Il teatro di Ionesco 

L’11 maggio del 1950, al Théatre des Noctambules di Parigi, veniva rappresentata per la prima volta La Cantatrice chauve di Eugenio Ionesco, con la regia di Nicolas Bataille. Fu un grande avvenimento o, meglio, quella data segnò l’inizio di un teatro nuovo che venne designato con diverse etichette. Noi non entriamo nel merito della questione, perché almeno per il momento non ci interessa o, se ci interesserà, in rapporto a quello che è l’oggetto del nostro discorso. 

La Cantatrice chauve, che ininterrottamente da allora viene rappresentata a Parigi e nel mondo, ha in sé la tematica del teatro di Ionesco, con la conseguente rottura con il teatro tradizionale e con il teatro engagé di Brecht e di Sartre. Ionesco, pur mettendo al centro del suo discorso l’uomo, non presenta dei caratteri o degli eroi, non lancia dei messaggi; egli porta sulla scena ciò che è stato da sempre trascurato e nemmeno minimamente preso in considerazione: la banalità che è nella nostra esistenza, lo spirito di contraddizione che è in noi, la messa in discussione del linguaggio. E su queste linee, anche se con diverse sfumature, si muoveranno i nuovi drammaturghi (Beckett, Schéhadé, Genet, Pichette, lo stesso Adamov). 

Ionesco definì questo suo modo di fare teatro «anti-teatro», volendo rimanere dentro il teatro, sebbene gli altri lo abbiano etichettato come «teatro dell’assurdo» per la novità con cui affronta i problemi esistenziali, difficilmente riconducibili nell’ottica del teatro tradizionale, e per la libertà stessa con cui vengono trattati, rompendo con la staticità di quel teatro. 

Certo, influì sul «nuovo teatro» la situazione creatasi in conseguenza alle due grandi guerre, con le distruzioni e con le assurdità che esse, più che mai, evidenziavano, mentre era facile rendersi conto come le manifestazioni artistiche non solo non rappresentavano la realtà, ma la travisavano, contribuendo così a disorientare ancor più gli uomini che, usciti da quelle catastrofi – siamo negli anni Cinquanta -, erano già entrati nel clima della cosiddetta guerra fredda. E se il disagio era generalizzato, tanto più veniva vissuto dagli intellettuali che volevano pure trovare un modo per esternare la realtà senza falsarla: quella realtà che cadeva sotto i loro occhi e quella che interiormente stavano vivendo. 

Alcuni (Brecht, Sartre, Camus e altri) portavano avanti nelle loro opere un discorso politicamente impegnato, ma, volendo mandare dei messaggi, per forza di cose dovevano risultare di parte, perdendo così di vista, nella sua essenza, l’uomo. Ionesco e i nuovi drammaturghi vanno contro questo tipo di teatro, presentando la realtà com’è, amara, spesso banale, eppure reale specchio dell’umana esistenza. In essi non c’è altra pretesa che questa: dire le cose come stanno. senza alcuna presunzione, non nascondendo niente. Ma, appunto perché sono «verità elementari», scuotono l’uomo in tutto il suo essere e lo fanno riflettere. 

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Il teatro è, per Ionesco, un campo aperto ove tutto è possibile rappresentare, anche ciò che sembra non avere né testa né coda, come avviene nella Cantatrice chauve, dove gli Smith dicono frasi senza senso, ripetitive e contraddittorie. 

La Cantatrice chauve, che Ionesco sottotitola: Anti-pièce. proprio perché si diversifica dal teatro tradizionale. trae la sua linfa da un eserciziario per l’apprendimento della lingua inglese. È l’occasione perché Ionesco vada contro il linguaggio convenzionale, vuoto e insignificante(1). Si accorge che quelle frasi accostate tra loro producono uno strano effetto. come di chi parla tanto per parlare. per cui la comprensione risulta incomprensibile e astratta. Al di là di tutto questo, ecco che subentra. però. il lato comico del discorso: e se il pubblico alla prima rappresentazione rimase frastornato, ne uscì anche divertito per la comicità che involontariamente è alla base della pièce. 

IL SIGNOR SMITH, sempre col suo giornale: C’è una cosa che non capisco. Perché nella necrologia, che il giornale riporta, si dà sempre l’età della persona deceduta e mai quella dei neonati? È un non senso. 

LA SIGNORA SMITH: Io non me lo sono mai chiesto! Un altro momento di silenzio. L’orologio suona sette volte. Silenzio. L’orologio suona tre volte. Silenzio. L’orologio non suona affatto. 

IL SIGNOR SMITH, sempre col suo giornale: Ecco, è scritto che Bobby Watson è morto. 

LA SIGNORA SMITH: Mio Dio, poveretto, quando è morto? 

IL SIGNOR SMITH: Perché ti meravigli? Lo sapevi bene. È morto due anni fa. Ti ricordi, siamo stati al suo seppellimento, un anno e mezzo fa. 

LA SIGNORA SMITH: Certo che mi ricordo. Mi sono ricordata subito, ma non capisco perché tu stesso sei rimasto meravigliato ad apprenderlo dal giornale.

IL SIGNOR SMITH: Non era sul giornale. Sono già tre anni che si è parlato del suo decesso. Me lo sono ricordato per associazione di idee(2). 

Già questo colloquiare è buffo e insignificante. Così è tutta la pièce che si svolge in un interno, con protagonisti gli Smith, appunto, e un’altra coppia, i Martin, affiancati dalla governante Mary e dal Capitano dei pompieri. 

Niente di particolare nella scenografia, vivificata, però, da un inconsueto movimento che mette in risalto i personaggi e, soprattutto, il loro dialogare e il dialogo in genere, causa continua di malintesi. Sotto accusa è la borghesia emergente negli anni Cinquanta, conformista, ricca soltanto di frasi fatte e di pretese che ne tradiscono le origini e la vuotaggine. 

La pièce, che è un atto unico, consta di undici scene; non narra una storia, ma mette assieme stati d’animo diversi che, intensificati, sfociano nella comicità, come avevamo accennato sopra. Comunque, è una comicità che, se sulle prime fa ridere, lascia subito l’amaro in bocca e i suoi effetti sono altamente drammatici. Questo perché il teatro di Ionesco non è staccato dalla realtà, ma vive di essa. Il senso di angoscia, di insoddisfazione, che è nell’uomo, viene tradito dalle parole che lo intensificano ancora di più, dando a tutto l’insieme una progressione drammatica inaspettata. È, questo, un punto d’arrivo della poetica di Ionesco, ma è anche un punto di contatto con l’arte di Pirandello, che proprio sul comico aveva poggiato le premesse dell’umorismo che sta alla base del suo teatro. 

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Il teatro di Ionesco è una parodia del linguaggio e del modo di fare medio-borghese. 

La Cantatrice chauve è il primo tentativo bene riuscito, anche se all’inizio fece parlare molto di sé. D’altronde, il pubblico e la critica non erano abituati a questo genere di teatro, e dovette passare parecchio tempo prima di uscire fuori dalla tradizionale ottica teatrale. E se qui, in questa prima pièce, il linguaggio, messo sotto accusa per la banalità e per la ripetitività (si veda, ad esempio, la scena IV, dove i coniugi Martin scoprono dopo un lungo scambio di battute di essere marito e moglie) subisce di tanto in tanto un’accelerazione che alla fine esplode con quel .Non di qua, ma di là, non di qua, ma di là, non di qua… “, nelle opere che seguiranno, come ne La Leçon, c’è un’intensificazione dell’azione, anche se poi essa ripresenterà, seguendo una struttura circolare, la scena dell’inizio. Così, a chiusura della Cantatrice, avremo i Martin che ripetono la stessa scena di apertura degli Smith, mentre nella Leçon, il Professore, dopo avere ucciso, si prepara a uccidere ancora. 

L’attenzione dell’autore non è rivolta al carattere dei personaggi, ma al vissuto quotidiano, monotono eppure pieno di imprevisti, vuoto e amaramente deludente, capace solo di farci consapevoli dell’assurdità della nostra esistenza. Per questo acquistano importanza nel suo teatro quegli elementi che erano stati da sempre trascurati: gli oggetti, la luce, il silenzio, le decorazioni. Essi rappresentano la materializzazione e il vuoto dell’uomo moderno, la sua mancanza d’identità. Anche le didascalie, che già in Pirandello avevano assunto un ruolo non indilTerente per la comprensione e per la rappresentazione delle sue commedie, hanno una fondamentale importanza. E se il testo molto spesso è scarno e si limita all’essenziale, esse fanno scendere nel particolare e calare nella realtà che l’autore vuole evidenziare. Dietro questa esigenza c’è la preoccupazione (comune a tutti gli autori, del resto) che la propria opera non venga travisata e rispecchi i sentimenti e le tensioni che sono alle sue origini. 

Con Les Chaises Ionesco rappresenta sulla scena la solitudine, la mancanza di identità, gli oggetti. ricorrendo a una sorta di accelerazione che dice quanto è deprimente la vita. Le sedie che si moltiplicano a dismisura sottolineano la materialità invadente, il vuoto, l’assenza, che sono nell’uomo di oggi. Nei due vecchi protagonisti c’è tanta nostalgia per la vita che fu. ma manca loro lo slancio che li faccia uscire dallo stato di torpore angoscioso in cui sono caduti. 

IL VECCHIO: Sono le 6 del pomeriggio… È già notte. Ti ricordi, un tempo. non era così; era ancora giorno alle 9 di sera. alle lO. a mezzanotte! 

LA VECCHIA: È pur vero. che memoria! 

IL VECCHIO: È cambiato tutto. 

LA VECCHIA: Perché, secondo te? 

IL VECCHIO: Non so, Semiramide, mia cacca… Può darsi, perché più si va, più ci si affonda. A causa della terra che gira, gira, gira, gira… 

LA VECCHIA: Gira, gira. tesoruccio mio… (Silenzio,) Ah! Sì, sei certamente un gran saggio. Sei molto dotato, tesoro. Avresti potuto essere presidente capo, re capo, o anche dottore capo, maresciallo capo, se avessi voluto, se avessi avuto un po’ d’ambizione nella vita… 

IL VECCHIO: A cosa ci sarebbe servito? Avremmo vissuto un po’ meglio… e poi. abbiamo una posizione. sono maresciallo lo stesso. d’alloggio. visto che sono portinaio. 

LA VECCHIA (accarezza il Vecchio come si carezza un bambino): Tesoruccio mio, mio piccolo… 

IL VECCHIO: Mi annoio molto. 

LA VECCHIA: Eri più allegro, quando guardavi l’acqua… Per distrarci, fingi come l’altra sera. 

IL VECCHIO: Fingi tu, tocca a te. 

LA VECCHIA Tocca a te. 

IL VECCHIO: A te. 

LA VECCHIA: A te. 

IL VECCHIO: A te. 

LA VECCHIA: A te. 

IL VECCHIO: Bevi il tuo tè, Semiramide. Non c’è tè, evidentemente (3) 

Un senso di nostalgia che fa cadere nella delusione e nella più stupida banalità. Ora che la parola non è più capace di esprimere la realtà della nostra esistenza, prendono corpo gli oggetti che proliferano, marcando ancor più uno stato di disagio che non solo deprime, ma spinge all’annullamento e alla morte. E i due vecchi si uccideranno nella vana attesa di qualcuno che li avrebbe dovuto sollevare e farli uscire dalla confusione mentale in cui erano caduti. Solo all’ultimo appare il tanto atteso Oratore che, però, è sordo e muto, e non riesce a comunicare dinanzi a quell’assenza-presenza rappresentata dalle sedie vuote. 

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L’Oratore delle Chaises, atteso dai due vecchi e dalla moltitudine di “invisibili”, non parla perché sordomuto; nella Cantatrice chauve assistiamo a qualcosa di simile: non c’è nella pièce nessuna che sia calva e che canti. Nell’una e nell’altra Ionesco si serve degli oggetti e del linguaggio per provocarci. E ci riesce magnificamente bene, perché spinge chiunque alla riflessione, mette chiunque dinanzi a queste assurdità che, poi, tali non sono, se consideriamo che esse sono la parte meno apparente di noi; quella a cui diamo meno ascolto, eppure reale, anche se si tratta di un realismo che cozza con l’assurdo. 

Dietro all’apparente sperimentalismo teatrale c’è nell’opera di Ionesco un bisogno di ricerca che lo accompagnò per tutta la vita. Questo suo bisogno nasce dalla presa di coscienza dell’uomo che, uscito da due guerre nefaste, ha perso la fiducia nei valori e cerca con disperazione una nuova identità. Adesso l’uomo Ionesco vuole fare piena luce attorno a sé o, per lo meno, vuole attaccarsi a una speranza che gli prospetti l’uscita da questo vicolo cieco. Ionesco che era andato contro il teatro impegnato, ora dà un senso alla sua ricerca, volendo riscoprire i veri sentimenti e aprire un varco in un mondo che non conosca violenze e soprusi(4). 

Già in Jacques ou la Soumission c’è un attacco diretto contro il conformismo dilagante, ma meglio ancora in Rhinocéros, dove l’allusione a ogni tipo di fanatismo è più marcata e il conformismo è paragonato a una sorta di malattia sociale dilagante che contagia persino gli insospettabili. 

BÉRENGER: Riflettete, vediamo, vi rendete ben conto che abbiamo una filosofta che questi animali non hanno, un irreprensibile sistema di valori. Secoli di civiltà l’hanno consolidato… 

JEAN, sempre nel bagno: Demoliamo tutto, staremo meglio. 

BÉRENGER: Non vi prendo sul serio. Scherzate, e fate poesia. 

JEAN: Brrr… Barrisce appena. 

BÉRENGER: Non sapevo che foste poeta. 

JEAN. esce dal bagno: Brrr… Barrisce di nuovo. 

BÉRENGER: Vi conosco molto bene per credere che questo sia il vostro intimo pensiero. Perché, lo sapete molto bene che io, l’uomo… 

JEAN, interrompendolo: L’uomo… Non pronunciate più questa parola! 

BÉRENGER: Voglio dire l’essere umano, l’umanesimo… 

JEAN: L’umanesimo è superato! Siete un vecchio sentimentale ridicolo. Entra nel bagno. 

BÉRENGER: Alla fine, nonostante tutto, lo spirito… 

JEAN, dal bagno: Cliché! Mi raccontate sciocchezze. 

BÉRENGER: Sciocchezze! 

JEAN, dal bagno, con una voce molto rauca difficilmente comprensibile: Assolutamente. 

BÉRENGER: Sono meravigliato di intendervi dire ciò, mio caro Jean. Perdete la testa? Dunque, amereste essere rinoceronte? 

JEAN: Perché no! Non ho i vostri pregiudizi (5) . 

Bérenger, questo personaggio positivo che tante altre volte incontriamo in Ionesco, farà una gran fatica a imporsi e a rimanere integro nella sua personalità. Quando l’aberrazione di alcuni diviene di tanti, l’anormalità entra nella norma, mentre, al contrario, il normale sembrerà agli occhi di tutti un anormale e tale verrà considerato. Come Bérenger e quanti, come lui, vanno contro il conformismo di massa che mortifica l’uomo nella sua dignità. 

Giustamente Martin Esslin(6) ha colto nel segno il teatro di Ionesco quando dice che l’apparente assurdità della vita gli serve da pretesto per la sua ricerca sull’uomo e sulla società tendente a riscoprire quei valori elementari indispensabili per la nostra esistenza. In effetti Ionesco si indirizza verso questa riscoperta e ricerca la via per ridare all’uomo la serenità perduta. Jean, il protagonista di La Soif et la Faim, tende verso una vita migliore; Bérenger di Le Roi se meurt, dopo tanto soffrire, acquista consapevolezza e si rende finalmente conto del senso vero della vita. 

L’assurdo, di cui molto si parla, a proposito di Ionesco, va contro l’effimero e vuole consolidare certezze durature. Per questo, va scartata l’etichetta di assurdo; meglio parlare di anti-teatro, come Ionesco stesso preferisce, dal momento che, magari in forma diversa e non rinunciando al teatro, affronta la realtà, quella che tocca più da vicino l’uomo e il suo essere profondo. 

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Claude Abastado scrive: «Tutto il suo teatro è una esplorazione dell’inconscio, concepito come la fonte del pensiero e dell’azione e, nello stesso tempo, come la realtà psichica comune a tutti gli individui(7)•. L’affermazione coglie nel segno il teatro di Ionesco che la conferma ne L’Impromptu de l’Alma(8). La morte, l’aspirazione a un mondo migliore nell’aldilà e le relative incertezze sono alla base di questo teatro, anche se con tutta la buona volontà dell’autore la sua ricerca e il tentativo di dare una risposta ai perché rimangono elusi; e l’uomo Ionesco, come Jean di Le Piéton de l’air , perde quello slancio che lo aveva fatto sperare in bene, ma non demorde dal credere in un qualcosa di più duraturo. 

Le Roi se meurt è l’opera in cui Ionesco sviluppa più che in ogni altra sua pièce il tema della morte e, di conseguenza, l’impotenza dell’uomo dinanzi a questa realtà che spesso viene sottovalutata e, addirittura, dimenticata. Il re che muore è l’uomo resosi finalmente consapevole del proprio destino. Ma all’inizio insiste a non dare peso a tutto ciò, e solo quando il senso della morte, e l’idea che tutto è effimero e passeggero, cominciano a impossessarsi di lui, allora capirà che è inutile ribellarsi e che la morte, quando verrà, non chiederà mai il permesso. 

MARGHERITA: Non ne vale la pena. È irreversibile(9) . 

L’uomo che fino ad allora non aveva mostrato alcuna incertezza, adesso, tutto d’un tratto, vede crollare dinanzi a sé il mondo di cartapesta che s’era costruito, e vuole crearsi un varco per uscire da quella morsa che è l’idea ossessionante della morte, vicolo cieco faticoso per chi si accinge a imboccarlo. Alcuni uomini, magari, si arrenderanno sfiduciati a questa triste realtà, altri si rivolgeranno a Dio come ultima salvezza, altri ancora tenteranno di dare, a riprese, una ben più salutare soluzione ai loro problemi. Di questi è Eugenio Ionesco che con coraggio spinge avanti la sua ricerca, tenendo presenti la condizione umana e la futilità del destino. 

Le Roi se meurt è l’amara constatazione della morte dell’uomo, di ogni uomo che erroneamente ha posto la sua speranza nella vita. 

MARGHERITA: È tempo perduto. Sperare, sperare! (Alza le spalle.) Non hanno che questo in bocca e la lacrima all’occhio. Che abitudine (lOl. 

Ma è anche un inno alla vita, quella degna di essere vissuta nella piena consapevolezza delle nostre capacità, in vista di un bene che vada al di là 

della stessa morte. Perché, allora, Ionesco ha scritto questa pièce? Sentiamolo: 

« Sono partito da un’angoscia… Quest’angoscia era molto semplice e chiara. Essa era scaturita da qualcosa di meno irrazionale. di meno viscerale, cioè, di più logico. qualcosa più alla superficie della coscienza […l. Ero stato ammalato e avevo avuto molta paura (11) •• 

Ionesco esprime il timore e lo stato d’animo di chi sta male e si trova fra la vita e la morte. Il tempo che passa, inavvertito e impassibile, acuisce ancora di più il disagio e travolge a poco a poco ogni speranza e ogni desiderio. È allora che l’uomo riconosce i suoi limiti e cade nell’angoscia. 

A ragione, G. Dumar dice: « È questa angoscia fontamentale, esistenziale. che fa da soggetto al Roi se meurt. Mai Ionesco è andato così lontano nella descrizione dell’essere -per-la-morte. come la descrive la filosofia pessimista. da Schopenhauer a Sartre (12) ‘. Ed è questa, in effetti. la constatazione che un lettore attento farebbe, se si soffermasse soltanto su Le Roi se meurt una conclusione sconsolante e logica che è di chi arbitrariamente fa scadere tutto l’essere dell’uomo nell’ “essere-per-il-mondo” che è “essere-per-la- 

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Così come circolare è la struttura di certe pièce, anche la drammaturgia ioneschiana segue una forma circolare. Ionesco era partito parodiando il linguaggio e mettendo in caricatura la società borghese. per condannare con Tueur sans gages e Rhinocéros le aberrazioni del totalitarismo dilagante in quegli anni, specie in Romania, il suo Paese, e per constatare (La Soif et la Faim. Le Roi se meurt) l’impossibilità per l’uomo di uscire dal vicolo cieco della sua esistenza. Deluso. non potendosi elevare perché la ricerca non ha gli sbocchi sperati, l’uomo Ionesco ritorna alla sua fase iniziale, quella pessimista de La Cantatrice chauve. de Les Chaises e de La Leçon. Perché? 

La vita – dice Ionesco, a proposito de La Vase – è un continuo retrocedere. un imbrattarsi di fango. un andare verso il basso(l3). Così. in Jeux de massacre. in Macbeii e in Cefonnidable bordello egli affronta ancora il tema della depravazione collettiva. degli orrori delle guerre. dello spargimento di sangue dettato dal desiderio di prevalere sugli altri e di dominare. 

La disarticolazione del linguaggio. la sua ripetitività. le allusioni e i luoghi comuni rendono ancor più deludente e mortificante l’esistenza che non ha altra alternativa, altro scampo. se non la lucida consapevolezza delle leggi che la sovrastano. del male che incombe su tutto. 

MACBETT: Eccola tutta nuova. (Rimette la spada nel fodero. beve il boccale di vino, mentre l’Attendente esce di scena da sinistra.) No, nessun rimorso, essendo stati traditori. Non ho .fatto che ubbidire agli ordini del mio sovrano. servIZIO imposto. (Posando 11 boccale:) Molto buono, questo vino. Non risento più la stanchezza. Andiamo. 

(Guarda verso il fondo.) Ecco Banco. Hé! Come va?l14) 

Gli orrori, i misfatti delle guerre ancora una volta giustificati e voluti da ordini superiori, come in ogni tempo e in tutte le guerre: e basta la motivazione di un ordine imposto per mettere a tacere la coscienza e affogare nel vino il rimorso! Cambiano i tempi. ma l’uomo è sempre lo stesso! 

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Il teatro di Ionesco, che è un’amara riflessione sulla vita e sull’uomo, a giusta ragione, è teatro totale, nel senso che alla sua base non c’è l’uomo in sé, e inserito in un contesto sociale, ma qual è nel suo intimo, nella sua essenza e, come tale, ha veramente dell’universale. Sta qui, senza bisogno di cercare altrove, la riuscita di questo teatro che, sulle prime non fa avvertire il suo peso, ma a poco a poco attrae a sé e conquista. 

A proposito di Ionesco, si è parlato di nuovo Umanesimo. Il suo teatro valorizza l’uomo e tutto ciò che in bene è capace di fare, allontanando il male che pende sulla sua testa come la spada di Dàmocle. Un nuovo Umanesimo, questo di Ionesco, che, da una parte, mette in guardia l’uomo dagli odierni pericoli (invadente materializzazione che non gli lascia alcuno spazio e lo fa cadere nella più nera solitudine, il prevalere di ideologie che vanificano ogni suo sforzo piuttosto che innalzarlo , per cui è portato ad ammalarsi di rinocerontite – vedi Rhinocéros -, con il conseguente abbandono sfrenato a ogni eccesso), dall’altra, tende verso la ricerca di valori e verità che la dilagante materialità ha fatto dimenticare ( l’amore, il senso dell’amicizia, il dialogo, la spiritualità propria dell’uomo, l’accettazione della vita, l’ineluttabilità della morte). 

Il bello di questo teatro è che il suo autore non indica in qualche modo il suo assunto, ma procede, almeno apparentemente. senza fissi obiettivi, per cui il lettore, o lo spettatore, viene preso alla sprovvista, come quando incosciamente trovatosi immerso in un sogno e, volendone poi tirare le fila, fa difficoltà a raccapezzarsi. Ionesco è consapevole di questo(15), per cui l’azione scenica risulta molto movimentata, ricca di spunti e di contraddizioni che dicono quanto è imprevedibile la vita, mentre i personaggi non sono tutto, perché – come dicevamo – un ruolo determinante lo assolvono le luci, il silenzio, i rumori, la stessa contraddittorietà del dialogo. Quello che conta per Ionesco, e per i nuovi drammaturghi in genere, è comunicare (16), riuscire a comunicare agli altri il mondo di cui siamo un riflesso, non necessariamente ricorrendo alla parola, ma a tutte quelle manifestazioni ed espedienti che avvicinano meglio alla realtà. 

Fuori da ogni convenzionalismo, il teatro di Ionesco è soprattutto un teatro di ricerca , e quello a cui si rivolge è il mondo nel senso lato del termine. Per questo, Ionesco è scrittore di grande umanità e di finissima sensibilità. È auspicabile che molti si accostino alla sua opera, che veramente ha dell’originale e risponde appieno alle esigenze dell’uomo, mai come ora in cerca della sua vera identità. 

Salvatore Vecchio 

1) E. Ionesco, Notes et contre-notes, Paris, Gallirnard, 1966, pag. 253. 
(2) E. Ionesco,. La Cantatrice chauve, in “Théatre complet”, Paris, Gallimard, 1991, pag. 12: 
«MONSIEUR SMITH, toujours avec son journal: il y a une chose que je ne comprends pas. Pourquoi à la rubrique de l’état civil, dans le journal,donne-t-on toyjours l’age des personnes décédées et jamais celui des nouveau-nés? C’est un non-sens. 
Madame SMITH: Je ne me le suis jamais demendé! 
Un autre moment de silence. La pendule sonne sept fois. Silence. La pendule sonne trois fois. Silence. La pendule ne sonne aucune fois. 
MONSIEUR SMITH, toujours dans son journal: Tiens, c’est écrit que Bobby Watson est mort. 
MADAME SMITH: Mon Dieu, le pauvre, quand est-ce qu’il est mort? 
MONSIEUR SMITH: Pourquoi prends-tu cet air étonné? Tu le savais bien. Il est mort il y a deux ans. Tu te rappelles, on a été à son enterrement, il y a un an et demi. 
MADAME SMITH: Bien sùr que je me rappelle. Je me suis rappe/é tout de suite, mais je ne comprends pas pourquoi toi-mème tu as été si étonné de voir ça sur le journal. 
MONSIEUR SMITH: ça n’y était pas sur le Journal. Il y a déjà trois ans qu’on a parlé de son décès. Je m’en suis souvenu par association d’idées! »
(3) Ivi, pagg.142-143: 
 l.E VIEUX: Il est 6 heures de l’après-midL .. Ilfait dejà nuit. Th te rappelles,jadis, ce n’était pas ainsi; ilfaisait encorejour à 9 heures du soir, à lO heures, à minuit. 
IA V1EILLE: C’est pourtant vrai. quelle mémoire! 
LE VIEUX: ça a bien changé. 
IA V1EILLE: Pourquoi done, selon toi? 
LE VIEUX: Je ne sais pas, Sémiramis, ma crotte… Peut-etre parce que plus on va, plus on s’enfonee. C’est à cause de la terre qui toume, toume, toume, toume… 
IA VIEILLE: Toume, tourne, mon petit chau… (Silence,) Ah! ou~ tu es certenement un grand savant. Th es très doué, mon chau. Th aurais pu etre président chef, roi chef, ou mème docteur chef, maréchal chef, si tu avais voulu, si tu avais eu un peu d’ambition dans la vie… 
LE V1EUX: A quoi cela nous aurait-il servi? On n’en aurait pas mieux vécu… et puis, nous avons une situation, je suis maréchal tout de mème, des logis, puL’>que je suis coneierge. 
IA VIEILLE (elle caresse le Vicux comme on caresse un enfant): Mon petit chau, mon mignon… 
LE VIEUX: Je m’ennuie beaucoup. 
IA VIEILLE: Th était plus gai, quand tu regardais l’eau… Pour nous distraire, fais semblant comme l’autre soir. 
LE VIEUX: Fais semblant toi-mème, c’est ton tour. 
IA V1EILLE: C’est ton tour. 
LE VIEUX: Ton tour. 
IA V1EILLE: Ton tour. 
LE VIEUX: Ton tour. 
IA V1EILLE: Ton tour. 
LE VIEUX: Bois ton thé, Sémiramis. Il n’y a pas de thé, évidemment. 
(4) Per una maggiore comprensione di lonesco e del suo teatro, di grande utilità è Notes et contre-notes, citato e, in particolare, il saggio che apre il libro: L’auteur et ses problèmes, pagg. 11-43. 
(5) E. Ionesco, in “Théàtre comp1et”, pag. 601: 
BÉRENGER: Réfléchissez, voyons, vous vous rendez bien compte que nous avons une philosophie que ces animaux n’ont pas, un système de valeurs irremplaçable. Des siècles de civilisation humaine l’ont bati!… 
JEAN: toujours dans la salle de bains: Démolissons tout cela, on s’en portera mieux. 
BÉRENGER: Je ne vous prends pas au sérieux. Vous plaisantez, vous failes de la poesie. 
JEAN: Brrr… Il barrit presque. 
BÉRENGER: Je ne savais pas que vous éliez poète. 
JEAN, il sort de la salle de bains: Brrr. .. Il barrit de nouveau. 
BÉRENGER: Je vous connais lrop bien pour croire que c’est là volre pensée profonde. Car, vous le savez aussi bien que mo~ l’homme… 
JEAN, l’interrompant: L’homme… Ne prononcez plus ce motI 
HÉRENGEH: Je veux dire l’etre humain, l’humanisme… 
JEAN: L’humanisme est. périrné! Vous éles un vieux sentimental ridicule. Il entre dans la salle de bains. ÉRENGER: EnJìn, tout dc meme, l’esprit… 
JEAN, dans la salle dc bains: Des Clichés! Vous me mcontez cles betL’ies! 
HÉRENGER: Des betL’ies! 
JEAN, de la salle dc bains, d’une voix très rauque dilTicilement compréhensible: Absolument. 
HÉRENGEH: Je suL‘i élonné de vous entendre dire cela, mon cherJean! Perdez-vous la let.e? Enfìn. aimeriez-vous elre rhinocéros? 
JEAN: Pourquoi pas! Je n’ai pas vos préjugés. 
(6) M. Esslin, Le théàt.re de l’absurde, Paris, Buchet/Chastel. 1963. 
(7) «Tout son théiìtre est une exploration de l’inconscicnt, conçu comme la surce de la pensée et de l’action, et, en meme temps, commc la realité psychique commune à tous les individus» (C. Abastado, Ionesco, l’ans, Bordas, 1971, pa~. 246). 
(8) E. lonesco, in “Théatre complet”, cit., pag. 465: «Le théatre est, pour moi, la projection sur scene du monde du dedans: c’est dans mes reves, dans mes angoisses, dans mes désirs obscurs, dans mes contradictions interieures que, pour ma part, je me réserve le droit de prendre cette matière théatrale ‘.
(9) lvi, pag. 741: 
-MARGHERlTE: Ce n’est pas la peine. Elle est irréversible ‘. 
(lO) Iv~ pago 741: 
« MARGI IERITE: C’est du temps perdu. Espérer, espérer! (Elle hausse les épaules.) lls n’om que ça à la bouche et la larrne à l’oea. Quelles moeurs! -. 
(lI) C. Bonnefoy, Emratiens avec Ionesco, Paris, Bclfond, 1966, pago 90: « Je suls parti d’une angolsse… Cette angoisse était trés simple, trés claire. Elle a été ressentie d’une façon molns irrationelle, moins viscérale, c’est-à-dire plus logique, plus à la surface de la conscience […]. Je venais d’ctre malade et j’avais eu très peur ‘. 
(12) G. Dumar, Frère, a.raut mourir- Le Roi se meurt – Odéon, in “Le Nouvel Obsevateur”, 6 Dic. 1976, pag. 103. morte”. Non così è per Ionesco che – come abbiamo detto – non solo non ha cessato mai di ricercare Dio. ma fa pensare nei suoi ultimi scritti (“La quete intennittente”. “Maximilien Kolbe”) a una concezione più rasserenante della vita. 
(13) M. C. Hubcrt, Eugène Ionesco, l’aris, Seui\, 1990. Pago 260: • Ce qui se passe dans In Vase, c’est ce qui se passe dans la vie, dans notre viCo Nous avons l’impression – c’est un blasfèmel – que Dicu a une volonté d’involution. Pour moi, je trouve qu’il est tout à fait illogique, non nature!, anormal, pathologique qu’au lieu dc nous épanouir, à mesurc qUe nous avançons dans l’age, nous nous dégradions. La vie devrait étre un épanouissement, une évolution favorable et non pas une involution ‘. 
(14) E. Ionesco, in “Théatre complet”, cit., pag.lD48: • MAC13E1T: La voilà toute neuve. (Il remet san épée dans le fourreau, boit la cruchc dc vin, tandis quc l’ordonnancc sort de scéne par la gauche.) Non, pas de remords, puisque c’était cles traitres. Je n’aifait qu’obéir aux ordres de mon souverain. Service commandé. (l’osant la cruche:) Très bon, ce vino Je ne ressens plus 
(15) Cfr. nota 8, pag. 12. 
(16) E. Ioncsco, Notes et contre-nDles, cit., pag. 197. 

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 8-14.




 Il profumo della vita e altro 

Dino D’Erice, pseudonimo di Dino Grammatico, politico e pubblicista, fondatore di numerose riviste, scrittore di storia regionale siciliana, poeta. 

Pubblichiamo dall’ultimo suo libro, Il verde sulle pietre, alcune poesie in cui è facile cogliere i temi cari a Dino D’Erice, riconducibili tutti all’amore per la vita, che è sacrificio, lavoro, tradizione, terra (specie quando si tratta della sua Sicilia), ricordo. 

Dino D’Erice, col saputo dosaggio del verso che gli è proprio, partecipa al lettore questa ricchezza di sentimenti e lo apre all’ascolto di ciò che si porta dentro, in un momento in cui tutto sa di frenetico e di passiva accettazione nel nome del più deleterio conformismo. 

Salvatore Vecchio

Da “Spiragli”, anno X, n.1, 1998, pag. 44.




 Il mio paese 

Sono nato in un paese di cui conservo solo il ricordo. Vi passai la mia infanzia, e me ne allontanai quando cominciai a guardarmi attorno, scoprendo il mondo con occhi non più bambini. 

Cosa potrei allora dire del mio paese, se non quello che mi porto dentro e mi appartiene? 

Sorge su un’altura e guarda il mare. Una volta, dalle parti più alte, ad occhio nudo si saranno viste entrare nelle rade le navi pirata ammainanti bandiera bianca, ché non credo i pirati abbiano usato qui le scimitarre o i tromboni. 

A strapiombo sul mare sorgeva il castello fatto costruire nel 1358 da Federico III Chiaramonte, conte di Modica, a cui questa terra apparteneva. Un maniero imprendibile, utilizzato come deposito di grano e roccaforte in caso di emergenza. Il visitatore l’avrebbe potuto ancora ammirare, se il tempo, le incurie e l’ignoranza degli uomini (queste ultime superano di gran lunga il primo nella loro opera di distruzione) non l’avessero reso un immenso cumulo di macerie, utile ricovero per i delinquenti o, nel casocmigliore, improvvisato ovile. 

Ricordo che il maestro delle elementari – un uomo di mezza età, serio, poco colloquiale con noi ragazzi, ma umanamente buono (anche a volerlo citare, non ricordo il nome) – parlando delle origini del mio paese, diceva che sul posto dove venne fondato sorgevano tante palme e da esse prese il nome. 

Contadini robusti, armati di accette, asce e picconi, vennero dalle vicine terre di Licata, e ci fu lavoro per tutti e per diverse stagioni. A testimoniare ciò quella brava gente lasciò una palma che, a sfida del tempo radicalmente mutato e degli uomini. resistendo, ancora svetta in cìelo i suoi rami, sicuro riparo dei passerotti. Vanno lì nella bella stagione a nidificare. 

Contadini d’una volta su cui si poteva contare, e con pochi grilli per la testa, che tramandavano ai figli i lavori, ed erano gratificati e edificati dai loro signori, ché non credo ci siano paesi che vantano santi, beati e uomini di chiesa quanti il mio. 

A fondare il mio paese furono due gemelli, Carlo e Giulio Tomasi, due sant’uomini all’antica che avevano a cuore il bene degli altri e praticavano le virtù come massime di vita a cui sempre bisogna guardare se si vuole la misericordia divina dalla nostra parte. Sta di fatto che Carlo rinunciò di lì a poco al ducato per vestire l’abito talare, e divenne teologo e servo di Dio. Al posto suo subentrò il fratello Giulio, II duca di Palma e I principe di Lampedusa. Carlo lasciò che il fratello continuasse la sua opera e che Giulio sposasse persino la sua ex fidanzata, Rosalia Traina, baronessa di 

Torretta e di Falconieri. 

Il mio paese allora doveva essere costituito da poche casupole di coloni che sorgevano attorno al palazzo ducale. Ma ben presto Giulio Tomasi si diede alla costruzione di chiese e monasteri, seguendo i consigli che gli venivano da più parti. Innanzitutto quelli del fratello Carlo che, dal monastero dei padri teatini di Palermo, dove s’era rinchiuso, insisteva perché si adoperasse a fare del bene al prossimo e, con opere più che con parole, tenesse viva la fede evangelica tra la gente. E poi quelli della moglie, Rosalia Traina, che di lì a qualche anno si sarebbe fatta suora. 

Giulio I Tomasi di Lampedusa finì per cedere il palazzo ducale che divenne monastero benedettino e se ne fece costruire un altro dove passò i suoi giorni nella preghiera e in opere di bene. 

Il duca santo – così da allora cominciarono a chiamarlo – era un uomo tutto cuore che non si faceva sfuggire la pratica della carità che, anzi, programmava e curava di 

persona, vestendo gli ignudi e sfamando gli affamati. Anche lui si era votato interamente a Dio, dopo che aveva visto farsi monache le quattro figlie e la moglie, da cui consensualmente nel 1661 si era diviso, volendo «vivere in celibato per il rimanente della loro vita». 

Da una famiglia così pia e serafica chiunque si sarebbe aspettato un santo, e il santo c’è stato nella persona di Giuseppe Maria (nato nel 1649), figlio del duca Giulio e della baronessa Rosalia Traina. 

Seguendo le orme dello zio Carlo, Giuseppe Maria Tomasi abbandonò ogni cosa e si fece religioso, entrando nel monastero dei padri teatini, a Palermo. E di qui a qualche anno andò a Roma per continuare gli studi di filosofia e teologia. 

Chi volesse rendergli visita, trovandosi a Roma, può portarsi nella chiesa di S. Andrea della Valle. Qui in una cappelletta della fiancata destra riposano i suoi resti mortali. 

Non saprei descrivere quale fu la mia impressione andando la prima volta a rendere omaggio ad un si grande concittadino. So soltanto che sembrava come chi, dormendo, è in balia di un piacevole sogno, e la sua espressione è serena, soffusa di gioiosa dolcezza. 

A volte mi chiedo dove siano andati a finire la santità e il timore di Dio degli antichi miei concittadini, ora che il paese è noto e conosciuto esclusivamente per i fatti e i misfatti che vi succedono. Chissà, forse per una rivalsa delle forze demoniache che nei tempi passati non avevano mai avuto il sopravvento o, forse. per la confusione che nella gente c’è tra ciò che è bene e ciò che è male. Ma, intanto, spesso si sconfessa la ragione e si rifiutano certe norme del vivere civile. 

Il paese della mia infanzia differisce di molto dall’odierno «Comune d’Europa», come recita la scritta turistica postavi all’entrata. Ora non lo riconosco più, e mi sento un estraneo tutte le volte che vi ritorno. Certo, lo starne lontano ha influito parecchio. Le cose vengono guardate da angolature diverse, e l’uomo è portato a elaborarle criticamente e a confrontarsi con gli altri, uscendo dal suo piccolo e curando i contatti, indispensabili in una società in continuo cammino come la nostra. Aumentate le sollecitazioni, crescono gli interessi e, vuoi o no, sei portato ad arricchirti culturalmente. Al contrario, quando non ci sono stimoli, tutto rimane fermo, e non c’è niente che contribuisca a farti uscire dal chiuso in cui ti sei cacciato, e vi rimani come farfalla che non sa allontanarsi da una lampadina accesa. 

Eppure qualcosa è cambiata al mio paese. C’è il passeggio, e dal primo pomeriggio fino a sera, una marea di giovani attraversa in lungo e in largo corso G. B. Odierna. Certo, l’evoluzione arriva anche qui, dove in passato bisognava stare attenti a guardare una donna. Subito veniva chiamato in causa l’onore e allora scattavano i ragionamenti chiarificatori e le scuse. Altri tempi, quando, per lo meno, si chiacchierava e tutto finiva lì, bevendo del buon vino sopra i discorsi che si protraevano fino a notte. Ora che il progresso ha mandato in soffitta l’onore, non c’è motivo alcuno di ragionare. E chi sbaglia. paga, perché la giustizia. al mio paese, non sta (nemmeno a parole) nei tribunali. 

Il progresso ne ha fatta di strada! Ci sono al mio paese le vigili, e si fanno sentire, coi loro fischietti, anche se nessuno le tiene in considerazione. E, per chi viene da fuori, è un rischio guidare. Gli stop, i divieti, i sensi unici non sono rispettati, e chiunque ha dalla parte sua la ragione. Ricordo che in uno dei miei sporadici ritorni. dettati più che altro da dovere filiale, una persona, solo perché non le diedi la precedenza, avendo la mia destra libera, mi guardò con due occhioni così brutti che, a pensarci, mi incutono ancora paura. 

C’è il passeggio, ci sono le vigili e ci sono anche i lunghi cortei funebri, occasioni di ritrovo e di chiacchiere che niente hanno da spartire col morto. Ma non c’è una biblioteca pubblica, e manca anche l’ospedale. D’altronde, come si può pretendere di elevare lo spirito, se non c’è la possibilità di curare il corpo? 

I ricordi dell’infanzia mi legano al mio paese, e niente esercita in me una così forte attrazione come i luoghi e le persone che, andandomene, vi lasciai. 

Persone che non ci sono più restano ferme e vive nella mia memoria, e i luoghi che mi videro bambino mi richiamano con prepotenza, quasi come dire: «Ecco, siamo ancora qui, nonostante. Nonostante le caotiche costruzioni che ci stringono sempre più e ci rendono irriconoscibili, siamo noi, il tuo mondo d’una volta! Vieni, soffermati un po’ con noi: Via Turati, Convento, Badia, piazza S. Angelo . . . Adesso è come se non ci fossero più bambini, attratti più che mai dalla televisione. Vieni, e resta un po’ con noi». 

Eppure mi sento un estraneo, ogni qualvolta tomo al mio paese. Quando provo a passare per queste strade e a sostare in queste piazze, è come se non ci fossi mai stato. La gente mi prende di mira, e mi scruta, considerandomi un intruso. Ma quelle piazze e quelle strade mi appartengono e sono là a dire che furono la mia seconda casa e il mio mondo. 

Piazza S. Angelo era il ritrovo dei ragazzini di tutto il quartiere. Qui passavamo tutti i giuochi in rassegna, secondo il tempo e la stagione e, come una moda, duravano poco, perché soppiantati da altri. Ma alcuni rimanevano sempre alla ribalta: quello della mosca cieca, dei coy-boy e gli indiani, del nascondino. Ce n’erano altri particolarmente singolari. Uno consisteva nel catturare più api possibile e liberarle dopo aver attaccato loro un lungo filo alle zampe posteriori. Chi riusciva a farne volare di più risultava vincitore. 

Nelle giornate d’inverno, quando pioveva o l’insistenza del vento non permetteva di stare molto all’aperto. trovavamo riparo in qualche androne, dove – come in un calderone sul fuoco – si raccontava di tutto. Si rientrava in casa a buio inoltrato, dopo che le madri ad uno ad uno chiamavano i propri figli. 

Non dimenticherò mai, tra i personaggi di pubblica conoscenza, Sarvaturi. Non so perché lo chiamassero così. anziché Turiddu o Totò, come di solito viene chiamato Salvatore. Era il banditore del mio paese, il giornale cittadino parlante, il divulgatore delle ordinanze municipali o degli avvisi che le autorità davano alla cittadinanza. Sarvaturi, con tamburo e cappello di pubblico ufficiale, si faceva il giro del paese, annunciandosi prima a colpi di grancassa e poi gridando il bando ai quattro venti, in un dialetto infarcito qua e là di vocaboli italianizzati. 

Il rullo del tamburo era il richiamo di noi ragazzi che scendevamo subito in campo e, con tutto ciò che poteva servire a far rumore, improvvisavamo un coro. E seguivamo Sarvaturi per tutto il quartiere, fino a quando, stanchi di gridare, non tornavamo ciascuno nel posto da dove eravamo venuti. 

Sarvaturi era un uomo sui generis: bonaccione, facile allo scherzo ma pronto a montare su tutte le furie! Ed erano guai. Dovevi dartela subito a gambe, se non volevi buscarti una sassata in testa. Per questo, lo accompagnavamo coi nostri tamburi improvvisati, ma poi dovevamo ascoltarlo in silenzio, se volevamo tenercelo buono. 

Spesso Sarvaturi prestava la sua opera a privati che, avendo smarrito un porco, una capra o un tacchino, ricorrevano a lui perché, rendendo pubblico lo smarrimento, qualcuno si facesse avanti e restituisse al padrone l’animale. In cambio era previsto un premio per chi l’avesse trovato, a parte la tariffa prevista per il banditore che, in ogni caso, veniva pagato. 

Non ho saputo più niente di Sarvaturi, e non so quale fine abbia fatto. Proverò a chiedere notizie e. state certi, ve ne parlerò qualche altra volta. 

È curioso il mio paese. non è vero? 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno III, n.2, 1991, pagg. 33-37




I Sei personaggi in cerca d’autore

 Il decennio 1920-1930 segna un periodo fruttuoso del teatro pirandelliano, non tanto per la produzione che è ricca di per sé (dall’esordio poetico del 1889 all’anno della morte, avvenuta il 10 dicembre del 1936 a Roma, mentre era intento a completare il mito dei Giganti della montagna), quanto ai risultati a cui perviene. 

Mi riferisco alle innovazioni teatrali, compendiate nella trilogia del «teatro nel teatro -, molto interessante sia per i contenuti che per la drammaturgia, destinata, a sua volta, a svecchiare – come dicevo altrove – il teatro in genere che, da ora in poi, si fa portatore delle istanze vive e pressanti dell’uomo del XX secolo, più attento al suo io profondo e non per questo meno insidiato e travagliato dalla quotidianità della vita. 

Il teatro, con Pirandello, comincia a interessarsi, quindi, dell’uomo nel senso pieno della parola, coinvolgendo, così, un pubblico più vasto, e più che coprire il tempo libero dei suoi assidui frequentatori, rappresentando i fatti della vita, ora affronta problemi che ognuno si era posto e su cui, però, non si era soffermato abbastanza per la complessità che essi presentano o, magari, pur tenendoli nella dovuta considerazione, gelosamente fa proprie le conclusioni, non ritenendo di esternare agli altri quelle che sono solo sue convinzioni, anche perché la vita di società non può non esigere determinati comportamenti ben consolidati e difficili da demolire. 

Pirandello baserà la sua ricerca su un doppio binario: da una parte, sull’introspezione psicologica (con la messa in dubbio di certe acquisizioni), dall’altra, sull’esigenza di aprire nuove vie allo stesso teatro, continuamente mortificato dalla rappresentazione falsificata della realtà. Per forza di cose, ne deriva che questo di Pirandello è un teatro che dà molto spazio alla dialettica, perché, appunto, c’è da parte del nostro autore lo sforzo di portare sulle scene il travaglio esistenziale dell’uomo del suo tempo, e non solo del suo. Questo modo di fare e di intendere il teatro rientra nel cosiddetto pirandellismo, caricandolo di significato negativo, come dire, cerebrale, aberrante, qualcosa di poco chiaro. 

Certo, gli spettatori e i critici di allora si trovarono in gran difficoltà, non abituati, com’erano, alle innovazioni a cui stavano per essere sottoposti: ma, a distanza di più di mezzo secolo, e dopo gli ismi che hanno messo tutto in discussione e l’utilizzo dei più sofisticati congegni elettronici anche nel campo teatrale, non è più quello l’effetto, e la cosa non fa più impressione. 

Pirandello è l’anticipatore e l’iniziatore del teatro contemporaneo. Egli non rappresenta la realtà, perché intende il teatro come finzione, illusione, cioè (ingrandita dall’immaginazione e dalla fantasia), della realtà che ognuno si porta dentro e che vuole venga rappresentata così com’è. Per questo motivo sia Il Padre che La Figliastra di Sei personaggi in cerca d’autore pretenderanno che siano essi stessi, e non gli altri, a rappresentare il loro dramma per timore di vederlo travisato. E in questo c’è la preoccupazione di Pirandello, e di ogni altro autore, che la sua opera venga male interpretata. Anche perché, in teatro, la realtà fantastica si carica di vita e diviene più vera e reale, in quanto è «realtà immutabile», mentre quella della vita è cangiante e soggetta a diventare illusione. Un esempio Pirandello lo porta nel saggio su L’umorismo, quando fa riferimento a don Abbondio e a Don Quijote. Questi due personaggi, creati dalla fantasia, continueranno a vivere eterna la loro vita, mentre i loro rispettivi autori sono destinati a vivere sempre nell’ombra(l). 

Il rapporto arte e vita, attori e personaggi, attori e pubblico, è il motivo che sta alla base della trilogia del «teatro nel teatro», che include Sei personaggi in cerca d’autore (1921), Ciascuno a suo modo (1923) e Questa sera si recita a soggetto (1929). 

Pirandello, nella Premessa al I vol. di Tutto il teatro (Milano, Mondadori, 1933), scrive: «Ciascuno dei tre lavori raccolti in questo I volume del mio teatro rappresenta personaggi, casi, e passioni che gli son proprii e che non han nulla perciò da vedere con quelli dell’altro; ma tutti e tre uniti, quantunque diversissimi, formano come una «trilogia del teatro nel teatro», non solo perché hanno espressamente azione sul palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoi o nel ridotto d’un teatro, ma anche perché di tutto il complesso degli elementi d’un teatro, personaggi e attori, autore e direttore-capocomico o regista, critici drammatici e spettatori alieni o interessati, rappresentano ogni possibile conflitto». 

•        • 

 

Sei personaggi in cerca d’autore è del 1921 e fu rappresentata per la prima volta al Teatro Valle di Roma, con la regia di Dario Niccodemi, il 10 maggio dello stesso anno. Fu un insuccesso, con pubblico e critica disorientati. L’autore dovette aspettare la rappresentazione del 27 settembre, al Teatro Manzoni di Milano, per cogliere il suo meritato successo. 

Sulle prime, le reazioni del pubblico non potevano essere positive: non era abituato ad assistere a una messa in scena – evidentemente in apparenza – disordinata e caotica e, entrando, non poteva non rimanere deluso dinanzi a un palcoscenico in allestimento. 

Alcuni attori stanno provando Il giuoco delle parti di Pirandello, quando entrano, uno accanto all’altro, Sei personaggi che chiedono di vedere rappresentato il loro dramma. Sono il Padre, la Madre, la Figliastra, il Giovinetto, la Bambina e il Figlio, che rispettivamente impersonano il “rimorso”, il “dolore”, la “vendetta”, lo “smarrimento”, la “tenerezza”, lo “sdegno”. Il Giovinetto e la Bambina sono realizzati solo come presenze, il Padre, la Figliastra e il Figlio come spirito, la Madre come natura. 

Tra lo sbalordimento del Capocomico e le contrastanti reazioni degli attori, il Padre, a nome di tutti, espone il motivo della loro venuta. «Nati vivi» dalla fantasia del loro autore, che poi si rifiutò di immetterli nel mondo dell’arte, essi sono lì in cerca di un autore che li faccia propri e li rappresenti. Non chiedono altro, anche perché una volta creati hanno diritto a vivere e nessuno può loro negare l’esistenza(2). 

Il Capocomico è riluttante, ma l’insistenza del Padre e gli interventi della Figliastra, che fanno intravedere il dramma, lo spingono ad accettare e a ritirarsi coi Personaggi nel suo camerino, interrompendo così le prove e lasciando liberi gli attori. 

Il primo tempo si conclude qui. Il palcoscenico resta vuoto, perché gli attori, meravigliati e anche risentiti per la decisione del Capocomico, usciranno a poco a poco tutti di scena. 

Qual è il dramma intravisto e ritenuto interessante ai fini di una rappresentazione? 

Un uomo, sposato con una donna di umili natali, un po’ per l’incomprensione che c’è tra i due, un po’ per una relazione tra la moglie e il suo segretario, che viene allontanato dal lavoro, non potendo più sopportare lo stato di pena in cui la donna si abbandona, dopo avere dato in balia il figlioletto, la costringe ad andare da quello. Ciò nonostante s’interessa di loro, segue e vede crescere la bambina nata da quella unione (la Figliastra), ma poi ne perderà le tracce, perché la famigliola, per sfuggire agli occhi indiscreti di lui, andrà ad abitare in un altro paese, e non saprà più niente fino a quando, morto il secondo marito, non se li vedrà tutt’e quattro, dato che nel frattempo erano nati altri due figli. 

L’incontro sarà fortuito. Nella casa d’appuntamento di Madama Pace, il Padre, senza saperlo e all’ultimo momento, per intervento della Madre, viene a conoscere chi fosse veramente la ragazza con cui stava per andare a letto. 

La miseria aveva spinto la Madre a lavorare per conto di Madama Pace che, sfruttando la situazione e, all’insaputa della Madre, lamentandosi del lavoro fatto male, garantiva alla Figlia la normale retribuzione, a patto che si prostituisse. E costei aveva accettato per amore della Madre. 

La Figliastra, considerando l’uomo l’artefice dei mali della sua famiglia, sfrutta la nuova occasione, e gli chiede continuamente soldi, malvista dal Figlio, ora tornato a vivere col Padre. Ma l’uomo, impietositosi, accoglie in casa la Madre e gli altri figli. 

Il Figlio si fa sempre più scontroso, ostinandosi a non riconoscere quella donna che lo aveva allontanato ancora bambino, mentre la Madre s’adopera per distoglierlo da un tale accanimento. 

Ma un giorno, mentre lei è in camera del Figlio per attirarlo a sé, la Bambina annega in una vasca e il Giovinetto, avendo già meditato il suicidio, a quella vista, non superando l’angoscia, si uccide con un colpo di pistola. La Figliastra, non potendo in nessun modo perdonare il Figlio, e ritenendo insopportabile, dopo la duplice sciagura, vivere sotto lo stesso tetto di chi odia fortemente, «prenderà il volo», andandosene via di casa. 

Questo è, in sintesi, il dramma che i Personaggi si portano dentro ed è questo che vogliono rappresentare. Il secondo tempo è incentrato nel tentativo di questa rappresentazione. Solo tentativo, però, perché suddivise le scene e attribuite le parti agli attori, i Personaggi non si riconoscono in essi, reali ma non veri, e insistono che siano loro stessi a rappresentare il dramma, senza niente togliere al lavoro degli attori(3). Ne viene fuori una serie di botte e risposte, finché il 

Capocomico non richiami tutti al silenzio e alla prosecuzione della commedia con la scena di come siano andate le cose in casa di Madama Pace, un personaggio evocato dalla fantasia, di cui Pirandello andrà orgoglioso nella Prefazione chiarificatrice, pubblicata nell’edizione mondadoriana del 1925(4). Rivivere quella scena sarà una gran sofferenza per tutti, e spasimo per la Madre che, angosciata, rifarà lo stesso grido di allora, veramente soffrendo il dolore che impersona. Anche qui ognuno dei Personaggi tende a mettere in risalto il proprio sentimento, e tutti si troveranno d’accordo nel riconoscere negli attori l’impossibilità di rappresentarli. 

Il dramma è ormai ben delineato e il Capocomico può ritenersi soddisfatto, tanto che griderà «Sipario! Sipario!», per dire che fissa a questo punto la fine del primo atto, ma è frainteso dal macchinista che calerà subito il sipario. 

Pirandello, facendolo passare per un errore, chiude così il secondo tempo. È una delle tante trovate a cui ricorre per non fare pesare troppo il suo teatro che già si era distaccato molto da quello tradizionale. Comunque, è una novità che allora lasciava disorientato il pubblico e che veniva considerata virtuosismo scenico piuttosto che apertura a qualcosa di nuovo e di originale. 

Il terzo tempo della commedia vede rappresentato nella sua interezza il dramma dei Sei personaggi che, sebbene delineatosi, era stato semplicemente intravisto. È concertato, però, col Capocomico che le scene vengano raggruppate, sicché, dopo una digressione, a proposito della parola illusione che, se per il Capocomico e per gli Attori non è che la rappresentazione della realtà, per i Personaggi è l’unica realtà, e per questo, immutabile, si passa a creare l’ambiente (di sera, un giardino con una piccola vasca da una parte, dove si vedranno la Bambina e la Figliastra, mentre il Giovinetto se ne sta in disparte, vicino allo spezzato d’alberi, dall’altra parte i rimanenti Personaggi e gli Attori) e l’interesse cade sulla scena della Madre con il Figlio, il quale, però, si ostina a non volerla fare, sia perché lui non ha fatto alcuna scena, sia perché rimarrà fedele alla volontà dell’autore che così ha voluto. Dietro insistenza del Padre, che vorrebbe costringerlo con la forza, e del Capocomico, il Figlio narra ciò che è avvenuto, passando dal registro dialogico a quello narrativo. E riferisce che, non volendo colloquiare con la Madre, uscito fuori dalla stanza, si accorge che la Bambina era annegata dinanzi agli occhi stupefatti del Giovinetto che, nella disperazione della sua solitudine, si uccide quasi all’istante con una pistola che si era procurata. 

Nel trambusto di chi grida: «Finzione», e di altri, come il Padre («Ma che finzione! Realtà, realtà signori! Realtà!»), che la considerano realtà, il Capocomico grida al Macchinista di accendere le luci. 

Una storia triste, piccolo-borghese, come tante altre che erano state rappresentate, non interessante fino al punto da essere portata anch’essa sulle scene. Pirandello se n’era reso conto ed è per questo che lascia in abbozzo il dramma, preferendo scrivere solo la commedia dei Sei personaggi che lo vivono ciascuno a suo modo e col proprio sentimento. 

La riuscita dei Sei personaggi in cerca d’autore non è tanto nella narrazione- rappresentazione del dramma, quanto nel sentimento che i personaggi vi infondono, vivendolo, sulla scena. La novità, a parte quella drammaturgica, sta qui ed è qui la sua importanza artistica. Finora si era rappresentato ciò che sta alla superficie della vita, l’apparenza della realtà, quale essa sembra (ed è quello che il Nostro si è rifiutato di rappresentare), ma con i Sei personaggi è la realtà stessa che viene alla ribalta, perché i suoi personaggi sono essi stessi la realtà, quella realtà che ciascuno di essi si porta dentro e li rende impazienti(5). 

IL PADRE – Prostrato, ma nel pieno del suo vigore, si difende e al tempo stesso confessa la sua debolezza, appellandosi al buon senso degli altri, perché capiscano il suo stato d’animo. Così dice a un certo punto: «Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda – si crede «uno» ma non è vero; è «tanti», signore, «tanti», secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: «uno» con questo, «uno» con quello – diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’esser sempre «uno per tutti», e sempre «quest’uno» che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero,! non è vero!». 

È il personaggio verso cui Pirandello nutre tanta simpatia, e di cui si serve per affermare il suo modo di intendere la vita (la concezione relativistica, le sue convinzioni artistiche, l’impossib11ità per l’uomo di comunicare). E, questa simpatia gli è stata rinfacciata dalla critica. Pirandello la rigetta, e se il Padre risulta al tempo stesso accetto e rifiutato, dice che una cosa è il suo pensiero che può essere affidato benissimo a un personaggio qualsiasi, un’altra cosa è il travaglio proprio del personaggio, in questo caso del Padre, appunto, che è – come gli altri – in cerca di un autore(6). 

Il Padre è il personaggio travagliato dal “rimorso”, ma non si dà per vinto, perché sa che chiunque si tiene dentro le proprie colpe. e sa pure che ognuno – chi più chi meno – ha le sue pecche. anche se fa difficoltà a confessarle e fa di tutto per nasconderle. La sua è la debolezza propria della natura degli uomini, e per questo chiede comprensione e dispone, credo, col suo parlare accorato e concitato della simpatia non solo dell’autore, ma dei lettori e degli spettatori. 

«IL PADRE – Tutti! Ma di nascosto! E perciò ci vuole 
più coraggio a dirle! Perché basta che uno le dica è 
fatta! – gli si appioppa la taccia di cinico. Mentre 
non è vero, signore: è come tutti gli altri: migliore, 
migliore anzi, perché non ha paura di scoprire col 
lume dell’intelligenza il rosso della vergogna, là, nella 
bestialità umana, che chiude sempre gli occhi per 
non vederlo»(7). 

Personaggio interiormente travagliato, dicevo. Ma, in fondo, ha una sua solidità logica e una capacità comunicativa non indifferenti che mettono ancora più in risalto il suo dramma che risulta veramente in lui connaturato e sofferto. 

La FIGLIASTRA – Col Padre, è l’altro personaggio portante della commedia, nel senso che le è riservato molto spazio, e si fa portavoce anche lei di certe asserzioni pirandelliane. Rappresenta la “vendetta”, col compito non tanto di riscattare sé e gli altri, quanto di rendere più soffocante e oppresso dal rimorso quello, il Padre, che ritiene sia la causa di tutti i mali. 

«LA FIGLIASTRA – Per chi cade nella colpa, signore, 
il responsabile di tutte le colpe che seguono, non è 
sempre chi, primo, determinò la caduta? E per me 
è lui, anche da prima ch’io nascessi. Lo guardi: e 
veda se non è vero!»(8) 
Niente la ferma: la vita l’ha resa sfacciata e senza alcun pudore, e ogni 
occasione è buona per lanciare frecciate al Padre e al Figlio. È legata di 
amore filiale alla Madre, ma non ne accetta il comportamento rimessivo, 
dimostrandosi dura anche con lei, quando vorrebbe sottacere l’amore per 
il secondo marito. 

Il risentimento di questa ragazza è comprensibile, e all’occasione scapperà via di casa. D’altronde, come poteva a lungo stare in quella casa, se era considerata un’intrusa dal Figlio, e richiamata a certa «sanità morale» dal Padre, proprio da lui a cui non poteva riconoscere alcuna autorità, mentre ne aveva sperimentata bene la doppiezza? 

La Figliastra è un personaggio, anche lei, ben delineato, che impersona il suo dramma e insiste perché non venga sottaciuto, anzi è lei stessa a palesarlo e spinge il tutto, fino all’esasperazione del Capocomico, a suo favore. Sino a giustificarla di questo atteggiamento così intransigente e risoluto un po’ nei confronti di tutti, tranne della Bambina, che le ispira tanta dolcezza e di cui ammira l’innocenza, proprio quell’innocenza che ha dovuto perdere e per cui soffre, costretta a diventare anzitempo un’adulta disinibita. 

LA MADRE – Una madre tutta protesa a riconquistare la fiducia e l’amore del Figlio, e soffre immensamente per l’indi1Jerenza di costui. Una donna chiusa nel suo dolore, perché non solo vive la sventura di non avere avuto un rapporto aperto e leale di moglie con il Padre, e di essere rimasta vedova del secondo marito, ma porta dentro di sé la scena straziante a cui dovette assistere in casa di Madama Pace. Scena di ribrezzo e di grande sconforto che non vorrebbe più rivivere e, perciò, si ribella e supplica perché non venga rappresentata, rimproverando («Vergogna, figlia, vergogna») aspramente la Figliastra. 

La Madre, a differenza della Figliastra che non approva affatto il suo operato, tiene a giustificare il suo comportamento: 

«LA MADRE – Mi crederà, signore, se le dico che non 
mi passò neppur lontanamente per il capo il sospetto 
che quella megara mi dava lavoro perché aveva (8) lvi, pag. 99.
adocchiato mia figlia…»(9), 
e tiene sempre a precisare il suo dolore che suona come strazio e condanna: 
«LA MADRE – No, avviene ora, avviene sempre! Il mio 
strazio non è finito, signore! lo sono viva e presente, 
sempre, in ogni momento del mio strazio, che si 
rinnova, vivo e presente sempre. Ma quei due piccini 
là, li ha sentiti parlare? Non possono più parlare, 
signore! Se ne stanno aggrappati a me, ancora, per 
tenermi vivo e presente lo strazio: ma essi, per sé, 
non sono, non sono più!»(10). 

Tutto concorre a rinnovarle questo dolore, tutto concorre a riversarlo su di lei e a ridestarglielo «vivo e presente sempre». Nella sua natura di madre condensa in sé il dramma che l’opprime come una cappa di piombo da cui non potrà mai liberarsi. 

IL FIGLIO – Scontroso con tutti, risentito con il Padre per avere dato ospitalità a quelli che per lui sono soltanto degli intrusi, e non gli dicono niente. Nemmeno la Madre, che gli è un’estranea, rifiutandosi di riconoscerla. 

Seppure spinto, come il Padre e la Figliastra, è restio a ogni rappresentazione e preferisce stare in disparte, intervenendo, quando non può fare a meno, bruscamente e lanciando frecciate ora contro questi ora contro quella. E c’è un momento in cui rompe il silenzio e si confida: 

«IL FIGLIO – … Signore, quello che io provo, quello 
che sento, non posso e non voglio esprimerlo. Potrei 
al massimo confidarlo, e non vorrei neanche a me 
stesso. Non può dunque dar luogo, come vede, a 
nessuna azione da parte mia. Creda, creda, signore, 
che io sono un personaggio non -realizzato. drammaticamente: 
e che sto male. malissimo, in loro 
compagnia! – Mi lascino stare!»(11). 

Si dice non realizzato, ma per quello che egli rappresenta, lo sdegno, è un personaggio vivo e ben riuscito; il suo silenzio, il suo distacco, l’indifferenza che mostra, mentre il Padre e la Figliastra insistono perché il dramma si rappresenti, sottolineano e ingrandiscono di più questo sentimento di repulsa. Come gli altri, è egli stesso il dramma, e non può, per questo, andarsene, anche se, dietro istigazione, finge di farlo. D’altronde, il suo è un comportamento plausibile, e ce lo si potrebbe aspettare da chiunque si fosse venuto a trovare nella sua stessa condizione. Non essendo lì per rappresentare alcuna scena, si confida al capocomico, e narra, o meglio, rivive da vicino l’accaduto. 

Se la Bambina e il Giovinetto sono «presenze», l’innocenza e la purezza d’animo l’una (quasi a sottolinearci quelle perdute dalla Figliastra), un succube del dramma l’altro, Madama Pace rappresenta la forza evocatrice dell’arte, grazie a cui niente è impossibile e la creazione rimane viva e immutabile in eterno. 

Madama Pace è un magnaccia e tale è nel portamento e nel suo modo arrogante di parlare. 

*       * 

* 

Una commedia così strutturata non poteva non suscitare polemiche e incomprensioni. Pirandello sentì l’esigenza di apportare alcuni chiarimenti e pubblicò nel gennaio del 1925 in «Comoedia»: Come e perché ho scritto i Sei personaggi in cerca d’autore, saggio che nello stesso anno apparirà come prefazione nell’edizione mondadoriana. 

«Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale», dice Pirandello. E spiega così la nascita dei suoi personaggi e dei Sei, in particolare, che un giorno, sul più bello, gli furono presentati dalla «servetta Fantasia» e da quel momento non lo lasciarono in pace. 

«Posso soltanto dire che. senza sapere d’averli punto 
cercati, mi trovai davanti. vivi da poterli toccare, vivi 
da paterne udire perfino il respiro. quei sei personaggi 
che ora si vedono sulla scena. E attendevano, 
lì presenti. ciascuno col suo tormento segreto e tutti 
uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche. 
ch’io li facessi entrare nel mondo dell’arte. 
componendo delle loro persone. delle loro passioni 
e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno 
una novella. Nati vivi, volevano vivere»(12) 

Diciamo che Pirandello con questa Prefazione fa un bellissimo elogio dell’arte e, in particolare, difende a spada tratta la sua poetica. Una creazione, se è veramente artistica, vive autonoma, noncurante del suo autore. Come questi personaggi che insistono, in quanto «possono da soli muoversi e parlare». 

Evidentemente, perché insistenti, verranno accettati come personaggi, col dramma che ciascuno di essi si porta dentro e vive, e non solo il dramma in sé che viene, pertanto, rifiutato e solo a tratti, qua e là, intravisto nella commedia. 

Pirandello confessa di essere attratto da questi personaggi perché il loro travaglio interiore è tanto simile al suo: 

«Senza volerlo, senza saperlo, nella ressa dell’animo 
esagitato, ciascun d’essi, per difendersi dalle accuse 
dell’altro, esprime come sua viva passione e suo 
tormento quelli che per tanti anni sono stati travagli 
del mio spirito: l’inganno della comprensione reciproca 
fondato irrimediabilmente sulla vuota 
astrazione delle parole; la molteplice personalità 
d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si 
trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto 
immanente tra la vita che di continuo si muove e 
cambia e la forma che la fissa, immutabile»(13). 

A. Janner dice che la Prefazione sottolinea meglio la natura intellettuale, più che artistica, della commedia(14). Ma il ragionare di Pirandello niente toglie alla bellezza di Sei personaggi: tutto è connaturato e fatto proprio dai personaggi, tutto si svolge nel contesto della commedia con la naturalezza propria dell’arte, senza un minimo di appesantimento o di cedimento. 

Eppure, verrà criticato il personaggio del Padre perché molto vicino al pensiero dell’autore che così ribatte: «… Voglio chiarire che una cosa è il travaglio immanente del mio spirito, travaglio che io posso legittimamente – purché gli torni organico – riflettere in un personaggio; altra cosa è l’attività del mio spirito svolta nella realizzazione di questo lavoro, l’attività cioè che riesce a formare il dramma di quei sei personaggi in cerca d’autore»(15). Ma è pure vero (ed è un appunto che è stato fatto dallo Janner) che sia il Padre che la Figliastra fanno intuire di conoscere la scena che il Figlio non vuole rappresentare. A parte qualche piccola caduta. che è comprensibile in qualsiasi opera, quello che conta è che Pirandello è riuscito veramente a essere originale e al tempo stesso lucido espositore dei principi che più gli stavano a cuore: l’incomunicabilità e la mutevolezza degli uomini e delle cose, l’immutabilità dell’arte. 

Vero e originalissimo è il movimento, considerato disordine e caos dai primi critici, e invece risponde alle nuove esigenze del teatro. oltre che a sottolineare ancora meglio la complessità della natura umana e il continuo cangiare degli stati d’animo: il Padre che si difende benissimo dagli attacchi altrui e nasconde contemporaneamente la sua mortificazione, e più che giustificarsi confessa la miseria della carne; la Madre, personaggio umanissimo di madre che soffre e piange fino a gridare in modo straziante il suo dolore; la Figliastra che dichiara aperta vendetta per un bene che non 

potrà mai recuperare; e il Figlio, mortificato come tale nel periodo in cui avrebbe dovuto essere maggiormente curato e amato, cresciuto senza affetto, ora sordo a ogni affetto; tutti, indistintamente tutti, concorrono a creare all’interno dell’opera un piacere che non è soltanto estetico, e il loro procedere (apparentemente disordinato e caotico) altro non è che un ascendere armonico verso i gradi più alti dell’arte. 

Salvatore Vecchio 

* Questo scritto integra il mio precedente saggio su Pirandello, pubblicato in «Spiragli», IV, n. 2-3 – 1992. 
(1) L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Milano, Mondadori, 1990, pagg. 37-38: «… chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l’eternità». 
(2) Ivi, pag. 35: «IL PADRE (Interrompendo e incalzando con foga. Ecco! benissimo! a esser vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse: ma più veri! Siamo dello stessissimo parere!».
(3) Ivi, rispettivamente, pagg, 73, 75: «LA FIGLIASTRA – Ma non dicevo per lei, creda! dicevo per me, che non mi vedo affatto in lei, ecco. Non so , non… non m’assomiglia per nulla!».; «IL PADRE – Eh, dico, la rappresentazione che farà – anche sforzandosi col trucco a somigliarmi… – dico, con quella statura… (tutti gli attori rideranno) difficilmente potrà essere una rappresentazione di me, com’io realmente sono. Sarà piuttosto com’egli interpreterà ch’io sia, com’egli mi sentirà -se mi sentirà- e non com’io dentro di me mi sento. E mi pare che di questo, chi sia chiamato a giudicare di noi, dovrebbe tener conto». E ancora: «Appunto, gli attori! E fanno bene, tutti e due, le nostre parti. Ma creda che a noi pare un’altra cosa, che vorrebbe esser la stessa, e intanto non è!».
(4) «Quando io concepii di far nascere lì per lì Madama Pace su quel palcoscenico, sentii che potevo farlo e lo feci; se avessi avvertito che questa nascita mi scardinava e mi riformava, silenziosamente e quasi inavvertitamente. in un attimo, il piano di realtà della scena, non lo avrei fatto di sicuro, agge1ato dalla sua apparente illogicità. E avrei commesso una malagurata mortificazione della bellezza della mia opera, da cui mi salvò il fervore del mio spirito: perché, contro una bugiarda apparenza logica. quella fantastica nascita è sostenuta da una vera necessità in misteriosa organica correlazione con tutta la vita dell’opera». Ivi, pag. 18.
(5) Ivi, pag. 39: «IL PADRE -Il dramma è in noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!». 
(6) Dice Pirandello nella Prefazione cit., pag, 13: «Se il Padre fosse partecipe di questa attività, se concorresse a formare il dramma dell’essere quei personaggi senza autore, allora sì, e soltanto allora, sarebbe giustificato il dire che esso sia a volte l’autore stesso, e perciò non sia quello che dovrebbe essere. Ma il Padre, questo suo essere «personaggio in cerca d’autore», lo soffre e non lo crea, lo soffre come una fatalità inesplicabile e come una situazione a cui cerca con tutte le forze di ribellarsi e di rimediare: proprio dunque «personaggio in cerca d’autore» e niente di più, anche se esprima come suo il travaglio del mio spirito». 
(7) lvi, pag. 16.
(9) Ivi, pag. 57. 
(10) Ivi, pag. 100. 
(11) Ivi, pag. 61.
(12) Ivi, pag. 6.
(l3) Ivi, pag. 10. 
(14) A. Janner, Luigi Pirandello, Firenze, La Nuova Italia, 1948, pag. 314. 
(15) L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit., pag. 13.

Da “Spiragli”, anno V, n.1, 1993, pagg. 7-19.




I “DIARI” DI VIRGILIO TITONE 

 Chi conobbe Virgilio Titone*, se lo ritrova nei Diari (tre volumi che raccolgono scritti che vanno dal 1920 al 1989, anno della sua morte) così com’era, invariato nel tempo, con la sua umanità, l’immenso bagaglio culturale, la sua capacità di leggere il passato e di prospettare il presente, senza farsi sfuggire niente, a costo di apparire un solitario e un fustigatore, solo da pochi apprezzato per quello che era, storico, letterato, scrittore, uomo d’ingegno versatile e geniale. 

Virgilio Titone fu un “personaggio” scomodo per il mondo accademico e per quello letterario, non certamente per tanti uomini di cultura che gli riconoscevano la genialità intuitiva del grande storico e l’abilità dello scrittore capace di dire anche quello che non scriveva. Perché nella sua parsimoniosità, al pari degli antichi scrittori, in poche parole sapeva contensare e racchiudere tanto contenuto rivelatore della sua profonda cultura. 

E gli amici, vecchi compagni di frequentazioni culturali o giornalistiche (quasi tutti ormai scomparsi, ultimo Montanelli) e gli ex alunni, che affollavano le aule dove teneva le sue lezioni, lo ricordano con grande rispetto per la profonda umanità che sapeva trasmettere e che lo faceva amare e rispettare per quello che era: un maestro di grande cultura. Così lo ricorda con belle immagini cariche di affetto e di stima lo storico inglese Helmut Koenigsberger, che, dalle pagine di Esperienze di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquant’anni), tesse un bellissimo elogio all’uomo e alla sua opera. E proprio di questi giorni, pubblicato sulla “Voce” di Mazara, è un profilo, seppure sintetico ma nitido, di Vincenzo Gentile, che, a proposito dei Diari, mette in evidenza «la grande coerenza, la forza dell’anticonformismo, la libertà, la religiosità, la stima per gli umili, con i quali sapeva intrattenere un dialogo schietto e lineare». E, ancora, non va dimenticato il caloroso tributo di affetto e di riconoscenza che Calogero Messina rende al Maestro nelle dense pagine di presentazione dell’opera. 

I Diari, pubblicati dalle edizioni Novecento negli anni 1996-1997, con il patrocinio del Comune di Castelvetrano (Trapani), che gli diede i natali, ci hanno restituito – dicevamo – nella sua integrità e nelle varie sfaccettature l’uomo Titone, rendendolo vivo ed ancora attuale. Gli uomini grandi sono tali perché sanno proiettarsi oltre, sanno, cioè, prevedere realtà lontane nel tempo. Chi già ha avuto l’opportunità di leggere i Diari, avrà constatato, nonostante siano passati alcuni decenni, l’attualità delle affermazioni e delle osservazioni, la ponderatezza dei giudizi, l’equilibrio nell’indicare le cose che allora si potevano fare e che tuttora potrebbero costituire un valido rimedio per ovviare a certe anomalie del vivere sociale. Ancora, il lettore avrà certamente notato la lungimiranza dei punti di vista espressi e ripresi varie volte: a proposito del comunismo sovietico, che poi crollò, della questione meridionale o di quella settentrionale. 

Trent’anni fa Virgilio Titone era il solo a parlare di questione settentrionale e nessuno lo prendeva in considerazione. Quando, poi, a distanza di anni, Bossi in altri termini, e con maniere abbastanza forti cominciò a dire le stesse cose, i governanti di turno dovettero ricredersi e, forse, pentirsi per non aver dato ascolto a chi da tempo aveva sollevato il problema con fondate cognizioni di causa. Certamente, se avessero dato ascolto al professore, che mai usava toni accademici e che, anzi, era un antiaccademico, avrebbero evitato che la Lega, allora di protesta, potesse assurgere ad elemento di rottura della stessa unità nazionale. E, stando le cose in quel modo, tutto questo era inevitabile, perché lo Stato e gli uomini che lo rappresentano, pur nel loro fare, hanno sempre trascurato le peculiarità del Sud e del Nord. 

I Diari ci danno un’immagine nitida dell’Autore. La prima impressione che anche il lettore più sprovveduto si fa di Virgilio Titone è quella di un uomo laborioso che sfrutta al massimo il suo tempo, perché possa lasciare una traccia, un segno che torni utile a sé e agli altri. E, a proposito, scrive: 

«Il pensiero è un fiume che ci trascina nella sua inarrestabile corrente. Non si ferma mai. Non possiamo non pensare. Perciò, Cartesio definisce l’anima res cogitans, essendo (sempre) pensante. Ma il pensare, nel senso più esteso del termine, si traduce e deve tradursi nel fare: nel costruire opere belle e utili per noi e per gli altri, o nell’umile lavoro di tutti i giorni, che è pure un costruire, anche quando non si pensi se non al pane da portare ai propri figli(1)». 

Titone volle essere utile fino all’ultimo, e non mancò giorno che non annotasse qualcosa sugli argomenti più disparati, dai fatti di cronaca a quelli di cultura, dalle letture che non avevano limiti di interesse, alla politica, ai mutamenti del costume e della morale. 

Quello che Sartre diceva di sé, quando gli dicevano che aveva scritto tanto («Nulla dies sine linea»), possiamo, a ragione, dirlo di lui che ha lasciato un patrimonio ricco di virtù e di opere. Perciò, scriveva ancora intorno agli anni Trenta del secolo scorso: 

«Proponiti a un tempo diversi compiti da portare a termine. Non è possibile far poco. O si fa molto o non si fa nulla. Il far molto ci dà l’abito del fare e il metodo. Inoltre ci rende orgogliosi del lavoro stesso. A questo modo si trova tempo per tutto e tutto si fa presto e bene(2)». 

Se queste brevi note ci danno già la misura dell’uomo, tanto più la esaltano gli accenti di bontà e di umanità che costituiscono l’humus di questo diario di una vita, e delle lettere, queste ultime pubblicate in appendice ad ognuno dei tre volumi. Umanità e bontà sono l’abito di chi guardò al bene comune e per questo lottò, andando contro corrente, castigando i soprusi e le angherie dei prepotenti, e fustigando i luoghi comuni. 

A leggere questo denso diario, si respira aria fragrante di libertà. E Virgilio Titone fu un uomo libero da qualsiasi condizionamento, e tale volle restare sempre, pur sapendo che la sua determinazione gli avrebbe costato tanti voltafaccia e grandi amarezze. Non se ne fece una ragione, perché, anche a constatare che i suoi articoli venivano pubblicati con cadenze più prolungate nel tempo, continuò a scrivere e a pubblicare nelle sue riviste (“La nuova critica”, “Quaderni reazionari”, “L’osservatore” ). Titone – come leggiamo nel brano sopra riportato – non rinunciò mai a pensare, che per lui significava anche agire. 

In una lettera del 1983 scrive ad un amico: «Bisogna certo pensare, ma per agire, per rendere gli altri migliori, più buoni, più onesti, più liberi dai pregiudizi comuni». Sono poche parole, ma nella sintesi, tutto un programma di vita e un messaggio rivolto non solo all’amico in difficoltà, ma a quanti hanno a cuore la pace sociale e il vivere civile onesto. 

I Diari coprono un arco di tempo che va dal 1920 al 1989. Se consideriamo che Titone era del 1905, ne risulta che molti degli scritti e pensieri riportati nel primo volume furono scritti in età giovanile, e ciò meraviglia per la profondità di sentire che vi è racchiuso. Gli stessi pensieri, ripresi ed ampliati, ma non rinnegati con l’avanzare degli anni, vengono riproposti più volte tra gli scritti della maturità e costituiscono parte del suo pensiero. Queste convinzioni così radicate gli vennero dagli studi profondi e metodici che, a partire da quegli anni lontani, lo accompagnarono per tutta la vita, da buoni compagni di viaggio, e lo fecero distinguere per serietà di intenti e coerenza. 

Dante, Goethe, Leopardi, Dostojevski, D’Ancona, nomi noti e poco noti (Lorenzo Panciatichi, poeta e letterato fiorentino del sec. XVII, per citarne uno), moderni e contemporanei, italiani e stranieri (Titone fu anche uno studioso di letterature straniere, in particolare della francese e della spagnola, di cui per un certo periodo ricoprì la cattedra palermitana), costituiscono una galleria ricca e variegata di autori che, pur nell’ampiezza degli interessi, sono il sostrato della sua immensa cultura. 

Ma, oltre all’uomo di studi, emerge da questi scritti l’osservatore attento degli uomini e delle cose. Virgilio Titone non si faceva sfuggire niente. E la grandezza dello storico sta proprio in questo, e nella capacità di spiegarsi (e spiegare) le varie realtà alla luce del vissuto, senza mai perdere di vista l’uomo e le sue vicende. Sicché i Diari sono una fonte inesauribile di notizie e di spunti, che aprono con obiettività e distacco al secolo XX quanti vogliono cimentarsi nel suo studio ed, inoltre, offrono l’opportunità di conoscere in fieri il pensiero dello storico, riversato nelle innumerevoli opere. 

Il primo volume va dal 1920 al 1969. Sono annotazioni varie e interessanti di storia (questioni meridionale e palestinese, movimenti studenteschi, realtà sovietica e Paesi comunisti), oppure, commenti a notizie giornalistiche, considerazioni e giudizi su letture le più disparate (volendo ricordare altri nomi accanto ai già menzionati: Balzac, Turgenev, Bergson, Croce, Mondolfo, Marcuse, Vallès, a parte i classici, che conosceva bene e traduceva senza ricorso ai vocabolari) e, ancora, semplici fatti di cronaca o di costume (sporcizia a Palermo, dilagare del nudo, dirottamenti aerei). 

Qualunque cosa cada sotto gli occhi o nelle mani di Virgilio Titone è suscettibile di attenzione e genera idee. Qualunque cosa, un verso o la semplice vista del mare selinuntino, è spunto per una riflessione che coinvolge tutto e tutti. 

Il 9 ottobre 1969 scrive: 

«Ieri ho fatto un bagno nel mare della mia campagna di Selinunte. Bagnandomi guardavo, come sempre mi accade, l’acropoli con le colonne del tempio di Ercole. Quel mare è antico e vi si bagnavano i miei avi selinuntini. Poiché son certo che la mia famiglia è delle pochissime che ne discendono. E anche ieri sentivo quel pieno appagamento di me stesso, che provo nel mare: come se mi liberassi da ogni cosa dolorosa e impura e mi fondessi con le acque. Ci ritornerò l’anno venturo. Dopo queste brevi pause ritorno a scrivere libri e articoli – il solo pretesto che mi resti per vivere – e a pensare ai miei morti(3)». 

Il fluire del tempo, la piccolezza umana, gli affetti familiari che ci portiamo dietro, e di cui non possiamo fare a meno, ci dicono la caducità della vita, ma anche il senso che in essa va ricercato e per il quale vale la pena di vivere. Il tutto in una forma piana e non priva di religiosità: Titone viveva per scrivere e per dare il suo contributo di idee che sono illuminanti per capire l’uomo e la società in cui vive. 

Da buon storico, l’Autore comprese bene la realtà che si stava vivendo. Gli anni Sessanta, che stavano subendo gli effetti di una economia allargata, furono anni di aperta contraddizione e di scontro, nei quali era evidente la crisi delle ideologie, tra cui quella marxista, alitante nei movimenti studenteschi. I governanti, per non perdere il controllo della situazione fecero una sterzata a sinistra, rompendo l’equilibrio fino ad allora vigente. 

L’analisi che Virgilio Titone fa di quegli anni può essere in qualche punto discutibile, ma non può non essere accolta. Il permissivismo, la corsa al posto statale, lo scadere degli studi, il successivo allontanamento dei giovani dalla politica, il barocchismo che entrò allora in letteratura, la contraddizione divenuta ancor più palese tra l’atteggiamento di pensiero e di vita, questo ed altro potevano solo suscitare sdegno nell’uomo Titone che aveva sempre lottato per la libertà dai condizionamenti e si era battuto contro “la servitù dei cervelli”. 

Il secondo volume, che copre gli anni 1970-1976, approfondisce la tematica sopra esposta, la riprende e la fa ricca di nuove argomentazioni, sempre frutto di letture di libri e di giornali. Così è anche il terzo volume che raccoglie gli scritti dal 1977 al 1989, anno della sua morte. 

Calogero Messina, nella sua calda e commossa introduzione che rievoca il maestro e l’amico, scrive: 

«Quando lo contemplavo seduto al suo tavolo stracolmo di carte nella sua sala preclusa alla luce del giorno, in compagnia dei suoi libri posati dappertutto, negli scaffali, per terra, sulle sedie, il suo volto asciutto e di grande dignità, intenti gli occhi alle pagine di un autore, pensavo a volte all’antico umanista che amava discorrere con gli uomini di altre epoche.(4)» 

Nei Diari balza subito agli occhi lo studioso, che non s’interessa soltanto di un campo specifico di conoscenza, ma è portato ad indagare su tutto ciò che è dell’uomo. In cultura era un eclettico, era aperto a tutte le istanze: voleva conoscere per paterne parlare e scrivere; in tutto cercava la cognitio causae per avvivinarsi meglio all’uomo e migliorare per quanto si può il suo viaggio tra gli uomini. 

L’immagine che Messina tratteggia di Virgilio Titone corrisponde appieno. Essa è una bella rievocazione che dice tutta la stima e la riverenza, da parte di chi lo conobbe bene e lo praticò, per l’uomo Titone, dedito ai libri e chiuso nel silenzio della stanza per studiare e scrivere. Ma se l’antico umanista se ne serviva 

* Nato a Castelvetrano (1905-1989), insegnò Storia moderna presso l’Università di Palermo. Fondò e diresse diverse riviste; tra le sue tante opere ricordiamo: Espansione e contrazione (1948), La Sicilia dalla dominazione spagnola all’unità d’Italia (1955), Origini della questione meridionale.!. Riveli e platee del regno di Sicilia (1961), Storia, mafia, costume in Sicilia (1964), La storiografia dell’Illuminismo in Italia (1969), Il pensiero politico italiano nell’età barocca (1975). 
per risuscitare fantasmi che ormai appartenevano al passato, il nostro autore studiava e scriveva per comunicare con gli altri e continuare un colloquio mai interrotto, perché a base di tutto il suo fare poneva la crescita morale e sociale dell’Italia e della Sicilia, a cui era morbosamente attaccato, anche se non fu tenero di giudizi nei loro confronti. 

Leggendo il vasto diario, affiora la chiara impressione che, in fondo, pur nei contrasti e nelle difficoltà, Titone era un ottimista, uno che amava la vita e il mondo, ed aveva fiducia negli uomini, nonostante constatasse che in certi momenti della storia tutto sembra complottare la disfatta. Eppure, non risparmiò articoli di ogni sorta, pubblicati in giornali nazionali ed isolani, finché glielo permisero, e non si stancò mai di ripetere le stesse cose. 

A proposito, il 28 agosto del 1970 così scrive a Salvatore Specchio: 

«Certamente, scriverei più spesso in quel giornale [il riferimento è al “Corriere della Sera”]. lo però non ne sono il direttore. E poi a che cosa servirebbe, se non è possibile, né in questo né in alcun altro, scrivere quello che tutti pensiamo?» 

Ma Titone non smetterà mai di scrivere, anzi rincarerà la dose, quasi per non dar tregua ad un nemico invisibile e nocivo. Già nel 1966 aveva pubblicato Il conformismo e, sempre sul tema, dieci anni dopo, pubblicherà Dizionario delle idee comuni; del 1978 è il libro La servitù dei cervelli e, di un anno dopo, Il libro e l’antilibro. 

Tutti questi scritti vengono ricordati nei Diari. In questi come negli altri, lo scrittore mette il dito sulla piaga della società, e si rivela un uomo libero e coerente che credeva davvero in un mondo migliore, nel rispetto degli altri, al di là delle parole prefatte o delle barricate precostituite. Da uomo libero dai condizionamenti, anche di partito. Le lettere, specie del III volume, ne sono la testimonianza. 

L’alto senso della libertà portò Virgilio Titone a parlare e a scrivere con la sua testa. Ad esempio, si parlava, allora come ora, dello stato di disagio della Sicilia, ripetendo discorsi già triti e ritriti e citando statistiche. Titone rigettò energicamente questa tesi, al contrario parlò, e scrive nel suo diario, di una Sicilia ricca, capace di poter essere gestita in modo autonomo. Eppure questo non avvenne allora, e non avviene ancora oggi, se non in timidi tentativi, sia per 

consuetudine radicata nei Siciliani di apparire quelli che non sono per ottenere agevolazioni statali, sia per la rapacità di molti politici che dalla dichiarata questione traevano (e traggono) tanto profitto. Queste le conclusioni a cui perveniva lo storico, e da esse partiva per parlare di questione settentrionale con i suoi risvolti negativi per tutta l’Italia. 

I Diari di Virgilio Titone aprono il lettore a tutto un caleidoscopio di idee e di pensieri che costituiscono il fondo della sua vasta produzione. E il lettore, o lo studioso, che si accinge ad esplorarla, non può non tenerli in considerazione, se vuole davvero comprenderla. 

Le lettere, che il Messina pubblica in appendice ad ogni volume, sono di prezioso corredo, perché mettono arcor più in evidenza l’uomo e le sue idee, con i molteplici interessi e gli amici, tra i quali scrittori di alto livello nel panorama italiano del secolo scorso. Ciò vuol dire che Titone era tenuto in grande considerazione come studioso e come scrittore, e per questo apprezzato e letto. 

Titone era vocato alla scrittura. Scriva di storia, di sociologia, di critica o altro, egli rimarrà anzitutto uno scrittore degno di essere accostato ai nostri migliori. Si leggano le opere di narrativa (Storie della vecchia Sicilia, Vecchie e nuove storie di Sicilia, Le notti della Kalsa di Palermo), o quelle sopracitate o le tante altre non menzionate: in tutte c’è il rispetto della parola, ponderata e messa al posto giusto, indice di padronanza del lessico che s’accompagna alle idee, di cui l’autore si fa portatore, ma c’è anche il rispetto del limite, cioè, la capacità di dire molto nella stringatezza, senza che ciò pesi nell’economia della pagina, anzi la rende agile e piacevole. 

Certamente le doti dello scrittore emergono nella loro luce più vera nelle opere di più ampio respiro, ma i Diari, appunto perché raccolgono scritti per lo più brevi, finemente lavorati, sono una palestra di stile. Molti di essi sono veri e propri poemetti in prosa che ci riportano alla migliore tradizione nostrana, a partire da Savarese, 

Rosso di San Secondo, Borgese, tutti ricollegabili alla “Ronda” e a Cecchi, con cui il nostro autore era in buonissimi rapporti. 

Virgilio Titone, con sobrietà e, nel contempo, con grande sensibilità, affida alla pagina se stesso, senza barocchismi o sentimentalismi. Ed è quello che da un vero scrittore dobbiamo sempre aspettarci. 

Salvatore Vecchio 

1) Diari (1977-1989), pag. 77. 
2) Diari (1920- 1969), pag. 114.x
3) Ivi, pagg. 208-209 
4) Ivi, pag. 170

Da “Spiragli”, anno XIV, n.1, 1999 – 2002, pagg. 4-12.




 Gentile e la cultura siciliana 

Giovanni Gentile, figura di spicco nella storia della filosofia contemporanea, s’interessò con molto impegno della Sicilia e della sua cultura. Siciliano (nacque a Castelvetrano, in provincia di Trapani nel 1875, e morì a Firenze nel 1944, barbaramente ucciso da partigiani), ricevette a Trapani la sua prima educazione umanistico-filosofica e a Palermo insegnò dal 1906 al 1913, venendo in contatto con gli uomini più in vista di allora. 

Estimatore ed amico di Pitrè, volle e inaugurò, con la pubblicazione del primo volume dei Canti popolari siciliani (1940), l’ «Edizione nazionale delle opere di Giuseppe Pitrè», facendosi sostenitore dello studio delle tradizioni popolari già bene affermato in Italia e nel mondo. Basti pensare a G. Cocchiara che nel 1923 pubblicò l’ormai classico Popolo e canti nella Sicilia d’oggi e ai tanti che come lui intrapresero la strada additata da Pitrè e da Vigo. 

Gentile raccolse in un libro, Il tramonto della cultura siciliana (1917), i saggi pubblicati su «Critica» di Croce, saggi che da una parte onorano la figura e l’opera di Pitrè, dall’altra vogliono evidenziare come la cultura siciliana con la scomparsa del grande demopsicologo si stesse avviando al suo tramonto. Egli temeva che con la morte di Pitrè, Di Marzo e Salomone-Marino avvenuta nei primi mesi del 1916, gli studiosi siciliani si sarebbero rivolti a temi ed argomenti di respiro nazionale e tutto ciò che di regionale li aveva interessati sarebbe stato accantonato. Tale convinzione gli veniva dal fatto che era un convinto nazionalista e, soprattutto, interpretava la tendenza degli uomini di cultura siciliani ad aprirsi alla realtà italiana come un volgere le spalle a quella siciliana. Alla base del libro (molto valido e informato sulla cultura siciliana di fine Settecento) c’è questo presupposto che ne costituisce il vizio di fondo. 

Il popolo siciliano, che aveva avuto parte attiva nel Risorgimento, si sentiva tradito; aveva sperato di ottenere libertà ed autonomia, aveva pensato di essersi liberato di un governo sordo alle sue istanze, incapace il Borbone di farsi garante di tutti, es’ era trovato nella stretta di un altro dominatore, prepotente, esigente esattore di tributi. E gli intellettuali siciliani se ne erano resi conto. 

Lo Stato piemontese ingrandito non soltanto esigeva tasse dai meno abbienti, ma toglieva loro i figli che servivano per l’esercito, e niente faceva per quanti avevano creduto di poter migliorare la propria esistenza. Si pensi al modo in cui fu spazzato via quel vento di primavera tutto siciliano che furono i Fasci dei lavoratori (1892-1893). Fu un senso di sfiducia che alimentò il separatismo. D’altronde, i Siciliani non avevano combattuto a partire dal ’48 e s’erano uniti successivamente all’impresa di Garibaldi per la liberazione della Sicilia? I più erano convinti e auspicavano l’autonomia, pur in una confederazione di Stati. 

Così l’isola subì un periodo di stasi, durante il quale letterati, studiosi e gente comune andarono altrove in cerca di fortuna; altrettanti restarono, sperando in tempi migliori. Era logico che tutti si adeguassero alla nuova realtà, allargando i loro orizzonti culturali; ma questo non significò che una maggiore apertura, non un collasso della cultura siciliana. Era anche logico che la prospettiva con la quale si erano visti e affrontati i problemi dell’isola non fu più la stessa, perché inserita in un contesto più largo, italiano, ma l’anima di fondo siciliana, la cultura, che è vita di un popolo, non sarebbe venuta mai meno, destinata ad alitare in ogni isolano perché sia consolidata e tramandata e continui a vivere. 

Giovanni Gentile esclude tutto questo nel suo libro, e afferma il contrario, sia nell’ampia introduzione che lo riassume, sia nella trattazione, organica nel suo insieme, ma di parte. 

«La cultura siciliana, scarsa di contenuto e di tenacia di tradizione, non mancava, per altro, di un carattere suo ben determinato; e non era possibile infatti che non vi stampasse un’ impronta rilevata quell’isolamento geografico e storico, onde essa rimase tutta chiusa in se medesima, come una nazione particolare, fin quasi alla vigilia del ‘601.» 

Si può ben notare come il filosofo, tutto preso dal suo punto di vista, dimentica il ruolo di mediatrice culturale della Sicilia nel corso dei secoli ed’ un tratto si scrolla l’immensa mole di cultura di cui essa, aere perennius, da sempre è stata depositaria. 

Senza andare troppo lontano, la Sicilia è stata sempre un porto di mare aperto ai commerci e alla cultura. Messina fu nel Medioevo città di intenso movimento: vi si convogliavano merci provenienti da Oriente e da Occidente, e con esse anche libri che tramite i mercanti giungevano ai committenti. Dante era letto e studiato; tanti studenti uscivano fuori dell’isola per andare a studiare nella penisola da dove tornavano per intraprendere nei luoghi d’ origine le varie professioni, cosi fu per Tommaso Calojra agli inizi del XIV secolo. Questi a Bologna fu compagno di studi ed amico di Petrarca, con il quale, una volta ritornato a Messina, mantenne fino alla morte (1341) una corrispondenza epistolare. 

I contatti e gli scambi culturali da e per la Sicilia ci sono sempre stati. Uno splendido esempio ci viene dato dall’ età umanistico-rinascimentale che da noi fu fertile di ingegni e di opere2. Uomini di cultura, scrittori, insegnanti, si trasferirono da una città all’ altra, perché chiamati ad insegnare o a gestire le segreterie comunali, e ben pagati per meriti acquisiti. Tutto un gran fèrvere di attività culturali, ma non solo. Troviamo i nostri umanisti nelle migliori corti e studi sparsi per l’Europa, onorati e stimati per scienza ed opere che già allora facevano grande la Sicilia. Tommaso Schifaldo, marsalese, andò a studiare a Siena, dove si laureò nel 1460 e insegnò in varie città; Pietro Ransano, palermitano, viaggiò molto e per tre anni (1488-1490) fu ambasciatore in Ungheria presso Mattia Corvino; Lucio Marineo e Lucio Flaminio insegnarono a Salamanca, Cataldo Parisio Siculo in Portogallo, Priamo Capozio in Germania, e così tanti altri. 

Non fu «chiusa» né, tanto meno, «sequestrata » la Sicilia. Essa fu ed è sempre aperta alle nuove istanze. Nel SetteOttocento, secoli a cui Gentile fa riferimento, intense furono le relazioni culturali tra Sicilia e Spagna, e tanti i libri siciliani tradotti e pubblicati in Spagna, così come quelli spagnoli venivano letti e divulgati in Sicilia; molti furono gli spagnoli che da noi vennero ad esercitare l’arte della stampa. Si trattava, per lo più, di pubblicazioni agiografiche, ma anche di storia, di narrativa e di teatro. Viene, a proposito, citato Giovanni Meli che in un suo componimento, Don Chisciotti e Sanciu Panza, richiama Miguel de Cervantes, ma conosciuti e influenti per il teatro nostrano furono Felix Lope de Vega e Pedro Calderon de la Barca3. 

La Sicilia fu aperta a tutta l’Europa. Ricordiamo gli scambi culturali con la Francia, la circolazione dei libri che molto influenzarono e fecero dibattere i nostri intellettuali. Erano da noi noti e letti gli enciclopedisti e gli opinionisti francesi (Voltaire, Diderot, Helvétius, D’Alembert, Montesquieu, Rousseau), e non mancarono gli studiosi che contribuirono con le loro opere a diffonderli e farli conoscere ad un pubblico più vasto. 

Sicché le idee circolavano tra i vari ceti, tanto da spingere alle rivolte. Si ricordi la ribellione di popolo a Palermo nel 1773, che cacciò il vicerè Fogliani. Ad annotare le conseguenze a cui quelle idee «malsane» portavano fu un nobile conservatore, Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, che nel suo Diario paLermitano difende ed elogia il viceré4. La rivolta non ebbe l’esito sperato e presto tutto tornò alla normalità, e questo fu possibile per l’ accentuato particolarismo della società siciliana, per gli interessi di parte dei ceti emergenti capaci di bloccare ogni spinta innovativa e rivoluzionaria. 

Particolarmente Montesquieu e Rousseau ebbero non solo lettori ma anche seguaci e censori. Tra i primi, tanto per citare alcuni nomi più rilevanti, vanno ricordati Cesare Gaetani della Torre, Salvatore Maria Di B1asi, che difese Rousseau dagli attacchi di Isidoro Bianchi e di Francesco Paolo di Blasi, il quale scrisse una Dissertazione sovra L’ egualità e la disuguaglianza degli uomini (1778) e sarà in seguito giustiziato per le sue idee liberali; critici furono Antonio Pepi che nel Trattato della inegualità naturale degli uomini (Venezia 1771, Palermo 17782 ) ammette l’uguaglianza naturale ma non sociale degli individui, Tommaso Natale e Nicola Spedalieri. 

Figura poliedrica di intellettuale fu Tommaso Natale che studiò la filosofia di Leibniz e la divulgò con una sua rilettura abbastanza originale: Filosofia Leibniziana esposta in versi toscani. A lui si deve anche l’opera Riflessioni politiche intorno alt efficacia e necessità delle pene, scritta nel 1759 ma pubblicata nel 1772. Ciò significa che la Sicilia era veramente un laboratorio di cultura che non solo attingeva dal continente, ma elaborava un suo pensiero anticipatore e per certi aspetti originale. Ciò significa anche che la Sicilia non era «chiusa» e nemmeno «sequestrata». Essa stava vivendo un momento della sua storia come tanti altri, momento ricco di grandi aspettative e di forti contraddizioni, lo stesso che stavano vivendo gli altri paesi d’Europa, protesi verso il nuovo e desiderosi di voltare pagina. La sola differenza stava nel fatto che da noi si era aperti in cultura, mentre dal punto di vista politico più moderati e conservatori, perché a costituire per lo più il ceto intellettuale erano persone agiate che, seppure auspicassero riforme e miglioramenti, anche per un senso di filantropismo abbastanza diffuso nel secolo dei Lumi, tenevano molto al loro status e ai privilegi di cui godevano5. Di conseguenza, anche se le idee circolavano ed erano molto rivoluzionarie, i ceti emergenti non avevano l’interesse a cambiare radicalmente le cose. Per un benessere collettivo era il ceto colto che, fatte proprie le idee d’Oltralpe, auspicava veramente miglioramenti e riforme. Esso avrebbe voluto attuarle, cosa che risultò impossibile, non tanto perché, come scrive Gentile: «la Sicilia era stata la sola parte dell’Italia a non risentire socialmente il contraccolpo della Rivoluzione francese», quanto perché c’era nella massa un rilassamento spirituale6, un bisogno di conservare e di migliorare il proprio stato sociale, da parte dei nobili, del clero e dei borghesi, senza sovvertire l’ordine politico. La povera gente, rurale e contadina, era asservita a questi ceti e da essi dipendeva. La borghesia, che in Francia fu parte attiva e fece da traino al terzo stato, da noi cercò di emulare i ceti emergenti e di consolidare una sua posizione di privilegio, per cui, a volere usare le stesse parole di Virgilio Titone, «non manca chi, dietro le quinte, si serve della plebe e la dirige e consiglia per fini più lontani7.» 

La Sicilia è stata sempre così, ed è tuttora difficile apportarvi cambiamenti significativi. Ognuno ha pensato a sé, dimenticando gli altri. I molti interessi dei pochi ne hanno condizionato lo sviluppo. Così è tuttora. E la massa, se prima seguiva ciecamente, o rassegnata, il signore da cui dipendeva, adesso vota per l’amico che le ha promesso un lavoro, o per l’amico dell’amico di cui può avere bisogno. La povera gente non era libera allora come ora o, per lo meno, non aveva la possibilità di fare scelte, perché erano i potentati a scegliere per lei; un male, questo, così radicato da ostacolare ogni sviluppo, politico e socio-economico. 

Eppure le idee circolavano.Tra il Sette-Ottocento ci furono accesi dibattiti che affrontarono i più disparati problemi del tempo e si prospettarono soluzioni in linea con quelle avanzate in altri paesi. Così avvenne con la pena di morte, anticipando le conclusioni di Beccaria, o a proposito della querelle degli antichi e dei moderni, nella quale intervennero, tra i tanti, Vincenzo Gaglio e Giuseppe Alondres: il primo nei suoi scritti risente dell’influsso di Montesquieu ed è per i moderni, l’altro della filosofia morale del Sei-Settecento e preferisce gli antichi. 

Le dispute interessarono problemi di attualità, di diritto, di filosofia, di religione, ma anche di storiografia, tanto che si cominciò a vedere più oggettivamente il fatto storico, a voler conoscere cosa fu realmente, al di là delle spinte emotive o delle convinzioni che fino ad allora erano state di ostacolo alla verità. Nicola Spedalieri da Bronte confutava molte tesi di Edward Gibbon, l’autore della Storia della decadenza dell’Impero Romano, in una sua opera molto apprezzata da Domenico Scinà8, e l’agrigentino Vincenzo Gaglio si meravigliava come Voltai re potesse esprimere un giudizio negativo nei confronti di Augusto. Ma non accettava anche punti di vista di autori classici latini come Livio, che allora, insieme con tanti altri scrittori, era conosciuto e studiato9. 

Quanto detto finora, credo sia indizio non, come afferma Gentile, «della scarsezza di contenuto e però della debolezza di tradizione della cultura, che la Sicilia al momento della unificazione nazionale recava seco, come proprio patrimonio10 >>, bensì di ricchezza di contenuto e di un suo solido radicamento nella tradizione culturale siciliana. Se poi molti scrittori nostrani costretti a stabilirsi nella penisola (Gentile cita P. E. Giudici e F. Ferrara), ma anche quelli che continuarono ad operare nell’isola, non ebbero difficoltà alcuna a fare proprio il nuovo clima che veniva ad instaurarsi con l’unificazione, il merito va alla stessa cultura siciliana perché da sempre era stata a contatto con quella italiana. Di conseguenza, all’atto dell’unificazione, le due culture (quella siciliana e l’italiana) avevano tanti tratti comuni; per questo i nostri si sentirono a casa loro, imponendosi e dettando leggi in ogni campo della vita nazionale. D’altronde, quale altra regione della nuova Italia aveva e tuttora ha una letteratura così ricca da competere con quella siciliana? Lo stesso Dante ne riconobbe il primato11, anche se poco dopo la storia cambierà corso, come si sa, e quel primato passò alla Toscana. 

Gentile, a riprova della sua affermazione, porta come esempio il verismo di Verga, Capuana e De Roberto, la cui arte non può spiegarsi se non come prodotto del vasto movimento culturale dilagante in Europa in quello scorcio di secolo. Vera senza dubbio l’affermazione, ma non si può pretendere il contrario, che, cioè, non c’era motivo per cui la Sicilia non avrebbe dovuto risentirne, perché diversamente avremmo avuto davvero la chiusura, cosa che non ci fu. 

Le idee circolano e si diffondono adeguandosi alle diverse realtà. In Sicilia il positivismo e il verismo trovarono terreno fertile negli scrittori sopra riportati e in tanti con tanti altri, ed ebbero anche come cantore Mario Rapisardi, che fece sua la tendenza del tempo, anche se dalla sua poesia traspare un animo candido innamorato della vita e delle intime manifestazioni del cuore. Se Rapisardi, verista e romantico al tempo stesso, operò al di fuori dei canoni di scuola, non così fu per gli altri che vi si adeguarono fin quando poterono, perché nei veri artisti è l’estro che prende la mano, facendo tesoro di una materia che, messa in luce dall’arte (a niente erano valse le tante inchieste), con tanto effetto denunciava i mali della società siciliana. 

Quello che vogliamo dire è che, comunque, l’originalità non consiste nell’essere promotori di un pensiero o di un’arte, ma nel modo come quel pensiero e l’arte vengono fatti propri. Oggi parliamo di Capuana più come teorico verista che come artista; il contrario diciamo di Verga, universalmente riconosciuto come indiscusso maestro. Vogliamo ancora aggiungere, e Gentile sapeva benissimo questo, che un movimento di cultura, se è veramente tale, si diffonde da sé a macchia di leopardo, in una nazione prima, in un’altra dopo, come fu per lo stesso positivismo nella seconda metà dell’Ottocento: prima in Francia e in Inghilterra, poi in Germania, in Italia e negli altri paesi. Come tutti gli altri movimenti di cultura del passato, esso sarebbe arrivato in Sicilia lo stesso, anche a non essere unita all’Italia, e avrebbe avuto i suoi studiosi. 

Ritornando al verismo italiano, esso fu veramente tale grazie all’arte degli scrittori isolani e, soprattutto, grazie al Verga che fece assurgere a dignità elevata una materia prettamente siciliana, purificandola e vestendola di una universalità tutta propria ed originale che niente ha a che fare con il regionalismo. Il verismo italiano fu tale perché prima di tutto fu siciliano. Non per questo agli autori menzionati aggiungiamo altri, meno famosi ma meritevoli di essere ricordati e studiati, come Alessio Di Giovanni, che nei suoi lavori e in particolare in Gabrieli lu carusu12, risalta un’umanità sofferente che in Sicilia come nelle varie parti del mondo rivendica migliori condizioni di vita e invoca una giustizia negata. 

Scrive Giovanni Gentile: 

«L’Isola era stata sempre sequestrata, a causa del mare e della scarsezza dei commerci, da ogni relazione col resto del mondo. Quando nel 1781 ci venne come vicerè il napoletano Domenico Caracciolo, credeva di giungere, dice uno storico siciliano, fra gl’Irochesi e gli Ottentotti13.» 

Lo storico ricordato è Isidoro La Lumia, grande sicilianista che, rispolverando documenti e antiche carte redatte sotto i Borboni, contribuendo con il suo lavoro di studioso al bene della patria, aveva notato un regresso rispetto al passato e coglieva l’occasione, l’isola ormai accorpata allo Stato italiano, per auspicare interventi e maggiori attenzioni da parte di chi quelle attenzioni e quegli interventi aveva promesso già a partire dal 1860. 

La Sicilia è stata sempre un’isola aperta, mai «sequestrata». Al centro, com’ è, del Mediterraneo, ha mantenuto buone relazioni non solo con i paesi costieri, ma anche con quelli più lontani che vi trovavano generi di prima necessità e quant’ altro vi si produceva. Durante tutto il Settecento, nonostante l’ assolutismo borbonico, i commerci furono floridi soprattutto con la Spagna, e in Sicilia venivano a rifornirsi navi maltesi, inglesi, francesi, olandesi, portoghesi, per non dire di quelle provenienti dal nord Italia, genovesi, veneziane, livornesi e altre ancora. Si esportavano grano, orzo, sommacco, zolfo, e tanti prodotti isolani; in cambio, si importavano spezie varie, cacao, panni, legno, zucchero e merci che servivano al fabbisogno nostrano14. 

Ci furono pure periodi di crisi dovuti a cattivi raccolti che facevano registrare un rallentamento dei commerci, ma era normale e ciò si verificò dovunque. Eppure, i baroni e i mercanti trovavano il modo, con la compiacenza di uomini di governo, di vendere il grano destinato all’ approvvigionamento delle popolazioni, con i conseguenti aumenti dei prezzi e, quindi, con le epidemie e le rivolte che ne derivarono, come avvenne nel 1763 sotto il vicerè Fogliani15. Frutto, comunque, di cattiva amministrazione legata ad interessi di parte, piuttosto che ad una politica tesa a migliorare il paese, nonostante le sue risorse naturali ed umane. Se a questo aggiungiamo che gli stessi commerci che si svolgevano per mare non erano sicuri per via delle scorrerie piratesche (i pirati infestavano tutti i mari e spesso erano reclutati da nazioni nemiche per ostacolare i commerci tra stati amici ed accaparrarsi le merci), il quadro della Sicilia del Settecento è più completo. 

Ad evidenziare le potenzialità della Sicilia sono gli stessi viaggiatori che già nel Settecento affluirono dai diversi paesi per visitare l’isola tanto decantata per il clima, le bellezze e le antichità, e non calcarono la penna sulle negatività che enumera Gentile; c’erano pure, ma non era tutto nero come fa apparire. In Sicilia, come in altri paesi, si viveva quasi la stessa realtà. Certo, in alcuni di essi c’era più liberalismo, da noi vigeva un assolutismo che doveva fare i conti con le nuove idee e che in altre parti stava crollando. 

Il tedesco Friedrik Miinter e l’inglese Henry Swinburne16 fecero considerazioni abbastanza positive sulla produttività del terreno, per tanta parte, però, lasciato incolto e facevano ricadere la colpa sul governo. Altri viaggiatori notarono i commerci che abbisognavano di potenziamenti, rallentati spesso da crisi dovute a carestie o altri fattori umani. Erano visitatori che, attratti da curiosità artistico-culturali, paesaggistiche, antropologiche, spinti da quel far parlare di sé proprio della Sicilia, affrontavano non pochi disagi per visitarla, tra strade malandate, inesistenti o ridotte a pantani d’inverno, malsicure per il brigantaggio dovuto ai tanti problemi irrisolti e all’ abbandono in cui la povera gente viveva e, comunque, già molto ridimensionato nella seconda metà del Settecento. Esso non fu un fenomeno soltanto siciliano, tant’ è che i governi cercarono nel tempo di ovviare all’inconveniente ricorrendo alle maniere forti, come agì il vicerè Fogliani che diede incarico al principe di Trabia di fare piazza pulita dei banditi. 

Giovanni Visconti Venosta17, citato da Gentile, parla di rischi «bensì sempre inferiori alla leggenda». Ma siamo già nel 1853. Brydone18, che fu in Sicilia nella primavera-estate del 1770, si premunì di guardie del corpo, ma non ebbe incontri spiacevoli, anzi fu bene accetto e rispettato ovunque. Lo stesso Hager19, che visitò la Sicilia in due occasioni, tra il 1794 e il 1796, riferisce di aver sentito parlare di banditi, ma non ebbe di essi conoscenza diretta. 

C’è da dire che in Sicilia i briganti, per un insito senso di ospitalità, avevano sempre avuto massimo rispetto per i viaggiatori stranieri. Mlinter, scrive: «A dispetto di tutti i racconti di banditi e di assassini, io ho viaggiato disarmato nella più perfetta sicurezza. [ … ] Collera e vendetta sono i peccati ereditari di ogni nazione meridionale d’Europa. Si trovano questi in grado distinto tra i Siciliani, ma un forestiero che non ha alcuna occasione d’irritare un nazionale, oppure, che sappia osservare la necessaria precauzione, non ha nulla da temere.» La stessa cosa in tempi più recenti affermerà H. Koenigsberger (20) che nei Siciliani riconosce come «preminente caratteristica: la loro umanità». 

Giovanni Gentile, che certamente ebbe a cuore le sorti della sua terra, voleva con i suoi interventi dare un contributo alla causa nazionale dell’Italia che, politicamente unita, mancava ancora di quell’unità spirituale che la rendesse veramente una nazione. Essa ancora non aveva saputo legare a sé le popolazioni perché non aveva mantenuto le promesse fatte, lasciandole nel più completo abbandono, aumentando così lo stacco tra Nord e Sud e favorendo brigantaggio e rivolte. 

La Sicilia, dallo sbarco di Garibaldi in poi e quasi per tutta la prima metà del 

secolo scorso, non aveva visto niente di nuovo, e la sua gente aveva aspettato invano la terra promessa; tante volte si ribellò, bruciò perfino archivi e municipi, ma lo Stato centrale non fece altro che mandare l’esercito a sedare con la forza le rivolte21. A niente servirono le denunce e le inchieste. Lo Stato non aveva la forza di garantire la giustizia perché non c’era alcuna volontà politica di risolvere i secolari problemi delle classi rurali e contadine. E questo malcontento acuì lo spirito separati sta dei Siciliani, da Napoli prima, quando nel 1848 idearono e si batterono per un’autonomia tra Stati confederati, e dallo Stato italiano dopo, quando nel 1866 Palermo insorse per separarsi da Torino. Tentativi entrambi falliti non perché mancavano gli uomini e le idee, ma perché la classe colta che se ne faceva promotrice non trovò l’unità d’intenti con le altre classi sociali, per cui facile venne ai poteri costituiti ristabilire l’ordine con l’esilio e l’uccisione dei capi rivoltosi. 

Il 1848 fu una grande lezione politica per tutti, ma dovunque, nei vari Stati europei come in Sicilia, la rivoluzione rientrò e ci fu una forte repressione; il 1866 fu la rivolta palermitana del «Sette e mezzo» (durò poco più di una settimana dal 16 al 22 settembre) causata da diversi fattori, non ultimi il malessere dilagante e la delusione: i Siciliani, nell’abbandono sotto i Borboni, si erano venuti a trovare ancor più abbandonati, spogliati e soli sotto i Savoia! 

Ancora una volta le aspirazioni dei Siciliani erano state disattese. E anche se tanti, a cominciare da Mazzini, per un motivo o per un altro, condannarono l’accaduto (l’Italia stava vivendo una congiuntura sfavorevole per via della guerra con l’Austria), certo non fu, come scrive Gentile, pur riconoscendo il disagio e l’ amarezza della popolazione siciliana, «opera brigantesca degli elementi più torbidi delle infime classi sociali, sobillati e sostenuti segretamente da clericali e borbonici, colpiti ne’ loro privati interessi»22. Essa fu, per dirla con Francesco Renda, «senza dubbio una manifestazione incontenibile ed esplosiva di malcontento e di protesta popolare» che trova le sue cause in un insieme di motivi che andavano al di là della stessa Sicilia e vedevano coinvolti l’economia isolana, il governo centrale e la stessa politica, sia della destra che della sinistra23. In ogni caso, fu un campanello d’ allarme che denunciava la fragilità del costituito Stato italiano e il desiderio di una vera autonomia, tradita e sempre lontana. 

Unita all’Italia, la Sicilia s’avviò verso il tramonto come nazione, ma non rinunciò mai alla cultura nella quale la sua gente si è sempre riconosciuta e continuò a tenere viva la sua aspirazione autonomistica. Le rivolte a cui abbiamo fatto riferimento, il separatismo del 1943, la stessa rivolta del 1958 e le spinte in tal senso di questi ultimi anni confermano questo assunto. Ciò vuoi dire che, pur in una visione politica unitaria italiana, la Sicilia non ha mai cessato di sperare in una sua indipendenza e di guardare alla tradizione, non come rimpianto del passato, bensì come punto di riferimento ad un presente che è pure incerto. Senza dubbio, l’unità apportò un notevole cambiamento, ma il modo di vedere e di sentire siciliano, pur arricchendosi di nuovi apporti, rimase invariato. 

Gentile non manca di vedere in tutto questo il persistere di un regionalismo che andò dissolvendosi dal 1860 in poi24. Egli individua la causa della «dissoluzione di questa cultura regionale» nell’isolamento in cui la Sicilia era rimasta fino al 1848, «estranea e ripugnante » alla nuova cultura che si respirava in Italia e altrove, alludendo alla cultura romantica, con gli studi giuridici, filosofici, letterari e con la nuova concezione della storia. 

La Sicilia, aperta e sensibile al nuovo, respirò quella cultura, anche criticamente, calandola nella sua realtà. Sicché lo stesso romanticismo non fu «estraneo » né «ripugnante», perché da noi si verificò quello che stava avvenendo (o già era avvenuto) negli altri paesi. Anche qui ci fu tutta una polemica classico-romantica che coinvolse i letterati migliori e che si svolse tramite dibattiti e articoli pubblicati nei diversi giornali e riviste siciliani e italiani, come «La Ruota» e «Il Vapore» di Palermo, «Lo Stesicoro» di Catania, «Lo Spettatore Zancleo» di Messina, «Giornale Arcadico » di Roma. Tanto per citarne alcuni, classicisti furono F. Malvica, T. Gargallo, A. Gallo, L. Vigo, S. Costanzo, F. P. Perez; romantici F. Bisazza, M. Coffa, G. Turrisi Colonna, Eliodoro Lombardi, G. Daita, S. Barbagallo-Pittà. 

Ma, al di là degli schieramenti, classicisti ·e romantici furono accomunati dal desiderio di vedere la Sicilia socialmente riscattata e più democratica. I primi auspicavano maggiore autonomia, senza cambiare né l’orbita d’influenza né l’ordine sociale; i secondi propendevano, invece, per un cambiamento radicale, vedendo nell’unità con le altre regioni italiane maggiori possibilità di sviluppo per la Sicilia. Per questo, entrambi, accomunati nel bene maggiore e in esso concordi, mirarono ad una letteratura che fosse comprensibile e popolare25. 

Anche dal punto di vista filosofico la Sicilia risentì del clima culturale italiano e straniero (soprattutto tedesco e francese) del Settecento e primo Ottocento. Essa da sempre aveva avuto rapporti strettissimi con il resto d’ Italia e non rimase sorda alle nuove istanze del pensiero europeo che vi giungevano, passando dalla Francia; semmai, elaborò e fece proprie quelle che riteneva più congeniali per un suo rinnovamento morale e civile. I suoi filosofi migliori, che pure si erano nutriti dell’empirismo e del razionalismo del Settecento, e avevano assimilato bene la filosofia di 

Wolff, giudicarono parolaio e inconcludente l’idealismo tedesco di Fichte, Schelling ed Hegel, conosciuto attraverso l’eclettismo di Victor Cousin, che fu seguito da molti filosofi siciliani, come Francesco Pizzolato e Salvatore Mancino. 

Di Cousin i nostri studiosi apprezzarono l’afflato spiritualistico, l’ affermazione della libertà, della spiritualità indi viduale e dell’ esistenza di Dio. Perciò, se da un lato veniva a consolidarsi lo spiritualismo, terreno fertile aveva trovato in Sicilia il positivismo e l’evoluzionismo spenceriano, studiati anche dal giovane Gentile al liceo «Ximenes» di Trapani26. 

L’apertura allo spiritualismo, la formazione di una coscienza nazionale, il guardare alla tradizione, era il clima culturale del Risorgimento, ed era quanto avveniva in Italia, dove il pensiero illuminista venne sviluppato nel sensismo di Condillac e di Tracy, o anche criticato, come fecero Galluppi, Gioberti, Rosmini, Romagnosi e altri. 

Contrariamente a quanto afferma Gentile (27), che, cioè, la cultura siciliana rimase ferma al secolo XVIII, tra la fine del Settecento e il primo Ottocento in Sicilia si respirò lo stesso clima che in Italia. Lo studio e la ricerca mirarono alle esigenze del momento storico e perciò Vincenzo Tedeschi studiò e approfondì Kant, quello della Metafisica dei costumi (1797), cioè, Kant etico e politico, ma anche P. Galluppi, a sua volta studiato da Antonio Catara-Lettieri, e G. D. Romagnosi, che fu seguìto da un folto gruppo di studiosi e filosofi, come V. d’Ondes Reggio, B. Castiglia, E. Amari, F. Ferrara. 

Romagnosi fu apprezzato per la sua «filosofia civile» e per il recupero della filosofia della storia, la quale aprì agli studi storici e fece conoscere ed avvicinare i filosofi siciliani a Vico. Così, lo stesso V. Gioberti, che ebbe anche lui diversi seguaci (il citato Catara-Lettieri, Antonio Maugeri, Nicolò Garzilli), fu studiato per il suo ontologismo che afferma l’ «Ente» e valorizza l’ «esistente» come fattore di storia. Di qui l’esigenza di indagare la storia millenaria della Sicilia per farla meglio conoscere nella realtà e nei bisogni presenti. Per gli storici siciliani non fu facile, ma questo obiettivo li guidò nella ricerca e nella vita, da uomini di studio e di impegno nel sociale. Ciò li portò a sacrificare per il momento il principio dell’autogoverno siciliano e ad accantonare tutte le altre rivendicazioni. 

Queste argomentazioni riprendono quelle che Gentile espone nel Tramonto della cultura siciliana. Da quanto espresso, però, questo «tramonto» non ci fu, perché la cultura siciliana seppe affrontare il nuovo corso politico e continuò ad essere voce e riflesso dei Siciliani. È vero che la Sicilia rinunciò per il momento, come era avvenuto nel passato con le altre dominazioni, alla sua autonomia e si inserì a buon diritto nel nuovo contesto italiano, ma l’«anima siciliana », la cultura restò attiva ed operosa, anzi, risultò corroborata, perché si arricchì, adeguando le sue problematiche alla nuova realtà. 

Salvatore Vecchio 

NOTE 

1. G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, pagg, 4-5, Sansoni, Firenze, 1963′. 
2. S. Vecchio, L’Umanesimo siciliano, «Spiragli», 1997, anno IX, n. 3-4, pag. 5. 
3. C. Messina, Sicilia e Spagna nel Settecento, Società Siciliana per la Storia Patria, 1986, pag. 245, Palermo. Cfr. anche S. Correnti, La Sicilia nel Settecento. Il tramonto dell’Isola felice, voI. II, Tringale, Catania, 1985. 
4. S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, Torino, ERI, 1964, pago 250. Vedi anche F. De Stefano, Storia della Sicilia. Dal secolo XI al XIX, Bari, 1948, pag. 236 e segg. 
5. F. De Stefano, cit. pag. 261. 
6. Ivi, pag. 305. 
7. V. Titone, Sicilia e Spagna, Novecento, Palermo, 1998, pag. 293. 
8. L’opera è: Confutazione dell’esame del Cristianesimo fatto dal signor Edoardo Gibbon nella sua Storia della decadenza del Romano Impero», Roma, 1784. Scinà scrive: «Gibbon alle prese con lo Spedalieri ti pare un pigmeo, ti fa proprio pietà.» Cfr. C. Messina, Settecento italiano classicista e illuminista, Herbita, Palermo, 1980, pag. 29. 
9. V. Gaglio, Problema storico-critica-politico: Se la Sicilia fu più felice sotto il governo della repubblica romana, o sotto i di lei imperatori, in «Notizie de’ Letterati», Palermo, 1772; poi in Opuscoli di autori siciliani, voI. XVII, Palermo, 1775. Cfr. C. Messina, ciI., pagg. 56-57. 
10. G. Gentile, cit., pag. 3. 
11. Dante, De vulgari eloquentia, I, 12,2; I, 2,4. 
12. A. Di Giovanni, Teatro siciliano, Studio Editoriale Moderno, Catania, 1932. Si trova anche in Teatro verista siciliano (a cura di A. Barbina), Bologna, 1970. 
13 G. Gentile, cit. pag. 5. 
14. C. Messina. Sicilia e Spagna nel Settecento, cit. Cfr. V. Titone, Economia e Politica nella Sicilia del Sette e Ottocento, Palermo, 1947. 
15. S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, cit., pagg. 244-250. 
16. F. MUnter, Viaggio in Sicilia (a cura di D. Peranni), Palermo, 1823; H. Swinburne, Voyage dans les Deux Siciles (a cura di J. B. de la Borde), Parigi, 1787. 
17. G. Gentile, ciI. pago 7. Cfr. G. ViscontiVenosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute, Milano, 1904. 
18. P. Brydone, Viaggio in Sicilia e a Malta nel 1770 (a cura di V. Frosini), Milano, 1968. 
19. J. Hager, Impressioni da Palermo, Palermo, 1997. 
20. D. e H. Koenigsberger, Atmosfere di Sicilia (Una frequentazione che dura da cinquant’anni), Caltanissetta, 2002. 
21. S. F. Romano, Breve storia della Sicilia, cit., pagg. 289-292. 
22. G. Gentile, cit., pag. 22. 
23. F. Renda, Storia della Sicilia (dal 1860 al 1970), vol. I, Palermo, 1984, pagg. 208-212. 
24. F. De Stefano, ciI., pag. 393. 
25. G. Santangelo, Letteratura in Sicilia da Federico II a Pirandello, Palermo, 1975′. Cfr. F. De Stefano, cit., pag. 354. 
26. M. Di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze, 1975, pago 6 e segg. 
27. G. Gentile, cit., pag. 31.

Da “Spiragli”, anno XVIII, n.1, 2006, pagg. 10-19.




 La poesia di Paolo Frosecchi Piazza del Limbo (pref. di A. Gatto) (recensione) (pref. di A Gatto). Nuova Guaraldi Editrice. Firenze. pagg. 141. s.i.p. 

Di solito, quando si ha da fare con un pittore che scrive anche poesie, viene spontaneo riferirsi ai temi caratterizzanti le sue tele per meglio definirlo e conoscerlo. Non così avviene per la poesia del pittore Paolo Frosecchi (fiorentino di nascita – è del ’24 – e milanese di adozione) che, se è una riconferma delle sue doti di artista, è nel contempo un viaggio interiore proteso alla ricerca di un’ identità più marcata. 

Giustamente Alfonso Gatto ha parlato di diario; e un diario proprio costituiscono 

queste poesie, se consideriamo che al centro di ognuna di esse c’è il poeta con i suoi ricordi, le nostalgie, i sentimenti che lo attaccano alla vita. 

La breve lirica Lunga strada, spoglia di ogni compiacimento verbale, ci dà l’esempio di questo voler scrutare dentro, e spiegarsi l’umana esistenza e ciò che essa ci riserba lungo il suo cammino. 

•Gli alberi neri» proiettano il poeta nell’età dell’infanzia, quando bastava un nonnulla per incuterci tanta paura e farci tremare. Un senso di nostalgia traspare da questi versi, ma Frosecchi non lo fa pesare, perché sa che a niente vale, se non a peggiorare le cose. L’ingenuità, la fede di una volta non ci sono più, e la realtà è ben altra cosa ora che sono spezzati i rami-o E dietro a questa realtà veramente pungente, la morte, l’inesorabile morte. che tutto tocca e non perdona. Ciò che rimane non è altro che il ricordo, nostalgico – abbiamo detto -, ma pieno di grande umanità. 

Come ne I lucarini, là dove la lucarina col suo, cuore piccino- piange il compagno morto: Ritorna bambina / quand’era soltanto / una voce / un trillo / un trillo di trilli. / Si lascia morire / e non posso toccarla /chiuso come sono / da queste sbarre-o Una bella lirica. questa, che gradatamente acquista il tono giusto per sciogliersi poi negli ultimi versi con la stessa cadenza iniziale. 

A volte il poeta è tutto preso da un fare polemico e sarcastico insieme, che non vuole essere affatto atteggiamento derisorio, ma nasce dalla consapevolezza di chi, non potendo sfuggire dinanzi ad una realtà come la morte, accetta, perché diversamente non può. Si legga, ad esempio, Storia, dove la collocazione degli stessi aggettivi (<<stupide pecore-, «processione lenta-, «bigio asfatto-, «moccioso muso-) ci dice l’indifferenza e il distacco propri di chi è abituato a considerare la vita come se non gli appartenesse. 

Altrove, però – vedi la lirica lo – lo scontento, che è poi dovuto ad un morboso sotteso attaccamento al mondo e alla vita che lo circonda, viene anche indirettamente evidenziato. 

Ma più che ogni altro motivo torna caro al poeta quello dell’amore, che occupa un posto di rilievo. Ancora, la figura femminile viene a stagliarsi meglio nel ricordo. E qui sta la bellezza di questi componimenti, perché nel ricordo tutto s’ingentilisce, anche se poi l’amara realtà si rivela diversa. 

In Richiamo c’è l’immagine di una donna restia, indifferente, appunto, al richiamo d’amore. 

Essa viene colta negli occhi che guardano nel buio e nell’atteggiamento di chi non dà alcuna importanza a tutto ciò che prima aveva costituito la sua gioia (.Come in una danza / esci dalla tua pelle / contaminata d’amore / ti vesti di soli capelli / quei capelli neri / che passan tra le dita / quasi d’acqua-l. Il poeta non trascura i «capelli neri-, morbidi e leggeri come l’acqua che passa tra le dita, ma a niente vale il suo interesse, 

perché oramai la donna è sorda ad ogni richiamo. 

Ancora in Autunno riaffiora il ricordo di lei dai «grandi occhi / neri e neri e neri / di lucenti cristalli- che niente dicono ora al poeta, paragonati come sono alla foglia che si stacca morta. 

Chi ha avuto modo di ammirare alcuni quadri di Frosecchi pittore, avrà potuto notare 

che le donne mancano di affiatamento, e tra esse sono scostanti, quasi a voler proporre ognuna la sua bellezza. Nella lirica Le amiche, Violetta e Mammola, «bianche come ricotta / preparata su un piatto / si tenevano il mignolo / graziosamente allacciato-, vanno arroganti nella loro candida grazia, desiderose solo di essere ammirate e amate. La realtà è che nella poesia Paolo Frosecchi ritrova il luogo idoneo a potere colloquiare con sé e con gli altri. E lo fa col tono discorsivo proprio della nostra migliore tradizione poetica, col risultato di una poesia scevra di ogni avanguardismo di moda, capace di parlare direttamente al cuore dei lettori. 

A volte il poeta usa un linguaggio spregiudicato – l’ha fatto bene notare per primo Alfonso Gatto, citando Natale -, ed è pure vero che se ne serve per trovare il tono giusto della sua ispirazione, riscontrabile, ad esempio, ne .l’amore dell’amore / che mi cresce e m’incanta•. Poche parole bastano al Frosecchi per dire tutto il suo affetto di figlio e l’importanza che una madre ha nella vita di un uomo. Ma questi atteggiamenti ora spregiudicati ora di abbandono possono bene ascriversi ad una tendenza propria 

della lirica moderna, e non solo italiana. Sicché il poeta. quasi senza awedersene, risente di tutto questo, e non può fare diversamente, in quanto è come un tributo che ciascuno di noi paga al proprio tempo. 

Così, a volte, il poeta Frosecchi cade verso un modo di fare poesia sotto certi aspetti ermetica (Notte. Mendicante d’amore, Un urlo, per citarne alcune tra le più palesi), tentazione di non pochi poeti di questa seconda metà di secolo. A dire il vero, sono componimenti strutturalmente ben concepiti, e anche le immagini calzanti, ma non hanno quel calore e quella partecipazione a cui siamo abituati. Di questo il poeta se ne rende subito conto, e fa bene in tempo a cambiare strada e a ricalcare le orme della 

sua poesia più autentica. Si leggano, ad esempio, La magnolia e la ringhiera, o la già citata lo o, ancora, I segni, che sono tra le ultime liriche di questo libro Piazza del Limbo, dove colori e immagini bene appropriati ci restituiscono la giusta misura. 

La nostalgia, nella lirica Alle sette di sera, s’impossessa del poeta proprio sul far della sera, quando chiuso nella sua solitudine è assalito dal ricordo ancora troppo vivo per non far soffrire tanto l’uomo. Notate l’atmosfera, che è veramente propizia al pianto: una notte d’inverno e il ricordo di una primavera ben puntualizzata, il grigiore della morte e l’esuberanza della vita. 

C’è nella poesia di Paolo Frosecchi un non so che di classico e romantico insieme. La compostezza formale, la coloritura delle immagini,la partecipazione stessa del poeta in quelli che sono i suoi fantasmi creativi fanno di questa poesia il punto di partenza e di arrivo di una sensibilità moderna che affonda le sue radici in un solido retroterra culturale. Sicché, aprendo questo libro, il lettore si sente subito portato a leggerlo d’un fiato, perché alla memoria del passato il poeta affianca la sua spiccata sensilità 

di moderno, aperto ai problemi e ai richiami del mondo. La lirica L’esecuzione, 

che a prima lettura potrebbe apparire troppo prosastica (.Mille e mille i cacciatori / sono partiti / coi fucili puntati / caricati a palla, / dietro. la muta dei cani…•), è carica di tanta umanità, e il tono dimesso trova la sua piena giustificazione nello scontento proprio di chi vede la natura e il mondo andare giorno dopo giorno a rotoli. Scontento che, come in Primavera, viene subito meno all’approssimarsi della stagione primaverile. 

quando tutto ciò che sa di nuovo sembra esplodere .in una danza impazzita». 

Sono questi alti e bassi dell’animo sensibilissimo del poeta a dare credibilità a questo suo viaggio interiore, segno non dubbio di validità poetica e umana, destinato a riproporsi in una luce più chiara e con risultati migliori. 

Salvatore Vecchio 




F. Oliviero, “BENATTIA” (Significato della vita, senso della malattia e processo di autoguarigione), Palermo, Nuova Ipsa, pagg. 227. 

 L’Autore è un medico specialista che, dopo una lunga esperienza nel campo medico tradizionale, si è dato alla medicina non convenzionale che gli consente di operare in sintonia con l’uomo-paziente, comunica agli altri l’importanza dello star bene, facendo riscoprire – come recita il sottotitolo- il Significato della vita, senso della malattia e processo di autoguarigione”. 

Benattia” è un neologismo, ed è il contrario di malattia (da male habitum); mentre, bene habitum è lo star bene in salute, che è consapevolezza, accettazione, gioia di vivere. 

Questo libro, che si compone di cinque parti, spinge a non trascurarci nella persona e a voler bene prima noi stessi, poi gli altri; perciò apre alla positività, condizione indispensabile per vivere nella pienezza la vita e stare veramente bene. Se questo è il libro, l’intento è quello di aprire una breccia nel muro di dolore e di sofferenza che condanna l’uomo, e restituirlo al senso della vita. 

Sapere è potere, ma potere è anche volere. Se noi vogliamo, possiamo cambiare noi e gli altri. Questo flusso vitale, che è condensato nella I parte del libro e, in modo particolare, in quella che viene detta “legge del cambiamento”, porta al recupero dell’ armonia fisico-spirituale necessaria per autoguarire, perché, scrive F. Oliviero, “è la persona che va guarita, non la malattia. Il corpo non si ammala, si adegua, per cui non va maltrattato”. 

Nella II parte del libro viene analizzata la malattia, come si sviluppa e quando. Grande importanza in tutto questo ha il pensiero, creatore di realtà, che ha dietro di sé una filosofia che va da Parmenide a Cartesio, fino all’idealismo, ad Heisemberg ed altri, che valorizzano e potenziano il pensiero. E la medicina orneosinergetica gli dà grande valenza, perché parte dal presupposto che si può ottenere ciò che desideriamo, solo se pensiamo di volerlo veramente. 

Più specificatamente, la fisica quantistica e l’energia dell’anima sono trattate nella III parte del libro. Inutile dire che dalla prima all’ultima parte, esso è scientificamente ferrato. L’Autore correda la sua esposizione con adeguati supporti scientifici, per cui, anche se il procedere è abbastanza discorsivo e lineare, non mancano i richiami alle acquisizioni della scienza e, in particolare, della fisica che lo convalidano. Il principio di indeterminazione di Heisemberg, il teorema di Bill, l’intuizione della risonanza morfica di Shaldrake, l’esperimento di Watson, occupano tante pagine, a supporto delle interazioni tra i campi mentali individuali e i flussi di energia che tendono ad armonizzarsi nell’Uno-Tutto. E questo grazie ad una sinergia di forze costruttive capaci di imporsi e di operare fattivamente. 

La IV parte del libro affronta il tema del tempo, una categoria abbastanza ricorrente nella filosofia e nella scienza del secolo scorso, a partire da Bergson a Husserl, da Heinstein ad Heidegger, fino a Bloch ed altri. Emerge, da una parte, che il tempo è relativo e indeterminato, dall ‘altra, che esso è presente e plurale, provvisto di armonia e di libertà sia per il singolo che per la colletti vita, per me e per gli altri. 

Quello che ai fini del libro interessa è l’importanza che al presente viene dato come “adesso”. Se il tempo non esiste, se non in noi (Agostino parla di distensio animi), bisogna vivere l”‘adesso” con intensità, perché in esso viviamo. Questa consapevolezza è alla base del nostro essere; perciò, bisogna vivere nella pienezza. Scrive Oliviero: “Eliminiamo il tempo dalla malattia (…). Lasciamo che 

ci costringa a entrare in un’ intensa consapevolezza del momento presente. Dobbiamo diventare alchimisti, trasformare il metallo in oro, la sofferenza in consapevolezza, la catastrofe in illuminazione”. Sono parole che danno coraggio e forza d’animo che spingono ad imporsi e a farsi valere. È evidente che cosi il rapporto medico-paziente cambia, cioè, il medico, o il paziente, non svolgono il ruolo tradizionale. La persona-medico ha a che fare con la persona-paziente. Un soggetto di fronte ad un altro soggetto. 

La V ed ultima parte è costituita proprio dalla “benattia”. Qui, più che altrove, è maggiormente presente il medico omeosinergetico. F. Oliviero espone i consigli tratti da esperienze di vita vissuta e dalla tradizione (orientale e non), perché il paziente-persona possa star bene, in armonia e all’unisono, con sé e con gli altri. Di qui il meccanicismo della “vita”, che ha in sé il suo insegnamento in: Vai, Insegna, Traduci, Ama. Una filosofia di vita, questa, che è anche di pensiero. Tante volte, a più riprese, viene data importanza al pensiero, che non sbaglia, mentre sono le parole che lo traducono in modo errato. Di qui un suggerimento che è a]Ja base di tutto: “Imparare a pensare”; e poi un inno alla vita che prende spunto dalla formula heinsteiniana della relatività, presa come formula di vita dell’uomo e dell’universo. 

L’argomentare è chiaro e abbastanza lineare, l’informazione è utile, oltre che interessante. Il libro ha una sua valenza umana e culturale e, per questo, lo consigliamo a quanti vogliono avvicinarsi di più alla vita per conoscerla meglio ed amarla. 

Salvatore Vecchio




Francesco D’Orsi Meli, Appunti e ricerche per una storia del territorio di Palma di Montechiaro, vol. II, La civiltà dei metalli, S. F. Flaccovio ed., Palermo, 1986, pagg. 184. 

 Questo è il secondo (il primo è già stato pubblicato nel 1984) di una prevista serie di 6 voll. 

Passate in rassegna le Culture della pietra, qui costituisce argomento di ricerca La Civiltà dei metalli nel territorio di Palma, cittadina tra Agrigento e Gela. L’A. mette a frutto i lavori e gli scavi fatti da altri ricercatori con l’intento di .storicizzarli », passando in rassegna le varie tappe della preistoria di questa terra dall’età del rame sino a tutta l’età del bronzo. 

Pregevoli tavole e fotografie illustrano oggetti, statuette e resti di insediamenti preistorici nelle varie contrade del territorio palmese, delle quali viene fatto anche un elenco.




 Editoriale

La tentazione che spinge alcuni a voler predominare sui molti ha sempre costituito pericolo per la collettività. È risaputo: eppure, mentre i problemi da risolvere sono tanti e tali da richiedere interventi urgenti da parte dello Stato e soluzioni durature, questi pochi, ricchi solo di soldi e delle loro idee tornacontiste, vengono al contrattacco per imporre la loro presenza e impinguarsi ancora di più. 

La corsa alla concentrazione e all’accaparramento delle maggiori testate giornalistiche di coloro che detengono il monopolio economico non può che farci temere e, al tempo stesso, protestare energicamente perché ciò non avvenga mai. È un male pestilenziale che va affrontato senza alcun indugio e curato, se non si vogliono evitare ritorni all’indietro e tristi conseguenze. 

La facoltà di pensare e di generare sempre nuove idee, e manifestarle agli altri per confrontarci e insieme costruire, è quanto di più bello e sano ci possa essere. Diversamente potremmo fare a meno di parlare di democrazia, anzi non ce la sogneremmo affatto, perché – velatamente o non – ci vieterebbero di palesare le nostre opinioni, avendo interesse, quei pochi, a far marciare tutti a senso unico. 

I detentori di capitali già ci condizionano abbastanza. Il consumismo, figlio di un progresso molto spesso apparente, servendosi di una pubblicità sfrenata e irriverente, ha modellato e informato i sistemi di vita e, incidendo moltissimo sulla personalità dell’individuo, ha creato valori così effimeri da farlo cadere in un vuoto senza fondo. Cosa avverrà se a questo, con la ventilata concentrazione dei maggiori organi di stampa, si aggiungerà un piatto conformismo mentale? 

Noi diciamo no a storture del genere e crediamo fermamente che le forze più genuine del nostro Paese siano contrarie ad un clima di stallo che non lascerebbe spazio ad alcuno e, tantomeno, gioverebbe allo Stato, venendo meno il dibattito dialettico, linfa salutare che nutre i suoi uomini migliori. E poi, che giovamento uno Stato trarrebbe da cittadini robot? Che senso avrebbe il costruire? E cosa costruire? Ancora, non sarebbe un ritorno indietro della democrazia, in un momento in cui i Paesi dell’Est europeo stanno finalmente assaporando i frutti delle libertà di comportamento e di pensiero? 

No, noi non crediamo che lo Stato possa permettere ad uno sparuto gruppo di persone di accaparrarsi il monopolio dell’informazione. Sarebbe come darsi una zappata sui piedi! Siamo convinti, invece, che debba esigere serietà e professionalità da tutti gli operatori del settore. La gente ha bisogno di conoscere i fatti come si verificano, non vuole menzogne e falsità, come quelle notizie che legge al mattino per sentirle screditate un’ora dopo. 

Alla base di tutto questo che non vuole per niente essere un discorso moralistico -la moralità prima di tutto è concretezza e obiettività – poggiavamo la motivazione che ci spinse a fondare Spiragli, convincendoci ancora di più che bisogna adoperarsi perché la libera informazione e la sana cultura, indispensabili elementi del vivere civile, siano patrimonio di tutti. 

Tenendo fede a quel programma e dando credibilità al simbolico nome della rivista, rinnoviamo il nostro impegno ad aprire nuovi orizzonti culturali, rivisitando con gli occhi della mente il passato per riscoprirlo e per meglio conoscere e spiegarci il presente. 

A tal proposito, rifiutiamo, quale sia la sua provenienza. il principio di autorità. Chiunque, nel rispetto delle idee altrui, deve esprimere le sue opinioni liberamente e senza condizionamenti, anche se possono cozzare con l’acquisito. Siamo convinti che l’uomo. venendo incontro alla sua sete di sapere, non può accettare passivamente quanto è stato via via sentenziato. Se è vero che bisogna essere disponibili a qualsiasi apporto, purché costruttivo, è anche vero che occorre avere il coraggio di mettere in discussione il discutibile. Vanno bandite, perciò, ogni sorta di «servilismo» e le assuefazioni culturali, in nome di una moralità capace di investire tutte le manifestazioni del nostro vivere sociale. Moralità che nel campo dell’arte trova sostegno nelle tradizioni, perché le innovazioni e le creazioni artistiche hanno bisogno necessariamente di un sostrato culturale che affondi le sue radici nel passato, se vogliono risultare credibili e resistere al tempo. 

Riscoprire il passato per spiegarci meglio il presente, dicevamo; e la società ha bisogno proprio di questo per migliorare. Nostro dovere è contribuire, affrontando i problemi e le questioni del momento con obiettività e determinazione, coerenti ai principi di umana solidarietà a cui tanto crediamo. 

Salvatore Vecchio 

Da “Spiragli”, anno II, n.1, 1990, pagg. 3-4.