta ben fatto (la formazione, l’incontro con i grandi del tempo, il clima in cui cominciò a lavorare P.), e ben delineata è la poesia. Anzi, ciò che la Boesch vuole evidenziare di più, è l’importanza di Pasternak poeta, aspetto meno conosciuto dall’autore del Dottor Zivago, che lo rivela più che mai vicino ai problemi del suo tempo ed è anticipare dello stesso romanzo. 

U. Carruba

Da “Spiragli”, anno IV, n.1, 1992, pag. 83.




E. Charles-Roux, Voglia d’Oriente, la giovinezza di Isabelle Eberhardt. Bompiani, Milano, 1990, pagg. 451.

L’autrice di Dimenticare Palermo ritorna in libreria con questo nuovo libro che ricostruisce la breve vita di Isabelle Eberhardt, figlia illegittima della vedova del generale russo de Moerdr e di un precettore. Non potendo rientrare in patria perché illegittima, vivrà una vita irregolare, come irregolari saranno i suoi studi, pur avendo acquisita un’ampia conoscenza tale da parlare e scrivere in molte lingue. 

Isabelle, figlia della libertà, amerà sempre la libertà e la cercherà in Europa e in Oriente, nell’amore e nella sete di conoscenza, nell’avventura di una vita nomade e nelle sue passioni che tutto le fecero provare. 

Il libro è obiettivo e piacevole a leggersi, ricco di una documentazione di scritti editi e non editi dell’Eberhardt. 

Donato Accodo.

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pag.  54




Disegni e grafiche di Emilio Guaschino. 1966-2004 (a cura della Provincia Reg, di Palermo), Palermo, Mazzone ed., 2004, pagg. 178.

 La Provincia Regionale di Palermo, sensibile alla cultura e all’arte, pubblica un voluminoso catalogo di Disegni e grafiche di Emilio Guaschino.1966-2004, e fa cosa gradita al pubblico sempre più largo di estimatori che con interesse segue il percorso umano ed artistico di quest’uomo schivo e riservato. 

Guaschino è un pittore che conosciamo da tempo e ciò che caratterizza la sua arte (a parte il buon utilizzo dei mezzi e delle tecniche, di cui è maestro) è l’impegno a favore dei meno fortunati e delle classi umili, che rivendicano il diritto di esistere e, perciò, l’ attenzione dello Stato, perché possa garantire loro un tenore di vita migliore. E per questo che egli merita la stima di quanti (a cura di U. Carruba) s’avvicinano all’arte e, in particolare dei Siciliani che riscoprono in essa le loro radici profonde, alitanti di terra e di sudore. 

Nel segno grafico di Guaschino riemerge, attraverso figure e volti a noi familiari, un mondo rurale ormai lontano, appesantito dal duro lavoro, pregno di un’umanità silente, ma stanco di aspettare ancora un riscatto. Perciò, dice bene Salvatore Vecchio quando scrive in un articolo ri portato i n catalogo che « l’arte di Guaschino va al di là del fatto pittorico. La pittura è solo un pretesto per esternare sentimenti a lungo repressi, e diviene denuncia dei mali che travagliano il mondo e non solo la Sicilia o l’Italia». 

Il nostro augurio è che il catalogo venga diffuso e fatto conoscere, specialmente tra i giovani, per la sua valenza didattica, oltre che artistica, il cui merito è quello di avvicinare ancor più alla Sicilia e di farla amare. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 56-57.




D. Pacino, I colonnelli verdi  pref. di S. Timpanaro, Pellicani, 1990, pagg. 240. 

Partendo da un esame dei mutamenti che da qualche anno si stanno verificando (crollo economico e politico del socialismo reale dei Paesi dell’Est, le posizioni degli ecologisti e la realtà attuale), l’Autore di Imbroglio ecologico, in questo suo nuovo lavoro, non si dimostra affatto convinto che le cose possano tornare alla normalità, perché oggi come oggi il mondo è regolato dalle leggi della tecnologia. Gli ecologisti stessi lottano contro i mulini a vento, perché non affrontano alla base il problema ecologico. 

Un’unica via di salvezza, per Pacino, potrebbe essere un .ecocomunismo» capace di condurre alla consapevolezza l’uomo che mai come ora ha perso la sua vera identità

Da “Spiragli”, anno II, n.3, 1990, pag. 56.




D. Nardoni, I Gladiatori Romani E.I.L.E.S, Roma, 1989.

Altro lavoro, frutto di meticoloso studio e di ricerca, questo di D. Nardoni, che arricchisce ancora di più la C.D.R. della E.I.L.E.S.. 

Il Professor Nardoni, con questo libro corredato di splendide fotografie, ci fa seguire da vicino i giochi gladiatori dalle origini sino alla loro estinzione sotto Onorio Imperatore. 

Partendo da un Anteloquio, l’A. analizza le varie fasi e gli aspetti del circo, pervenendo a risultati veramente sorprendenti. Il “gesto” per cui -si decideva della vita e della morte dei gladiatori che per la vita e per la libertà, per la palma e per il premio si affrontavano nell’arena», il motivo per cui i gladiatori lottassero con il piede sinistro scalzo e la sciarpa al collo, la moltitudine di gente che roteava attorno al circo, essendo esso richiamo indispensabile per il popolo di Roma, i gladiatori stessi che erano uomini oltre che lottatori, sono alcuni degli argomenti del libro, che contiene notizie utilissime per la conoscenza della romanità. 

IL modo di porgere, a parte la competenza tecnica e specialistica dell’A, è lineare, discorsivo, accessibile. Ma il pregio del libro – secondo noi – sta nella partecipazione con cui Nardoni segue l’evolversi di questi giochi, seppure con un evidente pizzico di nostalgia,perché il tempo travolge non solo ciò che di effimero 

c’è nell’uomo, ma esso stesso e, per colpa sua, quei valori che lo hanno sostenuto nella sua esistenza terrena. -La “famiglia” nasce su precisi valori, sugli stessi valori nasce e si regge la “società” formata dalle “famiglie”, gli stessi valori reggono lo “stato”. La graduale perdita dei valori distrugge la “famiglia”, rovina la 

“società”, sfascia lo “stato”». 

Ugo Carruba 

Da “Spiragli”, anno I, n.4, 1989, pag. 56.




Crialese e il suo film «Nuovomondo» 

Nuovomondo di Emanuele Crialese è un film anzitutto istruttivo, a parte la sua bellezza, il suo interesse, l’attualità. È un film dove la fotografia fa da padrona, 

s’impone sulla parola, domina la musica, e mette tutto sotto silenzio, perché essa stessa di viene parola che urla, musica che al pari dell’acqua dirompe e invade con impeto per essere compresa e sentita nella sua essenzialità, senza sentimentalismi né reboante retorica. Un’immagine che diviene parola e musica al tempo stesso, una musica struggente, una parola lacerante. 

Per tutto questo, Crialese riesce a rendere partecipe lo spettatore e ad emozionare veramente, a suscitare pensieri e buoni propositi verso l’altro, il bisognoso, l’emarginato, l’uomo di colore che approda nelle nostre isole con la speranza nel cuore. Emozionano i suoi personaggi speranzosi di riscatto da un ultrasecolare abbandono, protesi verso un’umanità più umana e più degna di essere vissuta; soprattutto, emoziona la dignità con cui essi affrontano la vita, sacrificando affetti e sopportando disagi. Come avviene tuttora, perché la Storia, vichianamente, si ripete. 

Il film parla, prima, di un viaggio che si dovrà fare, con tutti i preparativi che esso comporta, poi, del viaggio vero e proprio, lungo, interminabile, che ha l’epilogo nello sbarco, con i dovuti controlli, tesi a scartare i non idonei e quanti potevano risultare di peso ad una società materialistica che guarda solo alla produttività e non cura i sentimenti più sani e veri. Ci voleva poco, ad esempio, che il figlio di Salvatore Mancuso fosse rimandato indietro, perché ai primi accertamenti era stato scartato. A niente erano valse le proteste del padre che si vedeva scindere la famigliola, e sarebbe andata così, se il figlio non avesse superato lo stato emotivo in cui s’era venuto a trovare. Ritornerà in Sicilia la madre, Fortunata, perché si rifiuterà di accettare il «nuovo mondo». Il richiamo della terra è troppo forte per lei, e la nostalgia la riduce al silenzio e la chiude in sé. 

Bella, spontanea, naturale, l’interpretazione degli attori nelle vesti dei componenti la famiglia Mancuso e della giovane inglese che ad essa s’accoda. Salvatore, interpretato da Vincenzo Amato, riesce bene a coinvolgere e a tenere a bada il filo del discorso, come se gli altri venissero ad essere risucchiati dalla sua affabulazione; e Lucy (C. Gainsbourg) che, quando tutto sembra crollare, apre gli occhi del cuore a Salvatore e viene ad essere il suo <<nuovo mondo», iniziandolo alla speranza. Per questo, a differenza degli altri, che cadranno nello sconforto una volta che vedono cadere a pezzi l’idea bella fattasi della nuova terra, Salvatore non sarà un deluso, perché ha trovato già sulla stessa nave quello che cercava. 

Emanuele Crialese, a parte i volti e le immagini dei nostri immigrati visti in Ellis Island, sicuramente, come tutti, sarà stato toccato e colpito nel profondo dallo sbarco delle tante migliaia di clandestini che quotidianamente nel bel tempo arrivano sulle coste della Sicilia e a Lampedusa: uomini pronti ad affrontare qualsiasi evenienza, pur di raggiungere un obiettivo, che poi è quello comune: sfuggire la fame, voltare le spalle a decenni di guerre fratricide, iniziare una nuova vita per sé e per i propri cari. In fondo, è un ideale realizzabile, ma spesso destinato a svanire per pochezza e trascuranza degli uomini. 

Ben approfondita la ricerca che dà un’immagine vera della Sicilia degli inizi del ‘900, con la sua povertà e con la gente che reagisce e si ribella a quello stato di cose, ma anche con le credenze, alimentate dalla miseria e dall’abbandono, per cui chi non sa di tradizioni popolari, all’inizio, ha difficoltà a comprendere alcune scene (portare un sasso tra i denti, depositarlo in un posto ben determinato e aspettare un segnale di avallo, nel caso nostro, al viaggio da intraprendere; e, quando incerto sembra il responso, rifare un altro scutu ascolto, così viene chiamato – e aspettare), come quella in cui Salvatore s’interra e aspetta. La conferma positiva l’avrà quando gli viene di immaginare una cascata di monete sonanti, e solo allora darà il via ai preparativi del viaggio. 

Non va trascurata la parlata, che è la siciliana, la lingua viva del popolo, ricca di significati profondi, accompagnata da gesti, i quali aiutano a dare senso e tono al discorso, molto ricco e circostanziato, che trova nel film il suo luogo ideale. 

Ugo Carruba

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 62-63.