Il mondo della colpa: alcuni rilievi psicodinamici

La morte, il dolore, la lotta, la determinazione storica dell’esistenza, nella concezione filosofica di karl Jaspers1 sono considerate «situazioni limite». Situazioni, cioè, inevitabili poiché legate al nostro essere al mondo. L’uomo, di fronte ad esse, rimane impotente, contro di esse urta e naufraga perché non può mutarle né comprenderle profondamente. Tra le situazioni limite Jaspers include anche la «colpa». In ambito psicoanalitico si definisce «sentimento di colpa» quella sofferenza psichica derivante dalla sensazione, più o meno conscia, di aver causato o di poter causare un danno o del male ad oggetti amati. Tali sentimenti stanno alla base delle angosce depressive. 

Gli stati depressivi non costituiscono una prerogativa della specie umana; infatti, osservazioni naturalistiche e ricerche sperimentali hanno permesso di verificare la presenza di comportamenti depressivi o «di disperazione» anche nei giovani mammiferi – nei primati in particolare in rapporto a vicende di separazione, di isolamento o di rottura dei vincoli di attaccamento affettivo. Tali comportamenti, nel mondo animale, avrebbero una funzione biologica adattiva; costituirebbero «segnali» diretti ad avvertire il gruppo, in particolare i genitori o la madre, che uno dei membri più piccoli si trova in pericolo. Dunque gli atteggiamenti depressivi avrebbero la funzione specifica di stimolare nei membri adulti la cura e la protezione degli individui più indifesi. 

Non dissimili appaiono in campo umano le finalità della depressione almeno al suo primo apparire nella vita psichica individuale – quando si tenga conto delle teorie psicoanalitiche attualmente più condivise. Secondo M. Klein è possibile collocare attorno al sesto-ottavo mese di vita l’attivarsi nel lattante di una «posizione depressiva» che è capace di mobilitare nella madre delle risonanze affettive, dei sentimenti di colpa e conseguentemente – secondo la formulazione di F. Fornari – delle necessità di «amore-redenzione» che si traducono in una intensificazione da parte della madre di quelle risposte amorevoli e di quell’empatia che sono indispensabili al bambino per superare la fase depressiva. 

La posizione depressiva è interpretata dalla Klein come il risultato della insorgenza di sentimenti di colpa e di una reversione all’interno dell’aggressività nel lattante, allorché egli, acquisita la capacità di conoscere la madre come un oggetto totale, si rende conto che sta dirigendo contro di essa, nel momento della frustrazione, i propri impulsi ostili e distruttivi. Dunque nel pensiero kleiniano la nascita del super-Io non avverrebbe nella fase edipica ma nel corso del primo anno di vita. 

Lasciando sospeso ogni giudizio circa l’effettiva liceità di attribuire al lattante sentimenti che possono apparire plausibili solo compiendo uno sforzo di estremizzazione analogica con i sentimenti dell’adulto, possiamo tentare di affiancare alle teorie kleiniane altri rilievi psicodinamici i quali possono portare un contributo alla chiarificazione circa lo svilupparsi delle radici del senso di colpa negli umani. Innanzitutto dobbiamo ammettere che la madre possa avere normalmente delle discontinuità nella sua capacità di rispondere sollecitamente o nei modi adeguati a tutti i bisogni dell’infante; pertanto possiamo considerare le frustrazioni come accadimenti normali nella vita di ogni bambino; anzi noi oggi sappiamo che le frustrazioni sono necessarie perché possa svilupparsi no, perché possa avvenire la nascita psicologica. Sotto quest’ottica le posizioni depressive del lattante appaiono risposte fisiolgiche a vicende di allentamento di vincoli di attaccamento affettivo, a carenze di cure, ad assenze della madre-seno nel momento del bisogno. 

Considerato che pulsioni di vita e pulsioni di morte in ogni essere si trovano in equilibrio dinamico tra di loro, siamo costretti ad ammettere che l’assenza della madre-seno, cioè la carenza di apporti libidici dall’esterno, provochi uno spostarsi dell’equilibrio in favore delle tensioni aggressive che appunto – in quanto emergenti in assenza di oggetti gratificanti – non possono che scaricarsi verso l’interno dell’individuo con conseguenti valenze autodistruttive. Dunque, la mancanza di apporti libidici dall’esterno, cioè l’assenza di oggetti dispensatori d’amore corrisponde a qualcosa di cattivo, ad un male, ad un .noxa» che può mobilitare l’emergere di ciò che F. Fornari2 definisce .terrificante interno», quale percezione orlginaria dell’istinto di morte. 

Quanto sinora considerato ci porta a dover ammettere che a livello “proto” esiste una accentuata correlazione tra allentamento dei vincoli di attaccamento affettivo e mobilitarsi di cariche autodistruttive. Ma possiamo, inoltre, ipotizzare che esiste in ciascuna specie un rapporto direttamente proporzionale tra potenziale aggressività, necessità di apporti libidici e prolungamento del periodo di completa dipendenza ai fini della sopravvivenza. Sotto quest’aspetto l’uomo occupa il primo posto in assoluto nella scala evolutiva relativamente a tutte e tre le variabili considerate. 

Ritornando all’oggetto precipuo di questa relazione, è necessario riflettere sulla singolarità della situazione in base alla quale la sopravvivenza del bambino trova il suo principale fondamento nella possibilità di risvegliare, tramite la posizione depressiva, dei sentimenti di colpa nella madre, la quale sarà così sollecitata a mobilitare tutte le sue risorse lenitivo-riparative. 

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Abbastanza esemplificato appare il caso di una giovane donna, già madre di un bambino di 5 anni, la quale dopo la nascita del secondo figlio, anch’esso maschio, sviluppò un accentuato stato depressivo in seguito alla profonda delusione per non aver avuto la figlia femmina, ardentemente desiderata. Insieme allo stato depressivo la paziente presentava delle alterazioni ideative, in forma ossessiva, rappresentate dal pensiero che il figlio non fosse suo: altre volte, invece, pensava che il figlio non appartenesse al marito, pur non avendo mai avuto rapporti sessuali extraconiugali. Quando la donna iniziò le sedute di psicoterapia il bambino aveva ormai otto mesi e da tempo aveva preso l’abitudine di piangere quando non veniva tenuto in braccio: poi, di notte, riprendeva il pianto ogni qual volta gli sfuggiva il ciucciotto, ma siccome ciò accadeva con una frequenza impressionante, quasi ogni mezz’ora, la madre era costretta a svegliarsi di continuo per riportargli il ciucciotto in bocca. Il fatto più interessante è che la donna inconsciamente aveva in qualche modo contribuito in forma decisiva allo svilupparsi di suddetti atteggiamenti nel bambino, poiché, contrariamente ad ogni aspettativa, aveva preso sin dall’inizio l’abitudine di tenerlo continuamente stretto a sé, come a proteggerlo dalla benché minima sofferenza, come se non potesse tollerare che il bambino piangesse; non rendendosi conto che il proprio modo di comportarsi era collegato ai sentimenti di colpa. 

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Con il trascorrere dei mesi il bambino, per via della progressiva maturazione neurobiologica e della progressiva psichicizzazione, va acquistando una sempre maggiore coscienza della sua capacità di suscitare delle risposte psico-emotive e comportamentali nella madre; e insieme a questa maggiore consapevolezza anche i primi sentimenti di debito, di riconoscenza, di gratitudine nei confronti di lei.che viene sentita onnipotente in quanto dotata di quelle capacità lenitivo-riparative che per il bambino hanno una importanza vitale. Onnipotenza salvifica che il bambino tende a introitare tramite l’identificazione. 

Una volta acquistata la coscienza di essere co-protagonista di scambi affettivi, nell’ambito della vicenda esperienzale diadica, il bambino svilupperà angoscia, malessere, ogni qual volta non potrà identificarsi con la madre riparativa ed oblativa, dispensatrice di amore e di bene. Questo malessere è ora la conseguenza del percepire se stesso, a causa delle pulsioni ostili o ambivalenti, quale responsabile dell’alienazione da sé di oggetti dispensatori di bene, cioè responsabile del proprio affamamento affettivo, della perdita di quegli oggetti gratificanti la cui presenza appare indispensabile ad evitare l’emergenza, reversiva all’interno, delle pulsioni distruttive. Pertanto, l’impossibilità ad identificarsi con l’oggetto d’amore riparativo, costituirebbe la radice di ogni sentimento di colpa, di ogni «cattiva coscienza». Dunque la coscienza, che appare trarre origine dall’emergenza del «terrificante interno», si svilupperebbe, e si potenzierebbe successivamente, soprattutto quale apparato deputato a mantenere separate, tramite una forzatura interna, l’ostilità dall’amore, la libido dalla mortido. Ogni falla in tale capacità di separazione determinerebbe la «cattiva coscienza», cioè la sensazione che si stia facendo del male all’oggetto d’amore con il quale, in questi frangenti, non è più possibile alcuna identificazione. 

Evidentemente lo svilupparsi di sentimenti di colpa viene rinforzato via via dalla serie di precetti ed atteggiamenti educativi della madre, la quale connota come -bene» quello che da essa è accettato e valorizzato e come «male», come qualcosa di cattivo, tutto ciò che essa rifiuta, non approva. La prima legge, le prime regole di vita, i primi comandamenti sono dettati dalla madre. La madre e, successivamente, i genitori, quale «oggetto combinato», si pongono come universo dettante sia le colpe che le pene. Il mantenersi buono è necessario al bambino per sentirsi sufficientemente amato. La trasgressione così come gli impulsi ostili comportano un malessere, un sentimento di colpa, una «cattiva coscienza», collegabili alla preoccupazione che l’oggetto d’amore non voglia più dare il suo affetto o che lo stesso sia stato danneggiato, svuotato, deprivato dalla capacità di continuare a darne. Così il super-Io, al dì fuori della patologia, piuttosto che in funzione di una distruttività internalizzata, appare al servizio di una funzione salvifica internalizzata, in quanto mobilitando processi propiziatori-riparativi consente la revitalizzazione delle reciprocità bonifiche. 

Il padre, che progressivamente con il trascorrere del tempo occupa un maggiore spazio nel mondo esperienzale del bambino, per certi versi, è sentito come un competitore, un ladro, un sottrattore dell’oggetto d’amore primario, che è la madre; ogni volta, ad esempio, che la porta via con sé oppure ogni volta che emargina il bambino nella sua stanzetta. Pertanto, la figura patema per molti versi sembra prestarsi ad una sorta di «elaborazione paranoica del lutto», cioè ad attribuire ad altri, ad oggetti nemici la causa delle proprie perdite, parziali o totali. Il bambino potrebbe così trovare nel padre, e non più nella propria cattiveria, il responsabile delle proprie frustrazioni primarie, cioè dell’allontanamento affettivo della madre. Ma questo meccanismo difensivo non può avere successo poiché il padre costituendo anch’esso un oggetto d’amore e di identificazione – in quanto anch’esso dispensatore di affetto, di cure e protezione nei confronti del bambino come anche nei confronti della moglie – non può essere investito di ostilità e di inimicizia senza mobilitare ulteriori sentimenti di colpa. Cosicché la «cattiva coscienza», che aveva avuto il suo esordio nella vicenda relazionale diadica con la madre e che avrebbe potuto trovare sollievo attraverso l’esportazione all’esterno della colpa, trova nella vicenda relazionale con il padre nuove occasioni per ripresentarsi. 

Il vissuto di colpa riaffiorerà regolarmente nel corso della vita ogni volta che sentimenti connessi all’odio – quali l’invidia, la gelosia, il desiderio di vendetta, le pulsioni di morte – si rivolgeranno contro oggetti che a causa della convivenza, della necessità, del desiderio o dell’identificazione, si presenteranno come oggetti d’amore. Sotto quest’ottica il sentimento di colpa appare in tutta la sua dimensione di «situazione-limite», indissolubile compagno nel procedere dell’esistenza, fonte di ogni profonda sofferenza morale, ma nello stesso tempo condizione necessaria per l’assunzione di quella responsabilità senza la quale non potrebbe avvenire alcun reinvestimento libidico. Ciò che distingue la normalità dalla patologia, il sentimento di responsabilità dal disturbo affettivo, dalla depressione, è dato dall’assunzione di una colpa che non sia talmente accentuata da paralizzare ogni possibilità riparativa, dunque non tale da tradursi in una forza al servizio delle pulsioni distruttive. 

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Quanto sinora considerato, pur se può contribuire a focalizzare alcuni aspetti che appaiono di notevole importanza per la comprensione del mondo della colpa, non ci impedisce di rivisitare il problema sotto altre angolature che possono suscitare il nostro interesse. 

Nietzsche in Genealogia della Morale3 afferma che «soltanto quello che non cessa di dolorare resta nella memoria»; il dolore costituisce «il coadiuvante più potente della memoria». Con il senso di colpa è stata introdotta «la più grande e la più sinistra delle malattie», «la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato animale (…) di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali sino allora riposava la sua forza, il suo piacere, la sua terribilità». Questa metamorfosi non è il frutto di un atto di volontà né di uno «sviluppo organico all’interno di nuove condizioni bensì come una frattura, un salto, una costrizione, una inevitabile fatalità»; una enorme perdita di libertà iniziata con la violenza e con la violenza condotta a termine da una piccola minoranza di uomini molto forti «una razza di conquistatori e di padroni che, guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora errabonda». «Questo istinto delle libertà reso latente a viva forza (…), questo istinto della libertà represso, rintuzzato, incarcerato nell’intimo, che non trova infine altro oggetto su cui scaricarsi e disfrenarsi se non su sé stesso: questo, soltanto questo è nel suo cominciamento la ‘cattiva coscienza’-, di questa specie -è il piacere che prova il disinteressato, il negatore di se stesso, l’immolatore di sé: questo piacere rientra nella crudeltà (…), soltanto la cattiva coscienza, soltanto la volontà di svillaneggiare se stessi fornisce il presupposto per il valore del non egoistico-. 

Jaspers con altre parole sottolinea ugualmente la drammaticità della condizione umana quando afferma: «Abbracciando la vita si toglie qualcosa agli altri-, l’esserci con il fatto di dover realizzare delle condizioni che sono indispensabili alla vita stessa esige «lotta e sofferenza altrui»; ciascuno paga con la sofferenza il prezzo del suo agire ma anche di alcuni dei suoi sentimenti più intimi. «Si può tentare di evitare la colpa non entrando nel mondo, non facendo nulla ma anche non agire è una forma di agire, un agire nella forma di omissione che conduce ad una fine più rapida dovuta a quell’inerzia sistematica e assoluta che assomiglia al suicidio (…l, sia razione che la non-azione implicano delle conseguenze, per cui in ogni caso siamo inevitabilmente colpevoli». 

Nietzsche in Nascita della Tragedia4 si chiede: «Il pessimismo è necessariamente un segno di declino, di decadenza, di fallimento di istinti stanchi e indeboliti?», «c’è un pessimismo della forza? Un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza d un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza? C’è forse un soffrire della stessa sovrabbondanza?». E che significato ha poi la «follia dionisiaca?», «quel fenomeno in cui i dolori suscitano piacere, in cui il giubilo strappa al petto voci angosciate. Dal sommo della gioia risuona il grido del terrore o lo struggente lamento di una perdita irreparabile». Perdita irreparabile è quella che vive il melanconico. Ma ci dobbiamo porre il quesito se in fondo ogni riparazione nei confronti dell’oggetto amato non abbia anche una valenza narcisistica nel suo aspetto di riparazione dello stesso sentimento di colpa. Non possiamo rispondere che affermativamente. 

Ma vi è la possibilità di un sentimento di colpa che non può essere riparato neanche con la stessa riparazione? Lo potremmo chiamare un sentimento di colpa maturo, in quanto non sfiorato né inquinato da elementi affettivi (negazioni maniacali o mortificazioni depressive); esso è legato ad una profonda conoscenza dell’umano e della sua imperfezione. Questo sentimento di colpa per così dire maturo, privo di disillusioni, contiene in sé un rischio: di trapassare senza soluzioni di continuo nell’anestesia morale. In questo caso appare difficile stabilire dove finisce una responsabilità integra – non integrale ma integra, cioè libera di elementi affettivi, depressivi o maniacali – e dove comincia un’ anestesia egocentrica. 

Ancora Nietzsche in Nascita della Tragedia si chiede se «il socratismo della morale, la dialettica, la moderazione e la serenità dell’uomo terretico», ciò per cui la tragedia greca morì non fosse «un segno di declino, di stanchezza, di malattia, di istinti che si dissolvono anarchicamente», se la stessa scientificità «è solo una paura e una scappatoia di fronte al pessimismo», «una sottile legittima difesa contro la verità»; infine se ogni dottrina che voglia essere solo morale non esprima anche .un’ostilità alla vita, la rabbiosa vendicativa avversione alla vita stessa: giacché ogni vita riposa sull’illusione, sull’arte, sull’inganno, sulla prospettiva, sulla necessità della prospettiva e dell’errore». 

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Un uomo sposato, padre di tre figli, aveva allacciato una relazione con una giovane donna con la quale avrebbe voluto convivere, ma tale desiderio era contrastato dall’affetto e dal senso di protezione nei confronti dei figli che non voleva abbandonare. 

Durante le sedute di psicoterapia, quest’uomo esprimeva una profonda sofferenza per il fatto di sentirsi in colpa e volersi votare al sacrificio per il bene dei figli, nello stesso tempo avvertiva qualcosa all’interno che lo faceva ribellare all’idea del sacrificio; altrettanto drammatico per lui era sentirsi, a causa della ribellione, come un essere debole. Era importante dal punto di vista terapeutico che egli potesse prendere coscienza dei suoi sentimenti di responsabilità; ciò gli consentiva di potersi identificare anche con un genitore buono capace di amare e di donarsi ai figli. 

La psicoanalisi ci ha insegnato che molti problemi umani, individuali o collettivi, soprattutto alcuni nostri profondi conflitti, difficilmente possono trovare una vera risoluzione – ciò fa parte della nostra imperfezione -; quel che è importante è prendere piena coscienza delle realtà, a volte contraddittorie, che animano il mondo interiore. Per questo non possiamo non concordare con il più volte citato Jaspers quando sostiene: «Non si tratta (…) di essere innocente, ma di evitare realmente la colpa evitabile, per giungere a quella colpa autentica, profonda ed inevitabile, in cui non è dato trovare pace. La responsabilità diventa allora pathos esistenziale che porta ad assumerci la colpa inevitabile, che altrimenti ci terrorizzerebbe, e che consiste nell’essere noi inconsapevolmente e passivamente irretiti nella miseria della colpa». 

Alfredo Anania

1. K. Jaspers. Filosofia, Torino, UTET. 1978.
2. F. Fornarl. Nuovi orientamenti nella Psicoanalisi, Milano, Feltrinelli, 1966; Ib., Psicanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli. 1970.
3. F. Nietzsche. Genealogia della Morale. MIlano. Adelphi, 1984. 
4. F. Nietzsche, La Nascita della Tragedia, Milano, Adelphi, 1977.

Da “Spiragli”, anno VII, n.1, 1995, pagg. 45-53.




Esperienze con i gruppi e tossicodipendenze 

La tossicodipendenza offre sempre continui stimoli per una ricerca sui fattori individuali e collettivi che intervengono nel produrre e mantenere il fenomeno. 

Il piccolo gruppo consente spesso l’osservazione di dinamiche e processi – allo stato nascente o terminali, a seconda del tipo di gruppo – collegabili all’intergioco degli assunti di base (attacco-fuga, accoppiamento, dipendenza) così come concepiti da Bion. 

Ogni sottogruppo sociale tende a cristallizzarsi progressivamente su uno specifico assunto di base con sempre minori capacità di trasformare la propria “cultura”, cui ciascun individuo tende ad aderire acriticamente per fortificare i propri sentimenti di appartenenza al gruppo. 

Tendenze alla contrapposizione culturale generazionale insieme a bisogni ludico-trasgressivi (così come ho potuto osservarli conducendo un Gruppo di Formazione Psicologica centrato sul Rapporto Interumano con Tossicodipendenti) possono progressivamente assumere l’aspetto di tragico gioco alla “roulette russa”, con l’eroina al posto della rivoltella, come è emerso attraverso una attività di gruppo con tossicodipendenti. 

Il primo gruppo cui farò riferimento l’ho condotto circa sette anni fa. Si trattava di un gruppo di Formazione centrato sul rapporto interumano con tossicodipendenti da parte di volontari di diversa età; infatti il gruppo era composto da insegnanti e studenti di alcune scuole medie superiori. 

I partecipanti, attraverso il gruppo di formazione, intendevano acquisire degli strumenti psicologici utili all’approccio con allievi o compagni tossicodipendenti ai fini di un eventuale recupero. A livello preconscio era presente nei partecipanti il desiderio di ottenere, attraverso il lavoro di formazione, una sorta di licenza riguardo l’attività di volontariato con tossicodipendenti, altrimenti sentita come eccessivamente trasgressiva, in mancanza di adeguate conoscenze e di strumenti circa l’agire. 

Ritengo che ad un livello ancora più profondo, pertanto del tutto inconsciamente, i partecipanti, sia gli adulti che i giovani, avevano aderito al gruppo per rinforzare le proprie difese psicologiche contro pulsioni tossicomaniche risvegliate, come spesso accade, dalla vicinanza con la droga e con soggetti drogati. Una seduta del gruppo risultò particolarmente illuminante riguardo quest’ultimo aspetto. 

Quella sera nel gruppo si poteva avvertire un certo disagio collettivo, una certa tensione velata. Alcuni giovani, dopo il mio arrivo, erano rimasti a lungo affacciati al balcone, senza mostrare eccessiva voglia di rientrare e prendere posto. 

Iniziata la seduta, la discussione avveniva in modo svogliato e divagante; si parlava di scuola, di esami, della maggiore o minore importanza degli appunti dettati dall’insegnante rispetto ai libri di testo, e così via. Nel complesso regnava un’atmosfera stagnante e confusa, il gruppo era incapace di portare avanti dei discorsi ordinati e di funzionare come gruppo di lavoro. Ciascuno parlava senza convinzione e senza alcuna vera partecipazione affettiva come se in realtà ognuno si rendesse conto che quello che stava dicendo o quello di cui si stava parlando aveva poco o niente a che fare con i propositi coscienti del gruppo. 

Di questo andamento probabilmente il gruppo me ne faceva una colpa, in quanto conduttore, provando un certo risentimento nei miei confronti. 

Inoltre, il gruppo mostrava scarsa capacità di sviluppare immagini rappresentative e fantasie e ciò facilitava l’agire. Mi sentii in dovere di ricordare al gruppo che lo scopo delle riunioni era analizzare il rapporto interpersonale nell’approccio con tossicodipendenti. 

Fu a questo punto che una studentessa di nome Adriana, che potremmo definire la leader dei membri più giovani, “trasse il dado”, cioè si comportò nel modo e nella forma più congeniale quella sera al gruppo. Mi chiese se fumare quaranta spinelli al giorno potesse risultare nocivo alla salute, aggiungendo che si era incontrata con un ragazzo tossicodipendente di sua conoscenza il quale le aveva confidato che dovendo sostenere gli esami di fine anno non vedeva l’ora di poter fumare quaranta spinelli in un solo giorno, un volta liberatosi dagli impegni scolastici. lo cercai di saperne di più sulla relazione interpersonale che si era stabilita tra la studentessa e il ragazzo tossicodipendente, ma nel gruppo si produsse una serie di interventi, ad opera sia dei giovani che degli insegnanti, che sembravano avere lo scopo di sviare l’argomento. Adriana tentava di evadere dall’analisi del suo rapporto col tossicodipendente, sostenuta dal gruppo che tendeva a considerare il “caso” come privo di risvolti interessanti dal punto di vista psicodinamico. 

Potevo cogliere una certa ansietà generale, come se tra i partecipanti vi fosse il timore che emergesse qualcosa di indiscreto. Adriana da me sollecitata ripetutamente si decise a rivelare che era stata spinta dalla curiosità ad avvicinare quel giovane perché era noto come il “più grande fumatore di spinelli della città”. Si era incontrata più volte con lui, e avendogli parlato del nostro gruppo, avevano deciso insieme che lei portasse uno spinello per mostrarlo a tutti i partecipanti. Detto questo, depose su un tavolo un pacchetto che teneva in tasca e apertolo mostrò a tutti uno spinello. Chiesi ad Adriana come mai avesse pensato di fare questo, ma la ragazza invece di rispondere alla mia domanda mi chiese, a sua volta, cosa c’era di male e, mentre il gruppo era ancora intento a stabilire se quaranta spinelli in un giorno potessero essere dannosi, aggiunse che forse io avevo paura dello spinello. 

Potevo cogliere in Adriana un atteggiamento di sfida che a stento era tenuto coperto, e ciò naturalmente le provocava una paura che aveva proiettato su di me. Naturalmente lo spinello in se e per sé non c’entrava per niente, ma Adriana aveva colto in me un certo turbamento che lei aveva interpretato come paura dello spinello, mentre in realtà la mia angoscia era molto più profonda, paragonabile a quella che può provare un medico che debba assistere alla nascita e allo svilupparsi in vivo di un tumore in un proprio paziente. 

Adriana potenzialmente era già una tossicodipendente e in lei quella sera aveva parlato la tossicodipendente. Il gruppo, che coscientemente era stato chiamato ad una insidiosa complicità, a livello inconscio era stato invece investito proiettivamente delle valenze dell’altra parte di lei, la parte che lottava le pulsioni tossicomaniche. Esso poteva aiutarla e sostenerla nel non cedere alla tentazione, al dèmone. La reazione del gruppo al suo “acting-in” doveva offrirle l’indice attraverso cui orientarsi. Una paradossale forma per non giocarsi l’esistenza. 

Il secondo gruppo cui farò riferimento risale a due anni fa. I soggetti che vi facevano parte erano tutti tossicodipendenti cronici. Pur conscio delle difficoltà cui sarei andato incontro, personalmente ero fortemente interessato a verificare la possibilità di svolgere una terapia di gruppo con tossicodipendenti ed, inoltre, quali meccanismi gruppali fossero attivi, quali fantasie, quali assunti di base, quale mentalità di gruppo. I più scettici riguardo alla possibilità che gli altri si presentassero alla prima seduta erano gli stessi tossicodipendenti, ma contrariamente alle loro aspettative tutti gli aderenti vennero regolarmente in occasione della prima riunione. 

All’inizio, attraverso le comunicazioni dei partecipanti, emerse la notevole dose di scetticismo e di diffidenza presente in loro per tutto ciò che aveva a che fare con la droga, con i drogati, con le istituzioni destinate al recupero. Concordavano unanimamente nell’opinione che le comunità terapeutiche avessero il fine di sfruttare i fondi regionali; che gli ex drogati che gestivano le comunità alla prima occasione tornassero a drogarsi. Rimarcavano il fatto che dei tossicodipendenti non c’è mai da fidarsi, che le coppie dei tossicodipendenti devono sempre temere il tradimento da parte del partner e scappatelle-droga all’insaputa dell’altro. Evidentemente ciascuno proiettava all’esterno l’essere diventato falso e bugiardo e la scarsa autostima. Ritengo che nello stesso tempo il gruppo dei tossicodipendenti tendesse metaforicamente a lanciarmi dei segnali come se volesse sottolineare che non mi dovevo fidare di loro. Per altri versi, malgrado le critiche nei confronti delle comunità terapeutiche e delle loro regole di vita, i tossicodipendenti manifestavano il desiderio di rimanere costantemente in contatto con una persona di loro fiducia, uno psicologo che stesse loro a fianco ventiquattr’ore su ventiquattro per guidarli, per proteggerli. Questo mi fece sorgere il pensiero che il gruppo stesse fantasticando che io potessi diventare una sorta di loro angelo custode. 

I partecipanti erano tutti concordi nel ritenere che il metadone non avesse alcuna utilità ed inoltre tutti sostenevano che all’inizio della tossicomania v’è sempre curiosità. Criticavano uno psicologo che si era occupato di loro per le domande che aveva rivolto: “come mai hai cominciato?”, “perché ti sei bucato la prima volta?”, ecc. Ad un certo punto uno dei partecipanti, tra l’approvazione generale, cominciò a decantare in modo seduttivo gli effetti dell’eroina e della cocaina; ciò mi fece pensare che il gruppo stesse fantasticando che io potessi diventare uno di loro; ma una ragazza del gruppo disse qualcosa che mi fece pensare che io venissi considerato come un bambino da preservare. Ma non si trattava di un pensiero affettuoso; bensì di un pensiero sminuente il mio valore personale rispetto alla loro capacità di vivere l’avventura “eroina”. Infatti attraverso le comunicazioni di un altro partecipante potei comprendere che il gruppo mi poteva considerare un bambino da preservare sino a che non c’era la possibilità di spillarmi dei quattrini; in questo caso non ci sarebbe stata alcuna esitazione a farmi entrare nel “giro” dei drogati. Quando interpretai questo al gruppo, dicendo che venivo considerato come un bambino e che la mia promozione ad adulto sarebbe avvenuta solo in conseguenza del guadagnarmi lo “status” soddisfacendo la loro necessità di avere denaro, si verificò un cambiamento nel gruppo e venne fuori la parte più dolorosa della loro esperienza personale e le motivazioni più vere che avevano portato alla tossicomania come ad esempio le crisi personali. 

Un tossicodipendente sposato e padre di un bambino raccontò di una soluzione fisiologica che si era praticato per flebo e in cui aveva aggiunto dell’eroina convinto di poter chiudere la cannula quando avesse voluto, ma che in questo modo aveva rischiato di finire in coma. 

Io dissi che questo mi faceva ricordare la roulette russa, ma l’interpretazione non fece piacere ai miei “tossici” perché riguardava le loro angosce di morte e le loro pulsioni autodistruttive. 

Nel complesso il clima relazionale del gruppo era abbastanza piacevole, non c’era l’atmosfera da laboratorio clinico; uno dei tossicodipendenti aveva cominciato a rivolgersi a me in modo confidenziale dandomi del tu; se non fosse venuto un collaboratore a ricordarci l’ora tarda, la seduta avrebbe potuto proseguire senza fine. Questo può far nascere la considerazione che i tossicodipendenti anche per le sedute di gruppo possono diventare voraci, ingordi, senza limiti; almeno per una volta, dato che in occasione della riunione successiva nessuno dei partecipanti ritornò. 

Alfredo Anania 

Da “Spiragli”, anno II, n.4, 1990, pagg. 35-43




Amore e capacità di stare soli 

La nostra mente, tra le sue funzioni, assolve al compito di fare vivere all’individuo un “continuum” esistenziale privo di cesure, di spazi vuoti, di assenze, di mancanza di oggetti e di relazioni con gli oggetti. 

Rappresentazioni, fantasie, processi onirici possono essere considerati anche quali produzioni psichiche che, con il concorso dell’incoscio, contribuiscono a conferire una sensazione di “plenum” all’esistenza individuale. La paura della morte nasce dal timore di dover perdere in modo totale e definitivo la nostra continuità esistenziale. Il senso di solitudine scaturisce dal sentimento di perdita più o meno irreparabile della nostra possibilità di continuare a mantenere una relazione con gli oggetti. 

Diversi autori sono concordi nel sostenere che il primo e più acuto sentimento di perdita e di distruzione, il primo grande vuoto, la prima grande rottura, che possiamo considerare “inscritta nella nostra sensorialità corporea”1 avviene con la nascita, con il nostro primo affacciarci alla vita fuori dal grembo materno. Prima, come afferma M. Sapir, “c’è una specie di armoniosa mescolanza, interpenetrante, diciamo un mix up, un felice impasto per così dire tra l’individuo e il suo mondo ambiente (…) Dopo la nascita si produce una separazione tra l’individuo ed un ambiente fin lì stabile e addirittura non percepito. 

Si verifica una rottura dell’armonia poiché gli oggetti cominciano ad emergere da questo magma, gli uni amici, gli altri ostili. In quel momento tutto è in via di emergenza e ancora non esistono oggetti nel vero e proprio senso del termine, ma solo dei pre-oggetti”2. 

M. Balint ha distinto fondamentalmente due diversi modi di reagire da parte del bambino a questa emergenza di oggetti, o meglio alla protoemergenza 

di pre-oggetti. Un tipo di reazione è quella “ocnofila”, cioè la tendenza all’aggrappamento agli oggetti in quanto sentiti rassicuranti, protettivi, vitali; mentre minacciosa o terrificante sarà sentita l’assenza, lo spazio intermedio. 

Nell’altro tipo di reazione, denominata da Balint “filobatica”, sono sentiti gradevoli soprattutto gli spazi vuoti, perché proprio gli oggetti sono avvertiti come ostili e minacciosi. 

Probabilmente la vita offre un continuo susseguirsi di movimenti ocnofili e di ripiegamenti filobatici, di protensioni verso gli altri e di ritorni entro se stessi – reimmersioni nell’interiorità che, nelle forme più regressive, comportano la scomparsa degli oggetti o la totale confusione con essi, così come per il feto nel grembo materno. 

In altri casi il ritirarsi regressivo dagli oggetti può essere seguito dal tentativo di creare qualcosa di diverso e di migliore; tale stato trasformativo può accompagnarsi a profondo malessere. Ciò ha portato H. F. Ellenberger a coniare il termine di “malattia creativa”. “Questa rara condizione”, afferma Ellenberger, “presenta il quadro di una nevrosi grave, talvolta di una psicosi. Possono esservi oscillazioni nell’intensità dei sintomi, ma il paziente è costantemente ossessionato da un’idea prevalente o all’inseguimento di qualche difficile scopo. Egli vive in assoluto isolamento spirituale e prova il sentimento che nessuno possa aiutarlo, da qui i suoi tentativi di guarirsi da sé. Ma generalmente sentirà che tali tentativi 

intensificano le sue sofferenze. La malattia può durare tre o più anni. La guarigione avviene spontaneamente e rapidamente; è caratterizzata da sentimenti di euforia ed è seguita da una trasformazione della personalità. Esempi di questa malattia si possono ritrovare tra gli sciami· della Siberia o dell’Alaska, tra i mistici di tutte le religioni e tra certi scrittori e filosofi creativi”3. 

Balint ha evidenziato che l’Amore Primario, quello esistente tra il bambino piccolo e la madre, è una vicenda duale che ha la caratteristica di corrispondere ad un sentimento di armonia in presenza dell’altro in cui tutto va da sé, mentre quello che proviene dal mondo esterno, tutto quello che è estraneo alla relazione a due, non viene tollerato. Allo stadio dell’Amore Primario, sottolinea Sapir, “quel che domina è il bisogno di essere amato passivamente, senza compiere alcuno sforzo. Tutto ciò che circonda il soggetto per lui è in sé privo di interesse. 

Tutto ciò che conta è il mantenimento dell’armonia, è la soddisfazione non dei suoi desideri, ma essenzialmente dei suoi bisogni”. E, facendo riferimento all’interessante lavoro di Winnicot sulla capacità del bambino di stare solo, Sapir rileva che .la capacità di un individuo a stare solo è un fenomeno molto elaborato e che dipende da numerosi fattori, però esso ha il proprio fondamento in uno stadio che può essere estremamente arcaico: “Si tratta dell’esperienza di stare solo in quanto lattante o bambino piccolo in presenza della madre. Il fondamento della capacità di stare soli è dunque paradossale trattandosi dell’esperienza di essere soli ma in presenza di un’altra persona” … Questo è un tipo di relazione particolare, la relazione del neonato o del lattante con la madre anche se questa può momentaneamente essere assente e rappresentata solo da un oggetto quale la culla o l’atmosfera generale e l’ambiente. In questo caso avremo una relazione dell’Io che contrasta con una relazione con l’Es, e la prima si descriverà come armoniosa, la seconda come pulsionale e qui ritroviamo, diversamente espressa, l’atmosfera dell’amore primario descritta da Balint.4 

E’ in base a queste considerazioni che possiamo meglio comprendere quello “scarto più o meno vistoso” che F. Fornari segnala tra identità e identificazione; attribuendo la prima all’Io, la seconda (cioè l’identificazione) al Sé. Fornari in “I segni del Sé e il Sé Originario”5 critica W. R Bion quando questi sostiene che “il bambino vivrebbe primitivamente le qualità psichiche del bisogno insoddisfatto”, qualità psichiche che trasformandosi in presenze minacciose interne devono essere evacuate attraverso l’identificazione proiettiva. 

“Questa concezione bioniana dell’origine del pensiero” afferma Fornari, “rende però difficile immaginare la possibilità del crearsi di rappresentazioni buone del seno e anche di rappresentazioni positive del Sé. Se infatti si postula che il pensiero nasce solo passando attraverso l’assente, cioè la frustrazione e quindi attraverso una presenza cattiva, non è mai possibile arrivare al pensiero, perché la presenza cattiva, come trasformazione del seno buono che non c’é più, determina evacuazione. Se invece c’è soddisfazione, l’oggetto gratificante non può essere pensato perché la rappresentazione nasce nei riguardi di qualcosa che deve essere presentificata perché è assente”, “bisogna quindi postulare che, perché nasca il pensiero nell’apparato per pensare, è necessario che ci siano elementi digeribili, ma questo a sua volta può essere garantito solo dal presupposto che il pensiero non nasca primariamente sotto forma di elementi beta, bensì da una disposizione filogenetica primaria a produrre oniricamente rappresentazioni di presenze buone al momento della gratificazione. A loro volta però le presenze buone, per essere rappresentate, comportano il loro non essere più presenti. Ne concludiamo quindi che la nascita delle rappresentazioni del Sé comportano il primato di una esperienza realmente buona e nello stesso tempo un suo non esserci più”. Ma perché il bambino realizzi il “recupero nel bene attuale di ciò che é stato un bene nel passato” è necessario che intervenga quello che Bion chiama “reverie materna”, quale “fonte psicologica che provvede al bisogno di amore e di comprensione del bambino”. 

In conclusione la “nascita del pensare”, come sostiene Fornari, “dipende essenzialmente da un evento affettivo positivo in quanto presuppone che un altro assuma la funzione enzimatica che permette di trasformare le esperienze cattive in presenze buone, trasformando la frustrazione in soddisfazione”, pertanto, “la capacità di tollerare la frustrazione comporta un pensiero onirico della madre, che a sua volta potrà essere incorporato dall’apparato mentale del bambino, proprio perché si inserisce in una fede primaria del bambino che il bene esiste in base ad una esperienza presente e passata”. 

“Se durante l’allattamento”, scrive Bion6 “la madre non può permettersi la reverie – o se può permettersela senza però associarla all’amore per il bambino o per suo padre – questa incapacità, quantunque per lui incomprensibile, verrà comunicata al bambino e una certa qualità psichica sarà convogliata nei canali della comunicazione, cioè nei legami tra madre e figlio”. Legami primari che probabilmente possono condizionare tutte le successive relazioni d’oggetto. “Se il bambino è munito di una notevole capacità di tollerare la frustrazione – continua Bion – la tragica evenienza di una madre incapace di reverie, incapace cioé di soddisfare i suoi bisogni psichici, può essere fronteggiata ugualmente. All’altro estremo troviamo il caso del bambino gravemente incapace di sopportare la frustrazione: costui non è in grado di superare neppure l’esperienza di avere una identificazione proiettiva con la madre capace di reverie senza conseguirne un crollo; l’unica cosa che lo farebbe sopravvivere sarebbe un seno che nutre incessantemente, il che non è possibile, non foss’altro perché l’appetito viene a mancare”. 

La capacità di stare soli, così come la capacità di amare appaiono dunque come la conseguenza di una capacità da parte della madre di sviluppare pensieri onirici contenitivi il figlio, il quale a sua volta potrà identificarsi con la madre buona e quindi acquisire la capacità di trasformare quelli che Bion definisce elementi beta (indigeribili) in pensieri alfa (onirici) e, pertanto, possedere a sua volta la capacità di contenere oniricamente l’oggetto d’amore così come la capacità di autocontenersi. 

La dinamica della vita psichica, dal punto di vista affettivo, si propone come un susseguirsi di perdite e di ritrovamenti i cui estremi sono rappresentati dalla melanconia e dall’amore. Nell’innamoramento la sensazione è di riunificazione totale con l’oggetto amato, di ricostituzione dell’unità originaria, di ritorno all’ “Eden Ancestrale” in. cui tutte le parti coesistevano; e, pertanto, avviene una perdita di individualità che è alla base di ogni collegamento simbolico tra amore e morte. Ma in questo caso, così come nei miti degli eroi e nei riti religiosi iniziatici, la morte riguarda la vecchia personalità che fa posto alla nuova, rinvigorita dall’emergere di nuove energie vitali prima racchiuse’ nell’inconscio. 

La psicologia analitica propone l’innamoramento come un sentimento che non corrisponde solamente ad una riattivazione di esperienze primarie individuali ma anche ad una riattivazione dell’archetipo madre-anima che può condurre ad un risanatore arricchimento della personalità. La favola di Amore e Psiche nelle Metamorfosi di Apuleio può essere interpretata come la descrizione di un cammino iniziatico dell’anima, che attraverso l’Eros può progressivamente arricchirsi spiritualmente. 

M. L. Von Franz, nel suo studio sull’Asino d’Oro, fa osservare: .Nei misteri eleusini si assiste alla nascita di un bambino divino, che a volte veniva chiamato Eros. L’idea archetipica centrale indica che la madre terra divina genera un bambino divino che è nel contempo un salvatore e un dio della fertilità. Al “bambino divino” Ovidio dà il nome di Puer Aetemus, gli conferisce cioè il più alto valore interiore, quello del ‘nuovo Dio nascente’,. 

Troviamo, scrive la Von Franz “il dio Eros su monumenti funebri greci e romani, come spirito protettore del defunto o come suo spirito. Spesso in queste raffigurazioni funebri egli regge in mano una fiaccola capovolta simbolo della morte, a volte anche . . .. stringe per le ali una farfalla che sadicamente brucia con la sua fiaccola. Il simbolo significa che Eros, dio dell’Amore, è nello stesso tempo il tormentatore e il purificatore dell’anima umana. Infatti l’amore con le sue passioni e i suoi tormenti favorisce lo sviluppo psichico verso l’individuazione; non esiste infatti nessun reale processo di individuazione senza l’esperienza dell’amore. Detto in altri termini, Eros stringe dolorosamente al petto la farfalla come simbolo dell’anima, che mentre viene martoriata dal dio dell’Amore si purifica e migliora. Su una gemma meravigliosa la dea Psiche è legata dal dio con le mani dietro la schiena ad una colonna sormontata da una sfera. Questa immagine esprime in modo pregnante la situazione di partenza del processo di individuazione; Eros lega Psiche ad una colonna che è sormontata da una sfera, simbolo della totalità che può essere raggiunta solo con la sofferenza. A volte si vuole fuggire una persona alla quale si è legati, per liberarsi dalla dipendenza, ma Eros attraverso questo legame ci costringe a prendere coscienza. L’amore ci spinge a osare tutto e perciò ci guida verso noi stessi. Perciò uno dei molti attributi di Eros nell’antichità era “purificatore dell’anima”. “Eros nel caso positivo”, scrive ancora la Von Franz, “configurerebbe l’aspetto creativo e la forza vitale, oltre che la capacità di provare emozioni e di percepire il senso della vita, di abbandonarsi all’altro sesso e di instaurare relazioni corrette, di riuscire ad elevarsi al di sopra dell’ottusa meschinità della vita, di provare sentimenti religiosi, di trovare la propria concezione del mondo, di guidare altre persone e di aiutarle. Coloro che incontrano un essere in cui l’Eros è vivo percepiranno il misterioso nucleo interiore nascosto dietro il modesto lo umano, poiché costui possiede forza creativa e vitalità”7. 

Pur affascinandoci, la storia di Psiche, così come la storia di Lucio – il protagonista maschile dell’Asino d’Oro – desta delle legittime perplessità. Infatti, entrambi i personaggi, così come in ogni iniziazione religiosa o misterica, non appaiono subire alcuna vera e profonda trasformazione della personalità, perlomeno per quanto riguarda l’assunto di base che sembra in essi prevalere che è quello della dipendenza. 

Sia Psiche che Lucio sembrano inseguire un oggetto idealizzato cui legarsi indissolubilmente. Non appare risolto il problema di fondo rappresentato dall’attesa di soddisfazioni narcisistiche attraverso la riunione simbolica con l’oggetto ideale ed onnipotente. Questa riunione avviene attraverso Eros e sviluppa Eros, ma non produce alcuna capacità di amore, di investimento libidico, privo di più o meno coscienti contraccambi narcisistici. Inoltre, Psiche e Lucio si arricchiscono di Eros ma non procedono oltre nella capacità di stare soli. La loro spiritualizzazione, che nel pensiero psicoanalitico iunghiano rappresenta uno scioglimento dei legami con la madre-terrena, si risolve in vantaggio di nuovi legami con esseri celesti o se si preferisce con la madre-divina; non a caso dall’unione tra Eros e Psiche nasce Voluttà. 

Alla luce di queste considerazioni l’appellativo di Puer Aeternus, attribuito da Ovidio ad Amore, può avere un collegamento con il fatto che Eros riproduce eternamente, quale coazione a ripetere, un tipo di legame che possiamo definire “filiale”, nel senso che l’amore per l’amante come l’amore mistico per la divinità si caratterizzano per la sensazione di ritrovamento dell’amore primario – quello che lega il bambino piccolo alla madre – che si fonda sulla soddisfazione di bisogni regressivi di nutrizione e di contenimento senza limiti. Questo tipo di amore potremmo chiamarlo “dionisiaco” perché è legato all’impetuosa ebrezza di riunificazione con l’oggetto d’amore e con la natura – prima sentita “estraneata, ostile o soggiogata”8 – e si accompagna ad un sentimento di espoliazione della propria individualità. 

Effetti del tutto opposti sembrano ottenibili tramite tragitti iniziatici che possiamo considerare primitivi, quali le iniziazioni sciamaniche o stregoniche, diretti a sviluppare una autentica capacità di stare soli e forme di amore prive di contraccambi narcisistici. 

Gli individui che approdano a queste forme di iniziazione sviluppano una dimensione personologica, per così dire “apollinea”, considerato che Apollo nella mitologia non solo rappresenta l’espressione più sublime della individuazione, ma anche la ambiguità più greve; Apollo l’Obliquo, che “coglie la visione attraverso il 1Jiù diretto dei confidenti, l’occhiata che conosce ogni cosa”9 è anche colui che non dice, né nasconde, ma accenna solamente. 

 

Don Juan, lo stregone istruttore dell’iniziando uomo civile nell’Isola del Tonal di Carlos Castaneda10 definisce “guerriero” colui che ha terminato il suo iter formativo: “guerrie~o” è colui che, imponendosi una determinata autodisciplina, si rende “senza macchia”, cioè “impeccabile”. La fiducia in sé del guerriero, afferma Don Juan nell’opera citata: “non è la fiducia in sé dell’uomo comune. L’uomo comune cerca la certezza negli occhi di chi ha di fronte, e chiama questo fiducia in sé. Il guerriero cerca di essere senza macchia ai propri occhi e chiama questo umiltà (. ..) La fiducia in sé implica sempre qualcosa per certo: l’umiltà implica d’essere senza macchia nelle proprie azioni e nel proprio sentire”. L’acquisizione di questo tipo di “umiltà” è il risultato di un processo di apprendistato molto lungo che conduce l’iniziato ad una posizione particolarmente solitaria rispetto al resto degli uomini ed anche rispetto ai compagni, agli altri iniziati. 

Per comprendere che tipo di amore, cioè quali forme di relazioni “buone”, possa stabilire un uomo che, in virtù di un training esoterico, venga a trovarsi in una dimensione di individualismo esclusivo e di asocialità essenziale possiamo fare riferimento al tipo di rapporto che lo stregone stabilisce con il suo allievo. La prima caratteristica è l’accompagnamento. Lo stregone non è un maestro nel senso classico del termine e neanche un conduttore, ma è un assistente partecipante all’esperienza psicologica ed emotiva dell’allievo ora attuandola ma anche neutralizzandola, nel momento in cui l’allievo mostra di non tollerare la terribilità dei fenomeni con cui viene in contatto. La seconda caratteristica è la discontinuità. Lo stregone, come se dotato di reverie, si rende presente o si assenta, interviene o si astiene, in relazione ai reali bisogni dell’apprendista. La terza caratteristica è il profondo rispetto dell’altro. “L’umiltà del guerriero”, afferma Don Juan, “non è l’umiltà del mendicante. Il guerriero non abbassa la testa dinanzi a nessuno, ma nello stesso tempo non permette a nessuno di abbassare la testa dinanzi a lui. Il mendicante invece si butta in ginocchio e si umilia davanti a chiunque giudichi superiore, ma nello stesso tempo pretende che chiunque gli sia inferiore si umili davanti a lui”. 

La capacità di stare solo dell’iniziato non esclude i sentimenti penosi e gli affanni ma, a differenza dell’uomo comune, egli evita di indulgervi, pertanto è privo di tristezza. “Un guerriero”, insegna Don Juan, “è sempre pieno di gioia perché il suo amore è inalterabile . . . . .la tristezza è solo di quelli che odiano proprio ciò che dà riparo ai loro esseri”. 

Il metodo di addestramento psicoanalitico ha una parentela, pur se lontana, con le pratiche di iniziazione – soprattutto quelle in uso nelle scuole filosofiche dell’antichità greco-romana. 

Gli adepti di queste scuole dovevano informare il loro stile di vita alle regole ed agli insegnamenti del fondatore, dovevano imporsi delle restrizioni e dovevano seguire un determinato addestramento: inoltre dovevano trovare un mentore, in genere un anziano saggio che aiutasse a superare i difetti personali e a raggiungere un migliore dominio sulle passioni più accese. 

Con il training psicoanalitico viene introdotto un elemento inedito rispetto al passato: l’esplorazione profonda del mondo intrapsichico dell’allievo, il che conferisce alla relazione iniziatore-iniziando le caratteristiche di un legame molto intenso, legame che è esso stesso oggetto di analisi. 

La risoluzione della relazione analitica può avere le caratteristiche di un evento catastrofico, di una rottura che può evocare il primo grande vuoto, quello che si produce al momento della nascita. L’analisi produce spesso una sorta di malattia creativa: alcune volte, probabilmente, è la fine dell’analisi che comporta nell’analizzato un vissuto di solitudine che appare anch’esso necessario al definirsi di alcuni importanti mutamenti interiori delle personalità, attivati dal training. Ancora una volta possiamo osservare un collegamento tra Amore (o transfert libidico) e morte psicologica. 

Probabilmente uno degli aspetti più interessanti è che l’analisi comporta un abbandono del riserbo e una messa a nudo del Sé e nello stesso tempo una osservazione trasversale della stessa vicenda analitica che, integrando la dimensione “dionisiaca” e la dimensione “apollinea”, consentono lo sviluppo di una capacità di percezione “binoculare”, per cui l’Eros liberato e vissuto può essere contemporaneamente contenuto oniricamente e razionalmente interpretato. Ciò consente da parte dell’analista di sciogliere mentre annoda, cioè di preparare seduta per seduta la risoluzione della relazione con l’allievo nel momento stesso in cui viene istituita e sviluppata. 

Appare evidente che con la perdita dell’analista, alla fine del tragitto duale, muore la parte “filiale” dell’analizzato ma nasce una personalità che, tramite l’identificazione con l’analista, sarà dotata della capacità di stare sola (ma in presenza dell’analista introiettato). 

“Un guerriero si considera già morto”, afferma il più volte citato Don Juan, “per cui non ha nulla da perdere. Il peggio gli è già accaduto, quindi egli è lucido e calmo . . .”, e più avanti, “noi siamo soli . . .. ma morire soli non significa morire di solitudine”11.

Alfredo Anania

1. A Giannotti, G. De Astis, Trauma della nascita e Patologia del Sé, in “Atti del Congresso La nascita Psicologica e le sue Premesse Bilogiche”. IES Mercusy Ed., Roma, 1984 pag. 223. 
2. M. Sapir, La formazione psicologica del Medico, Etas Libri Ed., Milano, 1975, pag. 77. 
3. H. F. Ellenberg, La scoperta dell’Inconscio, Boringhieri Ed., Torino, 1972, pag. 1034. 
4. M. Sapir, op. cit., pagg. 79-80. 
5. F. Fornari, I segni del Sé e il Originario, in “Atti del Congresso La nascita psicologica e le sue premesse biologiche”; IES Mercury Ed., Roma, 1984, pagg. 246-248.
6. W.R Bion, Apprendere dall’esperienza, Armando Ed., Roma, 1972, pagg. 73-75. 
7. M-L. Von Franz, L’Asino d’Oro, Boringhieri Ed., Torino, 1985, pagg. 74-77. 
8. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi Ed., Milano, 1986, pag. 25. 
9. G. Colli, La nascita della Filosofìa, Ade1phi Ed., Milano, 1978, pagg. 9-16. 
10. C. Castenada, L’isola del Tonal, Rizzoli Ed., Milano, 1975, pagg. 25-47. 
11. Ivi, pagg. 285-289.
 
 

Da “Spiragli”, anno III, n.3, 1991, pagg. 57-66.




Tomasi di Lampedusa: lezioni inglesi 

«Fra il novembre 1953 e la primavera del 1955 Lampedusa percorse a piccolissime tappe tutto lo svolgimento storico della letteratura 

inglese, cominciando proprio dai poemi anglosassoni e giungendo a Eliot e a Fry. Non so come procedesse per assicurarsi delle date e di altre nozioni spicciole, né quanti libri riprendesse in mano per rinfrescare la propria memoria; certo si aiutava con qualche manuale, forse sfogliava o rileggeva qualche testo. Ma nelle pagine che scriveva c’era ben poco di manualistico: tutto era sostenuto da una miracolosa memoria di quasi mezzo secolo di letture, e ravvivato dall’intelligenza.1» 

Così racconta Francesco Orlando, allora giovane intellettuale palermitano alla ristretta corte letteraria del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. 

Gli appunti delle lezioni di letteratura inglese e poi francese, rivolte quasi esclusivamente allo stesso Orlando e a Gioacchino Lanza, suo futuro figlio adottivo, costituiscono una parte fondamentale della biografia letteraria di Tomasi di Lampedusa: quelle sue personalissime conversazioni rivelano passioni, approcci, giudizi che certo fanno luce sulla complessità dell’uomo e dello scrittore. 

Ancora Orlando, nel suo vibrante Ricordo di Lampedusa scritto nel 1963, a cinque anni dalla morte di Tomasi, si sofferma sulla funzione consolatoria che la letteratura doveva avere per quel gentiluomo riservato e incline alla malinconia: «la letteratura era stata ed era la grande occupazione di questo nobile che non so quali traversie patrimoniali avevano avulso tanto da ogni mondanità quanto da ogni funzione pratica, e che era ridotto a vivere isolato senz’altro lusso che le ingenti spese per libri, soprattutto per le adorate e sempre maneggiate Pléades francesi.2» 

E i libri, esseri viventi nella grande casa di via Butera, dove ebbero luogo le lezioni di letteratura, si animarono di nuova vita, e il principe scrisse fitte pagine di appunti e parlò di centinaia di opere letterarie e di autori, impegnandosi in un faticoso e colossale esercizio di metodo e di memoria per l’incanto di quei giovani allievi privilegiati che ne avrebbero fatto tesoro per la vita. Per prime furono le lezioni inglesi. 

Lampedusa aveva una speciale predilezione per la letteratura e la cultura inglesi. Moltissimi i suoi soggiorni in Inghilterra già dalla metà degli anni ’20, in coincidenza con il periodo in cui suo zio Pietro Tomasi marchese di Torretta fu ambasciatore a Londra. E soprattutto a Londra, città amata, egli poteva passeggiare ritrovandovi le pagine di Johnson e di Dickens; in questa metropoli reale e letteraria, a testimonianza del cugino Lucio Piccolo, si sentiva veramente libero e a suo agio, il fisico ormai appesantito persino più agile mentre saliva al volo su un autobus londinese3. 

Il corso di Letteratura inglese fu diviso in cinque parti. Quasi tutta la prima parte fu occupata da Shakespeare e vennero commentati i sonetti e le opere teatrali, e via via, seguendo una coerente progressione cronologica si giunse agli scrittori del XX secolo, Joyce, Woolf, Greene; le lezioni su T. S. Eliot, che Lampedusa considerava “il più grande poeta contemporaneo”, furono le uniche a cui venisse ammesso, una sola volta, un pubblichetto che rasentava le dieci persone4. Erano 15-20 fogli manoscritti per lezione che l’autore dichiarava di provvedere a distruggere dopo ogni incontro, e ritrovati raccolti in vari blocchi alla morte dello scrittore, per essere pubblicati dopo traverse vicende soltanto nel 19915. 

Quello di Lampedusa era un modo di procedere che, come osserverà più tardi Orlando6, si accostava al metodo biografico di Sainte-Beuve, e dunque alla grande scoperta ottocentesca, dal romanticismo al positivismo, che la letteratura dovesse sganciarsi da canoni classici eterni, per essere indagata nelle relazioni tra opere, società e autore, inteso quest’ultimo nell’aspetto più privato di persona. Prospettiva che venne puntualmente rovesciata dalla rivendicazione novecentesca dell’autonomia della letteratura, la premessa cioè che un testo non sia mai riducibile ad una determinata realtà fattuale o autoriale, ma che venga percepito come opera d’arte a sé. 

Tomasi di Lampedusa apparteneva ad una categoria di intellettuali solitari e indipendenti, e perseverò contro corrente nel suo biografismo ottocentesco alla Sainte-Beuve che in Italia lo univa idealmente all’autorevole voce di un suo coetaneo, l’anglista Mario Praz. 

La letteratura diventava così per il futuro autore del Gattopardo una sorta di “diaristica cifrata7”, un mondo riconosciuto come proprio, poiché egli possedeva un «senso impareggiabilmente euforico e quasi tonico della letteratura8», fonte perenne di curiosità gioia e divertimento, e pure di lacrime che nascono dalla bellezza, come ebbe a dire a proposito della lettura di Lycidas di Milton. 

La straordinaria familiarità di Tomasi con gli scrittori inglesi rafforzava in lui la percezione di una corrispondenza spirituale che doveva poi affacciarsi alle pagine del Gattopardo, nell’aristocratico distacco di don Fabrizio Salina: una solida visione del mondo permeata di sottile ironia e pronta a sfociare in un tragico disincanto. Come l’inclinazione a rivolgere un amaro sorriso di scherno verso le vittime che spesso accompagna la figura perdente dell’underdog (uno dei temi fondamentali della letteratura inglese) che compare da Shakespeare a Swift a Dickens e in quasi tutti i grandi autori inglesi. 

Un’altra ragione rendeva Lampedusa vicino e in sintonia con il carattere britannico e polemico verso i difetti italiani e siciliani, una ragione che Orlando ha ritenuto nascere da una attitudine politica segretamente classista: 

«Va da sé che la sua ammirazione per il progresso sociale inglese dalla fine del Settecento in poi era quella, sincera, di ogni europeo colto; e si manifestava in modo aperto nelle lezioni (credo specialmente in quelle su Dickens). Ma Lampedusa non poteva non riflettere anche che quella forma di progresso era la sola attraverso la quale potesse conservare prosperità prestigio e soprattutto vitalità la classe sociale che era la sua; e perciò era da deprecare più amaramente la mortale sciatteria della medesima classe sulle terre ed ai tempi dei Borboni, con le conseguenze storiche che ricadevano sulla sua persona.9» 

Nelle lezioni inglesi si apre un vero e proprio dialogo intimo tra le pagine degli autori e la personalità eccentrica di Lampedusa, così che la digressione, una sorta di filosofica confessione, o l’aneddoto biografico diventavano parte dello stile soggettivo del principe. «La prima volta che si legge l’Amleto in inglese è una data10», o la riflessione che se una bomba distruggesse Palermo, la città morirebbe per sempre, senza che la sua esistenza sia testimoniata da un solo decente scrittore; ma Londra sopravviverebbe, immortalata da Dickens, poiché«in qualsiasi brutto alloggio, in qualsiasi recondita viuzza i suoi bizzarri personaggi dovessero recarsi, Dickens vi si era recato. Fortunata città che, insieme a Parigi, ha acquistato il premio supremo: quello di essere scrutata da un genio in ogni suo angoletto.11» 

È qui impossibile persino cercare di riassumere tratti più significativi del lungo percorso di Tomasi all’interno della storia letteraria inglese senza banalizzarne scelte e passaggi. Ma si può almeno riflettere su una categoria artistica che il principe-maestro giudicava di ordine superiore: gli scrittori creatori di mondi, i cosmourghi; tra loro alcuni giganti del canone occidentale: 

«Omero, Shakespeare, Cervantes, la Austen, Fielding, Ariosto, Balzac, Manzoni, Tolstoj, Proust […] I creatori di mondi debbono aver compiuto un’opera vasta, popolosa, omogenea nella varietà avente la facoltà di continuare a vivere indipendentemente dal creatore, rischiarata da una luce tutta sua, arricchita di paesaggi peculiari.12» 

E tra gli inglesi non è difficile immaginare (“ripensateci, chiudete gli occhi”) i paesaggi dei mondi della Austen o di Fielding. Shakespeare sfugge un’appartenenza che sarebbe troppo riduttiva, poiché non un paesaggio caratterizza la sua opera ma molti mondi. E un posto d’onore viene riservato da Tomasi anche a Dickens. 

«Dickens è uno dei più insigni creatori di mondi. E il suo mondo è uno dei più singolari: di esso conosciamo ogni campo, ogni strada, ogni volto. Eppure dobbiamo ogni volta dire a noi stessi che non abbiamo mai alcunché di simile: forse li rivedremo se saremo buoni e andremo in Paradiso. Il regno di Dickens è il realismo magico.13» 

Di Dickens (come del teatro di Shakespeare) Lampedusa ammirava l’arte sublime di fondere humour (insieme alla rifrazione deformante della caricatura) e eeriness, ovvero il senso fantastico del favolistico o del soprannaturale. Così i Pickwick Papers sono un vero capolavoro dickensiano, certamente il più amato dal poliedrico affabulatore delle lezioni inglesi, un’opera che viene considerata unica, un “blocco a parte” nella produzione dello scrittore vittoriano, un modello assoluto («Non esiste in nessuna altra letteratura un libro come Pickwick14»). 

Nei Pickwick Papers Lampedusa vede portata alla perfezione la curiosa e difficile arte del “realismo dis-realizzato”. I Pickwick Papers sono «un racconto di fate senza soprannaturale, un racconto che ha come Genio un vecchio piccolo ometto occhialuto e bonario15». 

È il mondo umano, universale, sorridente e arguto che passa attraverso i viaggi in carrozza per l’Inghilterra di Mr. Pickwick e dei suoi amici Winckle, Tupmann, Snodgrass e Sam Weller, che in particolare Lampedusa ama perché riunisce in sé l’umanità e lo spirito dei più grandi personaggi shakespeariani. E di Shakespeare questo personaggio di Dickens sembra ricordare il Falstaff dell’Enrico IV che memorabilmente viene definito nelle pagine della Letteratura inglese «gemma di Dio sa quanti carati, uno dei tre o quattro massimi personaggi shakespeariani. Adorabile mascalzone, uomo dallo spirito sempre invitto e sempre leggiadro, creazione impareggiabile del più alto humour, ognuno di noi darebbe dieci anni di vita per il privilegio di incontrarti un’ora.16» 

Come sottolinea Gioacchino Lanza Tomasi, un’analisi profonda della personalità letteraria di Lampedusa dovrà riconoscere alcuni modelli più di altri, e certamente «è Dickens più di Stendhal il vero biglietto d’accesso per chi voglia comprendere la singolarità del fenomeno Lampedusa.17» 

Nell’opera letteraria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa affioreranno i tratti della prima maniera dickensiana, quel procedere leggero per accostamenti e bozzetti, il disegno d’insieme che lascia spazio alla caratterizzazione dei personaggi secondari; ma si potrebbe pensare alla scelta del punto di vista di osservatore insieme esterno ed interno della sua Sicilia, isola che aveva sempre cercato nostalgicamente e ironicamente respinto nel corso delle lunghe frequentazioni letterarie di vari decenni. 

Inevitabilmente la lettura delle pagine della Letteratura inglese (come anche della Letteratura francese) conduce il lettore di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a sotterranei paralleli con la scrittura non solo del Gattopardo ma anche dei Racconti, e per chiudere questi brevi appunti vorrei ricordare il bellissimo racconto “La Sirena” (Lighea) nel quale l’affascinante e mitica creatura marina sembra essersi appropriata della magia soprannaturale della canzone di Ariel nella Tempesta di Shakespeare: 

«Sono immortale perché tutte le morti confluiscono in me da quella del merluzzo di dianzi a quella di Zeus, e in me radunate ridiventano vita non più individuale e determinata ma pànica e quindi libera. (… Mi narrava della sua esistenza sotto il mare, dei Tritoni barbuti, delle glauche spelonche, ma mi diceva che anche queste erano fatue apparenze e che la verità era ben più in fondo, nel cieco muto palazzo di acque informi, eterne, senza bagliori, senza sussurri. Una volta mi disse che sarebbe stata assente a lungo, sino alla sera del giorno seguente. “Debbo andare lontano, là dove so che troverò un dono per te.” Ritornò infatti con uno stupendo ramo di corallo purpureo incrostato di conchiglie e muffe marine.18» 

Maria Paola Altese

Note 

1 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, pp. 23-24. 
2 F. Orlando, cit., p.15. 
3 D. Gilmour, L’ltimo Gattopardo (1988), Feltrinelli, Milano, 2003, p. 64. 
4 Cfr. F. Orlando, cit. p. 24. 
5 Cfr. G. Lanza Tomasi, premessa a Letteratura inglese, in G. Tomasi di Lampedusa, Opere, Milano, 2004. 
6 Cfr. F. Orlando, Da distanze diverse, Torino, 1996, p. 84-85. 
7 Ivi, cit., p. 85. 
8 F. Orlando, Ricordo di Lampedusa, cit., p. 17 
9 Ivi, cit. p. 35. 
10 Ivi, cit., pag. 25. 
11 G. Tomasi di Lampedusa, in Opere, Letteratura inglese, Mondadori, 2004, p. 1118. 
12 Ivi, cit., pag. 1112. 
13 Ivi, cit., pag. 1113. 
14 Ivi, cit., pag. 1116. 
15 Ivi, cit., pag. 1116. 
16 Ivi, cit., pag. 724. 
17 Ivi, G. Lanza Tomasi, cit. p. 654 
18 G. Tomasi di Lampedusa, “La Sirena” in Opere, cit., pp. 517-518. 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.1, 2010, pagg. 37-40.




This rough magie I here abjure

L’arte di Prospero 

Il celebre monologo del V atto di The Tempest contiene la rinuncia di Prospero alla sua arte magica. Prospero ha appena perdonato i suoi nemici, smarriti nell’incanto dell’ isola che sembra averne assorbito il passato e filtrato la coscienza colpevole; scioglie l’incantesimo, e affida ad Ariel il compito di liberarli. 

Rimasto solo sulla scena, Prospero pronuncia il monologo che si apre con un’invocazione agli evanescenti spiriti della natura che lo hanno servito, e, verso dopo verso, risuonano suggestivi echi dal discorso di Medea nel settimo libro delle Metamorfosi. 

Prospero: «Ye elves of hills, brooks, standing lakes, and g roves, ( … ) / you demi-puppets that / By moonshine do the green, sour ringlets make, / Where of the ewe not bites; and you whose pastime / ls to make midnight mushrumps, that rejoice / To hear the solemn curfew, by whose aid / ( Weak masters though ye be) l have bedimmed / The noontide sun, called forth the mutinous winds, / And twixt the green sea and the azured vault / Set roaring war; to the dread rattling thunder / Have l givenfire (. .. ) / graves at my command / Have waked their sleepers, oped, and let’ em forth / By my so potent art.» (V. 1. 34-50)1. 

In Ovidio, Medea ripete la sua invocazione magica nella notte misteriosa: 

«Nox, ait arcanis fidissima, quaeque di Maria Paola Altese diurnis / aurea cum luna succeditis ignibus astra (. .. ). / Telius, polientibus instruis herbis, / auraeque et venti montesque amnesque lacusque / dique omnes nemorum dique omnes noctis, adeste! Quorum ope, cum volui, ripis mirantibus amnes / in fontes rediere suos, concussaque sisto, / stantia concutio cantu freta, nubila pello / nubilaque induco, ventos abigoque vocoque, (. . .) / et silvas moveo, iubeoque tremescere montes / et mugire solum manesque exire supulchris.» (VII, 196-206)2. 

Ma se Medea si prepara a compiere un potente sortilegio di magia nera (ridarà la gioventù al vecchio Esone), Prospero conclude rinnegando la «barbara» magia e i suoi strumenti. 

Prospero: «this rough magic / l here abjure (. .. ) / /’ li break my staff, / Bury it certain fathoms in the earth, / and deeper than did ever plummet sound / l’li drown my book». (V. 1. 50-57)3. 

Prospero ha scelto di riconciliarsi con coloro che lo hanno tradito (Antonio, fratello «sleale», e Alonso, re di Napoli, dotato di un fratello altrettanto malvagio) e con il mondo degli uomini. Egli salperà dall’isola e tornerà ad essere il legittimo duca di Milano. 

La tempesta magica che ha causato il naufragio della nave dei suoi nemici e gli incantesimi creati con l’aiuto di Ariel sono ormai alle sue spalle. L’arte di Prospero ha svelato il gioco costruito sullo scambio di realtà e illusione, inganno e verità, e ora viene respinta per raccogliere il pentimento dei cattivi e sostituita dal desiderio di una armonia finale, suggellata dalle prossime nozze di Miranda e Ferdinando, non a caso figli rispettivamente di Prospero e Alonso. È il lieto fine prospettato dal romance, che però non risolve la complessità del personaggio di Prospero e soprattutto l’ambiguo senso tragico della sua dedizione alle arti magiche, compreso il forte richiamo letterario alla Medea delle Metamorfosi. E non solo. Come ha sottolineato Harold Bloom nella sua lettura di questa ultima favola della maturità di Shakespeare, nella tessitura narrativa di The Tempest e nel personaggio di Prospero sembra permanere un mistero. E pone la domanda: «Perché il testo allude con tanta sottigliezza alla storia di Faust per poi trasformare la leggenda fino a renderla irriconoscibile?4» 

La presenza di un confronto sotterraneo tra i due personaggi è certo molto suggestiva, a prescindere dalla conclusione dello stesso Bloom, che sembra propendere per una implicita riduzione del personaggio di Marlowe a modello ironicamente fallimentare nei confronti del ruolo quasi-divino ricoperto da Prospero. Il ruolo di Prospero oscilla infatti tra l’ambizione punita del Faust marlowiano, che emerge nel lungo racconto-prologo del primo atto, e uno sviluppo anti- tragico del personaggio. 

Come Faust, avido studioso di arti occulte, Prospero non è però un eroe tragico compiuto5. Egli partecipa della tragedia di Faust come di quella di Lear, e condivide con Lear la colpa di essersi allontanato dalle responsabilità dello Stato. 

Prospero: «The government I cast upon my brother, / And to my state grew stranger, being transported / And rapt in secret studies» (I. ii. 75-77)6. 

Ma la colpa di Prospero nasce come per Faust dall’amore per lo studio, dalla sua dedizione ad un’arte occulta che contiene il pericolo del diabolico7. «Arte», sottolinea Melchiori8, è una parola-chiave di The Tempest, forse la più importante, in rapporto dialettico con quella «natura» che domina il tessuto verbale del Lear . 

Per «arte» (solo la parola art/arts ricorre trenta volte in The Tempest) si intendeva l’arte magica, anche se il termine veniva esteso a tutte le attività intellettuali volte al superamento della condizione naturale dell’uomo. E Prospero descrive se stesso come uomo di impareggiabile valore nelle arti liberali: «1or the liberal arts / Without a parallel» (I. ii. 73-74). 

È difficile stabilire quali fossero nel Rinascimento i confini tra il ruolo del filosofo, dello scienziato o del mago. Una questione assai complessa che lo storico Garin esamina a partire dall’affermazione di un nuovo tipo di intellettuale inquieto, «non vincolato ad ortodossie di sorta, uno sperimentatore di ogni campo della realtà come Leon Battista Alberti o Leonardo da Vinci, anelante a verità arcane e rivelazioni misteriose come Ficino, mago come Cornelio Agrippa, banditore di pace universale come Erasmo, medico dei corpi nell’armonia con le forze della natura come Paracelso, testimone di verità come Giordano Bruno»9. 

Certamente, il clima culturale dell’Inghilterra di Elisabetta e poi del regno di Giacomo I combinava l’interesse continentale e umanistico per i classici con le istanze puritane della Riforma, che ponevano in primo piano la questione della salvezza e delle Scritture. Gli ideali umanistici della generazione di Shakespeare passano attraverso libri quali Schoolmaster (1570) di Roger Ascham o la traduzione delle Vite di Plutarco ad opera di Thomas North (1579), e si aprono al neoplatonismo che giunge in Inghilterra soprattutto attraverso i modelli italiani (Il Cortegiano di Castiglione venne tradotto in inglese nel 1561). 

Gli esiti del neoplatonismo, rilanciato in Europa sul finire del Quattrocento da Marsilio Ficino, sono molteplici e riguardano il filosofo come l’uomo di scienza, fino a toccare i territori della magia e dell’occulto, in un comune disegno di indagine universale sui rapporti tra le cose, ed in primo luogo tra uomo e natura. 

L’«Arte» di Prospero, suggerisce Kermode, ha in questo senso una doppia funzione: da un lato è capacità soprannaturale di governare gli elementi della natura, conquistata attraverso uno studio virtuoso e consapevole, dall’altro, è riflesso di un simbolico mondo platonico dominato dall’intelletto e opposto al mondo materiale dei sensi e degli istinti che sull ‘ isola è rappresentato da Caliban10. 

Prospero può trasformare le umane passioni e gli appetiti dei sensi convertendoli ad una più nobile ragione (la trasformazione è anche il concetto fondamentale di tutto il processo alchemico, e attraversa The Tempest, suggerita dal sea-change della canzone di Ariel). Ed emerge infine una tensione verso una visione ‘ordinata’ della storia, nella quale la legittimità della successione dinastica è garantita dalle nozze di Miranda e Ferdinando. 

La magia bianca di Prospero, opposta alla magia nera di Sycorax, e tuttavia così potente da vincere gli incantesimi della strega che prima di lui aveva dominato l’isola, è stata respinta. In qualità di mago Prospero ha forse superato gli ambigui confini tra un’arte benevola e la stregoneria, e il conflitto simbolico tra la memoria di Sycorax (adombrato anche nel richiamo letterario alla Medea ovidiana) e il proprio potere sembra in ultimo confluire in una privata e tutta umana battaglia tra bene e male11. Così, in una delle battute più enigmatiche del dramma, egli riconosce come appartenente a sé quella creatura mostruosa nata dalla strega, e rivolgendosi a Caliban dice: «this thing of darkness 1/ Acknowledge mine» (V. I. 275-276)12.  La «barbara» magia deve cedere il posto alla storia e ad una morale imperniata sul perdono, il cui valore cristiano appare però più funzionale ad un recupero laico dell’ordine civile; ed è possibile scorgere una implicita aderenza a quella condanna della magia contenuta nel trattato di Giacomo I, Basilicon Doron, e variamente presente nel dibattito religioso e nella cultura del tempo, come nella commedia satirica di Ben Jonson intitolata The Alchemist (1610) e rappresentata dalla stessa compagnia di Shakespeare un anno prima di The Tempest. 

Il racconto shakespeariano sfocia nella ricomposizione delle armonie precedentemente spezzate: il motivo filosofico della discordia concors annunciato dalla forma del romance. Se non fosse per quello spirito tragico che continua ad affiorare in Prospero, nel pensiero per il proprio futuro di solitudine e di morte, in quella Milano dove: «Every third thought shall be my grave» (V. I. 312)13. Fino all’Epilogo, che, come ha osservato Kott14, sembra un inquietante ritorno al punto di partenza, una grande fuga lirica dagli accenti strazianti. 

Prospero: «Now I want / Spirits to enforce, art to enchant; / And my ending is despair, / Unless I be relieved by prayer, / Which pierces so, that it assaults / Mercy itself, andfrees allfaults» (Epilogue, 13-18)15. 

Gonzalo, vecchio e onesto cortigiano, è stato testimone privilegiato dell’inafferrabile mistero della condizione umana, e ha rivelato la spaventosa nudità quasi alchemica di quel percorso di conoscenza dentro l’isola che coinvolge tutti, personaggi e spettatori. 

Gonzalo: «Al! torment, trouble, wonder, and amazement /Inhabits here. Some heavenly power guide us / out of this fearful country! (V.I. 104-106). «Al! of us (found) ourselves / When no man was his own». (V.I. 212-213)16. 

Nell’arco di un tempo compreso tra le tre e le sei, in un significativo rispetto delle unità aristoteliche, Prospero ha celebrato, per l’ultima volta prima di lasciare l’isola, la meravigliosa e terribile magia del mondo che diventa teatro, e che, scrive Agostino Lombardo17, rimane il senso più profondo di The Tempest. 

Maria Paola Altese

NOTE 

1 W. Shakespeare, La Tempesta, trad il. di S. Quasimodo, Mondadori, 1991, p. 149-150. «O voi, elfi dei colli, dei ruscelli, e dei laghi tranquilli e delle selve; ( … ) / o voi piccoli gnomi che a lume di lunafate cerchi d’erba aspra che la pecora / non bruca, che per gioco fate nascere / i funghi di mezzanotte e con gioia / udite il grave coprifuoco; voi, / mie deboli potenze: / col vostro aiuto ho oscurato il sole / a mezzogiorno, suscitato i venti / impetuosi ho sollevato il verde / mare in furia contro la volta azzurra, / dato fuoco al tremendo / e strepitoso tuono, (. .. ) / con la mia arte potente, / al mio comando, le tombe svegliarono / i morti, si aprirono a liberarli». 
2 Ovidio, Metamorfosi, a cura di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, 1994, p. 257-259. «Notte, fedelissima custode dei misteri; astri d’oro, che con la luna succedete ai bagliori del giorno; ( … ) Terra, che fornisci ai maghi erbe potenti, e voi brezze e venti e monti e fiumi e laghi, déi tutti delle foreste, déi tutti della notte, assistetemi! Grazie a voi, quando voglio i fiumi tornano fra le rive stupite alle sorgenti, rendo immoto il mare agitato, immoto lo agito per incantesimo, nuvole scaccio e nuvole raduno, mando via i venti oppure li chiamo, (. .. ) sradico e smuovo le querce, le selve, ordino ai monti di tremare, al suolo di muggire, alle ombre di uscire dai sepolcri». 
3 «Rinnego, ora, la barbara magia (. .. ) / spezzerò la mia verga / e la metterò giù molte tese / sotto terra, e là, dentro il mare, dove / non giunge lo scandaglio, affonderò il mio libro», cit. 
4 Harold Bloom, Shakespeare, The Invention of the Human, (1998), Milano, 2003, p. 491. 
5 Molti critici hanno sottolineato la complessità interpretati va del disegno di The Tempest che si fonda sull’unione di tre diversi tipi di strutture drammaturgiche: tragica, pastorale, romanzesca. Cfr. Alessandro Serpieri (a cura di) , La Tempesta, introduzione, Marsilio, 2001. 
6 «Affidai il governo a mio fratello. In breve tempo, / rapito dagli studi di magia, / divenni indifferente al mio alto grado». trad. il. cil. 
7 Il «rapt in secret studies» di Prospero sembra evocare l’esclamazione di Faust «Tis magic, magic that hath ravished me» (Marlowe, 110), conferendogli una connotazione negativa che contiene il pericolo del diabolico. Cfr. Vaughan and Vaughan (editors) The Tempest, introduction, The Arden Shakespeare, 1999, p. 64. 
8 Giorgio Melchiori, introduzione a La Tempesta, in Teatro completo di William Shakespeare, Milano, 1981, pag. 786. 
9 Eugenio Garin, (a cura di), Luomo del Rinascimento, Bari, Laterza, 1995, p. 170. 
10 Frank Kermode (editor), The Tempest, introduction, The Arden Shakespeare, 1954, pag. XLVIII. 
11 Cfr. Stephen Orgel (editor), W. Shakespeare, The Tempest, introduction, Oxford, 1994. 
12 «Riconosco come mio / questo essere delle tenebre». trad. il. cit. 
13 «Ogni tre pensieri, uno sarà / per la mia tomba». trad. il. cit. 
14 Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo (1961), Milano, 2006, pag. 167-170. 
15 «Ora non ho più spiriti al comando, / non ho potere più per incantesimi, / e la mia fine sarà disperata / se non m’aiuta almeno una preghiera / che giunga in cuore
alla Misericordia,
/ liberando ogni mio peccato». trad. it. cit. 
16 «Tormento, angoscia, meraviglia e terrore / abitano qui: una potenza celeste / ci guidi fuori da questo luogo spaventoso». «Noi abbiamo / ritrovato noi stessi,
quando nessuno era più se stesso». trad. il. cit. 
17 Cfr. Agostino Lombardo, La Grande Conchiglia, Bulzoni, 2002. 

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pagg. 25-28.




Shakespeare e i romantici 

Wilhelm Meister, protagonista dell’omonimo romanzo di formazione di Goethe, legge Shakespeare e ne rimane folgorato. Nella prima parte de Gli anni d’apprendistato di Wilhelm Meister1, il distacco da una famiglia borghese di solidi mercanti e l’incontro con una compagnia di attori sarà determinante per il giovane Wilhelm (forse già profetica versione tedesca di William) e per la sua evoluzione spirituale, segnata profondamente dalla scoperta della possente e umana verità che muove il mondo di Shakespeare, e soprattutto dalla lettura, illuminante, dell’Amleto. 

I romantici furono gli ammirati costruttori di un’interpretazione psicologica e problematica del personaggio di Amleto: un intellettuale imprigionato nei labirinti del pensiero, dentro oscuri interrogativi mai soddisfatti sull’uomo e sul suo destino. «It is we who are Hamlet»2. Con questa frase Hazlitt sottolineò la presenza di un teatro della mente, una corrispondenza rivelatoria, universale, tra lettore (o spettatore) e personaggio. 

Amleto, scriverà Coleridge, è un punto di partenza nella strada della speculazione filosofica; è l’opera di Shakespeare che più di ogni altra riflette il genio del suo creatore3. 

Nel dibattito tra classici e romantici, a sostegno delle idee ‘moderne’ sulla poesia e sull’arte, Shakespeare diventa un simbolo del nuovo spirito, e accanto a lui compaiono i nomi di Omero, Dante, Milton. 

Il nazionalismo storico ottocentesco contribuì certamente a consolidare la coscienza di una pluralità di letterature differenziate, e in questo modo venne dato impulso ad una maggiore circolazione di opere straniere, di traduzioni, di scambi. Uno dei risultati più significativi fu il diffondersi delle idee intrise di un rinnovato senso di spiritualismo provenienti dalla Germania, che da più parti sottolineavano l’universalità della facoltà poetica e il primato dell’immaginazione. 

Così, l’opera di Shakespeare, nel corso del Settecento avversata da illustri detrattori come Voltaire, che, ribaltando una posizione inizialmente favorevole, la giudicò rozza e priva di gusto4 rappresentò, nell’Ottocento romantico, un esempio di quella ricerca del sublime che in Inghilterra aveva preso le mosse dal trattato di Burke5. Il sublime veniva codificato come una nuova categoria estetica che trascendeva i canoni classici del bello formale, per affermare una visione grandiosa, irregolare, spesso oscura o terrifica, ma capace di suscitare una profonda risonanza emotiva. L’atmosfera di cupa attesa e di sospensione all’inizio del primo atto dell’Amleto, seguita dall’apparizione dello spettro, è letta da Coleridge in questi terrnini: «It does indeed convey to the mind more than the eye can see»6. Un approccio all’arte che diventa psicologico e che in poesia come in pittura apre la via ad una visione non mediata della natura, e a quello che sarà il soggettivismo romantico7. 

L’irregolare poeta del teatro elisabettiano offriva un modello drammatico che non poteva essere uniformato agli ideali classici e neo-classici di poesia epica, lirica e tragica, riconducibili maggiormente a Virgilio, Petrarca e Racine. Ma fu proprio nella mescolanza di stili e di generi (tragico, comico, patetico) e nel rifiuto pressocché totale delle unità aristoteliche, che Shakespeare ebbe un ruolo importante nella trasformazione del sistema letterario europeo in senso moderno. 

È celebre la battuta di Polonio nel secondo atto dell’Amleto, dove in un arguto gioco linguistico vengono proiettate le innumerevoli combinazioni dell’invenzione drammatica: 

The best actors in the world, either for tragedy, 
comedy, history, pastoral, pastoral-comical, 
historical-pastoral, tragical-historical, tragical- 
comical-historical-pastoral, scene individable or 
poem unlimited. Seneca cannot be too heavy nor 
Plautus too light. For the law ofwrit and the liberty, 
these are the only men8. 

Un effetto qui chiaramente parodico, ma che esprime una tensione intrisa di scetticismo verso una realtà inafferrabile e in continua trasformazione, che tanto assomiglia all’anelito perenne del poeta romantico, non di rado declinato nelle forme dell’ ironia. 

Il «modello shakespeariano» passò anche grazie alle monumentali traduzioni che già sul finire del Settecento circolavano in Europa; basti citare Le Tourneur in Francia, o Schlegel e Tieck in Germania, e l’immaginario romantico si nutrì del mondo multiforme e dei personaggi creati da Shakespeare. 

La passione per il bardo ebbe tuttavia un suo contraltare ideologico che svela un orientamento anti-francese: le lezioni di A. W. Schlegel così come alcune conferenze shakespeariane di Coleridge vengono concepite all’ombra dell’espansionismo napoleonico. A. W. Schlegel tiene le sue lezioni nel 1808 in una Vienna occupata dai francesi, e la stessa Madame de Stael, sostenitrice del nuovo vento letterario proveniente dalla Germania, e ammiratrice di Shakespeare, sarà esiliata da Napoleone per ben due volte, nel 1803 e nel 1806. 

Contro le tendenze egemoniche e paneuropee della Francia e della cultura neo-classica, i cui precetti si erano diffusi in Europa soprattutto attraverso l’opera di Boileau9, Shakespeare rappresentava una individualità poetica che, secondo Herder10, nasceva piuttosto da una tradizione nazionale e nordica, da una lingua e da un teatro nazionali. E al tempo stesso i filosofi romantici sottolinearono il valore universale del genio shakespeariano: A. W. Schlegel definì Shakespeare su «Athenaum» come «il vero e proprio centro, il nocciolo della fantasia romantica»11. 

Coleridge è stato un importante mediatore tra Germania e Inghilterra, e la sua teoria del genio appare improntata sul pensiero di Kant come di Schelling e Schlegel. Il genio per prima cosa doveva essere oggettivo ed esprimere l’universalità e la verità della natura umana nella lingua stessa della natura, conferendo così alla poesia unità di sentimento. 

E contemporaneamente, in Shakespeare, il genio coincide con la capacità poetica di creare e trasformare: l’atto creativo è esso stesso fusione in una unità12. Coleridge interpreta la scrittura drammatica di Shakespeare all’interno di una visione organicistica che contiene una sintesi di matrice idealista tra due principi opposti: il dramma è «una syngenesia (una specie di fiore), ciascuno ha invero una propria vita ed è un individuum, ma è nello stesso tempo un organo dell’insieme»l3. 

La questione della verità come aderenza alla natura rimbalza alla critica romantica inglese dalla autorevole voce di Johnson, che nella prefazione alla sua edizione di Shakespeare del 1765 lodava il drammaturgo quale sommo poeta della natura, assolvendolo così dalla mancata osservanza dei precetti classici. Una ammirazione oscurata tuttavia da alcune ombre. 

Come annoterà Hazlitt14 più di un cinquantennio dopo, Johnson giudicava la natura nella sua regolarità, secondo un’idea di ordine proveniente dal senso comune, così che il poeta doveva essere pittore della natura; ma è una natura che, secondo Hazlitt, appare in ultimo come morta. Le tinte fosche o i bagliori improvvisi non potevano interessare l’intellettuale-simbolo dell’età augustea, attento al disegno generale piuttosto che all’originalità del particolare. 

Nei personaggi shakespeariani, soprattutto nei grandi eroi tragici, Amleto, Otello, Macbeth, Lear, convivono passioni contrastanti, e l’universalità della natura umana si riflette, e persino si compie all’interno di un destino individuale. 

Da Stendha115 a Manzoni emerge l’idea della verosimiglianza nella rappresentazione della storia e dei personaggi. In Shakespeare passioni e azioni si combinano secondo frequenze dai toni più diversi, e l’effetto è un senso di realtà. 

Nella Lettre manzoniana16 a Chauvet, l’Otello viene preso ad esempio del nuovo sistema tragico, in opposizione alla Zaira di Voltaire. 

Il tema d’ella gelosia, corrispondente nelle due tragedie, trova nella creazione dei personaggi di Shakespeare una forza genuina, che per Manzoni viene dalla verosimiglianza nella resa dei sentimenti, in relazione ad un percorso unitario in cui anche gli oggetti (il ruolo centrale del fazzoletto) posseggono un proprio, naturale valore drammatico. Il fazzoletto è un potente strumento che risuona cupo nella mostruosa trama di Iago: 

Her honour is an essence that’s not seen; 
They have it very oft that have it noto 
But for the handkerchief. .. 17 (IV, l) 

E Iago apparirà alla critica romantica come «il male senza ragione», nella famosa espressione di Coleridge18, il male che travolge gli uomini e i loro destini, «il male per il male»19, scriverà Croce nel primo Novecento. 

La fascinazione per il male, per gli abissi oscuri della mente, incubi o sogni, sarà un tratto riconoscibile di tutta la cultura romantica e oltre, che attinge all’immaginario shakespeariano producendo incroci e passaggi tra le arti: musica, pittura, letteratura. Dalle composizioni di un giovane Berlioz che dedica una sinfonia drammatica all’amore di Romeo e Giulietta, al melodramma ottocentesco, ritroviamo titoli e opere ispirate direttamente al teatro di Shakespeare; e se l’Otello più celebre rimane oggi quello di Verdi, Rossini lo aveva musicato nel 1816 e fu al tempo un’opera molto amata. 

Dall’incubo al sogno, la pittura di Fussli ha saputo modulare i temi di un’arte che tende al sublime; e compaiono visioni magiche e oniriche popolate di elfi e fate tratte dal Sogno di una notte di mezz’estate, oppure lo squarcio infernale che illumina i volti scarni, contorti in una smorfia deforme, delle streghe di Macbeth. O ancora, sarà l’ennesima lettura della storia di re Lear ad offrire a Keats una meditazione poetica su quello che definisce «the bitter sweet of this Shakespearian Fruit»20. 

E infine anche il romanticismo francese tributerà il suo omaggio senza riserve al genio shakespeariano. Nella prefazione al Cromwell, datata 1827 e considerata manifesto del movimento, Victor Rugo scriverà: «Shakespeare è il teatro». Un teatro in cui grottesco e sublime, tragedia e commedia risuonano nel medesimo afflato. Un teatro che eternamente muove l’umanità, e nel quale ancora si rispecchia il nostro presente. 

Maria Paola Altese 

NOTE 

1 W. Goethe, Wilhelm Meisters Lehrjahre, 1796. La redazione del Meister attraverserà un lungo arco di tempo e l’ultima edizione sarà pubblicata nel 1829. 
2 «Amleto siamo noi.» W. Hazlitt, Characters oj Shakespeare’s Plays, «Hamlet», London, 1817. 
3 S. T. Coleridge, Lectures on Shakespeare, 1813. Sulle interpretazioni romantiche di Shakespeare si veda J. Bate (a cura di), The Romantics on Shakespeare, 1992. 
4 Voltaire, Leures écrites de Londres sur les Anglois, Paris, 1734. 
5 E. Burke, A Philosophical Enquiry imo the Origin oj our ldeas oj the Sublime and the Beautiful, 1757. 
6 «Essa trasferisce alla mente più di ciò che gli occhi sono in grado di percepire.» S. T. Coleridge, Lectures on Shakespeare in J. Bate cil. p. 311 . 
7 Si veda in proposito S. Perosa, Transitabilità, Palermo, 2005. 
8 «I migliori del mondo per tragedia, commedia, storia, pastorale, pastorale comica, pastorale storica, tragedia storica, pastorale tragicomicostorica, scene a
composizione e poema a filastrocca. Seneca non può essere troppo grave né Plauto leggero per questa gente. Per lavori scritti o capricci inventati sono i soli.» (Il, ii). Amleto, trad. il. di E. Montale, in Teatro completo di William Shakespeare a cura di G. Me1chiori, Milano, 1994. 
9 N. Boileau, L’Art Poétique, 1674. 
10 J. G. Herder, «Shakespeare» in Von deutscher Art und Kunst, 1773. 
11 Si veda in proposito A. O. Lovejoy, Essays in the History oj Ideas (1948), trad. il. L’albero della conoscenza, Bologna, 1982, p. 129. 
12 Sui debiti verso i filosofi tedeschi nel pensiero critico di Coleridge si veda R. Wellek, Storia della critica moderna, «L’età romantica», cap.V1, Bologna, 1990. 
13 R. Wellek, cit. p. 186-187. 
14 W. Hazlitt, cit. 
15 H. B. Stendhal, Racine et Shakespeare, 1823. 
16 A. Manzoni, Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, 1819, pubbl. 1823. 
17 «Il suo onore è un’essenza che non si vede / Spesso ce l’hanno quelli che non l’hanno / Ma in quanto al fazzoletto…» (IV, I) W. Shakespeare, Otello, trad. it. a cura di A.
Lombardo, Milano, 1996. 
18 S. T. Coleridge, Coleridge’s Shakespeare Criticism, edited by T. M. Raysor, 1930. 
19 B. Croce, Ariosto, Shakespeare e Corneille, Bari, 1920. 
20 «La dolcezza amara di questo frutto shakespeariano.» J. Keats, On Sitting down to read King Lear once again, in Poems, 1817. 

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 21-24.




 Il peccato dello straniero riflessi mitici nell’Othello di Shakespeare 

di Maria Paola Altese 

C’è in Otello la fascinazione dell’esotico e una suggestiva dissonanza nella costruzione drammatica del personaggio. Egli è infatti il «Moro di Venezia», un guerriero nobile e valoroso ed anche, unico tra i potenti generali al servizio della Repubblica, uomo dalla pelle nera con evidenti connotazioni di wildemess. Uno straniero dunque, che in una terra non nativa viene accolto e legittimato in funzione delle sue doti militari. 

Per il suo personaggio, protagonista dell’omonima tragedia scritta intorno al 1603, Shakespeare trasse ispirazione da fonti riconosciute nella tradizione novellistica italiana1, ma la diversità etnica di Otello trascende l’uso di un modello letterario, seppure significativo e si innesta su un terreno vastissimo di implicazioni culturali che ne giustificano le innumerevoli letture sia sul piano meramente critico che dell’interpretazione scenica. 

La questione qui esaminata è legata all’esito tragico del personaggio di Otello che nello sviluppo della vicenda mantiene la sua condizione di alterità, anzi, questa viene esaltata drammaticamente in un progressivo auto-isolamento all’interno di pensieri ossessivi e malati2. 

Così, il piano di lago ai danni del Moro agisce doppiamente come una perversa macchinazione che punisce l’ orgogliosa diffidenza dello straniero. 

(But he, as loving his own pride and purposes, I, l) e al contempo svela l’ingenuità di chi rimane alla superficie di una cultura non pienamente assimilata (l’insistenza di Otello nell’appellare Iago honest). 

Non a caso, contro l’interpretazione romantica ed eroica di Otello che soccombe di fronte al «male senza ragione» (a motiveless malignity, scriveva Coleridge) rappresentato da Iago, la linea interpretativa inaugurata da T.S . Eliot e seguita da Leavis3 ha avuto il merito storico di mettere in evidenza un tratto di egotismo e di ottusa autocelebrazione di un eroe che nell’ultimo monologo sembra ridotto a stereotipo tragico. 

La fondamentale dicotomia tra una visione prevalentemente idealistica e una visione anti-romantica, riemerge variamente nell’articolato percorso della critica che di volta in volta ha sottolineato (sebbene attraverso sempre nuove prospettive e mode letterarie) aspetti legati all’attitudine visionaria e trascendente della mente di Otello come di lago4, oppure, dall’altro lato, ha evidenziato contingenze ideologiche quali il tema del potere esteso anche alla sfera della sessualità5, e che si riflette nelle interazioni tra i personaggi e nella struttura drammatica. 

Ma ritornando all’impianto tragico della vicenda, soffermiamoci sulla questione della colpa. Perché non è soltanto Iago, tra i più perfetti villains shakespeariani, come ha osservato Harold Bloom6, una anticipazione del satana miltoniano, ad avere la colpa di tessere la caduta dell’eroe, ma è Otello stesso che sin dall’inizio appare segnato da un oscuro peccato originale. 

Questo va oltre il torto ai danni di lago quando Otello gli preferisce Cassio come suo luogotenente, il «peccato» di Otello è quello di uno stranger che ha varcato una frontiera culturale sulla base di una eroica reputazione pubblica: egli è comunque un Moro che si unisce con una bianca e giovane nobildonna veneziana. E la fuga d’amore dei due, nottetempo verso nozze segrete, non basta a cancellare negli altri oscene fantasie di accoppiamento. 

Durante il primo atto lago e Roderigo informano il padre di Desdemona: 

Even now, now, very now, an old 
black ram / Is tupping your white ewe. 
A rise, arise! / Awake the snorting citizens 
with the bell, / Or else the devii will 
make a grandsire ofyou7, (I, I) 

Le fantasie suggerite da lago a Brabanzio si evolvono culminando in un’immagine da bestiario medievale («vostra figlia e il Moro stanno facendo la bestia a due groppe»). 

Prima ancora della nobile e valorosa immagine di Otello, Shakespeare ci consegna, attraverso le parole di Iago, un personaggio il cui colore della pelle si estende a connotazioni peccaminose e bestiali. 

Otello non è certo un «Moor» sanguinario, il «super-villain» Aroon dipinto in Titus Andronicus, ma segretamente, in un’ottica che oppone pubblico e privato, pesa in lui una doppia natura, il soldato valoroso e il Moro lascivo, una doppia immagine che richiama la medesima doppiezza di lago. 

E il tema del doppio coinvolge anche il personaggio di Desdemona che Otello comincerà ad immaginare come prostituta, richiamando così la figura di Bianca nel suo legame con Cassio. 

Was this fair paper, this most goodly book, / Made to write «whore» upon? What committed! / Committed! O thou public commoner!8. (IV, II) 

Eppure nel primo atto Otello aveva difeso davanti al Doge la sincerità del suo amore per Desdemona, ricordando come lei si era innamorata mentre ascoltava il racconto delle sue imprese eroiche in terre lontane. 

She lov’d me for the dangers I had pass’d, / And I lov’d her that she did pity them. / This only is the witchcraft I have us’d9. (I, III) 

È dunque Desdemona che per prima s’innamora di Otello e dal suo desiderio verso uno straniero di colore che nelle parole di Brabanzio è «contro ogni legge della natura» ha origine la sua condanna ad un destino tragico, che viene adombrata nel risentimento paterno: 

Look to her, Moor, if thou hast eyes to see: / She has deceiv’d her father, and may thee10. (I, III) 

Possiamo ipotizzare, nella tessitura della vicenda di Otello e Desdemona, l’utilizzo da parte di Shakespeare di un sotterraneo riferimento mitologico che condurrebbe all’immagine mostruosa del Minotauro e al mito di Arianna, ad esso collegato. 

Shakespeare, che in Otello non menziona mai direttamente elementi legati ai due miti, aveva utilizzato l’immagine del Minotauro nell’Enrico VI (1591), dove il conte di Suffolk si guarda dall’avventurarsi nel labirinto degli intrighi perché lì «si nascondono Minotauri e perfidi tradimenti». L’allusione, che però non viene ulteriormente sviluppata, è probabilmente sia ad una categoria generale di mostri (associati all’idea del tradimento) che al figlio di Pasifae e del toro. E certamente anche all’interno di una autorevole tradizione medievale da Dante a Boccaccio, a Chaucer, compariva variamente questo tema. 

Il Minotauro è un mostro metà toro e metà uomo la cui mostruosità risulta dal modo in cui è stato generato. Ed è la sua preistoria ad essere ancora più significativa della sua storia, che lo vede confinato nel labirinto, fino a che Teseo non lo uccida. Frutto del desiderio illecito della regina Pasifae per il toro che Poseidone reca in dono a Minosse, il Minotauro è il simbolo osceno di una natura bestiale e libidinosa. Nell’attrazione per Otello, Desdemona si proietta in una parabola mitica che apre uno spazio verso un segreto desiderio femminile al di là di un legittimo confine etico e culturale, che già nella scelta di un’ambientazione italiana e soprattutto veneziana11, sembra spostato in avanti: Iago: I know our country disposition well; / In Venice they do let heaven see the pranks / They dare not show their husbands12 (III, III), ma che in ultimo sarà punito. 

E Otello, il «Moro libidinoso» in preda ad una «mostruosa» gelosia e vittima di una altrettanto «mostruosa» cospirazione ad opera di lago, teme il doppio volto di Desdemona, l’idea di una insopportabile sessualità femminile il cui simbolo più eloquente sarà il fazzoletto che la sposa «lascia cadere distrattamente». 

Shakespeare potrebbe essersi rivolto anche al mito di Arianna che aiuta l’amato Teseo ad uscire dal labirinto dopo che il giovane ateniese uccide il Minotauro. 

Nel Rinascimento il mito di Arianna viene celebrato nella duplice immagine di Arianna abbandonata da Teseo e in quella di Arianna sposa di Bacco13. 

Nel caso di una possibile ripresa della figura di Arianna nella Desdemona shakespeariana, il tema utilizzato riguarderebbe l’eroina abbandonata (su di un’isola come recita il mito). Dunque nella canzone del Salice cantata da Desdemona risuonerebbe lo stesso lamento di Arianna vittima dell’abbandono di Teseo. E in effetti Shakespeare introduce un passaggio che afferma un’origine femminile e lontana di quella canzone, nelle parole di Desdemona: 

My mother had a maid call’d Barbara; / She was in love, and he she lo ve ‘d prov’ d mad / And did forsake; she had a song of «willow»; / An old thing ‘twas, but it express’d her fortune, / And she died singing it14 (IV, III) 

In Desdemona convivono due immagini opposte: Pasifae che trasgredisce «contro ogni legge di natura», ed Arianna che piange per il suo abbandono, vittima di un ordine tutto maschile del mondo. E quale, all’ interno di questo schema, il ruolo di lago, se non quello dell’artefice, costruttore satanico (che poi è il rovescio di divino) di una architettura della mente in cui si mescolano realtà e illusione? C’è in lui un’impronta del mitico inventore del labirinto, e la sua malvagità si trascende infine in un’urgenza estetica: 

Virtue! Afig! ‘tis in ourselves that we are thus, or / Thus. Our bodies are our gardens, to the which our / Wills are gardeners15 (I, III) 

Secondo una visione rinascimentale, il labirinto viene collegato ad una esperienza soggettiva intricata ed oscura (l’immagine del labirinto associata al 

tema della foresta compare ad esempio nel XXII canto dell’Orlando Furioso). In Shakespeare il topos del labirinto compare in A Midsummer Night’s Dream (1595). Qui il bosco. teatro dei sortilegi e delle schermaglie magiche tra Oberon e Titania, diventa un luogo abitato dagli spiriti, «haunted grove»; ed è un mondo alla rovescia: il corso delle stagioni sospeso e gli uomini che dimenticano di danzare e di attraversare i labirinti: («And the quaint mazes in the wanton green / for lack of tread are undistinguishable»16 II, I). 

L’espressione «to tread a maze» riprende l’idea di un uso rituale del labirinto, non solo effetto di un sortilegio, ma anche simbolo del mondo nella sua esistenza ingannevole, metafora stessa del gioco teatrale che svela la continua tensione tra realtà ed apparenza. 

I am not what I am (I, I). 

Realtà e finzione, redenzione e colpa, come bianco e nero, in Otello diventano simboli interscambiabili, archetipi culturali dalle inesauribili possibilità interpretative; e così il «nero» di Otello si riflette progressivamente negli altri personaggi, come è stato evidenziato in una suggestiva rilettura teatrale di Carmelo Bene17, in cui 1’effetto più significativo è proprio lo scambio cromatico tra l’eroe e il villain: un Otello sbiancato e uno lago clamorosamente nero. 

Il peccato dello straniero ritorna attraverso modulazioni diverse, un complesso «teatro dell’invidia», come ha scritto Girard18, il cui motore è infine un mitico desiderio dell’altro da sé. 

Maria Paola Altese

NOTE 

1. «L’unica fonte delle grandi linee dell’intreccio di Othello è la settima novella della terza decade degli Hecatommithi di Gian Battista Giraldi Cinthio (1565), novella della quale non esisteva alcuna traduzione inglese, ma soltanto una francese nel Premier Volume des Cent Excellent Novelles di Gabriel Chappuys (1584)». Alcuni particolari derivano probabilmente da altre fonti: da una novella del Bandello e perfino dall’Orlando Furioso (tradotto in inglese nel 1591). G. Melchiori (a cura di), Teatro completo di William Shakespeare, vol. IV, Le Tragedie, Milano, 1995. 
2. In proposito si veda uno studio fondamentale di A. Serpieri, Otello: ,’eros negato: psicoanalisi di una proiezione distruttiva, Milano, 1976. 
3. T.S. Eliot, Selected Essays, London, 1932; ER. Leavis. Diabolic Intellect and The Noble Hero, 1952. 
4. «Il dramma tragico non deve essere per forza metafisico, ma lago, che dice di non essere altro che critico, non è altro che metafisico. La sua grandiosa vanteria: «Io non sono quello che sembro» ricorda volutamente il «Per grazia di Dio,io sono quel che sono» di San Paolo.» H. Bloom, Shakespeare: l’invenzione dell’uomo (1998), Milano, 2001. 
5. Riflessioni in questo senso si trovano nel libro di Valerie Traub: Desire and Anxiety: Circulation of Sexuality in Shakespearian Drama, London, 1992. 
6. H. Bloom, cit. 
7. Ora, ora, proprio ora / un vecchio montone nero sta montando / la vostra candida pecorella. Su, su, svegliate / con la campana a martello tutti i cittadini. / prima che il diavolo vi faccia nonno (trad. it. di Salvatore Quasimodo, in Teatro completo di William Shakespeare, vol. IV, cit.). 
8. Questa bella carta, questo magnifico libro d’amore / fu fatto per scriverei su la parola «puttana»? / Quale peccato hai commesso? E me lo domandi? Tu, donnaccia pubblica! 
9. Essa si era innamorata di me / al racconto di tutti i miei pericoli, / e io l’amavo per la pietà che mi aveva dimostrato. / E questa è tutta quanta la mia magia! 
10. Non perderla mai d’occhio, Moro, se hai occhi per vedere. / Come ha ingannato suo padre, potrebbe ingannare anche te. 
11. Un’ampia rassegna critica sulle ambientazioni italiane nel teatro di Shakespeare si trova in M. Marrapodi, A. J. Hoenselaars, M. Cappuzzo, L. Falzon (a cura di), Shakespeare’s Italy. Functions of ItaLian location in Renaissance Drama, Manchester, 1993. 
12. Conosco troppo bene i costumi del nostro paese: a Venezia le donne / fanno vedere soltanto al cielo / i peccati che nascondono ai loro mariti. 
13. Cfr. A.G. Word, The questfor Theseus, London, 1970. 
14. Mia madre aveva una cameriera che si chiamava Barbara. / Questa Barbara era innamorata, ma l’uomo che essa amava, / un giorno, commise la follia di abbandonarla. / Barbara cantava spesso “La canzone del salice», / una vecchia canzone, ma che esprimeva bene / un destino simile al suo. E morì cantandola. 
15. Virtù un fico secco! Dipende soltanto da noi / essere in un modo piuttosto che in un altro. Il nostro / corpo è un giardino e il suo giardiniere è la nostra volontà. 
16. E gli ingegnosi labirinti nel verde lussureggiante, / da tempo non usati, più non si distinguono. 
17. Otello (da Shakespeare), secondo Carmelo Bene, è stato rappresentato in due versioni teatrali nel 1979 e nel 1985. 
18. René Girard, Shakespeare, il Teatro dell’invidia (1990), Milano, 1998.

 

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 26-29.




Epifanie isolane Bufalino, il giovane artista e Joyce

Un divario temporale di quasi mezzo secolo, e molte altre cose, come la distanza tra l’Irlanda e la Sicilia, separano Joyce da Bufalino. Una profonda linea di demarcazione che, ricorrendo a troppo facili periodizzazioni letterarie, divide il moderno, anzi il modernismo, dal post-moderno. Ma come già aveva sottolineato T.S. Eliot nel suo saggio-manifesto modernista del 1919, Tradition and The Individual Talent, il possesso del senso storico (che “è senso dell’atemporale come del temporale, e dell’atemporale come del temporale insieme1”) conduce l’artista verso un dialogo necessario con la tradizione, poiché – scrive Eliot – “nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che si dà su di lui è il giudizio di lui in rapporto ai poeti o agli artisti del passato2”. Di questa idea dell’esistenza oggettiva e globale della letteratura, celebrata da Eliot nel concetto di “poesia come unità vivente di tutta la poesia che sia mai stata scritta3”, Bufalino ha sempre dimostrato consapevolezza. Così, nell’introduzione al suo Dizionario dei personaggi di romanzo pubblicato nel 1982, egli riflette su una questione interpretativa, e riconosce uno statuto universale del personaggio letterario, “eroe culturale” che può trovare un senso ultimo nel rapporto con il lettore. Il personaggio è infatti “multiplo e solitario, sempre altro e sempre uguale, corposo come una roccia e perversamente sottile”4: secondo l’autore del Dizionario, la letteratura tutta con gli abitanti invisibili che la popolano, è “la nostra patria più vera”, e coerentemente intitola la sua introduzione all’opera, “Passione del personaggio”5. Questo inventario di 138 personaggi, da Don Chisciotte fino all’Innominabile di Samuel Beckett, viene descritto dallo scrittore come la proiezione fantasmagorica di un “solo grande romanzo-arlecchino, un film-monstre dall’ineguagliabile cast”6, e compare pure il giovane protagonista del Portrait (1916) di Joyce, Stephen Dedalus, mentre su una spiaggia della costa di Dublino sperimenta l’epifania della propria vocazione artistica.

La complessa orchestrazione della scrittura di Bufalino accoglie suggestioni e memorie provenienti da una vita di letture vastissime mai interrotte, e di studi letterari ( che saranno segnati dalla guerra e dalla malattia), un mondo nel quale i confini tra lettura e scrittura appaiono labili, e dove la letteratura e la vita possono sovrapporsi. Similmente, nell’affollata galleria della memoria, un personaggio da romanzo rimanda ad altri personaggi da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi da romanzo, e il mondo fittizio, come scrive Pavel, diventa riflesso di un mondo ontologicamente riconosciuto e dunque possibile7. L’universo narrativo di Gesualdo Bufalino ruota attorno ad uno spazio fondamentale, immaginario e reale insieme: l’isola. La Sicilia. Una marginalità geografica che fa da sfondo al percorso di formazione dello scrittore, che non rinuncia nei suoi romanzi alla tentazione di sperimentarsi nell’io narrante, drammaticamente e ironicamente trasformato in “personaggio”. Sia Diceria dell’Untore, che Bufalino pubblica sessantenne nel 1981, quando, maturo professore di liceo diviene improvvisamente ‘caso letterario’, che Argo il cieco, pubblicato nel 1984, si concentrano sopra un nucleo autobiografico fondato sull’appartenenza isolana dell’autore, uno spirito ineffabile e aristocratico che Bufalino definisce “isolitudine”, e che rende i siciliani “isole dentro l’isola”8. L’isola assume una valenza simbolica, all’interno della quale stratificazioni mitiche e letterarie si collegano ad un piano storico e soprattutto memoriale. Il desiderio di una Sicilia incantata è la premessa fondamentale dalla quale nasce “il sogno della memoria”, filo conduttore di Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, romanzo postjoyciano “dell’artista da giovane”, il cui titolo è già un manifesto di poetica, dove l’idea di una memoria caleidoscopica dai “cento occhi”, come quella del mostro mitologico evocato dalle Metamorfosi, si coniuga con la percezione di una costitutiva evanescenza onirica dell’atto del ricordare9.

L’immagine di un paese siciliano nell’estate del cinquantuno (“un paese in figura di melagrana spaccata, vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro”) apre il racconto di un tempo lontano che può cominciare grazie alla rievocazione di uno spazio costruito in un evidente sistema di opposizioni: alto/basso, terra/ mare, campagna/città; simbolicamente diviso in due, metà reale e metà fiabesco, e che esiste ‘fotografato’ solo in quel sogno memoriale, perché, come scrive l’autore nell’epigrafe introduttiva al primo capitolo, questo è un paese “che non c’è più”: “L’autore, per rallegrarsi la mente ripensa antiche letizie e pene d’amor perdute in un paese che non c’è più”.

Si configura quello che Coletti definisce “uno spazio del desiderio regressivo” 10, una nostalgia di paesaggi che sono inscindibili dall’acuto (proustiano più che ungarettiano) sentimento del tempo. La memoria ha per Bufalino un doppio significato, da un lato nostalgica rievocazione del passato, dall’altro volontaria e terapeutica finzione, che sembra suggerire un implicito riferimento al grande mito della modernità romanzesca rappresentato da Don Chisciotte, dal suo modello di riflessione metalinguistica e degradazione parodica, che rende la realtà una costruzione culturale.11

«L’arte arto, che ne pensi? Un arto artificiale, s’intende, e non solo per rendere più ghiotto lo scioglilingua ma perché questo a me veramente serve: un surrogato di vita durante il giorno e un surrogato di sonno, quando non posso prendere sonno la sera.» (cap. III bis, p. 263)

In Argo il cieco il dialogo con la memoria si svolge in un aperto gioco di specchi tra autore e personaggio, un costante frammezzarsi nella storia da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi di capitoli “bis”, che rappresentano una controvoce metanarrativa, la voce dell’autore attuale che a distanza temporale e spaziale dalla vicenda narrata ( trent’anni dopo, in una “matrimoniale senza bagno” di un albergo romano) riflette sulla propria scrittura e su se stesso, svelando al lettore le impalcature dell’edificio letterario costruito sulle parole: culturale11.

«Parole, si. E me n’ero costruito un glossario, quasi i ruoli d’un esercito: depravate, timide, tracotanti, dolorose; tutte ugualmente disciplinate fino alla nausea» (cap. XXVII bis, p. 395).

Una sorta di self-conscious novel, che nella definizione del critico Stonehill è la forma più rappresentativa della narrativa postmoderna: una narrazione focalizzata sull’artificio letterario, sul suo status di fiction.12 Nello spazio metanarrativo occupato dall’autore riconosciamo un ‘dopo’, un passaggio in direzione temporale e dunque storica. Non c’è immobilismo letterario in Argo il cieco, che fu accolto dalla critica13 con qualche riserva rispetto al primo romanzo, e venne infatti accusato di scarsa originalità; ma al contrario, qui Bufalino sperimenta la definitiva insostenibilità di un modello narrativo stabile, ancorato alla realtà di un racconto autobiografico.

Lo spazio della memoria è sogno, finzione e dunque letteratura. Ricreando l’esperienza, l’artista conquista dolorosamente la parola (le “mostruose fantasticherie” che invadevano la mente di Stephen Dedalus14) e la restituisce attraverso la scrittura, pagando il suo debito, che riscatta da un lato e fa rivivere la ‘colpa’ dell’arte dall’altro.

«Questo miracolo di creare con un po’ di suoni e segni una bolla d’inesistenze ciarliere, come non finisce di apparirmi un’azione losca, una colpa» (Argo il Cieco, cap. VI bis, p. 295).

Il giovane poeta, protagonista di Argo il cieco, oggetto dello sguardo disincantato del suo anziano doppio, si trova alle prese con un amore non corrisposto e con memorabili epifanie isolane, che nella scrittura colta e infarcita di preziosismi evocano il barocco architettonico dei palazzi e delle chiese del profondo sud di Sicilia (di Modica e dintorni) facendo risuonare, come ha osservato Sciascia, “accordi da rondò”15.

Lo svolgersi della storia appare come una “dilatazione dell’io”16, un percorso che svela una realtà molteplice, fondata sulla trasformazione: “Questo è ora, guardatelo, il ragazzo di cento pagine fa” (XVII bis, p. 398).

Il giovane artista del tempo che fu è un personaggio che allo sguardo retrospettivo dell’autore appare un “giovane zufolo”, una dolceamara parodia siciliana dello Stephen Dedalus joyciano, che occupa la pagina 393 del Dizionario dei personaggi di romanzo.

La letteratura si ripiega su se stessa, e tra le molte citazioni occulte e rimandi intertestuali, il titolo del capitolo VI bis (“Ritratto dell’artista come giovane zufolo”) è un intenzionale ritorno al Portrait di Joyce, la volontà (e la necessità) dello scrittore di stabilire un dialogo con il passato, con quel modello fondamentale di Ritratto d’artista novecentesco, sperimentando però, nello stesso tempo, la sua irreversibile inattualità che si esprime in una tragicomica parodia17. E così in apertura del capitolo VI bis, l’autore si presenta “com’era allora”:

«Ero uno zufolo capace di due note sole allora. Facile da suonare, ma bisognava impararmi. Erano due, le note, una d’afflizione, da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi uì uì uì, come quando bastonano un cane; l’altra di letizia trallalà trallallera, che veniva da una violenza di fame per ogni fumante rosso ragù della vita.» (cap. VI bis p. 293).

La vita è per Bufalino una costante oscillazione tra tanatofilia e tanatofobia, un dualismo che si fonda sulla predilezione retorica per l’ossimoro, contenuto nello stesso titolo Argo il cieco, e legato soprattutto a temi esistenziali, che secondo Enzo Papa18 farebbe di Bufalino un ultimo epigono della grande stagione del decadentismo europeo. E se nel Ritratto di Joyce l’estetismo dannunziano fin de siecle ha per molti aspetti influenzato una concezione estetica che ferma il tempo nella folgorazione di un’epifania, in Argo il cieco l’incorruttibile bellezza di un attimo (la stasi joyciana derivata dalla filosofia tomistica19) diventa un illusorio desiderio di vita minacciato dall’attesa della morte.

«L’inganno cioè che il sole s’impietri dov’è, e la luna; che nel nostro sangue nessuna cellula invecchi di un attimo in questo attimo stesso che sembra passare e non passa, sembra non passare ed è già passato». (cap. VIII, p. 306).

L’epifania della ragazza sulla spiaggia chiude il quarto capitolo del Portrait di Joyce (è il passaggio riportato da Bufalino nel suo Dizionario) e rivelerà a Stephen Dedalus, che poco prima in un colloquio con il direttore del collegio gesuita era stato invitato ad entrare nell’ordine, la strada definitiva e profana dell’arte. Questo momento rappresenta la piena realizzazione letteraria del concetto di epifania, definito nel capitolo XXV di Stephen Hero (1905), incompiuto romanzo d’artista, la cui redazione venne interrotta da Joyce per poi confluire nel nuovo progetto di A Portrait of the Artist as a Young Man: “Per epifania intendeva Stephen un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri degni di essere ricordati”20.

L’immagine della ragazza ferma sulla riva di un mare smeraldino è costruita secondo un sensuale estetismo che crea un parallelismo simbolico tra la fanciulla (“angelo della gioventù e della bellezza mortale”) e un piumato uccello marino:

«Una ragazza gli stava davanti in mezzo alla corrente: sola e immobile, guardando verso il mare. Pareva una creatura trasformata per incanto nell’aspetto di un bizzarro e bell’uccello marino. Le sue lunghe gambe nude e sottili erano delicate come quelle di un airone e intatte, tranne dove una traccia smeraldina di alga era restata come un segno sulla carne. Le cosce, più piene e sfumate come l’avorio, erano nude fin quasi alla anche, dove gli orli bianchi dei calzoncini erano come un piumaggio di soffice pelurie candida21 ». (cap. IV).

Nel XIII capitolo di Argo il cieco, durante una passeggiata nella cava antica di Ispica con l’amata Maria Venera, il giovane protagonista replica il sensuale lirismo dell’epifania joyciana, ma da candido ed etereo uccello marino la ragazza viene trasformata in una più prosaica e scura allodola canterina:

«Era vestita di nero, come sempre. Il solito abitino liso, una mussola da rigattiere. Ma come le stava bene, la faceva sembrare un uccello. Con le gambe sottili e snelle ed un aire naturale di volo. Una cicogna, una gru. Se non un’allodola, per come cantava». (p. 347).

La degradazione ad un livello di quotidiano realismo dell’epifania joyciana non è soltanto un gioco parodico, ma la necropoli, luogo di confine tra la da “Spiragli”, 2010, nn. 3-4 – Saggi vita e la morte (proprio come la riva del mare rifletteva in Joyce un confine tra essere e apparire ) diventa un simbolo della tragica condizione del vivere, che inevitabilmente (e persino allegramente) procede verso la morte:

“Noi ci spingemmo avanti, catecumeni di un felice e verde Al di là. Senza i rumori di catene, i lamenti, i flosci voli di pipistrelli che accompagnano i viaggi sotterra d’ogni Enea o Vas d’elezione.” (XII, p. 345)

Come ha evidenziato Margaret Doody22 esaminando i tropi del romanzo a partire dall’età classica, ambientazioni di paludi o spiagge, la presenza del mare o di tombe, caverne o labirinti, rappresentano spazi liminali (dal latino limen, soglia), luoghi cioè che per loro costituzione comunicano un’idea di confine, di indeterminatezza tra uno stato ed un altro. Il luogo della sepoltura richiama un concetto di Morte in Vita, una realtà dominata da un’idea di decomposizione, dove anche l’identità si sbriciola. E il personaggio è condannato alla lacerazione, come il protagonista di Argo il cieco, imprigionato nel sogno memoriale dell’autore (“scrivere è stato per me solamente un simulacro del vivere”; XVII bis ) che solo il lettore può condividere nella malinconica scoperta dell’infelicità.

Ed infine l’isola è protagonista, al pari degli stessi personaggi, delle storie d’artista di Joyce e di Bufalino. Stephen Dedalus ha compiuto un viaggio simbolico-rituale dentro il ‘labirinto’23 della sua isola irlandese, e la stessa formazione dell’artista può leggersi come iniziazione cultica attraverso riferimenti al mito di Dedalo, la cui storia rimanda proprio alla presenza di un’isola (Creta e anche la Sicilia). La percezione labirintica dello spazio suggerisce l’idea di un passaggio sotterraneo, o di un luogo segreto, in cui il meraviglioso si fonde con il mostruoso, come quello abitato dal Minotauro.

Un cordone simbolico lega l’artista all’isola in una perenne oscillazione di colpa e desiderio, che nel Portrait culminerà nella scelta di Stephen dell’esilio nel mondo, nella necessità di abbandonare l’isola, per poi però ricrearla nella letteratura: la profetica immagine di “nubi screziate sul mare” che sembrano “nomadi in marcia” verso occidente24. E infine, l’isola Giulia o Ferdinandea, sprofondata nel mare per poi un giorno riemergere, compare nel romanzo di Bufalino, e rappresenta l’isola come luogo della natura magico e inquietante, teatro del disorientamento spazio-temporale; un non-luogo mitico che appartiene alla memoria collettiva e che rimane sospeso tra assenza e presenza, morte e vita, sogno e storia.

«Allora cominciai a dirle dell’isola Giulia ovvero Ferdinandea emersa da queste acque fra Sciacca e Pantelleria un secolo addietro e passa. Di sabbia fine, nera e pesante, con un ponticello nel mezzo e un laghetto d’acqua bollente nella pianura. Il mare la circondava, un mare color celeste ma untuoso come d’olio. E l’isola visse qualche tempo, poi il mare se la riprese. Un giorno riemergerà ». (cap. X, p. 237).

Note

1 T. S. Eliot, Tradition and the Individual Talent (1919), trad. it. Tradizione e talento individuale in T. S. Eliot, Opere 1904-1939, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 2001, p. 394 e segg.
2 Ibidem.
3 Ibidem.
4 Gesualdo Bufalino, “Passione del Personaggio”, introduzione al Dizionario dei personaggi di romanzo da Don Chisciotte all’Innominabile, (1982), Milano, Rizzoli, 2000, p. 15.
5 Bufalino aveva in mente gli studi di G. Genette, Figure III, Torino, Einaudi, 1976; G. Lukàcs, Problemi di teoria del romanzo, Torino, Einaudi, 1976; M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977; M. Robert, L’antico e il nuovo, Milano, Rizzoli, 1969; J. Rousset, Forme e significato, Torino, Einaudi, 1976. Tutti compaiono in nota all’introduzione cit.
6 G. Bufalino, Introduzione al Dizionario dei personaggi di romanzo, cit. p. 2.
7 Cfr. Thomas Pavel, Mondi di Invenzione (1986) trad. it. a cura di Andrea Carosso, Einaudi, Torino, 1992.
8 Cfr. Gesualdo Bufalino, Giuseppe Leone, L’isola nuda, Bompiani, Milano, 1998.
9 Gesualdo Bufalino, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, Sellerio, Palermo, 1984, ora in Gesualdo Bufalino, Opere 1981-1988, a cura di Maria Corti e Francesca Caputo, Bompiani, 1992. Le pagine indicate si riferiscono a questa edizione.
10 Vittorio Coletti, “Spazio e tempo nel romanzo italiano contemporaneo” in Le configurazioni dello spazio nel romanzo, Bulzoni, Roma p. 205.
11 Cfr. Alfonso Berardinelli, “L’incontro con la realtà”, in Il Romanzo a cura di F. Moretti, vol. II, “Le Forme”, Einaudi, Torino, 2002.
12 Brian Stonehill, The Self-Conscious Novel. Artifice in Fiction from Joyce to Pynchon, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1988, p. 3: “the self-conscious novel is an extended prose narrative that draws attention to its status as a fiction”.
13 “ci troviamo davanti a non molto di diverso per le situazioni e i materiali, da tanta arcaica letteratura neorealistica” L. Mondo, “Argo, vecchio e cieco alla ricerca degli anni felici”, in “Tuttolibri”, 23 febbraio 1985.
14 “His recent monstruous reveries came thronging into his memory.” J. Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man, cap. II, edited by S. Deane, Penguin, 2000, p. 95. 15 Leonardo Sciascia ha definito Argo il cieco un “racconto rondò” nell’articolo “La memoria è musica”, L’Espresso, 23 dicembre 1984.
16 Cfr. Angelo Guglielmi, “La dilatazione dell’io”, in “Nuove Effemeridi” n. 18/1992/II.
17 Sui “Ritratti d’Artista” di Joyce e Bufalino e sulla presenza di uno spazio narrativo simbolico Cfr. Maria Paola Altese, Portrait della memoria. Lo spazio come simbolo, Ila Palma, Palermo, 2005.
18 Enzo Papa, “Gesualdo Bufalino” in “Belfagor”, Firenze 52, 5, 1997.
19 Maurice Beebe, “Joyce and Aquinas: the Theory of Aesthetics”, in James Joyce: the Dubliners and A Portrait of the Artist as a Young Man, Morris Beja (editor), Macmillan, 1973.
20 Trad. it. di Cesare Pavese in Joyce. Racconti e romanzi, Mondadori, 1974.
21 James Joyce, Dedalus: Ritratto dell’Artista da giovane, trad. it. di Cesare Pavese, Mondadori, Milano,1974. Versione inglese cit. p.185. “A girl stood before him in midstream, alone and still, gazing out to sea. She seemed like one whom magic had changed into the likeness of a strange and beautiful seabird. Her long slender bare legs were delicate as a crane’s and pure save where an emerald trail of seaweed had fashioned itself as a sign upon the flesh. Her thighs, fuller and softhued as ivory, were bared almost to the hips where the white fringes of drawers were like featherings of soft white down.”
22 Margaret Doody, The True Story of the Novel, trad. it. La vera storia del romanzo, Sellerio, Palermo, 2009.
23 Diane Fortuna, “The Art of the Labyrinth” in Critical Essays on James Joyce’s A Portrait of the Artist as a Young Man, Brady-Carens editors, Macmillan, 1998.
24 “Disheartened, he raised his eyes towards the slowdrifting clouds, dappled and seaborne. They were voyaging across the deserts of the sky, a host of nomads on the march, voyaging high Ireland, westward bound.” 

 

Da “Spiragli”, anno XXII, n.2, 2010, pagg. 5-10.




MADRE, MADRE

La tristeza u hoyo en la tierra,
dulcemente cavado a fuerza de palabra,
a fuerza de pensar en el mar,
donde a merced de las ondas bogan lanchas ligeras.

Ligeras como pájaros núbiles,
amorosas como guarismos,
como ese afán postrero de besar a la orilla,
o estampa dolorida de uno solo, o pie errado.

La tristeza como un pozo en el agua,
pozo seco que ahonda el respiro de arena,
pozo. – Madre, ¿me escuchas?: eres un du1ce espejo
donde una gaviota siente calor o pluma.

Madre, madre, te llamo:
espejo mío silente,
dulce sonrisa abierta como un vidrio cortado.
Madre, madre, esta herida, esta mano tocada,
madre, en un pozo abierto en el pecho o extravío.

La tristeza no siempre acaba en una flor,
ni esta puede crecer hasta a1canzar el aire,
surtir. – Madre, ¿me escuchas? Soy yo que como alambre
tengo mi corazón amoroso aquí fuera.

Vicente Aleixandre Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratura 1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ámbi-to, Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Dialogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 48.




LA PALABRA

Esas risas, esos otros cuchillos. esa delicadísima penumbra…
Abe las puertas todas.
Aquí al oído voy a decir.
(Mi boca suelta humo.)
Voy a decir.
(Metales sin saliva.)
Voy a hablarte muy bajo.
Pero estas dulces bolas de cristal,
estas cabecitas de niño que trituro,
pero esta pena chica que me impregna
hasta hacerme tan negro como un ala.
Me arrastro sin sonido.
Escúchame muy pronto.
En este dulce hoyo no me duermo.
Mi brazo, qué espesura.
Este monte que aduzco en esta mano,
este diente olvidado que tiene su último brillo
bajo la piedra caliente,
bajo el pecho que duerme.
Este calor que aún queda, mira lo ¿ves?, allá más lejos,
en el primer pulgar de un pie perdido,
adonde no llegarán nunca tus besos.
Escúchame. Más, más.
Aquí en el fondo hecho un caracol pequenisimo,
convertido en una sonrisa arrollada,
todavía soy capaz de pronunciar el nombre,
de dar sangre.
Y…
Silencio
Esta música nace de tus senos.
No me engañas,
aunque tomes la forma de un delantal ondulado,
aunque tu cabellera grite el nombre de todos los horizontes.
Pese a este sol que pesa sobre mis coyunturas más graves.
Pero tápame pronto;
echa tierra en el hoyo:
que no te olvides de mi número,
que sepas que mi madera es carne,
que mi voz no es la tuya
y que cuando solleces tu garganta
sepa distinguir todavía
mi beso de tu esfuerzo
por pronunciar los nombres con mi lengua.
Porque yo voy a decirte todavía,
porque tu pisas caracoles
que aguardaban oyendo mis dos labios.

Vicente Aleixandre

Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratura

1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ámbito,

Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Dialogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pagg. 47-48.