Traccia

Un poema 

libero da grammatica e da suoni 

delle parole 

libero 

da tracce. 

Un poema fratello 

d’altri poemi 

che spengano la sete 

ai corsi d’acqua 

e rilucano come pietre al sole. 

Un poema 

che sia senza il sapore 

della mia bocca e sia 

libero 

da segnali di denti sopra il dorso. 

Poema nato 

agli angoli di strade, lungo i muri 

come povere parole 

con parole appassite 

però 

libero tanto 

che da se stesso tragga 

la decisione 

d’essere 

scritto o no. 

IMPEGNO 

Tocca ora al corpo 

morire 

giorno per giorno 

andare 

e disabituarmi 

del volto 

che io 

chiamavo mio. 

INTENTO 

Ho tanto usato 

questo corpo 

tanto. 

È giusto ch’io lo lasci 

e lo metta a giacere. Perché sia 

dimenticato. 

SAZIETÀ BIOGRAFICA 

Ho forse camminato senza piedi 

e volato senz’ ali. 

Sono un sogno svanito. 

Scrivo lettere ai fiumi di frequente 

mentre coltelli 

puntano al mio cuore. 

Che posso dire 

(se smettono gli uccelli di cantare) 

e come amare 

(se amano gli amanti il suicidio)? 

Gli assassini conoscono il mio nome. 

INGANNO 

In fin dei conti 

costruiamo edifici 

case giardini dove 

sono sbocciate rose 

tremule. In fin dei conti siamo sempre 

sottomessi agli impegni d’ogni giorno 

alle stagioni 

dell’anno 

ed alla rotazione della terra. 

La nostra patria pensavamo fosse 

questa. 

da Risco, Nankin Editorial, Sao Paulo, 1998




Nostalgia

Chi abita la mia casa 
mi presta il corpo e sale 
sottili bianche scale. 
Spade 
mi graffiano ed io sanguino. 
Di stanza in stanza 
io palpo culle vuote. 
Giorni ciechi mi spingono 
lungo le notti 
verso altri giorni … 
Ma chi abita in me, questa mia casa? 

Eunice Arruda 

 Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




Dolore

Sto male, sono dolorante, afflitta 
al sereno notturno. 
Attaccano un acuto le cicale. 
Dormo dentro di me profondamente. 
E va la sera 
là fuori, avanza lenta 
come un vecchio carretto cigolante. 
Più niente importa. 
Chi piange se sto male? 
Se io sono ferita, 
chi si dissangua? 
Sono stata sbattuta contro un muro. 
Mi avevano protetto 
le braccia e la mia ombra, 
ma ora 
il sale non si scioglie sulla pietra 
e mi addormento 
come un bambino scosso dai singhiozzi 
o forse 
come uno scarabeo rivoltato 
sul marciapiede. Invano 
il dolore mi assolve da ogni colpa. 

Eunice Arruda

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pag. 46.




FRANCESCO GRISI, La poltrona nel Tevere, romanzo, Rusconi, Milano, 1993.

Uno degli ultimi romanzi di Francesco Grisi, poco prima della sua immatura scomparsa, La poltrona nel Tevere è in pratica la prosecuzione di Maria e il vecchio, pubblicato nel 1991. 

Personaggio eclettico, quasi vulcanico, Grisi ha avuto ed ha molteplici interessi: narratore, critico, saggista, pittore, già docente nei licei e assistente di Giacomo de Benedetti alla cattedra di Letteratura italiana contemporanea, grande viaggiatore; come scrittore si può definire toco (come direbbe Cernetti) in quanto sa dare come pochi luce alla pagina e la sua scrittura si distingue per forza e potenza. 

La poltrona nel Tevere è un’opera di narrativa particolare; presenta cultura seria ed elaborata, ha singolarità di taglio, vigoria immaginativa, fervida ed allucinata fantasia e il supporto primario della memoria. Nel suo Diario Guido Morselli notava che «la memoria è una cosa con la fantasia. Ricordare è credere. E la memoria in noi è continuamente attiva oltre che spontanea. In questo senso la vita nostra si intesse di poesia, cioè di sentimento. Dunque il tessuto è dato da un intreccio di reminiscenza». Nel romanzo primeggiano memoria e fantasia e l’opera è un intreccio di reminiscenze (impasto, dice l’autore). La pagina è illuminata da irradiazioni che provengono dal ricordo che Grisi espone’ con stile inconfondibile e tetragonamente anticonformista. Va detto che il romanzo richiede una lettura attenta e lo stesso autore avverte in prima pagina che ha bisogno della collaborazione del lettore: «La mia vicenda è vera anche se sarà vissuta dal lettore.» 

La stessa vicenda è raccontata in prima persona da un postino, Francesco, laureato in Lettere, che ha scelto quel mestiere vuoi per pigrizia, vuoi per l’aspirazione di tanti italiani a diventare statali. Viene coinvolto da un deputato che saluta col roboante quanto decaduto «Avanti popolo alla riscossa». È indotto a violare il segreto postale, aprire con un marchingegno le lettere che il presidente, uomo di potere, fulcro del romanzo, riceve da brigatisti, dai quali era stato catturato e poi inspiegabilmente rilasciato con grande raccapriccio degli avversari politici. Ora riceve lettere dai brigatisti e il partito del deputato, che teme e odia il presidente, intende controllare la corrispondenza, sicché il postino viene invitato (e corrotto) ad aprire la corrispondenza inviata al presidente, fotocopiare le lettere, consegnarle al suo committente e poi, ricomposte, portarle al destinatario. 

Questo è l’avvio del romanzo. Il 2 di aprile, giorno di San Francesco di Paola, segna l’inizio delle reminiscenze. Il postino ricorda la natìa Calabria, il suo mare di un azzurro intenso e rievoca il miracolo del Santo che traghetta lo stretto di Messina a bordo di un mantello. Di reminiscenze il lettore ne troverà molte e sono talmente bene inserite che non turbano lo scorrere della vicenda anzi l’arricchiscono o la rendono affascinante. 

Tra i personaggi, vibra di lucentezza la terrorista Cristiana, vestale di una lotta che passava per la politica, donna visionaria e passionale che lotta con tenacia pur conscia che la partita è persa. È lei che indirizza missive al presidente, per il quale 

sente molta ammirazione. E le pagine di Cristiana sono tra le più calamitanti del romanzo. Il presidente – facilmente riconoscibile – è il perno della vicenda; rapito, affascina i brigatisti con la sua dialettica e con la forza della ragione, e viene liberato con sorpresa dei vari politici. 

Qui Grisi inserisce un dialogo tra il presidente, che liberato s’avvia verso casa e attende l’autobus, in piazza Venezia, e Mussolini che s’affaccia al fatidico storico balcone. È un dialogo serrato, imprevedibile, che ripercorre parte della nostra storia. Dopo un certo periodo di libertà, il presidente viene rapito nuovamente e finisce con lo scomparire su una poltrona che veleggia sul Tevere. Accanto al postino narratore la madre, vecchia e malata che inventa sogni profetici, attraverso i quali richiama storia recente e passata e non manca di cantare «Casta diva», «Giovinezza», «Volare». Infine, Chiara, dolce compagna del postino. 

Semplice a grandi linee, il romanzo trova il suo epilogo nella scomparsa del presidente, nella cocente sconfitta del brigatisti, nel crollo delle loro utopie e la morte della vecchia madre. Ma alla vicenda Grisi, con una tecnica tanto abile quanto valida, inserisce personaggi del passato, come se fossero tuttora viventi. Con un fare di stampo poundiano, divaga, discetta, medita, richiama personaggi del passato che rivivono, come se fossero protagonisti, con tutti i connotati di bene e di male. Con una tecnica innovativa, fantasia fervida e allucinata, lo scrittore analizza (inserendo sapientemente i dialoghi) temi e problemi che ancora ci fanno giungere il loro riverbero. E l’ analisi è condotta con intenti anagogici e gnomici. 

«Se c’erano i Tedeschi da una parte e gli Alleati dall’altra, è anche vero che c’erano gli Italiani che si uccidevano. È mai possibile che due ideologie in contrasto abbiano fatto dimenticare la fratellanza, la famiglia, l’idea comune di patria?» E ancora: «La guerra santa è l’unica frontiera che unì gli Arabi. Il nemico è anche Israele ma il vero demonio sono gli Americani e i Russi che non hanno religione. Operano per politica o per economia. Svincolati dalla religione, sono i figli del male. Non credono neanche nella libertà. Anzi si servono di questa parola magica per comandare e dividersi il mondo.» Di queste considerazioni – che hanno valido fondamento e mostrano la perspicacia dell’autore – il libro è zeppo, talché si può affermare che il romanzo è a un tempo storia, disputa filosofica, meditazione cristiana, teologia, analisi psicologica, sottilissimo gioco di ironia che Rilke avrebbe definito pura parènesi. 

La scrittura ha unità di tono, qualche varietà di lessico (sono inseriti frasi dialettali, strambotti, storielle), è glabra e il periodare, generalmente breve, è incalzante. A nostro avviso il romanzo è un invito all’unità e alla concordia, presenta una sorta di filosofia dell’amore, e contiene un messaggio di grande valore: la fratellanza umana è riscattabile soltanto da un anelito verso l’Altissimo 

perché la vita è viaggio che si conclude con la morte che unica consente la resurrezione. («La morte è un vivere», scriveva Holderlin.) 

Al di là della splendida indovinata allegoria sul potere, l’opera di Grisi è anche atto di fede nella storia, se la storia è esaminata senza spirito di parte o senza travisamenti, oggi frequenti. Come è scritto nel risvolto di copertina, «sarà il senso dell’immortalità la resurrezione, promessa dal figlio di Dio, ad offrire una possibile risposta alla domanda che il postino ripete a se stesso: “Perché la terra è così bella e atroce?”» 

Salvatore Arcidiacono 

Da “Spiragli”, anno XVI, n.1, 2005, pagg. 43-45.




La traduzione nel Medioevo a Palermo e a Toledo 

Riassunto – In questo saggio vengono studiate le condizioni ambientali che nel Duecento resero possibile l’esistenza, nel Mezzogiorno italiano e nella Spagna centrale, di due centri culturali conosciuti rispettivamente come la Magna Curia e la ,Escuela de Traductores de Toledo 

A capo di essi spiccano due sovrani eccezionali e quasi coevi: l’imperatore Federico Il e il re Alfonso X el Sabio. Entrambi, ma soprattutto il re toledano, devono essere considerati come nesso imprescindibile tra la cultura orientale e quella occidentale, poiché fecero tradurre dal greco e dall’arabo molti testi scientifici orientali, che gli eruditi europei non avrebbero forse potuto conoscere. 

Si studiano anche i procedimenti che erano seguiti, sia alla corte siciliana sia nelle diverse tappe dei lavori della corte toledana, dai diversi gruppi di traduttori formati da savi appartenenti a tre etnie storicamente irriconciliabili musulmani, ebrei e cristiani – che realizzavano simultaneamente le traduzioni in latino o in volgare (Angeles Arce*). 

Il secolo XIIl nell’Occidente latino ebbe la fortuna di conoscere due sovrani eccezionali, ambedue promotori di un mondo culturale senza pari nel Medioevo’, eredi e continuatori di un iter anteriormente tracciato, che raggiungeranno il loro auge in una sorta di «Dispotismo illuminato» del Duecento: Federico II di Sicilia e Alfonso X di Castiglia, diretti responsabili rispettivamente della Magna Curia2 e della Escuela de Traductores de Toledo3. Entrambe le sedi, ma soprattutto quella toledana, devono essere considerate come un ponte imprescindibile tra la cultura orientale e quella oçcidentale poiché, grazie alle traduzioni da esse realizzate – dal greco e dall’arabo in latino o in volgare -, molti eruditi europei presero contatto con quei testi fondamentali della filosofia, dell’astronomia, della matematica, dell’alchimia o della medicina che la maggior parte di loro non potevano conoscere, e forse non avrebbero mai conosciuto. Inoltre, esercitando la funzione di ponte culturale con l’Europa medievale, le scuole siciliana e toledana inaugurano i primi movimenti letterari dei loro rispettivi Paesi: la lirica da parte di Federico II e la prosa grazie alla penna di Alfonso X. Questo conferma che lo sviluppo o il consolidamento delle letterature volgari si verificò proprio nei luoghi dove fu maggiore l’interazione fra culture e lingue diverse. 

È molto probabile che questi monarchi, pur appartenendo alla stessa stirpe familiare degli Hohenstaufen – Alfonso era figlio di Beatrice di Svevia, cugina di Federico II e ambedue nipoti di Federico I «Barbarossa» (1152-1190) -, non si siano mai conosciuti: sembra strano, però, che non abbiano neppure avuto notizie l’uno dell’altro, dato che la differenza cronologicamente esistente fra loro era di poco più di vent’anni. Se consideriamo, invece, i numerosi punti di contatto delle loro condizioni ambientali e la somiglianza culturale delle loro corti, è evidente che si possono studiare non solo come semplici coincidenze casuali, ma si devono invece studiare insieme e comparativamente per poter chiarire meglio alcuni aspetti particolari inerenti ad esse aspirante frustrato alla corona imperiale tedesca (1256) dopo la morte di Guglielmo d’Olanda5. 

Sono conosciute le vicende storiche del rapporto plurisecolare tra la Sicilia e la Spagna. Ci basti ricordare solo tre esempi: Tucidide afferma che i Sicani, primi abitanti dell’Isola, procedevano dalle coste orientali della penisola iberica; d’altra parte, è stata messa in evidenza la somiglianza, dal punto di vista linguistico, tra alcuni suoni dell’Italia meridionale con certi elementi dei dialetti iberici orientali, il che potrebbe provare che la colonizzazione romana della Spagna si è potuta portare a termine con abitanti suditalici; ed in terzo luogo, c’è un fatto che mi sembra interessante ricordare: la Spagna e la Sicilia furono le due uniche zone di tutta l’Europa in cui gli Arabi si stabilirono a lungo e da cui irradiarono la loro cultura. 

Dal secolo XII in poi sono vari i centri culturali che primeggiano nel Regno di Castiglia e di Aragona: Tarazona, Siviglia, Murcia, Barcellona, Toledo, Segovia, Saragozza o Huesca, mentre nell’Italia meridionale – dove la corte era itinerante – prevalgono Messina, Palermo, Capua – con un centro di studi di retorica – e Napoli, sede quest’ultima, dal 1224, di un’università di fondazione regia conosciuta come «Studio generale» e istituita – secondo quanto si legge nel decreto di fondazione – «perché chi aveva fame e sete di sapienza trovasse da saziarsi nel regno»6. 

Tuttavia, tra tutte le sedi citate soltanto Toledo e Palermo – considerata questa da Pietro da Eboli quale dotata trilinguis7 – saranno reputate, sotto i loro rispettivi monarchi, come sedi di un enciclopedismo medievale tanto nell’ambito letterario quanto in quello scientifico. 

Ciò nonostante, l’islamizzazione in ambedue le corti era molto diversa. Infatti, il re Alfonso, toledano di nascita e cristiano, non poteva condividere i costumi arabi che avevano cominciato a proliferare nella corte siciliana, soprattutto durante il regno di Ruggiero II, nonno materno di Federico. Questo monarca (1097-1157), educato in ambiente greco, aveva organizzato una corte con eunuchi, con harem, con monete datate secondo l’egira e con invocazioni ad Allah, e dove non mancava nemmeno un’accademia di savi di varia provenienza. In seguito, anche se il nipote sopprimerà alcune di queste abitudini orientali, avrà sempre presente il ricordo giovanile di una Palermo dall’aspetto orientale in cui confluivano influssi normanni insieme a quelli latini, greci, bizantini o musulmani. Inoltre, peculiari circostanze storiche fecero sì che la struttura di queste due corti medievali e l’etnia dei loro rispettivi seguiti fossero piuttosto diverse. 

Questa corte meridionale, crocevia delle lingue medievali, considerata una delle più raffinate e la meno feudale di tutta l’Europa, fece della Sicilia il primo stato moderno del continente, tanto per la sua organizzazione burocratica quanto per le pretese assolutistiche della corona; senza dimenticare che, dal punto di vista letterario, alcuni credono che «fuori di essa si può ben dire, senza timore di peccare contro la storia, che tutta la nostra storia letteraria avrebbe avuto un corso differente (cfr. Folena, p. 273). 

Pur avendo seguito in un primo momento l’esempio della diffusa poesia provenzale, Federico II cominciò a patrocinare, verso il terzo decennio del Duecento, una scuola poetica che presenta la novità di non essere formata da trovatori, bensì da funzionari della Cancelleria. Il monarca, infatti, si circondò di un’elite politica che comprendeva burocrati, nobili, notai e personalità della corte che, per di più, scrivevano poesia in volgare come evasione dai problemi quotidiani. Tutti quanti, tanto i poeti o i giuristi provenienti dalla Penisola – come Pier della Vigna, Giacomino Pugliese, Goffredo da Benevento, Taddeo da Sessa, Percivalle Doria o Tommaso Gaeta -, quanto quelli provenienti dall’Isola come Stefano Protonotaro, Tommaso di Sasso o Iacopo da Lentini, formavano parte di una istituzione conosciuta come Magna Curia, una sorte, in senso lato, di governo o di amministrazione centrale. ‘Questo è proprio ciò che li distinguerà dal resto dei poeti dell’Occitania. Il poeta di questa prima scuola – chiamata da Dante, come è risaputo, «siciliana»8- è un uomo colto che scrive per il piacere della poesia, di una poesia pensata per essere letta individualmente e non per essere recitata con musica; si oppone così a quella dei trovatori professionisti, a volte semplici giullari ansiosi d’onori e inclini all’adulazione9. 

Non è il caso di soffermarci ulteriormente sulle caratteristiche di questa scuola o delle diverse scholae o sezioni che formavano la Magna Curia. Pur riconoscendone le indiscutibili innovazioni metriche e linguistiche nell’ambito letterario, è mia intenzione ora occuparmi dell’altra attività cortigiana, svolta a Palermo, che la ricollega a Toledo: le traduzioni dalle lingue orientali. 

È noto che intorno a Federico II, che sapeva leggere e scrivere, si sviluppò un’esuberante vita intellettuale giacché, secondo il Salimbene, il monarca stesso parlava, o almeno conosceva, parecchie lingue: il tedesco paterno e il francese normanno di sua madre Costanza d’Altavilla10, oltre al latino – conosciuto a scuola e identificato con la grammatica -, 1il greco11, l’arabo12 e un incipiente volgare italiano identificato nel dialetto apulo-siciliano. La conoscenza di queste lingue ampliava l’interesse del monarca e del suo circolo per le scienze e la filosofia, materie sulle quali, in maggior misura, verteranno le traduzioni «siciliane», mentre in area bizantina i traduttori dal greco di origine italiana, come Giacomo Veneto, Burgundione Pisano, Ugo Eteriano o Stefano da Pisa, si occupavano di testi religiosi o teologi. L’imperatore accoglieva nel suo cenacolo di generoso mecenate poeti, filosofi, matematici o giuristi e concedeva loro protezione in cambio di incondizionati servizi politici13. 

Tuttavia, possiamo segnalare qualche differenza nelle preoccupazioni dei due protagonisti: mentre Alfonso X vedeva tutte queste scienze «non come un lusso ma come un bisogno nazionale» che coltivava «a casa con i dotti peninsulari», per l’imperatore italiano – denominato il Sultano di Occidente -, la curiosità scientifica era un elemento del suo prestigio imperiale e della sua possente personalità e gli permetteva di intrattenere una corrispondenza con i savi e, soprattutto, con i sultani o califfi dello Yemen, dell’Egitto, del Marocco e con monarchi come il Saladino14. 

In questo senso, i contatti tra la Sicilia di Federico e l’Oriente sono molto più saldi di quelli della Castiglia di Alfonso. Ma solo in questo senso, perché senza mettere in dubbio, naturalmente, l’interesse dell’imperatore per la cultura, non sembrano del tutto esatte le parole del Folena quando afferma che «l’orizzonte apertissimo della cultura del tempo di Federico II era senza precedenti di uguale vastità nel Medioevo per incontro e contemporaneità di esperienze diverse» (Folena, p. 294). Le sue affermazioni si potrebbero ribattere, almeno, in due punti: in primo luogo perché un altro rinascimento culturale, forse molto più importante, era esistito mezzo secolo prima15 intorno alle figure di Ruggiero II (1105-1154) e Guglielmo I (1154-1166), nonno e zio di Federico; e d’altra parte – e in questo è necessario insistere -, perché molti dei savi e dei traduttori che lavorarono presso Federico avevano lavorato e perfezionato prima i loro studi a Toledo, riconoscendo con questo il primato indiscutibile della città spagnola, almeno nel campo delle traduzioni dall’arabo. 

Le prime versioni insulari vertevano su temi filosofici e scientifici, sulle orme di quelle toledane (cfr. Millas) ma, a differenza di queste, come si è visto, furono opera di collaboratori della Magna Curia che erano dei personaggi legati alla burocrazia di corte. E proprio a questa appartengono i primi traduttori di cui si hanno notizie16 tra i quali Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania e Primo ministro di Guglielmo I, a cui portò come regalo da Tessalonica un manoscritto in arabo della Syntaxis mathematica di Tolomeo, conosciuta come l’Almagestum. Tradusse nel 1156 dal greco in latino il IV libro delle Metereologiche di Aristotele, e anche i dialoghi platonici Menone e Fedone; in collaborazione poi con l’ammiraglio siciliano Eugenio da Palermo, tradusse verso il 1160 – questa volta dall’arabo – il famoso trattato di astronomia tolemaico, di cui esisteva già una versione anonima in ebraico. 

Eugenio da Palermo, grande conoscitore dell’arabo, verso il 1150 fece una versione in latino, ora da solo, dell’Ottica tolemaica ed è grazie al suo sforzo che quest’opera è giunta fino a noi – solo i libri Il e V -, giacché sono andati perduti tanto l’originale greco quanto la versione araba posteriore17. 

Tuttavia, un fatto prova che i lavori realizzati a Palermo non avevano, purtroppo, una grande diffusione nel mondo cristiano medievale: i testi tradotti più di una volta in modo indipendente dimostrano che fra i traduttori siciliani e i toledani – senza dimenticare anche i constantinopolitani – non c’era una fluida comunicazione o informazione. Un esempio tra i tanti: appena una quindicina d’anni dopo la traduzione siciliana dell’Almagestum tolemaico, un importante traduttore dell’Italia settentrionale, 

Gerardo da Cremona, fece una nuova versione del libro alla corte toledana, ignorando, forse, quella realizzata anteriormente in Sicilia dai suoi compatrioti Eugenio da Palermo e l’Aristippo. Anche se l’opera dell’astronomo di Alessandria era stata tradotta in arabo nel secolo IX e più tardi in ebraico da ebrei spagnoli, la versione latina che si diffonderà per tutto l’occidente – fino alla sua definitiva pubblicazione a Venezia nel 1515 e prima dell’edizione principe dell’originale greco fatta a Basilea nel 1538, è dovuta proprio a quest’italiano noto come il Cremonensis18. 

Infatti Gerardo da Cremona (1114-1187), che arrivò alla corte castigliana intorno al 1157 – un secolo prima di Alfonso X el Sabio – con l’unica intenzione di conoscere e divulgare l’Almagestum, prolungò per tre decenni il soggiorno a Toledo lavorando come uno dei tanti studiosi assidui della scuola castigliana19. Dopo aver approfondito lo studio dell’arabo, fu immenso il sapere che scoprì in quei testi arabi, ancora non conosciuti dalla cultura occidentale. Gerardo attinse alla più vasta materia per le sue fedelissime traduzioni in latino, che dotò di una terminologia più precisa e un linguaggio tecnico nuovo nel campo dell’algebra, aritmetica, medicina, astrologia, geomanzia o alchimia. Tradusse circa ottanta trattati20, numero che fa pensare alla possibilità che l’italiano sia stato il direttore di un gruppo specifico di traduttori – socii – tra i quali collaboravano sia ebrei che «mozarabes)), cioè cittadini della Penisola Iberica che rimasero fedeli alla religione cristiana anche se assunsero come propri i caratteri della civiltà araba. 

È inoltre vero che se in Europa nel secolo XII esistevano altre scuole episcopali di prestigio, tutte erano d’accordo nel conferire a Toledo il primato nell’islamizzazione del mondo occidentale. Questa è la causa per la quale molti eruditi europei frequentarono questa ed altre scuole spagnole dove ampliavano i loro studi ed erano in grado di realizzare posteriormente diverse traduzioni. Tra questi studiosi «stranieri» che viaggiano in Spagna si possono ricordare i nome dell’italiano Platone 

 

di Tivoli21 , il fiammingo Rodolfo di Bruges, il tedesco Ermanno di Carinzia – noto a Toledo come Herman el Dalmata o el Aleman e traduttore del Corano e di altri testi dottrinali arabi – o studiosi inglesi come Alfredo Sareshell22, Roberto di Chester – presente anche nella scuola salernitana verso il 1150 -, Daniele di Morley che nell’ultimo quarto del secolo XII si occupa di astrologia, ed il filosofo Adelardo di Bath, al quale viene attribuita – come anche a Fibonacci Pisano – l’introduzione in Europa delle cifre arabe23. 

Un caso peculiare di presenza nelle due sedi mediterranee come traduttore e autore originale è rappresentato dallo scozzese Michele Scoto (1175-1236), una delle personalità più ammirate da Federico24. La sua carriera cominciò a Toledo nel 1217, dove in stretta collaborazione con l’ebreo «Abuteus levita», finì la traduzione – anche se restò inedita al pari del testo arabo – del libro di astronomia di al-Bitruji25. Completò anche le traduzioni di Avicenna – così era noto il medico persiano Ibn Sina – e di Aristotele sugli animali, e fece conoscere in Europa i commenti sulla filosofia aristotelica di autori ispanoarabi come Avempace, Averroè, Abentofail o Maimonide, importanti collaboratori alla corte toledana prima dell’arrivo di Alfonso di Castiglia. Lo scozzese lasciò Toledo in data imprecisata e fra il 1220 e il 1224 arrivò in Italia; dopo aver frequentato i circoli papali in epoca di tregua fra Santa Sede e Impero (1124-1227), si trasferì a Pisa e poi alla corte federiciana portando con sé il sapere acquisito in Spagna. Accettò allora l’incarico di astrologo26 e matematico di camera nella corte di Federico Il dove restò fino alla morte nel 1236. Incontrò in Sicilia altri uomini di cultura non soltanto italiani – come Aldobrandino da Siena, Leonardo Fibonacci da Pisa27 o Percivalle Doria -, ma anche di altre nazionalità come il musulmano Moamyn28 , gli ebrei Giacobbe Anatoli29 e Yehudad ben .Shelomo Koben, il provenzale Aimeric de Peguilhan – trovatore occitano che dedica una canzone da crociata all’Imperatore -, il poeta normannò Enrico di Avranches, che verso il 1236 dedica vari poemi arguti a Federico, e perfino due personaggi legati alla curia pontificia i cui nomi latinizzati evocano la loro origine iberica: il Magister Dominicus30 e Petrus Hispanus, futurò papa Giovanni XXI nel 127631. Queste due ultime figure ci possono servire per introdurci nella Spagna coetanea, sebbene prima è necessario fare una breve precisazione sul metodo di traduzione seguito dagli uomini che lavoravano a Palermo. 

Anche se non si hanno notizie sicure al riguardo, qualcosa si può ricostruire dalle osservazioni critiche di un eminente scienziato inglese, Ruggero Bacone (1220-1292), che distingue fra un «tecnico professionale» e un «commentatore» del testo. Occorre, dice, non soltanto conoscere le lingue ma avere una completa padronanza della materia su cui verte 1’opera tradotta; non condivide, inoltre, la metodologia verbum de verbo cioè, letterale – perché serve solo a mascherare l’ignoranza dei traduttori. Ruggero non esita a criticare il pessimo lavoro «meccanico» di due personalità come Gerardo da Cremona o Michele Scoto, e con le sue critiche anticipa quelle delle teorie umanistiche della traduzione. 

Per sommi capi, la traduzione medievale – che seguiva non una ma diverse metodologie e distingueva la versione ad verbum da quella ad sensum – partiva da un canovaccio parola per parola, a volte orale, a volte scritto a modo di glossa nell’interlinea del testo greco o arabo originale. Non era considerato «traduttore» chi faceva questa prima bozza, ma colui che la trascriveva, potendo accadere persino, che il cosidetto «traduttore» – interpres – non conoscesse addirittura la lingua di partenza. 

Tuttavia Ruggero Bacone, che non era traduttore ma usufruiva delle versioni altrui come lettore e studioso, criticò duramente il letteralismo, anche se lo giustificò in due casi: quando le lingue di partenza e di arrivo erano assai diverse, o per motivi «scientifici», cioè quando la materia era molto complicata e conveniva restare il più possibile vicino all’originale per fare poi una glossa o un commento. 

Fatta la precisazione sulle tecniche seguite dai traduttori a Palermo, cambiamo di sede mediterranea. Abbiamo già ricordato che il favoloso mondo culturale di Toledo non era cominciato nell’epoca di Alfonso X di Castiglia, ma alcuni decenni prima durante il regno di suo padre Ferdinando III, detto il Santo (1199 – 1252), coevo dell’imperatore Federico. Pertanto nel secolo e mezzo durante il quale si porta a termine l’ingente lavoro di traduzione della scuola toledana (1130-1287) si può parlare di tre periodi: epoca raimondiana [1130-1187), epoca di transizione (1187-1252) ed epoca alfonsina (1252-1287)32 . 

Gli avvenimenti storici influirono decisamente sul funzionamento della scuola. Toledo, capitale nel 1035 di un importante «Reino de Taifas», fu recuperata da Alfonso VI nel 1085. I cristiani dimostrarono in questo caso la loro intelligenza e cultura rispettando e facendo tesoro dei numerosi manoscritti che si trovavano nelle biblioteche della città33. In questo modo la cultura araba e quella latino-cristiana si fusero, ma grazie a un elemento agglutinante costituito dagli ebrei, i quali oltre ad essere economicamente importanti, in genere erano anche dotti e colti. In numero maggiore che a Palermo, questi ebrei «spagnoli» che fuggivano dall’intolleranza almohade, collegarono due etnie, storicamente nemiche irreconciliabili, che di sicuro non si sarebbero mai affratellate senza il loro tramite34. 

31 Con il nome Petrus Hispanus (1220-1277) si conosceva questo erudito di Lisbona, autore di un manuale di dialettica intitolato Summulae logicales e commentatore di opere mediche di Ippocrate e di Galeno tra altri. È difficile assicurare i suoi rapporti con la corte federiciana prima della morte dell’imperatore ma, come medico di Gregorio X, non bisogna dimenticare il suo interesse per la medicina nel campo delle scienze della natura e del corpo: il suo nome appare negli studi sul piacere provato nei rapporti sessuali o in un esperimento legato alla magia per guarire l’impotenza maschile. La figura serve anche a provare che i rapporti tra la curia pontificia e la federiciana esistevano ed erano più intensi di quanto si credeva. 

La città castigliana era una sede ideale per questo tipo di lavoro di traduzione: disponeva di abbondanti testi orientali, di eruditi che conoscevano le lingue da tradurre, anche se non sempre dominavano le materie che traducevano, e non mancavano i mecenati protettori della cultura e del sapere ecumenici. Il primo di questi benefattori risale alla prima metà del secolo XII: l’arcivescovo don Raimondo35 che sarà il promotore della cosiddetta Accademia, Collegio o Scuola di Traduttori di Toledo. Il personaggio che diede nome all’epoca raimondiana controllò le numerose versioni dall’arabo al latino dovute alla collaborazione tra Domenico Gundisalvo, arcidiacono di Cuéllar36 e il «Magister Iohannes», – così era noto l’ebreo converso Giovanni Hispanus, vescovo di Segorbe37 -, ambedue coevi del Cremonensis. 

Don Raimondo, inoltre, realizzò a Toledo grandi riforme urbanistiche e prese parte al Consiglio e alla Cancelleria reale, funzioni che lo collegano direttamente con i poeti aulici della Magna Curia siciliana. Purtroppo, anche se importante, la sua dedizione al «Colegio de Traductores» non può essere paragonabile a quella di Alfonso X, la quale caratterizzerà l’ultima tappa della scuola toledana. Non ci sono rimaste notizie sicure sugli interventi più o meno personali dell’arcivescovo nei lavori di traduzione, ma nel 1152, dopo la sua morte, la scuola continuò la sua attività culturale, sebbene il successore don Giovanni – vescovo dal 1151 al 1166 – trasferisse 

le attività di traduzione all’interno della cattedrale [cfr. Hernandez]. 

Al contrario, la figura di Alfonso X sarà sempre presente nei gruppi di traduttori fino a quando il re non si dovette occupare dei problemi di politica interna – dal 260 al 127038 -; si interruppero quasi le attività scientifiche della «Escuela de Traductores» le quali spariranno definitivamente con Sancho IV, pochi anni dopo la morte di Alfonso. 

Nei quasi sette decenni considerati di transizione (1187-1252) fra le due tappe auree della scuola toledana, non sono molte le traduzioni39 né i traduttori importanti ad eccezione di tre nomi: il già nominato Michele Scoto che si trovò nel 1217 a Toledo e verso il 1228 in Sicilia; il medico e canonico Marco da Toledo che tra il 1191 e il 1234 tradusse dall’arabo in latino testi di biologia e medicina e, infine, il tedesco Hermann Dalmata che, oltre a vivere anche lui in ambedue le corti40, fu il precursore a Toledo delle traduzioni in castigliano adoperando un testo ebraico. Ci avviciniamo così all’epoca alfonsina, ultimo e più importante periodo della scuola toledana. 

Pervenuto al trono di Castiglia nel 1252, Alfonso X continuerà la tradizione precedente consolidatasi nel centro di traduzione. Nella sua epoca di infante, per iniziativa propria, aveva già fatto tradurre dall’arabo in castigliano il Lapidario (1250) – trattato su minerali e pietre preziose – e dal sanscrito il Libro de Calila e Dimna (1251 – 1252), famosa collana di favole indiane. Come re dovette far coincidere le preoccupazioni politiche proprie della corona con una maggior cura nei riguardi dei diversi gruppi di traduttori i quali, anche se con tecniche ereditate, pare seguissero un procedimento molto più complesso e perfezionato di quello usato dai traduttori della scuola con sede a Palermo. 

Se non sappiamo di sicuro come si realizzassero in Sicilia le traduzioni, sappiamo, però, come venivano elaborate alla corte toledana41. Era necessario un gruppo di varie persone in cui erano presenti un ulema musulmano, un dragomanno «mudéjap – nome con cui erano conosciuti in Spagna i maomettani rimasti fedeli alla loro religione dopo la «Reconquista» cristiana – e un rabbino ebreo che, a voce alta, traduceva il testo originale greco, arabo o ebraico in volgare castigliano, affinché simultaneamente un chierico e un erudito cristiano lo traducesse in latino. Con il tempo, questo curioso procedimento di «traduzione simultanea» subì qualche trasformazione quando il monarca, che partecipava sempre più attivamente ai lavori del gruppo [cfr. Solalinde], decise che le traduzioni fossero fatte sempre in castigliano e, a volte, in altre lingue volgari europee, come il francese. 

Questo desiderio del re di volgarizzare in castigliano i testi potrebbe essere attribuibile a diversi fattori: da una parte, a una volontà chiaramente didattica, dato che molti dei suoi sudditi ignoravano il latino, mentre il castigliano era conosciuto da tutti nei diversi ceti sociali42; e dall’altra ai consigli o suggerimenti dei collaboratori ebrei, più importanti numericamente, che sentivano il latino come una lingua legata alla liturgia cristiana e, come è logico, preferivano non adoperarla. 

Tuttavia, anche se con gli anni il procedimento venne semplificato e perfezionato, il lavoro di gruppo continuava ad essere imprescindibile: un musulmano o un ebreo, conoscitore dell’arabo o del greco, faceva la prima versione orale e volgarizzata del testo; poi l’erudito cristiano aveva il compito di dare a questa lingua castigliana, piena di scorrettezze, uno stile più o meno letterario o, per lo meno, leggibile. I testi e le miniature che illustrano i codici alfonsini ci mostrano con esattezza come il monarca spagnolo controllasse personalmente i lavori di questo gruppo di specialisti, che veniva completato con un correttore – «emendador -, con un compendiatore – «capitulador – e con un glossatore – «glosador – prima di arrivare in mano al copista che lo avrebbe convertito in lingua scritta}}. 

 

Questa premura del re faceva si che la versione definitiva fosse sempre più perfetta possibile43, prestando un’attenzione speciale alla correzione linguistica, sia che si trattasse di traduzioni quanto di opere originali del monarca. 

A questo punto ci possiamo fare una domanda: chi faceva parte a Toledo di questi gruppi di lavoro? Clara Foz assicura che, tra cristiani ed ebrei, erano appena undici gli studiosi nel secolo XII – cinque spagnoli e sei stranieri – di fronte ai quindici – dieci spagnoli e cinque di altre nazionalità – nel secolo seguente. Sebbene il numero di spagnoli fosse superiore, sembra che fosse loro riservata la funzione di semplici collaboratori degli ebrei, questi ultimi veri responsabili delle traduzioni definitive. Fra i traduttori cristiani si possono dare i nomi di Alvaro da Oviedo, Garci Pérez da Toledo, il Magister Bernardus, e alcuni italiani come Thebaldis da Parma, Giovanni da Messina, Giovanni da Cremona o Bonaventura da Siena, i quali, generalmente, lavoravano su testi previamente già tradotti in volgare. I traduttori ispano-ebrei sono più numerosi e anche più importanti anche se, a volte, i nomi ispanizzati si 

confondono. Il re Alfonso apprezzava in modo speciale Judah ben Mose (Mosca il Minore), Isaac Ibn Cid (Rabiçag), Xosse Alfaqui, Samuel ha-Levi Abulafia e Abraham alHakim, noto come Abraham da Toledo. 

Proprio con questo nome avrà luogo una delle più importanti collaborazioni tra la Spagna e l’Italia nel Medioevo. Infatti, verso la metà del Duecento, il medico ebreo Abraham da Toledo tradusse in castigliano Il libro della Scala di Mahoma dell’autore arabo di Murcia Ibn Arabi (11641240). Alfonso X, considerando l’importanza capitale della diffusione dell’opera araba, ne ordinò simultaneamente una versione latina e un’altra francese. Quest’incarico sarà portato a termine nel 1264 dall’italiano Bonaventura da Siena, il quale, arrivato nel 1260 a Toledo con l’ambasciata guelfa di Brunetto Latini, rimase come notaio e traduttore presso la corte alfonsina. Probabilmente una delle sue versioni, quella latina o quella francese, forse addirittura portata a Firenze dal Latini al suo ritorno dall’ambasceria, poté essere conosciuta da Dante ancor prima di scrivere o di immaginare topograficamente la Commedia. L’ipotesi è quanto meno stimolante per gli studi di letteratura comparata: si tratterebbe, senza dubbio, del più importante contributo della scuola toledana alla letteratura italiana, e alla cultura europea, nell’area di tutto il Medioevo cristiano44. 

A modo di riassunto finale, possiamo indicare le differenze tra i due periodi più importanti della scuola spagnola: il latino, adoperato nella prima epoca raimondiana, era idoneo per testi filosofici o di tematica varia in mano a traduttori più «internazionali», mentre nell’epoca alfonsina il volgare castigliano diventò la lingua più adatta per la prosa della storia, per le leggi o per questioni scientifiche45; raggiunse così, attraverso l’impulso del monarca, la categoria di lingua ufficiale, rango che fino allora aveva avuto soltanto il latino46. 

Toledo divenne, quindi, il punto d’incontro di tre culture diverse, e tre comunità etniche e religiose – storicamente inconciliabili – riuscirono a creare con la loro simbiosi e il loro lavoro in comune, un sapere islamico su base spagnola in un momento in cui cominciava in oriente la decadenza del mondo arabo. E la lingua che avevano in comune questi tre nuclei sociali, così diversi fra loro, era il castigliano accettato da tutti e tre con una grande dose di tolleranza. 

Finora sono state messe in evidenza le disparità tra queste due corti in molti dei campi in esse coltivati. Mi sembra, però conveniente, a modo di conclusione, ricordare anche le grandi somiglianze tra i loro rispettivi artefici, e non soltanto nell’ambito delle traduzioni. Infatti, sia Federico II sia Alfonso X avevano un’enorme devozione per l’astronomia e l’astrologia, interesse che fece sì che la leggenda accusasse entrambi di superstizione che altro non era che la credenza nell’oroscopo -, e perfino di empietà e irreligiosità, accusa ben più grave dovuta forse alla smisurata ansia di sapere che animava l’uno e l’altro, certamente incompresa dai loro contemporanei. 

Dopo quanto si è esposto, potremmo concludere con le parole di un grande medievalista spagnolo, Ram6n Menéndez Pidal, il quale afferma che «las vidas paralelas de los dos soberanos dicen que Palermo y Toledo, Sicilia y Espana, ofrecen en el siglo XlI y comienzos del XlII condiciones de vida espiritual muy semejantes, y relaciones directas capaces de determinar la aparici6n de fenomenos equiparables, fen6menos que es necesario estudiar a la vez, pues mutuamente se esclarecen». 

Angeles Arce 

NOTA BIBLIOGRAFICA 
•• Segnalo in primo luogo i volumi generali a cui posteriormente farò riferimento con le sigle corrispondenti: 
– Storia d’Italia. Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, diretta da G. Galasso, Torino, UTET, 1983, vol. III. 
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* Note
(*) Angeles Arce è docente di Letteratura al Dipartimento di Filologia Italiana dell’Università Complutense di Madrid. Si occupa di letteratura comparata ispano-italiana e di diversi aspetti della cultura settecentesca. 
l Senza dimenticare Costantinopoli, che fu nel secolo XII un importante centro di traduzione a scopo fondamentalmente apologetico o polemico-religioso, in questa sede farò riferimento soltanto ai due centri stabiliti nel Mediterraneo occidentale. 
2 Il termine Magna Curia. o quello di Magna imperialis curia. faceva coincidere, in un ampio spettro, sia il tribunale di corte e tesoreria. sia il palatium o residenza reale dove familiari, funzionari, consiglieri o collaboratori accompagnavano il monarca, e tra questi, anche poeti intellettuali (cfr. Kolzer). 
3 Anche se risulta comoda la denominazione di «escuela. per questa attività di traduzione che si verifica nei secoli XII e XIII. è necessario fare ulteriori chiarimenti giacché il termine può risultare ambiguo e poco preciso per una mentalità attuale (cfr. Foz).
Federico II (1194-1250) – duca di Svevia, Imperatore del Sacro Romano Impero e Re delle Due Sicilie e di Gerusalemme4 -, è di alcuni anni anteriore ad Alfonso X el Sabio (1221-1284), re di Castiglia e Leòn dal 1252 ed 
4 Per la parte storica e biografica cfr. Kantorowicz, Manselli, Pepe e Morghen. 
5 Le pretese al trono imperiale di Alfonso si basavano sui diritti del nonno materno. duca di Svevia. che era stato riconosciuto come imperatore della Germania (cfr. tra altri Ballesteros e. più recente. D’Agostino; malgrado il promettente titolo. è privo d’interesse l’articolo di Montes). 
6 Conviene non dimenticare che lo stesso Federico II fece istituire alla Schola Salernitana la prima cattedra europea di anatomia. in cui si sperimentava su cadaveri umani quando ancora a Bologna era proibita la dissezione. Purtroppo, questa scuola medica. che raggiunse fin dai suoi inizi fama internazionale, si trasformò all’epoca di Federico II in un istituto superiore di importanza più locale (Cfr. Morpurgo). 
7 Conosciuto anche come poeta laudatorio di Enrico VI e Federico Barbarossa, è autore di un trattato medico-biologico, De balneis Puteolanis, sull’efficacia dei bagni termali di Pozzuoli.
8 De vulgari eloquentia, 1. I. cap. 12. L’idea di primazia della scuola fu ripetuta da Petrarca nel Triumphus Cupidinis (IV, 33). 
9 Senza dimenticare gli studi «classici» su questo periodo del Folena, Contini o Monteverdi e la ricca bibliografia di Roncaglia; rimando anche ai lavori di Elwert, Brugnolo e Antonelli. 
10 Per questo tema cfr. Ribezzo e Rizzo. 
11 Cfr. Borsari, Collura o Cavallo. 
12 Cfr. Gabrielli, Pagliara, Tramontana e Ahmad.L’Italia del Duecento era divisa, approssimativamente, in tre ampie zone geografiche e linguistiche. Nel Nord esistevano numerose corti feudali, economicamente ricche, la cui lingua di cultura presentava alcune caratteristiche comuni con il francese o il provenzale. Nell’Italia centrale era presente la Chiesa cattolica e la sua lingua ufficiale si avvicinava alquanto ai caratteri linguistici del neolatino orientale, quando ormai il popolo non usava più il latino. Nel Mezzogiorno c’era poi un’unica corte normanna, solidamente centralista anche se mobile, in cui coesistevano il greco, l’arabo, il latino e, in minor grado, l’ebraico.
13 Un’allusione a ciò si può leggere nel Novellino, XXI. Federico Il è anche il protagonista in altre sette novelle della raccolta: Il, XXII, XXIIl, XXIV, LIX, XC e C. 
14 È probabile che questo sia un discendente del gran Saladino (l137 – 1193), noto nel mondo occidentale per la sua giustizia e benignità, per cui si converti in un personaggio abituale delle letterature romanze anche se visto con delle ottiche diverse. In Italia, per esempio. il Saladino appare legato al tema della tolleranza religiosa e dell’astuzia (Novellino, XXV e LXXlIl, – anche la LI dell’edizione del Borghini del 1572 -; Dante, Convivio IV, XI, 14 e anche Inferno, IV, 129; Boccaccio, Decameron 1,3 e X,9). La Francia lo associa ad un atteggiamento epico-cavalleresco che fa dire ad Americo Castro che il Saladino francese ha più di francese che di Saladino (Hacia Cervantes, Madrid, Taurus, 1960). E finalmente, la Spagna lo associa non al tema religioso, bensì a una condotta morale: nella Gran Conquista de Ultramar – modello di prosa storico-narrativa della fine del Duecento, anche se la prima stampa è del 1503 -; in due novelle – la XXV e la L – di El Conde Lucanor (1335) del nipote di Alfonso X l’infante Don Juan Manuel (1282 1348), e già all’inizio del Quattrocento, nella cronaca intitolata Mar de Historias di Fernan Pérez de Gusman (1376-1460). 
15 Questa tesi è difesa da Abulafia che ribatte in certo modo le teorie classiche di Haskins. 
16 Seguo le informazioni che dà Ramon Menéndez Pidal.
17 Un secolo dopo sembra che un certo Johanes de Dumpno, figlio di Philippus, tradusse dall’arabo in latino i canoni delle tavole planetarie come Muqtabis (1262). il cui manoscritto si conserva nella Biblioteca Nazionale di Madrid (ms. 10023). 
18 Questo fatto sembra doppiamente significativo perché serve anche a dimostrare che quando uno studioso italiano voleva aggiornarsi sulla cultura arabo-bizantina, non partiva per Bisanzio o per l’Egitto – che avevano scambi e rapporti con le repubbliche di Venezia o di Genova – e non andava nemmeno in Sicilia, bensì s’indirizzava verso Toledo, città dalla quale certamente aveva puntuali notizie. 
19 Nei documenti della cattedrale toledana compare come «Girardus dictus magister» tra gli anni 1174 e 1176. 
20 Fra le traduzioni, quella del libro De proprietatibus di Ibn al Jazzar o il De physicis ligaturis di Qusta ibn Luga – che legava la magia alla medicina -, nove trattati medici di Galeno – disponibili per la prima volta in latino -, o importanti opere arabe di medicina come il Canone di Avicenna, il Breviarium di Serapione o la Chirurgia di Albucasis. In collaborazione con Giovanni di Siviglia, Gerardo tradusse un compendio astronomico di alFarghani, che Alfonso terrà in gran considerazione.
21 Traduttore, verso il 1136, delle tavole planetarie di al-Battani, anche se se ne conoscono soltanto i canoni. 
22 Fu il primo commentatore delle Meteorologiche di Aristotele e, considerando che il testo era incompleto, vi aggiunse tre capitoli suoi originali che si pubblicano sempre insieme al testo aristotelico. . 
23 Adelardo tradusse le tavole di al-Khwartzmi, in cui si basa tutta la tradizione planetaria occidentale, ed è autore originale del De avibus tractatus, un vero trattato sulla falconeria che tanto piaceva a Federico. 
24 Su Michael Scotus cfr. Haskins, Manselli, Burnett o Gil. 
25 Famoso astronomo ispanoarabo, noto alla corte cristiana come Alpetragius, la cui opera De Sphaera contribuì alla diffusione del sistema cosmografico aristotelico di fronte al tolemaico (citato da Dante nel Conv., III, 2,5). 
26 La sua fama di astrologo e indovino si estese per tutto il Medioevo giacchè i tre libri del Liber introductorius – non stampato fmo al 1477 a Venezia – sono una specie di enciclopedia del pensiero astrologico dell’epoca federiciana, con importanti contributi anche nel campo dell’alchimia e della magia (Dante include lo Scoto nell’Inferno; XX, vv. 115-117). 
27 Considerato come il primo grande matematico dell’Occidente latino è autore del Liber quadratorum e del Liber abaci, la cui edizione del 1228 è dedicata proprio allo Scoto. Il Fibonacci sembra aver introdotto in Occidente lo zero e la numerazione arabica. 
28 Il suo famoso libro sulla caccia fu tradotto come De scientia venandi dal maestro Teodoro di Antiochia, un cristiano giacobita che successe a Scoto presso l’imperatore. Il testo latino corretto, a quanto sembra, dallo stesso Federico fu saccheggiato dal monarca con altre opere dello stesso argomento del suo De arte venandi cum avibus. 
29 G. Anatoli si trovava a Napoli intorno al 1230 e tradusse in ebraico il compendio astronomico di al-Farghani e l’Almagestum tolemaico (cfr. Colafemmina). Sugli Ebrei e l’Italia, cfr. Sinat, Milano e Sterno 
30 Dominicus o Santo Domingo de Gusman (1170-1221), fondatore dell'”orden de predicadores’ quando l’ordine di San Francesco era ancora in gestazione, rappresenta la lotta “pacifica» contro l’eresia di fronte alla “moda» delle crociate.
32 Questa cronologia viene fissata da José S. Gil., p. 17. 
33 Anche se antico è interessante il saggio di J. Pérez de Guzmàn. Cfr. anche Millàa. 
34 Sugli ebrei presso la corte alfonsina si possono consultare Castro, Romano, Leon Tello e Gil. Nell’ambito italiano si può tener presente lo Stern e Milano. 
35 Si tratta di Raimundo de Salvetat, originario della Guascogna, vescovo di Osma nel 1109 e arcivescovo di Toledo dal 1126 al 1152 (cfr. Gil pp. 19-52). 
36 In un latino letterario il Gundisalvo o Gundissalinus tradusse diverse parti dell’enciclopedia filosofica di Avicenna e «corresse» la traduzione di un’opera scientifica di al-Farabi fatta poco prima da Gerardo da Cremona. La sua versione de Il libro degli allumi e dei sali fornisce il materiale per i posteriori lavori d’alchimia o magia scientifica (cfr. Gil, pp. 3843, e anche Garcia Fayos). 
37 Questo Iohannes Avendehut è uno dei più importanti intellettuali del momento e traduttore in latino, tra il 1130 e 1180, di libri su astrologia, astronomia, filosofia, medicina e matematica (cfr. Gil pp. 30-38 e anche Rivera Recio). 
38 Alfonso X dovette affrontare. tra l’altro, l’avanzata della «Reconquista» per l’Andalusia fino a Cadice. la pacificazione di Murcia – aiutato dal suocero Giacomo I d’Aragona noto come «el Conquistador» -. la questione del Portogallo e anche un altro fatto che ancora una volta lo avvicina a Federico II: il pretendere nel 1257 la corona del Sacro Romano Impero, come nipote per parte materna dell’ultimo imperatore germanico prima del Grande Interregno (1250-1273). Proprio per questo motivo venne a Toledo nel 1260 Brunetto Latini. come ambasciatore dei guelfi fiorentini. 
39 Verso il 1231 sembra sia stato tradotto in latino il trattato astronomico di al-Zarqalluh da Guglielmo l’Inglese e da Yehudah ben Moshé che ebbe rapporti epistolari con filosofi della corte federiciana (cfr. Millas). 
40 Si sa che Hermannus Teutonicus lavorò a Toledo e, tra il 1240 e il 1256, partì per Napoli al servizio di Manfredi fino al 1266, quando ritornò al regno di Castiglia dove fu vescovo di Astorga fino al 1272 (cfr. Gil. pp. 52-56).

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pagg. 9-27.

 




Dopo la notte 

di Araujo

Albeggia. È intenso il luccichìo del sole. 

Respirare, vedere 

e nel rimescolìo dei sentimenti 

si risvegliano i dubbi tumultuosi. 

È forse questa l’ora cui si addice 

rimescolare il fondo delle notti 

bianche? 

La nostalgia, se intensa, è dolorosa 

sànguina ed ora 

che la mia età s’è fatta più matura, 

la sensibilità e i desideri 

dell’impossibile 

mi lasciano affogare con un nodo 

di lacrime. 

Forse mi sono immersa in acque fonde 

sin dalle prime luci? 

Rita de Cássia Fernandes Araújo* 

(vers. it. di Renzo Mazzone) 

da Por detrá das gavetas (2008) 

* Rita de Cássia Fernandes Araújo, poetessa brasiliana del Ceará del secondo Novecento, è autrice delle raccolte liriche: Cores (1984), Essêcia (1987), Sementes (1990), Unguentos (1991), Cartas ao Anjo da Guarda (1997), Mulher e terra (2000), Manga Madura (2004), Por detrá das gavetas (2008). 

da “Spiragli”, 2010, n. 1 – Antologia 




Pervigilium Veneris

Scritto presumibilmente tra il II e il III sec. d. C. da un Anonimo siciliano, pubblichiamo il «Pervigilium Veneris» nella versione di Mauro Pisini, gentilmente concessaci. Il poemetto in versi tetrametri trocaici è uno splendido esempio di poesia novella in cui, pur confluendo diversi apporti (Lucrezio, Virgilio, Catullo), l’autore dimostra di possedere una non comune personalità poetica e una nobiltà di sentire difficili da riscontrare in altri poeti di quel periodo. C’è nel poemetto un forte senso della vita e della natura, e il bisogno di partecipare e non essere esclusi da Amore che tutto prende e a cui nessuno può restare indifferente. E questo bisogno è bellamente reso dalla capacità che l’Anonimo poeta ha di creare le immagini e di metterle in risalto attraverso gli abili giochi verbali e lo stesso ritornello che imprimono musicalità e leggerezza a tutto il componimento. 

LA VEGLIA DI VENERE 

È l’inizio di primavera, è già primavera di canto: a primavera è nato il mondo, a primavera concordano gli amori, a primavera si accoppiano gli uccelli e il bosco scioglie la sua chioma grazie alle piogge che lo fecondano. Domani, colei che tesse gli amori intreccerà, tra le ombre degli alberi, verdi capanne con ramoscelli di mirto; domani, Dione, assisa in trono, pronuncerà le sue leggi. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
In quel tempo, il mare, con il sangue caduto dal cielo, creò da un pugno di spuma, tra le schiere azzurre degli dei e dei cavalli a due zampe, Dione nata dalle acque marine. 
Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È lei che veste la stagione più luminosa di gemme scintillanti e preme perché diventino nodi turgidi, i bocci aperti al soffio del Favonio, è lei che sparge acque vive di lucida rugiada, lasciate cadere dall’aria della notte. Quelle lacrime brillano e tremano per il peso che le spinge a terra: ogni goccia, con la sua perla, tende in basso, ma trattiene la caduta. Ecco, la porpora dei fiori ha svelato il suo pudore: quell’umore che le stelle disperdono nelle notti serene, all’ alba, ha scoperto i seni virginei da sotto il peplo, umido di brina. È lei che ha ordinato alle rose, ancora vergini, di andare, al mattino, incontro al loro sposo, lei creata dal sangue di Cipride e dai baci di Amore, dalle gemme, dalle fiamme, dalle porpore del sole, non si vergognerà, domani, di sciogliere il suo rossore, nascosto sotto la veste di fuoco, sposa in virtù di un’unica promessa. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea, in persona, ha comandato alle Ninfe di andare nel bosco di mirto, il fanciullo accompagna le vergini, tuttavia, non si può credere che Amore resti in ozio, se avrà portato con sé le frecce. Comunque, andate, o Ninfe, Amore ha deposto le armi, ora, non può colpire. Ha l’ordine di andare inerme, ha l’ordine di andare nudo, per non recare danno né con l’arco né con le frecce e neppure con il fuoco. Però attente, o Ninfe, perché Cupido è bello: Amore è tutto in armi, proprio quando è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

«Venere, con uguale rispetto, manda a te noi vergini. Di una sola cosa ti preghiamo: concedi, o vergine Delia, che il bosco sacro non sia macchiato dal sangue delle fiere uccise. Lei stessa vorrebbe chiederti questo, se potesse piegare il tuo pudore, e vorrebbe che tu venissi, se ciò fosse permesso a una vergine. Allora, per tre notti di festa, vedresti danzare nelle tue valli, tra corone di fiori e capanne di mirti, i loro cori uniti ai capi di un unico gregge. Non mancherà né Cerere né Bacco né il dio dei poeti. La notte non deve essere sprecata, ma vissuta come una lunga veglia di canti: nel bosco regni Dione, tu, Delia, ritìrati.» 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

La dea ha dato ordine di innalzare un palco con i fiori di Ibla: da lì, detterà le sue leggi, intorno siederanno le Grazie. Tu, Ibla, mostra tutti i fiori e ciò che la primavera ha donato, tu, Ibla, indossa il tuo abito di gemme, tanto grande, quanto la pianura dell’Etna. Saranno qui le vergini dei campi, le vergini dei monti e quelle che abitano i boschi, le sacre radure, le sorgenti. A tutte la madre del fanciullo alato ha ordinato di prendere il proprio posto e diffidare di Amore, ora che è nudo. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 
«… Conceda le ombre più verdi ai fiori appena nati … » 

Domani, sarà il giorno in cui Etere celebrò per primo le sue nozze e, affinché Giove potesse creare i raccolti con le piogge di primavera, l’acqua della vita penetrò il seno della nobile sposa, perché, unita al suo corpo potente, nutrisse ogni seme. Così, con il respiro che tutto penetra e con la forza che nasconde in sé, ella governa, poiché è madre, il sangue e il cuore delle cose tanto da infondere la sua potenza in ogni luogo, attraverso i canali per cui passano i semi. Questo ordinò, perché il mondo conoscesse la via della vita. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

È Venere che ha portato i discendenti dei Troiani tra i Latini, è Venere che ha dato in sposa al figlio la vergine di Laurento e, ora, dà a Marte la vergine pudica sottratta all’ ara. È Venere che ha propiziato le nozze tra Romulei e Sabini, da cui generò Ramni e Quiriti e, per la prole dei posteri di Romolo, Cesare, padre e nipote. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Il piacere feconda la campagna, la campagna sente Venere: Amore stesso, figlio di Dione, si dice sia nato in campagna. Mentre la terra lo dava alla luce, lei lo strinse al seno e lo fece crescere tra i baci delicati dei fiori. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Ecco, sotto le ginestre, i tori già adagiano il fianco, tutti sono protetti dai loro patti d’amore. Ecco capri e pecore insieme, ecco gli uccelli canori, cui la dea ha imposto di non tacere. Anche i cigni loquaci mormorano negli stagni, con canto rauco, cui fa eco, all’ombra di un pioppo, la fanciulla di Tereo, tanto che i sentimenti d’amore sembrano essere cantati da un suono dolce, melodioso e diresti che perfino sua sorella non si debba lamentare del marito barbaro. Quella canta, noi restiamo in silenzio. Quando verrà la mia primavera? Quando farò come la rondine e potrò smettere di tacere? A causa del silenzio ho perso la mia Musa e Febo non mi guarda più. Così, anche Amicla, poiché taceva, fu uccisa dal silenzio. 

Domani ami chi non ha mai amato, 
e chi ha amato, domani, continui ad amare. 

Mauro Pisini

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 27-29.




Pace e pacifismo nell’età augustea 

La storia dell’ antica Roma, già a partire dalle sue origini, fu una storia di avvenimenti bellici. 

La guerra costituì la cifra identificativa della società romana, lo status belli, pressocchè permanente, costringeva continuamente ogni cittadino valido ad indossare le armi per la conservazione di Roma. Il legame indissolubile tra il civis romanus e lo Stato faceva quindi del campo di battaglia il momento per eccellenza in cui dimostrare la propria virtus. La storia degli antichi romani fu intessuta di episodi di coraggio militare e di devozione verso la patria: Orazio Codite, Muzio Scevola, Attilio Regolo solo per citarne alcuni, tutti attestanti il fatto che per l’antico romano fosse “dulce et decorum pro patria mori1”. Le prime guerre combattute dai romani furono di difesa, esse furono causate dalla pressione esterna e dal desiderio dei romani di conservare la propria identità, poi si aggiunsero le mire espansionistiche ed imperialiste: dalla data della mitica fondazione (753 a. C.) alla fine del II secolo a. C. Roma, di guerra in guerra, di vittoria in vittoria, diventò la “caput mundi”. Ma già nell’ultimo scorcio del II secolo a.C. la situazione si modificò: a contatto con le mollezze dell ‘Oriente e con il “Bello” dei greci, i romani cominciarono ad amare il benessere, il lusso ed a sentire la guerra come qualcosa di estraneo. Ad acuire questa situazione fu, nel corso del I secolo a.C. l’aggiungersi di guerre civili a quelle esterne, le guerre fratricide spinsero infatti la maggior parte dei romani a deprecare la guerra e ad anelare la pace. Nell’ incipit del De rerum natura Lucrezio chiede a Venere di fungere da intermediaria fra il mondo umano ed il dio della guerra, Marte, perchè soltanto la “genetrix Aeneadum” avrebbe potuto procurare ai romani una pace serena. Ma fu soprattutto nell’ultimo scorcio di repubblica che gli intellettuali, interpretando il comune malcontento, sottolinearono il loro distacco dallo Stato e vagheggiarono paradisi di pace. Virgilio, nell’ ecloga I, trasferisce nel microcosmo bucolico il dramma delle guerre civili, l’impius miles e il barbarus entrano in possesso delle altrui terre ben coltivate: “ecco fino a qual punto la discordia civile ha spinto i miseri cittadini2” . Analogamente Orazio, nell’ epodo VII, definisce i cittadini “sce1esti”, perchè ancora una volta corrono ad indossare le armi e sposano la causa della guerra fratricida. Dall’impossibilità di realizzare una serena pax nell’Urbs, emerge un diffuso desiderio di fuga, di necessità di rinnovamento e di una palingenesi. Nell’epodo delle “isole fortunate”, Orazio invita la pars melior dei cittadini ad una fuga dal reale, ad una sorta di esilio volontario collettivo nelle isole dei beati. Il messaggio di Orazio è cupamente pessimista (altera iam teritur bellis civili bus aetas3), il repubblicano deluso non vede alcuno spiraglio di speranza attorno a sé e fa una proposta disperata: fuggire via dalla patria per raggiungere le terre incontaminate dove è perenne l’età dell’oro. Più ottimista è Virgilio nella quarta egloga in cui si profetizza la nascita di un puer messianico che avrebbe riportato in Italia la pace e l’età dell’oro. Questo utopico ritorno dell’età dell’oro, (iam redeunt Saturnia regna), motivo topico nella letteratura di quei tempi, e la profetica annunciazione della venuta di 

1 – Orazio, Carmina, libro III, 2, v. 13. 

2 – Virgilio, Ecloga I, vv. 71-72. 

3 – Orazio, Epodo XVI, v. 1

un nuovo “magnus ordo saeclorum4” riflette la speranza di pace (poi disattesa) riposta nell’ accordo di Brindisi e la fiducia nella possibilità di riscatto da una situazione di corruzione e di guerra. 

Tale fiducia si trasformò in un dato di fatto dopo la vittoria aziaca. Il princeps Ottaviano Augusto si propose ai cittadini come il restauratore di antichi valori etico-religiosi e come colui che aveva saputo mettere fine al “furor” delle guerre civili ed aveva realizzato la “pax parta victoriis”. Lo stesso Augusto nelle Res gestae, si vantò di avere chiuso per ben tre volte il tempio di Giano Quirino che “prima che io nascessi dalla fondazione di Roma, rimase chiuso due volte in tutto5”. La pax augustea divenne uno slogan politico di cui si fecero interpreti in maniera particolare, gli intellettuali del circolo mecenaziano. Augusto, infatti, ben consapevole dell’importanza delle lettere al fine di orientare la mentalità e di creare intorno a sé consenso, cercò in ogni modo di garantire una produzione letteraria in sintonia con l’ideologia dominante. C’è da dire che questo non gli costò grandi sforzi, visto che il suo programma di restaurazione morale e di generale pacificazione era molto gradito ai romani, desiderosi solo di uscire dall’epoca delle guerre civili. Quella di Virgilio o di Orazio non fu però piaggeria, ma reale e sentita condivisione di un programma. Nell’ Eneide virgiliana la pax augustea è intesa come punto di arrivo di un doloroso6, ma necessario, periodo di guerra, termine fatale voluto dal destino, secondo la solenne formulazione di Anchise nel libro VI dell’ Eneide:”regere imperio populos….. pacique imponere morem7″. Nel libro I dell’ Eneide è Giove in persona a profetizzare la missione di Roma e la venuta di uno “Iulius” grazie al quale cesseranno le guerre:”posate allor le guerre, il fiero tempo s’addolcirà: la Fè candida e Vesta, Quirino col fratel Remo daranno leggi, saran con ferrei serrami chiuse le dure porte della Guerra; dentro il Furor bieco, assiso sopra l’armi crudeli e avvinto a tergo da cento bronzei ceppi, orribilmente fremerà con la bocca sanguinosa8″. Efficace ed icastica è questa immagine del Furor, personificazione della guerra, incatenato e rabbioso su cui vince la Pax voluta dal princeps Augusto. Nella rassegna degli eroi del libro VI, Virgilio paragona Augusto a Saturno, la lunga pace e la grande prosperità del principato augusteo appaiono agli occhi del poeta la realizzazione di quell’età dell’oro di cui si vagheggiava il ritorno nell’ecloga IV. Augusto è quindi il rifondatore dell’aurea aetas, in questa immagine leggendaria si cela tutta l’ammirazione di Virgilio per il principe: “Questo è l’uomo che ti senti promettere, l’Augusto Cesare, figlio del Divo, che fonderà di nuovo il secol d’oro nel Lazio per i campi regnati un tempo da Saturno9” . La celebrazione dell’ impero augusteo 

ricorre ancora nella chiusa del libro VIII. La descrizione dello scudo di Enea del libro suddetto diventa una lezione di storia romana e completa l’esaltazione dell’impero di Augusto che proprio negli episodi e nei personaggi esemplari dell’antichità cerca le sue radici. Al centro del mitico scudo c’è la rappresentazione della battaglia di Azio, l’evento che segna l’ascesa definitiva del grande Augusto, chiudendo il capitolo sanguinoso della storia di Roma e dando inizio ad un lungo periodo di pace. 

4 – Virgilio, Ecloga IV, v. 5. 

5 – Res gestae Augusti, 13. 

6 – Cfr. L. Canali, L’essenza dei romani, Virgilio. 

7 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 851-852. 

8 – Virgilio, Eneide, libro I, vv. 291-296. 

9 – Virgilio, Eneide, libro VI, vv. 791-794. 

Anche nella produzione letteraria “impegnata” di Orazio, ricorrono i motivi 

dell ‘esaltazione della pax e dei miti dell’età augustea. 

La rivendicazione, in più circostanze, della , da parte del poeta venosino, non lascia dubbi che le sue espressioni di stima per il princeps che ricorrono nelle odi ci vili e nel Carmen speculare nascano da una sincera ammirazione per l’ uomo, a cui va ascritto a merito il ristabilimento della pace e lo sforzo di rendere migliore la società romana. Esemplificativa, a tal proposito, è l’ode XV del libro, IV testo in cui sono presenti tutti i temi che furono al centro dell ‘ ideologia del principato: la maestà dell’ impero, il ritorno alle virtù degli antichi, la rifondazione morale, la pace interna ed esterna: “tua, Caesar, aetas …. vacuum duellis Ianum Quirini clausit10”. Il poeta ormai è libero dall ‘angoscia e dalle apprensioni per la res publica e come l’ara pacis augustae che si stava proprio allora erigendo, anche questo carme è un “monumento” riconoscente alla pace. Anche se in alcuni passi Orazio cede alle convenzioni ed alle “menzogne11” del regime, non si può negare che il poeta esprima sentitamente la certezza che la pace instaurata da Augusto sarà garanzia di potenza e gloria imperitura per Roma. Il tema ricorre ancora nel Carmen speculare che, più che come inno religioso, va letto in chiave politica, come adesione totale al programma politico di Augusto ed alla pax da lui ristabilita. L’auspicio virgiliano del ritorno dell ‘età dell ‘oro per Orazio si è adesso concretizzato, l’età augustea ha portato “Fede e Pace e Onore, il Pudor prisco e la Virtù negletta12”. Augusto viene dipinto come colui che ha ristabilito la pace interna e che difende Roma dai nemici esterni: “già per mare e per terra teme il Medo la sua man e le latine scuri; già Sciti ed Indi pur testé ribelli, chiedono leggi”. Agli occhi del poeta venosino, indubbiamente, l’effetto più positivo che l’avvento del princeps aveva recato a Roma, dopo tanti anni di guerre civili, era la pace. Essa era per Orazio il presupposto necessario perché il mondo fatto di sereni campi e cristallini ruscelli potesse sussistere. Il tema dell’ aspirazione alla pax, pur se con toni e finalità diverse, ritorna anche nella produzione elegiaca di età augustea. L’elegiaco Tibullo, poco favorevole ad Augusto, esprime una sentita deprecazione delle guerre e degli impegni militari, la guerra gli appare come una sventura terribile e senza rimedio: “quis fuit horrendos primus qui protulit enses?13”. Il poeta vagheggia nei suoi versi una vita modesta e serena (me mea paupertas vita traducat inerti), vita di cui la violenza della guerra è la negazione. Quello espresso da Tibullo è un pacifismo agreste, egli celebra la Candida Pax dei campi, l’unica a consentire la serenità della vita e la realizzazione del sogno d’amore. Pur non essendo allineato alla politica augustea, Tibullo esprime opportunamente le istanze di pace e di serenità proprie di quel periodo, alle quali va aggiunto un influsso ineludibile della tradizione epicurea. La stessa vocazione alla pace ricorre nei versi dell’elegiaco Properzio, interamente occupato nella propria vita sentimentale, che lo porta al ripudio di ogni impegno militare. In entrambi gli elegiaci si riscontra l’attacco nei confronti della guerra considerata come mezzo per arricchirsi: “divitis hoc vitium est auri14”, afferma Tibullo, e analogamente per Properzio è l’invisum aurum la molla che spinge i milites ad 

10 – Orazio, Carmina, libro IV, 15, vv. 8-9. 

11 – Cfr. Mocchino in Odi ed Epodi, Milano, 1942. 

12 – Orazio, Carmen saeculare, vv. 53-56. 

13 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 1. 

14 – Tibullo, Elegie, libro I, 10, v. 7.

imbracciare le armi. Properzio spoglia delle motivazioni ideali la spinta alla guerra, svelandone la vera matrice: l’avaritia. Egli si sente invece vocato all’amore, alla pace, il suo ideale di vita lo porta a deprecare qualsiasi forma di bellicismo: “pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes: stant mihi cum domina proelia dura mea15”. Pur facendo parte dell’ entourage augusteo il poeta non canta i valori che la propaganda ufficiale voleva vedere esaltati, perchè gli manca una coscienza civile. Ma, come in tutti gli altri intellettuali di quell’ epoca, ricorre anche nella sua produzione letteraria il motivo della pax. 

Un motivo topico che, con caratteristiche e toni di versi, costituì senz’ altro la palese espressione di una pressante e comunemente diffusa istanza. 

Anna Maria Angileri 

15 – Properzio, Elegie, libro III, 5, vv. 1-2.




 Oggetti irreparabili, oggetti irrecuperabili

Sono note a tutti le elaborazioni psicoanalitiche che a partire da Lutto e melanconia di Sigmund Freud (1915) hanno consentito di penetrare sempre più in profondità i meccanismi inconsci che sottendono l’emergere di sindromi depressive. 

Ricordiamo i notevoli bisogni di dipendenza e l’accentuata ambivalenza collegati a tratti fondamentali della personalità: la scarsa tolleranza nei confronti fondamentali della personalità: la scarsa tolleranza nei confronti delle frustrazioni; il riattivarsi, a causa della regressione, di posizioni psicoaffettive analoghe a quelle primariamente sperimentate dal lattante nel secondo semestre di vita: la disposizione basica reversiva all’interno delle pulsioni di morte; l’insorgenza di profondi sentimenti di colpa; l’intervento di fattori psicodinamici collegabili alla necessità di autopunizione, espiazione, purificazione, propiziazione. 

A proposito dell’approccio integrato in psichiatria, va sottolineato che a causa di una perdita reale o immaginaria, parziale o totale. di oggetti significativi esterni o intemalizzati. o ancora a perdita di parti appartenenti al Sé corporeo o al Sé psichico, il depresso è una persona che si dimostra particolarmente incapace di ritrovare oggetti sui quali riversare le cariche libidiche di cui ancora dispone. Con altre parole possiamo affermare che il depresso vive una particolare incapacità a gioire di ciò che è ancora vivo e recuperabile piuttosto che il continuare a disperarsi per ciò che è morto o irrecuperabile. 

È suddetta incapacità, spesso ripetitiva e a volte esasperata, stigmatizzabile con la metafora mors mea-mors tua, a costringere il depresso a relazionarsi con le persone che gli stanno a fianco così come un naufrago che non sapendo nuotare si aggrappa all’eventuale soccorritore in modo tale da fargli però rischiare di trascinarlo con sé in fondo al mare, realizzando una condizione che è sintetizzabile con la metafora mors tua-mors mea. 

Gli accentuati sentimenti di impotenza e di impraticabilità terapeutica, pertanto la frustrazione che spesso deve tollerare il curante, qualora sia disposto ad entrare in una relazione sufficientemente profonda con il depresso, sono relativi all’intervento delle dinamiche sopra accennate. 

Di conseguenza possiamo affennare che l’interumano su cui si fonda e si sviluppa il processo psicoterapeutico viene continuamente svalorizzato dal bisogno del depresso che l’altro sia talmente idealizzabile ed onnipotente da assumere le dimensioni sovrumane dell’angelo salvatore, piuttosto che quelle più realistiche del buon salvagente. 

Probabilmente tutto ciò costringe il terapeuta ad aggrapparsi a sua volta ai propri potentati: i modelli teorici di riferimento, le scuole formative di appartenenza, la fannaterapeutica sempre più avanzata ed altodosata. 

Come sostiene Franco Fomari, «azioni terapeutiche di natura psichica partecipano ad ogni rapporto terapeutico, anche quando si tratti di una terapia puramente medicamentosa•. Ma è chiaro che una scelta terapeutica esclusivamente medicamentosa, quale può essere praticata da curanti eccessivamente biologisti, rischia di trattare una parte come se costituisse il tutto e di affrontare il sintomo come se si trattasse di una causa, perdendo di vista l’interezza e la complessità del processo psicopatologico. 

Ma v’è ancor più. Dal momento in cui attribuiamo alla sostanza medicamentosa 

la capacità principale di alleviare o sanare il dolore e il sentimento di vuoto o di svuotamento conseguenti alla perdita, trascuriamo il fatto fondamentale che è l’elemento interumano, che è determinante nel processo psicopatologico, a costituirsi quale fattore basico nel processo terapeutico, quale relazione significativa medico-paziente, anche allorquando la relazione avviene nella forma più semplificata e meno coinvolta quale il limitarsi a prescrivere un farmaco, per il fatto che suddetto gesto assume il valore forte di offerta partecipe all’altro il cui bisogno di aiuto è stato compreso. 

Scrive Nietzsche in Geneologia della morale: “Soltanto quello che non cessa di dolorare resta nella memoria.; ne deriva che il dolore costituisce il più potente coadiuvante della memoria. 

Sin dall’antichità si è fatto ricorso all’uso di sostanze allo scopo di attenuare il dolore e favorire l’oblio. 

Stupendi i versi di Omero nel descrivere il comportamento di Elena, preoccupata con l’arrivo di Telemaco a Sparta del riverberare doloroso in Menelao delle vicende personali che avevano dato avvio alla guerra di Troia. 

“Allora pensò un’altra cosa Elena, nata da Zeus: 

nel vino di cui essi bevevano gettò rapida un farmaco. 

che fuga il dolore e !’ira. il ricordo di tutti i malanni. 

Chi !’ingoiava una volta mischiato dentro il cratere. 

non avrebbe versato lacrime dalle guance, quel giorno, 

neanche se gli fosse morta la madre o il padre, 

neanche se gli avessero ucciso davanti, col bronzo, 

i! fratello o suo figlio e lui avesse visto cogli occhi. 

Tali rimedi e1Ticaci possedeva la figlia di Zeus”. 

Ma il dolore quale situazione limite, da cui pertanto nessuno è escluso, quale significato assume nell’esperienzialità umana? 

Albert Camus nel suo scritto Il mito di Sisifo sostiene: -Le cause di un suicidio sono molte e, in linea generale, le più appariscenti non sono state le più efficaci . Raramente – ma tuttavia l’ipotesi non è esclusa – ci si uccide per riflessione. Ciò che scatena la crisi è quasi sempre incontrollabile. I giornali parlano spesso di ‘dispiaceri intimi’ o di ‘malattia incurabile’. Queste spiegazioni possono essere accettate, ma bisognerebbe sapere se, quello stesso giorno, un amico di quel disperato non gli abbia parlato in tono indifferente. In tal caso quegli è il colpevole poiché il suo atteggiamento può bastare a far precipitare tutti i rancori e la stanchezza ancora in sospensione». 

Nel romanzo I Dolori del giovane Werther Goethe ci fa sentire la tragica condizione del protagonista allorché nel momento di massima disperazione sembra dominato dal prorompere delle pulsioni distruttive. come appare dall’ultima lettera destinata all’amata: -Sì, Lotte, perché dovrei tacere? Uno di noi tre deve scomparire, e voglio essere io quello. Carissima! In questo cuore dilaniato s’è insinuato il furibondo pensiero… spesso… di uccidere tuo marito! …te! …me! …E così sia!» 

Hermann Hesse in Farfalle racconta di un adolescente, amante e collezionista di farfalle, il quale avendo rovinato inavvertitamente una preziosa farfalla, 

furtivamente sottratta ad un compagno di scuola, si rende conto per la prima volta nella sua vita delle potenzialità distruttiva dell’ uomo: «Scorsi sulla tavoletta la farfalla rovinata… l’ala spezzata era stata stesa con cura e posta su un’umida carta assorbente ma era irrecuperabile; e poi mancava anche l’antenna… Fu li che capii per la prima volta che non si può mettere a posto ciò che è stato rovinato. Me ne andai e fui contento che mia madre non mi chiedesse nulla, ma solo mi diede un bacio e mi lasciò incace. Prima però andai di nascosto in camera da pranzo a prendere la grande scatola marrone. La posi sul letto e l’aprii al buio. Ne estrassi le farfalle una dopo l’altra e con le dita le schiacciai e le ridussi in polvere e brandelli». 

In Pianto di Sirena Jun’lchiro Tanizachi racconta la fiaba di una sirena che essendo stata catturata da un navigante è disperata perché, sottratta alle natie profondità marine mediterranee e privata della libertà, è costretta ad esporre le proprie nudità sui mercati dei paesi dell’Asia. «La notte… le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi splendevano come perle rischiarando il buio profondo della stanza e quasi fossero fosforescenti lucciole…». Aprendo il suo segreto al signore che l’aveva acquistata e se ne era innamorato, la sirena confessa: «Non posso fare altro che soffrire e mi torturo nell’affanno impazzita dalla passione dei sensi e dalla lussuria. Nobile signore, ti scongiuro, di rimandarmi nella mia dimora nell’oceano e di sottrarmi ad una vita di dolore e di vergogna. Se potessi andare a rifugiarmi in fondo al mare, sotto le fredde onde azzurre, forse potrei dimenticare la tristezza e l’amarezza di questa mia sorte». 

Ri1ke in Danze Macabre così fa esprimere un uomo che nel perdere la propria integrità fisica sente avvicinarsi la morte: «Sono così solo e così stanco. Il mio dolore è strano. Sono spossato, le mie membra sono a pezzi; ma ci sono momenti in cui scatta di nuovo questa scintilla che chiamiamo vita. E diventa fiamma. Improvvisamente divampa con ardore e sento forza, salute, fiducia … stupidaggini. Il medico… ma non voglio parlare di medici. Ma a volte è molto brutto. Le difficoltà di respiro sai, le… A volte sono in grado di sentire come l’aria preme. È terribilmente pesante ti confesso. E questa tosse. Esce fuori cosi lentamente dal petto e poi improvvisamente accelera e mi prende alla gola». 

Ma cos’è il dolore? Cosa rappresenta nell’ambito della poliedrica gamma di sentimenti che pervadono l’essere umano? Come sostiene Karl Jaspers, «il dolore è una limitazione dell’esserci, è parziale annientamento; dietro ogni dolore c’è la morte». 

C’è la morte perché il dolore è uno stato di estremo malessere, perché qualcosa è andato perduto, perché ci sentiamo privi di qualcosa che era sentito come un bene, perché esperiamo in tutta la sua profondità la “mancanza” e con essa lo svanire della fiducia, del coraggio, della forza, della speranza. 

Potremmo chiederci come mai non organizziamo quasi mai convegni su tematiche quali la felicità, la gioia, la serenità. Solamente perché in quanto psicopatologi, e dunque per deformazione professionale, cerchiamo di investigare solo ciò che è alterato, ciò che è morboso? Fors’anche! 

Ma il motivo principale è che la felicità la conosciamo veramente solo quando l’abbiamo perduta. 

La felicità, così fragile, delicata e impalpabile come ali di farfalla, la riconosciamo solo dopo; quando viene meno; nel momento del dolore. 

Porgiamo ancora attenzione a quanto afferma Jaspers: «Se ci fosse solo la felicità dell’esserci, l’esistenza possibile resterebbe assopita. Stupisce che la felicità pura e semplice sembri vuota e senza e1Iicacia. Come il dolore annulla esserci di fatto, cosi la felicità sembra minacciare l’essere autentico. Nello stato di felicità c’è una specie di autonegazione determinata da un sapere che non permette alla felicità di sussistere. La felicità deve essere messa in questione per ricostituirsi come autentica felicità; la sua verità si fonda sul naufragio… 

Non si tratta di essere degli apologeti del dolore ma è a partire dal dolore che prendiamo contatto con le parti più profonde, più vere di noi, che ci rendiamo conto della vitale importanza di quel che abbiamo perso, che riconosciamo il vero valore delle cose, ossia prendiamo coscienza di ciò che per noi ha veramente valore. 

Come sembra implicito in tutto il pensiero di Georges Lapassade non è l’analisi a determinare la crisi, ma è la crisi a promuovere l’analisi. 

Ma v’è di più; il dolore attuale non solo si cortocircuita all’interno con i dolori che precedentemente abbiamo vissuto nella nostra vita, ma anche con un dolore che possiamo definire filogenetico, quello che appartiene al passato storico della specie umana. 

In ciascuno di noi è dunque inscritta la sequenza interminabile di oggetti che sono scomparsi a noi. che si sono autodistrutti o che non sono sopravissuti, ma pure quelli che la bestia interna, il felino carnivoro, l’egocentrico cannibale ha divorato, distrutto, sacrificato. 

Nel romanzo Il mare verticale Giorgio Saviane propone un affascinante viaggio nel tempo da parte di un protagonista interprete che in una sorta di sogno o di visione esce dalla propria individualità, per mescolarsi lungo un corridoio storico con altri esseri umani ora di sesso maschile ora di sesso femminile, acquistandone di volta in volta l’identità. 

L’iter mentale del protagonista comincia in questo modo: «Mi trovai in un corridoio largo; anche laggiù in fondo dove sembrava stretto e allineati vi erano tutti. Mi sembravano pochi per esser tutti, erano moltissimi invece, perché gli specchi di cui era fatto il corridoio senza fine li rifrangeva diversi seppure reali. Se mi spostavo mutava l’angolo visuale e tutti d’aspetto; a loro volta gli specchi moltiplicavano gli angoli, per cui ad un mio spostamento di un millimetro corrispondevano miliardi di variazioni, e i millimetri di quel corridoio erano infiniti. Scegliere importava una responsabilità, un’azione: non allungare il braccio muovere la testa pronunciare parole rovesciare un governo uccidere amare: l’azione interiore, il fatto per cui siamo scaturivano da quel corridoio molato. Né la scelta era in nostro potere. Eppure vi era un punto più qua del corridoio, un punto che si identificava con l’identificazione, dove !’investitura trovava origine. Un blocco determinante le cui tangenti si perdevano nello spazio, voraci. L’aggettivo è però gratuito, uno sbaglio: quelle tangenti si alzavano per linee assolute» 

Un gruppo giovanile di Marsala di recente è stato profondamente scosso dal suicidio di un giovane appartenente alla loro associazione. Il ragazzo si era molto attaccato ad una coetanea di cui era innamorato, ma il suo sentimento era tenacemente ostacolato dai genitori. Il giovane, disperato, si è procurato una pistola, ha chiamato per telefono l’amico più intimo avvertendolo del gesto che stava per compiere. L’amico lo ha pregato di dargli il tempo di raggiungerlo, ma inutilmente; ha sentito lo sparo mentre ancora si trovava a telefono. Alcuni mesi prima, il ragazzo suicida, allorché aveva fatto il suo ingresso nel gruppo giovanile, si era presentato scrivendo la seguente frase: «Che tutto non finisca qui!» 

Aldo Carotenuto in Eros e Pathos avverte che «dobbiamo imparare a sopportare la privazione», dato che la mancanza è «un altro tratto strutturale della nostra esistenza. Tutta la nostra vita è una lotta per affermare quel qualcosa che ci sfugge, e per poter lottare dobbiamo imparare a sentire sulle nostre spalle il peso dell’assenza dell’altro». Ancora Carotenuto ci dice che «nel momento in cui siamo testimoni e succubi di una devastazione psicologica, la vita ci offre una chance che non dobbiamo lasciarci sfuggire: noi dobbiamo andare in fondo a questo vissuto, perché è uno di quei momenti che ci fanno capire, ci fanno conoscere chi siamo. È da qui che parte il nostro lavoro di ricostruzione». 

Ma la ricostruzione va intesa non solo quale capacità di uscire dalla solitudine e dalI’isolamento per consentire il rialTacciarsi della presenza dell’altro. Ma anche quale processo trasformativo di parti del Sé. quale cambiamento connesso al processo di individuazione che spesso dalla esperienza dolorosa prende avvio e che a dolore si accompagna. Sia perché acquistare qualcosa di nuovo. mutare. comporta il dover perdere qualcosa di vecchio; sia perché il percorso di individuazione comporta anche una rottura rispetto ai modelli ed ai condizionamenti stereotipi sociali. 

Il percorrere la strada personale della individuazione ci mette contro gli altri non nel senso di una nostra ribellione contro la società, ma al contrario nei termini in cui è la società ad avversare le trasformazioni. i cambiamenti collegati con la ricerca interiore di ciò che per noi è essenziale, di ciò che ci fa sentire persona unica ed irrepetibile. con le realizzazioni conseguenti, compreso ciò che amiamo e ciò che non possiamo più amare, ciò che sentiamo bene e ciò che non possiamo sentire tale, ciò che possiamo perdere e ciò che non ci sentiamo di abbandonare definitivamente. 

Ma il percorso di individuazione si presenta come lungo, difficile, incerto, e spesso non può essere mai portato a tern1ine. Mentre la coazione a ripetere può farci riprecipitare nella colpa, nel tentativo vano del recupero, nella obbligazione alla riparazione. E invece di andare avanti torniamo indietro. Così che le parti in ombra indirizzano oscuramente il nostro cammino e ci muovono inconsciamente verso quel tipo di oggetti che ci hanno soddisfatto e che possono continuare a soddisfare parti nostre inconsce che amiamo meno. Individuarci significa avere la forza di abbandonare. di sciogliere legami che prima erano sentiti essenziali e dai quali dipendevamo; permettere a noi stessi di perdere quello che dell’altro avevamo dentro e ci faceva male. 

Esemplificativo può apparire il seguente sogno. Una persona torna in officina per ritirare la propria autovettura che aveva lasciato per il consueto tagliando. Ma il capomeccanico gli dice che la macchina è rotta e non si può riparare. Il proprietario chiede delle spiegazioni ma il capofficina rifiuta categoricamente di fornirgliene, allora il proprietario della vettura si rivo1ge agli altri meccanici per saper qualcosa di più, ma costoro declinano. rispondono che solo il capofficina può dare spiegazioni. Il malcapitato proprietario dell’auto rimane perplesso; vede che il capofficina si sta allontanando da una porticina laterale. allora viene invitato dagli altri meccanici a seguirlo se vuole delle spiegazioni. Così avviene, la persona segue il capofficina là dove era scomparso, apre la porta e lo vede che si sta togliendo la tuta e sta per indossare degli abiti eleganti da sera, è atteso presso un portone che dà all’esterno da un altro uomo e da due donne tutti elegantemente vestiti, devono recarsi insieme ad una serata. Il proprietario dell’auto ha un moto rabbioso e pigliando per il bavero il capofficina lo sbatte contro il muro gridandogli che deve dirgli perché la macchina non può essere riparata, perché senza queste spiegazioni non può neanche portarla presso un’altra officina. 

Il sogno è interessante perché si presta ad una discussione circa alcuni caposaldi connessi alla pratica della psicoterapia analitica: la possibilità di trovare delle spiegazioni circa gli accadimenti psichici; la possibilità di cambiare qualcosa di se stessi; l’inutilità di intraprendere una psicoterapia quando non si è realmente motivati a questo tipo di processi. 

Ma il sogno è pure interessante per qualcosa che esula il campo analitico ed è connesso alla frequente illusione di potere cambiare le persone con le quali si è più coinvolti nella relazione. Fantasie di questo tipo ricorrono non infrequentemente in persone che intraprendono una psicoterapia, come se la nuova situazione dovesse dotarle della capacità di trasformare l’altro; in questi casi, almeno inizialmente; il materiale portato in seduta verte soprattutto sulle persone più intime piuttosto che su se stessi. 

È solo quando ci rendiamo conto che gli altri in parte sono anche affittuari di immagini nostre, e che possono rappresentare figure impersonanti nostre essenze sotterranee, che possiamo dare una svolta alla nostra vita interiore ed oggettuale, che possiamo scoprire nuovi sentieri significativi. 

La citazione di alcune delle battute finali del lavoro teatrale di Philippe Blasband Una cosa Intima può stimolare ulteriori riflessioni. 

Lui sta per andarsene, forse per sempre, lei gli chiede: «E se volessi fare la cosa un’altra volta, con te sarebbe possibile? Lui risponde: «Perché vorresti farlo?, Lei: «Non so perché sei diverso dagli altri come non ne ho mai incontrati… Ero in un deserto, e tu mi hai mostrato la strada per uscirne… E credo che in un certo modo, strano, bizzarro, credo di amarti…» 

Lui: «Va bene. Ma ciò non basta. Per fare la cosa, bisogna amare farla…» Lui esce di scena, lei rimane da sola e in soliloquio mormora: «Stavo con un ragazzo – o forse era un uomo, non so… Mi piaceva. Volevo fare l’amore con lui, e lui non voleva, non subito, diceva che aveva una cosa in lui, un segreto, e per me era meraviglioso, bello, intrigante. Avevo l’impressione che con lui toccavo qualcosa, più lontano… Toccavo l’assoluto… Non so…». Si fa buio sulla scena. 

Il buio nel lavoro teatrale di Blasband, come a volte il silenzio nel lavoro psicoterapeutico, non ha il significato di fine, di vuoto mortale, ma ha la funzione di sospensione riflessiva, di metabolizzazione psicologica di quanto si sta esperendo. È a partire da questa sospensione temporanea, tale da consentire l’autoimmersione filobatica, che è possibile riproporci alla vita arricchiti di una nuova esperienza. 

La presenza del terapeuta nei casi di depressione patologica può risultare di fondamentale importanza quando teniamo conto che se l’interumano (nelle relazioni oggettuali e nelle relazioni soggettuali) ha determinato il dolorare solo l’interumano può risanarlo. Così allo psicoterapeuta è demandato il difficile compito di riuscire ad aiutare il paziente ad elaborare il significato della perdita e della mancanza in relazione al romanzo personale, e, inoltre, di fargli comprendere la valenza del dolore nei processi di sviluppo psicologico, di cambiamento personale, di individuazione. 

È a partire dall’esperienza di superamento del dolore che è possibile acquistare fiducia nella propria forLa interiore e riaffrontare la vita, e con essa probabilmente nuovo dolore. ma con minore paura di prima. 

Alfredo Anania

* Relazione tenuta nel Convegno Internazionale “Approccio Integrato alle Depressioni ed alle Schizofrenie”. VI Giornate Psichiatriche di Lampedusa. 11-16 Giugno 1995. 

BIBLIOGRAFIA 

P. Blasband, Una cosa Intima, Palermo, 1994. 
A Camus, Il mito di Sisifo, Milano, 1980. 
A Carotenuto, Eros e Pathos. Milano. 1991. 
F. Fomari, Nuovi Orientamenti della psicoanalisi, Milano, 1966. 
S. Freud, Lutto e melanconia, in “Opere”. vol. VIII, Torino, 1976. 
W. Goethe, I dolori del giovane Werther, Milano, 1976. 
H. Hesse, Farfalle, Viterbo, 1991. 
K. Jaspers, Filosofia, Torino, 1978. 
G. Lapassade, L’analisi istituzionale, Milano, 1974. 
F. Nietzsche, Genealogia della morale, Milano, 1984. 
Omero, Odissea, Libro IV, VV. 119-217, Milano,1991. 
R. M. Rilke, Danze macabre, Roma, 1994. 
G. Saviane, Il mare verticale. Roma, 1994. 
J. Tanizachi, Pianto di sirena, Milano, 1989.

Da “Spiragli”, anno VIII, n.1, 1996, pagg. 31-39.

 




Il suicidio autosacrifico 

Nell’ambito dei rapporti interumani la sopravvivenza del singolo e del gruppo viene sentita come frutto della capacità di sviluppare reciproci processi di «amore». O meglio, i processi reciproci di amore consentono lo sviluppo di sentimenti particolarmente rassicuranti che nel loro insieme vengono vissuti come «bene». Queste reciprocità bonifiche si strutturano sulla fantasia inconscia che la vita del soggetto e la vita dell’oggetto sono indispensabili l’uno alla sopravvivenza dell’altro (vita mea vita tua). Tale fantasia rappresenta il derivato dell’esperienza originaria d’amore che accomuna madre e bambino. Allorché l’interumano determina lo sviluppo di ostilità particolarmente intense, insorgono profonde angosce persecutorie in base alle quali la sopravvivenza del soggetto non viene ritenuta possibile senza la distruzione dell’oggetto (mors tua vita mea). 

Nelle personalità fortemente ambivalenti la possibilità di atti suicidari sono elevate. I meccanismi psicodinamici attivi sono di due tipi differenti. Nel primo, il suicidio rappresenta l’epilogo infausto della radicalizzazione di una vicenda relazionale che si è totalmente internalizzata, per via dell’identificazione narcisistica con l’oggetto. e che si conclude con l’autoeliminazione allo scopo di distruggere l’oggetto stesso (mors mea mors tua). Nel secondo tipo, il suicidio avviene in seguito ad una profonda regressione alla fase simbiotica e rappresenta un atto autosacrifico estremo, necessario alla salvazione dell’oggetto che è vissuto come depositario di tutto il bene (mors mea vita tua). In questo caso non si tratta di una distruzione con il sé dell’oggetto persecutorio, né di una condanna a morte del sé in quanto responsabile della distruzione dell’oggetto. Si realizza, invece, un processo «eroico» in base al quale l’annullamento del sé viene sentito come assolutamente necessario alla salvazione dell’oggetto di amore (nel momento in cui viene avvertito in pericolo) e/o necessario al mantenimento del legame simbiotico con esso. Qui all’opposto che nel pasto totemico il soggetto sacrifica la propria vita fantasticando di essere così incorporato dall’oggetto «adorato», e di poter vivere in esso, con esso. 

Sembra interessante, relativamente a quanto sopra affermato, il materiale psicologico offerto da un paziente lievemente borderline dell’età di 45 anni, affetto da uno stato depressivo ingravescente, il quale aveva chiesto un trattamento psicoterapico. Il paziente, parlando di un periodo della sua preadolescenza trascorso spensieratamente in un luogo di villeggiatura, ricordò che a quell’epoca gli si presentò una fantasia che presto gli divenne abituale. 

C’era la guerra, tutti i parenti più stretti e tutte le ragazze verso le quali sino allora aveva nutrito sentimenti amorosi si trovano in uno stesso luogo ed erano in imminente pericolo di vita, ma erano impossibilitati a poter fuggire; nessuno aveva il coraggio di fare qualcosa; ma ecco che egli riusciva, con un atto eroico, a salvare quelle persone, mettendosi così in luce presso tutti i conoscenti. 

Il paziente sottolineava l’importanza di questa attività fantastica la quale gli consentiva di superare temporaneamente i suoi accentuati complessi di inferiorità e di potere così immaginare di essere superiore agli altri. 

Queste produzioni fantastiche nel paziente si interruppero durante gli anni del liceo; fu un periodo particolarmente felice, l’unico nella sua vita. Le fantasie ripresero allorché, conseguita la maturità classica, il paziente dovette allontanarsi dalla famiglia e dai vecchi compagni per trasferirsi in una sede universitaria al fine di continuare gli studi; fu allora che cominciò a sperimentare quello che lui stesso definisce «il sentirsi naufragare in seno alla società». Si ripresentarono le fantasie a contenuto eroico che ricalcavano ancora gli stessi schemi del periodo preadolescenziale, però questa volta comportavano una nuova necessità e, cioè, il sacrificio della propria vita nel salvare la vita degli altri. Mentre da ragazzo le fantasie si limitavano all’eroismo senza un tragico epilogo, ora invece l’atto eroico veniva associato sistematicamente all’autodistruzione. Pur se la scenografia fantastica riproponeva le stesse immagini del passato, ora l’eroe sconosciuto si poteva fare luce solo dando la propria vita in cambio di quella altrui. 

Se ci addentriamo nella psicologia del sacrificio dobbiamo accettare, così come classicamente concepito, che il sacrificio costituisce un’offerta di qualcosa per entrare in comunione con la divinità. Come scrive C. Grottanelli, «il sacrificio sarebbe un atto di comunione, o di separazione, o un dono» ma, come sottolineano Hubert e Mauss, citati da Grottanelli, «probabilmente non c’è sacrificio senza qualche idea di riscatto e qualcosa dell’ordine del contratto»1. Dunque chi sacrifica la propria vita si renderebbe autore di un’offerta estrema, cioè di un’offerta di sé stesso per l’altro, cioè in favore di oggetti fortemente idealizzati e vissuti come onnipotenti. Ma da tale offerta non possiamo disgiungere idee più o meno coscienti di comunione con l’oggetto, di identità, di acquisto, di scambio. 

Roberto Calasso in Le nozze di Cadmo e Armonia2 afferma che le differenze tra dèi e uomini sono soprattutto due. La prima è in rapporto ad Ananke (la necessità); gli dèi la subiscono e la usano, gli uomini la subiscono soltanto. L’altra è in rapporto alla ierogamia: gli dèi possono mescolarsi con gli uomini, assimilare e disassimilare, senza sacrificio, gli uomini, che vivono nell’irreversibile, possono assimilare e disassimilare solo uccidendo. L’espulsione (purificazione) e l’assimilazione (comunione, sia nel senso di assimilare che di essere assimilati) può avvenire solo attraverso l’uccisione. 

Parafrasando Calasso, potremmo sostenere che ciò che era stato l’avvolgimento erotico del corpo e l’attrazione simbiotica della mente corrisponde ora al gesto che realizza l’autosacrificio. Ierogamia ed autosacrificio hanno in comune il perdere sé stessi facendosi invadere o facendosi divorare, nel momento in cui si sovrappongono «e », cioè il sé e l’altro sentito come sé stesso. 

Ma il suicidio autosacrifico, di cui abbiamo cercato il senso attraverso l’interpretazione filogenetica, rimarrebbe abbastanza enigmatico senza un’interpretazione di ordine ontogenetico. Infatti, ciò che sembra un’offerta, quindi una perdita, può configurarsi quale rifiuto della perdita, se consideriamo che il tipo di sacrificio di cui stiamo trattando può rappresentare un inconscio estremo tentativo di conservare o di recuperare quell’unione con la madre che è caratteristica di quel periodo in cui il bambino nel corso del suo primario sviluppo vive con essa una dimensione simbiotica. 

Possiamo considerare simbiotica la primissima modalità di rapporto interumano, fase nella quale il bambino si sente una cosa sola con la madre e non è consapevole che la sua personalità e quella della madre sono distinte e separate. La mancata separazione tra lo Primitivo e non-Io, dunque la comprensione in sé stesso da parte dell’Io Primitivo del mondo esterno o di parte di esso, determina sentimenti di onnipotenza ai quali il bambino nel corso del suo primo sviluppo rinuncia solo in modo parziale e temporaneo in quanto tende a recuperare la propria Onnipotenza partecipando a quella degli adulti, tramite l’identificazione introiettiva. 

Come sostiene O. Fenichel, «incorporando gli oggetti ci si unisce ad essi. L’introiezione orale determina contemporaneamente l’identificazione primaria. Le idee di mangiare un oggetto o di essere mangiati, sono il modo in cui ogni riunione con l’oggetto viene inconsciamente pensata, la comunione magica di diventare la stessa sostanza, sia mangiando il medesimo cibo o mischiando il rispettivo sangue, e la credenza magica che una persona divenga simile all’oggetto mangiato, si basano sull’introiezione orale… l’idea di essere mangiati non è soltanto fonte di paura, in certe circostanze può anche essere fonte di piacere orale. Al desiderio di incorporare gli oggetti, corrisponde quello di essere incorporati da un oggetto più grande. Spesso, gli scopi apparentemente contraddittori di mangiare e di essere mangiati. appaiono condensati l’uno all’altro»3. 

È in base a queste considerazioni psicoanalitiche che alla fine del nostro studio possiamo meglio comprendere come in taluni individui, alcune volte, soprattutto in condizioni di profonda regressione. il suicidio rappresenti un estremo tentativo di mantenere o rinsaldare o riacquistare con l’altro un legame che è avvertito in pericolo; ciò quando l’altro, persona o gruppo, è sentito così terribilmente importante e talmente indispensabile da rendere intollerabile ogni idea di separazione. È in questi casi che nella psiche del suicida lo sciogliere, la separazione definitiva, attuata attraverso il recidere il filo della propria esistenza, corrisponde ad un definitivo riannodare, alla totale fusione con l’oggetto onnipotente di adorazione. 

1. C. Grottanelli, N. F. Parise, Sacrificio e società nel mondo antico, Laterza ed., Bari, 1988, pagg. 9-11. 

2. Adelphi ed., Milano, 1988. 

3. O. Fenichel, Trattato di Psicoanalisi, Astrolabio ed., Roma, 1951, pagg. 77-78. 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 55-58.