MARIA PAOLA ALTESE, Portrait della Memoria. Lo spazio come simbolo, collana di studi Athena, Ila Palma, Palermo, 2005. 

(Auto)ritratti d’Artista: quattro romanzi del Novecento 

In una successione cronologica l’autrice, anglista ma con una formazione comparatistica, attraversa quattro «romanzi d’Artista» del ‘900: Tonio Kroger di Thomas Mann, A Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce, Portrait oJ the Artist as a Young Dog di Dylan Thomas, e Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria di Gesualdo Bufalino. Si tratta di quattro saggi con una propria autonomia interna, eppure legati da un unico filo conduttore, un’indagine sullo spazio del racconto, una dimensione che viene presentata come simbolica, e che sembra evocata dalla presenza di una immaginaria cornice da portrait che (già dai titoli, come in Joyce e in D. Thomas) racchiude la storia. 

Scopriamo un gioco prospettico tra autore e personaggio nel quale si snoda la memoria dolce-amara di un apprendistato d’artista: e risuonano accordi conosciuti provenienti dalla letteratura di formazione o «Bildungsroman» che ha avuto la sua grande stagione europea nel XVIII e XIX secolo. Nell’evoluzione novecentesca del giovane esteta e nel suo incontro-scontro con il mondo, i luoghi diventano porte d’ingresso della memoria e le immagini si trasformano in stati d’animo, risvolti passionali nell’universo stratificato della coscienza moderna. 

La casa, la scuola, il collegio, la città, il corso principale del paese, il mare, la campagna, spazi chiusi e spazi aperti, reali o immaginari, tutto nella narrazione si evolve in un complesso dialogo tra l’autore e il suo doppio, dialogo che nell’ultimo capitolo Bufalino scopre apertamente al lettore. 

Memoria e desiderio s’intrecciano costruendo itinerari di derivazione del senso che l’autrice interpreta ispirandosi, senza però seguire un rigido modello di analisi semiologica, alla lezione di Greimas, alla sua «semiotica delle passioni». In tutti i romanzi torna una costante novecentesca: il disincanto, spesso venato d’ironia, che nasce da un mondo borghese in dissoluzione e che trasforma la vita in teatro, sullo sfondo di un ritratto dell’ artista da giovane. 

Maria Angela Cacioppo 

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 48-49.




MARIA CRISTINA MAGGIO, Le circostanze, collana di narrativa «Meridiana», I.l.a. Palma, Palermo-Sao Paulo.

Un «passeggiatore della vita» 

«Non vi è grandezza né piccolezza, né nobiltà né bassezza, né bene né male. Tutte queste cose sono relative, dipendono dai tempi e dalle circostanze, dall’apprezzamento degli uomini e dalle opportunità.» È davvero esplicativo questo vecchio proverbio cinese che chiude l’ultimo romanzo di Maria Cristina Maggio dal titolo, Le circostanze, nel senso che conferma quanto, per l’autrice, il destino e i comportamenti degli esseri umani siano frutto di elementi provvisori; nulla vi è di fisso, tutto si mescola nella dimensione cangiante del destino fatale. 

Protagonisti un uomo «narciso» ed egoista, concentrato su se stesso, e una donna giovane, affascinante e possessiva, che lo costringe a fare i conti con se stesso, in un clima di amore e di tensione che gli causa un senso di malinconia fino al punto da indurlo a lasciare moglie e figli e analizzare i suoi sottostanti meccanismi psicologici. In realtà è la storia di un uomo che ha accettato di farsi trasportare dall’occasionalità, dalle circostanze appunto, e si è sempre rifiutato di assumere le redini della propria vita, quella vita errabonda e amareggiata che nel racconto sembra non appartenergli. 

Un individuo che ha vissuto come se accumulasse sensazioni, quasi a farne una collezione, come se la sua esistenza fosse un mezzo per eternare l’istante magico che, invece, egli mummifica e stilizza mascherandosi dietro se stesso. Un perfetto passeggiatore della vita che cammina senza sapere dove va e guarda senza vedere quello che vede. Sono gli incontri che fanno da padroni; è la mancanza di una morale che non gli permette di avere il senso della realtà; è l’innata non consapevolezza del sé che fa venire il sospetto che non si tratti di un vero uomo, ma di un piccolo uomo che, in realtà, non vuole crescere, non vuole responsabilizzarsi. 

II primo plauso che viene spontaneo fare alla scrittrice è per la capacità empatica di introdurre, in uno stile lineare moderno, un protagonista maschile, rispecchiandosi in lui con energica introspezione, quasi occultamente, svelandone i più reconditi sentimenti e, ancor più, le sue problematiche interiori che non possono non differenziarsi da quelle di una donna, non tanto nella sua struttura descrittiva quanto in quella esistenziale, che da sempre ha costituito una netta demarcazione tra il mondo femminile e quello maschile. Eppure la Maggio non si schiera. Ma l’autrice da che parte sta? Condivide l’atteggiamento passivo, se non fatalista dell’uomo, trascurando il vero ruolo delle immagini femminili che spesso vengono rilegate in un angolo, soprattutto la moglie del protagonista, oppure mira a svalutarne la figura? 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 58-59.




L’etica ontologica: Cartesio e Spinoza a confronto 

Si può dire che l’originalità di Spinoza consista nell’avere integrato la scienza moderna, la scienza galileiana, in una filosofia, in una teoria generale dell’essere che ne radicalizza la matrice razionalista. L’incontro che contribuì a definire la struttura del suo pensiero fu quello con Descartes che, prima di lui, aveva rappresentato la vetta più alta della speculazione filosofica, aprendo la strada alla modernità. Il Discorso sul metodo è stato il punto di arrivo e insieme il punto di partenza della storia della filosofia, che gli va tuttora debitrice per tre aspetti del suo pensiero: la scoperta dell’io quale punto di riferimento della conoscenza, la necessità di ancorare l’attività conoscitiva a certezze di assoluta evidenza, la distinzione tra la res cogitans e la res extensa che riassume in due polarità la moltitudine degli enti recuperandone l’oggettività dopo avere affermato l’egemonia conoscitiva ed esistenziale del soggettivismo. In questo senso Spinoza, che è un cartesiano, va più lontano di Cartesio, perché elimina le divisioni all’interno dell’essere. 

Come Cartesio, Spinoza vuole integrare la scienza moderna nell’ambito di una definizione generale dell’essere che si fondi sui concetti di necessità e determinismo. Egli, però, non teorizza le dualità con cui Cartesio separava il mondo dei corpi da Dio. Dio rimaneva, infatti, nella metafisica un principio spirituale, uno spirito creatore, e ciò in aderenza a tratti fondamentali della tradizione speculativa. Cartesio inoltre sostiene che esiste una radicale differenza tra l’uomo, che è un’unità di corpo e di spirito, ed il resto della natura. Per Spinoza, bisogna riunificare questi dualismi, superarli, per capire la grande lezione della scienza della natura, che si svolge tutta nella prospettiva dell’unità del mondo dei fenomeni. 

È quindi soprattutto il Dio di Spinoza, la teoria generale della natura, che costituisce una innovazione nel campo della filosofia: Dio, la sostanza, è uguale alla natura – deus sive natura – è l’affermazione scandalosa di Spinoza che fa di lui un pensatore moderno propriamente detto. Spinoza non cade, infatti, nel dualismo perché non si tratta di due sostanze separate, ma di due attributi della medesima sostanza. «Questo tuo Dio è un mostro», gli scrisse uno dei tanti corrispondenti che cercavano di chiarire il suo pensiero; ma lui, non riusciva a comprendere reazioni tanto violente. «Questo è vero per definizione», diceva e si stupiva che gli altri non capissero. La forza della definizione è opera di Spinosa ed assume con lui il valore del Logos, del Verbo, della Parola, celebrati nel Vangelo di Giovanni, solo che per lui credere nella Creazione era una bestemmia intellettuale: il suo Dio non era creatore ma assoluta potenza necessaria: Causa sui, Dio è causa di se stesso, e di conseguenza non ha bisogno di essere pensato attraverso le categorie della creazione o dell’ emanazione. Se questo è il punto di vista fondamentale, Dio traspare nel mondo, poiché tutto quanto si produce in natura, nella natura che è Dio, si trova in Dio, e Dio consiste in questa stessa produzione. È quindi quest’unità di Dio con la natura (questo nuovo concetto dell’essere che, producendosi autonomamente, produce tutto quanto può esistere) a costituire la novità assoluta dell’ontologia di Spinoza, del suo panteismo. 

Si può allora dire che la novità radicale di Spinoza è la sua diversa maniera di concepire l’essere. Spinoza dice che Dio si produce in virtù di se stesso e che, producendo se stesso, produce un’infinità di cose finite – le res particulares – in un’infinità di modi. C’è quindi una sorta di simultaneità o coincidenza all’interno dell’ essere tra l’atto attraverso il quale Dio si produce e l’ atto attraverso il quale egli produce l’universo. Si può dire che Spinoza concepisca l’essere come una produzione: e pensare l’essere come una produzione significa rinnovare in modo radicale la metafisica. Conducendo all’estremo il discorso, è possibile affermare che la natura è l’unità del suo processo produttivo e dei prodotti che sono tali al suo interno. 

Spinoza supera le prospettive di Cartesio; l’idea che tutto venga prodotto, che nulla venga creato, che nulla derivi da un principio che in qualche modo sarebbe al di qua del processo produttivo della natura naturans, fa emergere la natura come una struttura ontologica unitaria. L’unità non significa astrazione, eliminazione delle differenze, in quanto è «unità nella distinzione»; Dio non finisce mai di produrre un’infinità di modi e tutti i suoi prodotti sono intelligibili in se stessi. E questo è il secondo elemento fondamentale dello spinozismo: se nel primo viene radicalizzato il principio del materialismo secondo cui ex nihilo nihil fit e, di conseguenza, viene confutato il concetto di creazione, superando secoli di teologia, il secondo consiste nell’affermare che ciò che viene prodotto è in sé intelligibile. Nell’ambito di questa maniera di concepire l’essere c’è un posto specifico per l’etica. L’etica è lo scopo fondamentale di Spinoza. Non è un caso che la sua opera fondamentale sia l’Etica more geometrico demonstrata, in cui il rigoroso impianto metafisico è la base per un’etica volta alla liberazione dell’uomo. L’etica ha come caposaldo teorico la negazione della libertà di scelta e di volere (ciò che tradizionalmente veniva chiamato arbitrium indifferentiae). Dal momento che ogni cosa risulta dalla determinazione di un insieme di cause, anche l’uomo rientra negli enti naturali e non ha una facoltà libera dalla catena causale. Tutta la realtà è regolata dalle cause naturali, e ciò esclude l’esistenza delle sostanze spirituali, dell’ anima in senso cristiano e dell’ intervento diretto del Dio biblico. 

Questo è uno dei motivi per cui Spinoza fu bollato come eretico e i suoi libri furono oggetto di condanne da parte delle gerarchie ecclesiastiche e non solo. Il mondo di Spinoza è totalmente spiegabile attraverso cause naturali, che sono poi quelle della nascente fisica galileiana e cartesiana. 

L’Etica inizia con la definizione di Dio, come sostanza unica, assoluta e causa di sé. Tutta la realtà è espressione della potenza di Dio, non nel senso che Dio interviene direttamente per causare i singoli fenomeni, ma nel senso che tutte le leggi naturali e i singoli individui sono espressione della potenza divina, che si identifica con tutta la realtà. Quindi il mondo spinoziano è un mondo intrecciato in una catena causale infinita a cui non si può sottrarre nemmeno l’uomo. La realtà è divisa in estensione e pensiero, che sono i due attributi di Dio, e anche l’uomo è estensione (corpo) e pensiero (mente). Ma l’uomo per Spinoza non è solo mente e corpo, poiché alla base di ogni cosa e in particolare di ogni uomo c’è un’essenza individuale che distingue questa cosa da tutte le altre. L’essenza individuale è irriducibile ad altro ma si esprime concretamente nella vita di tutti i giorni poiché ogni essenza è conatus in sese perseverandi, ovvero sforzo di autoconservarsi. 

Questa idea non era del tutto nuova nella filosofia occidentale, infatti ha origine nel pensiero stoico; tuttavia Spinoza ne dà una versione più significativa. Alla base di ogni individuo (per Spinoza «individuo» è ogni cosa individuabile che ha una esistenza più o meno lunga, ma qui considereremo solo l’individuo in quanto uomo) c’è la spinta automatica ad autoconservarsi, che significa l’energia che dà l’impulso per vivere; ma alla base vi è anche l’essenza, che è la forma particolare di un individuo che ne determina la natura (ovvero il principium individuationis). Ogni individuo è esposto a una incontrollabile serie di incontri con altre cose e uomini, con cui può avere un rapporto positivo o negativo, qualità determinata dalle nature dei due individui, che possono comporsi positivamente o scontrarsi. 

Due nature individuali si incontrano positivamente se hanno qualcosa in comune e l’una è utile all’altra; all’inverso se le due nature non hanno niente in comune, l’una danneggia l’altra. L’uomo non può fare in modo di avere incontri solo positivi nella sua vita, ma può cercare di conoscere la propria natura e agire di conseguenza. La soluzione spinoziana è opposta a quella stoica: se quest’ultima prescriveva di ritirarsi nella dimensione spirituale, dal momento che sugli eventi esteriori e materiali non possiamo avere controllo, per Spinoza la conoscenza della propria natura e delle cause delle cose permette all’ uomo di cercare il proprio utile e di liberarsi dalle passioni. Questo è il punto fondamentale dell’etica di Spinoza, nel senso che non si ingiunge di negare il lato passionale ed emotivo dell’uomo, che tanto anima la vita, cioè non si predica una vita stoica o ascetica. Invece Spinoza mostra che, se si conoscono le cause dei nostri moti d’animo, la passione diviene semplicemente affezione. Nella passione, nell’ affezione senza conoscenza, l’uomo è passivo nei confronti dell’ esterno, invece se conosce la causa diviene attivo rispetto a ciò che avviene all’infuori di lui. In questo senso il significato globale dell’etica spinoziana è la ricerca del modo in cui diventare attivo. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XIX, n.1, 2007, pagg. 35-37.




GIUSEPPE VITALE, Viaggio nell’Etnomusica. Tradizioni e nuove tendenze. Dai Qawal alle tribù del XXI secolo, dal jazz all’etno-rock e alla world music. Vol. II, Europa, Ila Palma, Palermo, 2006.

Tradizioni e nuove tendenze della musica popolare nel mondo 

Questo volume è un emozionante viaggio che esplora le tradizioni musicali pure della musica etnica e quelle contaminate della world music che, una dopo t’altra, compongono il multicolore mosaico della nuova Europa. 

Il percorso di questo meraviglioso, imperdibile viaggio attraverso i suoni, le voci, i ritmi, le forme, le danze, gli strumenti e gli interpreti, partirà dalla civiltà celtica – la più antica d’Europa – che ai nostri giorni rivive nelle performances dei Chieftains e di Enya, Alan Stivell, Braz e i Malincorne, ma toccherà poi i repertori musicali di tutti i paesi: il fado portoghese di Amalia Rodrigues e dei Madredeus, il flamenco iberico di Cameron de La Isla e Paco De Lucia, la rumba-flamemco dei figli del vento francesi Gypsy King e Los Reyes, la patchanka dei Negresses Vertes e del loro fuoriuscito leader Manu Chao, le raffinatezze delle canzoni d’autore francesi (Breil, Brassens, Cohen, Ferré, Gainsbourg) e italiane (De André, Fossati, De Gregori, Bennato, Dalla, Graziani, Branduardi), il canto a tenore sardo, le tammurriate napoletane della Nccp, lo yodel alpino, la world fusion di Joe Zawinul, la ballad scozzese, il lied tedesco, il runo finlandese delle Varrtina, le marce dei Paesi Bassi, lo joyk lappone di Mari Boine, la romska orientalana musiki dei Taraf di Haidouks e delle Orkestar balcaniche di Bregovic e Naat King Veliot, la doina rumena di Maria Tanase, la ruchenitza e le misteriose voci bulgare, il canto polifonico albanese, il rembetiko greco, la raq sharki turca, il canto armonico della sciamana di Tuva Sainkho, il maqam uzbeko di Mastaneh Ergoshova, il popfolk di Yulduz Usmanova. 

Si tratta – come si può notare – di uno dei primi e più aggiornati atlanti geomusicali, che fornisce una rassegna sistematica per orientarsi o lasciarsi coinvolgere, piena com’è di suggestioni, vicine o lontane, in cui i suoni tradizionali si fondono con la ricerca di nuove sperimentazioni. Certamente è un valido supporto alla curiosità di quanti cercano i meridiani e i paralleli che portano alla scoperta della vera musica, di un universo sonoro fatto di canti dei popoli che hanno sfidato e sfidano le barriere dello spazio e del tempo. 

L’autore è dirigente nelle scuole medie statali, operatore culturale, presidente dell’ Associazione filarmonica artistica culturale Banda cittadina di Torretta, autore-compositore e socio della S.I.A.E. Negli anni ’80 ha riesumato la nenia di Natale Ninnaredda Capaciota, ha diretto le bande di Trappeto e di San Vito Lo Capo ed effettuato una tournée negli U.S.A. Ha composto varia musica: folk, jazz, leggera e bandistica tra cui quella originale per il film Lo zio di Brooklyn di Maresco e Ciprì, che ha ricevuto il premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha pubblicato per l’ILA PALMA di Palermo: Klangfarbenmelodie (1977), Le nove sinfonie di Beethoven (1980), Canzoniere siciliano (1992), Sicilia duci e amara e Pasturato (1994), Bedda Sicilia mia (1996), Viaggio nell’etnomusica, voI. I (2000), Il trovatore del tempo che fu (2006). 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 59-60.




GIUSEPPE MELIS, Lineamenti di scienza dello Stato, collana di studi «Athena», Ila Palma Mazzone Produzioni, Palermo, 2005.

Una disciplina da approfondire tra filosofia e politica 

Pubblicato a Palermo, dall’editrice Ll.a. Palma, il saggio intitolato Lineamenti di scienza dello Stato, scritto da Giuseppe Melis, contiene una nuova scienza che si pone coordinatamente ma anche autonomamente tra la scienza della politica e la scienza del diritto pubblico e si inserisce, assieme alle discipline sorelle, nei più generali problemi filosofici dello Stato, da cui si specifica e si distacca. 

È scritto con la volontà di comunicare una scoperta ad un pubblico interessato ed intelligente e nella consapevolezza che la nuova disciplina, solo ora finalmente delineata, si pone agevolmente nell’evoluzione storica della realtà. 

Abbiamo recentemente vissuto in Italia una situazione di campagna elettorale accanita ed avvelenata tra i due poli di destra e di sinistra: in definitiva la propaganda mirava a conquistare quell’ elettorato, di oltre il 38%, che non è né di destra né di sinistra. Questo 38%, pur votando al momento opportuno ora a dest :l ora a sinistra ed essendo determinante della vittoria, riprenderà la sua connotazione essenziale che è quella di non essere né di destra né di sinistra. Anche la nuova scienza assume questa linea. 

Nel libro pubblicato osserviamo una nuova scienza, che viene delineata con chiarezza non solo nella sua matrice filosofica, come ogni scienza, ma soprattutto nei principi che la caratterizzano e più esattamente nella sua dimensione sia statica che dinamica, ed infine nei suoi rapporti di interdisciplinarità. 

L’opera reca la volontà di comunicare una scoperta al pubblico intelligente ed interessato a tali materie, ma anche di trasmettere la predisposizione a mettersi nella dimensione dinamica e cioè evolutiva della nuova disciplina e ad assumere i suoi fini quali scopi della propria azione per il rinnovamento della civiltà occidentale. 

Questi sono i caratteri del libro di Giuseppe Melis, docente nell’Università di Palermo: il contenuto è quello di una nuova scienza che si pone quale specificazione dei problemi filosofici dello Stato e si colloca autonomamente tra la scienza del diritto pubblico e la scienza della politica per i princìpi che la contraddistinguono. 

La sua utilità non si esaurisce nelle luci che dallo studio si accendono. È un libro utile anche perché contiene la delineazione sintetica e precisa delle materie affini quali la filosofia politica, la dottrina dello Stato, la scienza giuridica e del diritto pubblico, la scienza della politica: queste discipline vi sono chiaramente delineate. 

Il libro dà una voce a quella maggioranza sociale, che è determinante della vittoria elettorale, ma che dopo si ritrae politicamente non identificandosi costantemente a destra o a sinistra. Tuttavia è grande il suo impegno politico. Esso ricorda al vincitore delle elezioni che ci sono valori eminenti di civiltà, che bisogna perseguire consequenzialmente i fini dello Stato, che i provvedimenti pubblici devono essere presi con giustizia distributiva, che il cittadino deve essere plasmato quale uomo civile. 

Questi sono gli stimoli che provengono dal libro, a parte l’utilità che deriva dalla precisa descrizione delle scienze affini. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 54-55.




GIUSEPPE MELIS, La didattica nell’Università, Principi di Neoagogia, I.l.a. Palma, Palermo-Sao Paulo.

Per un nuovo modo di fare didattica nei corsi di studio universitari 

Il libro di Giuseppe Melis, La didattica nell’Università. Principi di neoagogia, si compone di due parti: la prima riguarda il momento contingente ed attiene all’attuale riforma universitaria, alla sua critica e ad una proposta alternativa; la seconda contiene un aspetto perenne e delinea una nuova scienza che si pone tra le scienze dell’educazione. 

Riassumiamo brevemente. Nella prima parte l’autore espone in maniera sintetica e chiara il decreto ministeriale (n. 509/99) di riforma universitaria, calando gli schemi della scienza giuridica e dell’educazione non in modo frammentario sui singoli articoli, ma in modo globale, sull’insieme del provvedimento; successivamente descrive l’applicazione, nei decreti attuativi, di quel fondamentale provvedimento. Viene inserita nell’ambito della società italiana ed effettuata secondo il punto di vista della scienza politica la penetrante critica della riforma, nonché una proposta persuasiva di una laurea efficiente che sia esclusivamente triennale, ma con un piano di studi tale da equivalere alla laurea quadriennale. 

C’è un capitolo intermedio dedicato alle facoltà accademiche, che sono il luogo dove non solo si svolge l’insegnamento ma si formulano i piani di studio che possono essere efficienti o inefficienti a seconda che l’élite dominante della facoltà sia paretianamente un’élite di merito o di fatto. 

La seconda parte attiene alla neoagogia, che è una nuova scienza tra le scienze dell’ educazione ed ha per contenuto la pedagogia universitaria, la neagogia (da néos e aghein) in quanto la parola pedagogia universitaria sarebbe una contraddizione in termini: vengono analizzati gli atti tipici di cui si compone la didattica universitaria (lezioni, seminari, conferenze, esami, tesi di laurea), quali costitutivi del metodo educativo. 

Il libro è di una vibrante attualità. Il D.M. n. 509/99 è tuttora vigente, nonostante il dissenso di esperti e professionisti, che ha assunto il carattere di dissenso sociale: la classe politica precedente non ha avuto né l’avvedutezza né il coraggio di abrogarlo o di modificarlo. La classe politica attuale è quella stessa che fece emanare il decreto nello spirito di imitazione della cultura anglosassone: come se l’ intelligenza italiana, per esprimersi compiutamente, dovesse imitare gli inglesi e gli americani. 

Il saggio si rivolge contro una situazione sin cronica a quella attualmente vissuta: perciò la sua attualità. Esso contiene una nuova scienza che, in quanto tale, è destinata a rimanere per sempre ed attende solo di essere ulteriormente sviluppata. Tende a sollecitare la scoperta di nuove discipline scientifiche che si pongano in modo intermedio tra di essa e la pedagogia. 

Il libro, per le sue proposte costruttive, si pone quale strumento e messaggio di programmazione politica. Si rivolge a chiunque voglia accostarsi impegnativamente al problema dell’università: al governante che voglia cercarvi ispirazioni per una più autentica riforma universitaria; al docente che voglia trovarvi idee per la ricerca e la formulazione di nuove scienze; allo studente che voglia individuare e stabilire uno statuto scientifico che protegga agevolmente la propria condizione studentesca. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 47-48.




GIUSEPPE FERRANTE – l raccollli di Roccadisopra, collana di narrativa «Meridiana», Ila Palma, Palermo, 2006.

Una prosa schiettamente siciliana di sapore quasi pirandelliano 

Un libro frutto di riflessioni, di ricordi ma anche di invenzioni quello dell’avvocato catanese Giuseppe Ferrante. Si tratta di una raccolta di dieci racconti ricchi di toni e di sfumature. Storie di passione, sogni, paure, rimpianti che racchiudono una vita, un destino. 

Dinghilindò ed altri racconti sono un piacevole sequenza di immagini, figure e vicende costruite tra i risvolti di un mondo semiserio che non sembra vero, ma è forse la quint’essenza della realtà. Sono racconti talvolta surreali, descritti con un linguaggio vivo, semplice e diretto, in grado di dipingere con colori nitidi i personaggi e le loro emozioni. Una scrittura che porta lontano, che ha la capacità di affabulare e far pensare, di stupire, far ridere e commuovere. 

Ritroviamo quella ben nota scoperta della sensualità esistenziale, non priva di sottile ironia e di affettuosa adesione, la capacità di cogliere il messaggio della natura, i suoi colori, i profumi, gli afrori, le «piccole cose futili» che danno il vero piacere. 

Pino Ferrante è un abilissimo narratore di stati d’animo, testimone di un mondo in cui la transitorietà della vita e la corruttività della carne si contrappongono all’immanenza della memoria del tempo passato. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 54-55.




 FRANCESCA SIMONETTI, Il ponte necessario, prefazione di  Antonino De Rosalia,«Poesia/Oggi», Ila Palma, Palermo. 

L’essenzialità poetica di Francesca Simonetti 

In un tempo che scorre travolgente, minacciato da una forma di barbarie tecnologica e da un nuovo analfabetismo interiore, in cui l’esibizione teatrale sostituisce l’autenticità e la sterilità inaridisce ogni piccola sorgente e spegne ogni scintilla, quale può essere il posto della «più discreta delle arti, la poesia»? Direi che è quello di collocarsi tra la realtà e l’uomo, anzi è quello di stabilire un ponte attivo tra tempo ed eterno, finito e infinito: tra il reale quotidiano, in cui l’uomo necessariamente è immerso, e l’infinito cui l’uomo da sempre aspira. Un «ponte necessario» dunque. Ed è proprio questo il titolo del volume di poesie di Francesca Simonetti, che rispecchia il carattere profondo, la funzione testimoniale della parola poetica. Dell’idea che la poesia sia un valore culturale ed estetico tra i più nobili, la Simonetti è fermamente convinta: è il verso che ci tiene in vita, ed è convinzione che ha alimentato in lei, fin dall’adolescenza, una passione ispiratrice di un’attività poetica sempre più valida, sostenuta da ricorrenti appelli alla musa: il ponte necessario / è sorto insieme all’alba / e mi invita ad andare, /per ritrovare l’ombra / con mani di velluto. E se un giorno dovessi / varcarlo, sarà soltanto / per ritrovare te, musa ribelle,/ che sempre te ne parti, / se pure pellegrina penitente. 

Il suo universo poetico trova motivi di canto e di ricerca nell’osservazione del reale e nell’interpretazione di esso; come scrive Salvatore Orilia, la poesia della Simonetti è «quasi una finestra aperta sulla realtà», è strumento per dare senso alle cose, delimitandone i contorni. Una quotidianità immediata che la poetessa trasforma in elevata contemplazione, in penetrazione interiore, in un grande sentire universale. 

Una poesia dotta che risente degli influssi di una cultura umanistica di cui Francesca Simonetti si fa scudo contro il materialismo dei nostri giorni. C’è l’amarezza di aver dovuto patire delusioni, la disincantata visione del vivere come deriva / su zattere pietrificate, / e i compagni di viaggio / nulla ti danno per lenire il male. C’è la denuncia delle colpe dell’uomo, in particolar modo di quel suo vizio antichissimo che ha nome egoismo. C’è il bisogno di un mondo in cui regni l’amore. 

Una poesia personale dai toni sommessi eppure decisa, ricca di riflessioni, di pensieri e ciò contribuisce a renderla varia ma pure limpida. Versi ben fatti e fluidi che nascono dal di dentro e danno vita a immagini, pensieri, atmosfere poetiche che svelano i diversi battiti della vita ma anche l’intimo della poetessa e le sue convinzioni. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 59-60.




FRANCESCA SIMONETII, Da Quental all’inquieto Novecento, prefazione di Aurelio Pes, collana di ricerche «Le vie del saggio», Thule, Palermo 2005 .

La natura segreta e tormentata di un grande artista portoghese 

Francesca Simonetti, poetessa siciliana dalla tempra robusta, ha dimostrato, con il suo ultimo saggio letterario dal titolo Da Quental all’inquieto novecento, di possedere anche una buona vena critica che la porta ad indagare con sottigliezza sulla genesi inquieta del portoghese Antero De Quental, il poeta-filosofo che ha dedicato la sua vita quasi esclusivamente alla difesa degli ideali socialisti. 

Con questo lavoro, la Simonetti ha il merito di aver portato alla ribalta un poeta di grande calibro, quasi ignoto all’Italia del nostro tempo, che si inserisce a pieno titolo nella storia del pensiero europeo e universale del Novecento, legandosi idealmente a quei capostipiti europei quali Baudelaire ed Eliot. L’autrice ci conduce in un viaggio attraverso il secolo e attraverso la complessità dei suoi problemi storici ed esistenziali, ma soprattutto in un viaggio all’interno dell’uomo- poeta. Quental è uno tra i più significativi interpreti della condizione dell’uomo moderno, dotato di immensa umanità e altruismo, un «santo laico» per i suoi contemporanei che aspirava già alla fine del XIX sec. all’unità dell’Europa. 

Una modernità quella di Quental, sottile ma al tempo stesso inequivocabile, di cui Francesca Simonetti ci dà una valida chiave di lettura attraverso la tragicità della sua vita, delle sue scelte umane e sociali, dei suoi versi e dei suoi sonetti eleganti e fini, significativi e toccanti per lo scavo interiore non soltanto della sua psiche ma dell’ anima del mondo intero. La parola poetica di Quental è l’emblema della parola che combatte per farsi lingua universale dell’ anima contro le superstizioni, gli idoli ideologici che dividono la mente degli uomini dal loro cuore. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 50-51.




DANIELA MUSUMECI, Devota come un ramo, Ila Palma, Palermo 2006.

Diversi percorsi di lettura tra poesia e meditazione filosofica 

Tenendo tra le mani questo volumetto di Daniela Musumeci, già prima di leggerlo, si ha una sensazione di leggiadria: i disegni a china e i pastelli di Sabina De Pasquale, pensati per le poesie intercalate ai brevi saggi, donano aria e respiro aperto. La De Pasquale è un’artista poliedrica: attrice, musicista, ma soprattutto autrice di delicatissime incisioni. Il disegno di copertina che illustra il verso di Cristina Campo, «devota come ramo»; la donna che reca due uccelli nelle mani che pare la sollevino in volo trasformandola in angelo; Demetra che culla una figlia invisibile, forse l’umanità tutta; il passerotto scaldato da uno sguardo d’amore: sono figure sapienti, tracciate con poche, immediate e sicure linee di penna, figure mitiche e magiche come il mandai a che apre il libro. Essenziali e scarne. Spirituali. Invitano alla lettura. E vien fatto di leggere, una dietro l’altra, tutte le poesie, come una sorta di armonia distillata. Esse costituiscono un dialogo dell’ anima con se stessa, un percorso di purificazione e di semplificazione, dal desiderio al distacco. Riecheggiano gli haiku giapponesi, quando non sono vere e proprie preghiere. 

L’altro sentiero è quello della prosa, più arduo, perché esige un’attenzione concentrata. Si tratta di un viaggio attraverso i quattro elementi naturali, aria, acqua, terra e fuoco, rivisitati attraverso il mito classico e le filosofie occidentali e orientali; un viaggio animico, ispirato da una sorta di mistica materialistica e panteistica, maturata nella consuetudine con Spinoza, Goethe e il taoismo. Qui forse la scrittura è fin troppo densa; va centellinata pian piano perché in poche righe si moltiplicano le suggestioni. L’ordine del discorso non è quello induttivo- deduttivo della dimostrazione, ma quello analogico e allusivo del «pensiero del cuore» e del «nomadismo intellettuale », come lo hanno insegnato Maria Zambrano e Rosi Braidotti, ma soprattutto Simone Weil, prima e indiscussa maestra dell’ autrice. 

Si può poi aprire il libro a caso e leggere, a seconda dell’umore o dell’urgenza interiore, la pagina che capita, il capitolo, il brano, i versi che più risuonano dentro, righe e rime sparse. 

E c’è infine la sequenza che l’autrice ha voluto proporre e che alterna alle riflessioni e alle meditazioni, talvolta faticose, il dono morbido di aforismi e metafore; perché questo è in fondo la poesia, un gioco di specchi tra aforisma e metafora. Insomma, basti dire che quello che sembrava o diceva di essere un «libretto di devozione» si rivela un documento di impegno estremamente concreto. 

Daniela Musumeci insegna filosofia e storia in un liceo di Palermo, sempre segnata dalla contraddizione tra delizia poetica e lavoro sociale, che è poi la contraddizione fra le due materie che le tocca insegnare, il cielo dei pensieri e la terra dei bisogni quotidiani. 

Per lungo tempo ha collaborato con la rivista Mezzocielo, sperimentando una divulgazione delle filosofie, grandi e misconosciute, da Diotima ed Eloisa sino alle contemporanee. 

Questa è la sintesi delle sue ricerche per i laboratori interculturali ideati per la scuola. 

Maria Angela Cacioppo

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 48-49.