IDA

Duerme, muchacha.
Láminas de plomo,
ese jardín que dulcemente aculta
el tigre y el luzbel
y el rojo no domado.
Duerme, mientras manos de seda,
mientras paño o aroma,
mientras caídas luces que resbalan
tiernamente comprueban la vastedad del seno,
el buen amor que sube y baja a sangre.

Amor.
Como esa maravilla,
como ese blanco ser que entre flores bajas
enreda su mirada o su tristeza.
El paisaje secunda el respirar con pausa,
el verde duele, el ocre es amarillo,
el agua que cantando se aproxima
en silencio se marcha hacia lo oscuro.

Amor,
como la ida,
como el vacío tenue que no besa.

Vicente Aleixandre Da Espadas como labios. Vicente Aleixandre (Siviglia 1898 – Madrid 1984), premio Nobel per la letteratu-ra 1977, surrealista, è considerato uno dei maggiori poeti contemporanei spagnoli. Tra le sue opere: Ambi-to, Pasión de la tierra, La destrucción o el amor, Poemas de la consumación, Diálogos de conocimiento.

Da “Spiragli”, anno I, n.1, 1989, pag. 49.




La colonia inglese di Marsala. Annotazioni bibliografiche

l. I Viaggiatori stranieri. – L’attenzione degli studiosi sulla presenza e sulle attività dei commercianti imprenditori inglesi in Sicilia tra Sette e Ottocento è considerevolmente cresciuta da quando Raleigh Trevelyan, sollecitato dall’ultima rappresentante di una delle più prestigiose dinastie di quei mercanti anglo-siciliani che avevano fatto fortuna nell’Isola, col noto saggio “Principi sotto il vulcano”1, ha richiamato l’attenzione, anche di un vasto pubblico, su questo aspetto fino allora assai trascurato della storia di Sicilia. 

È noto che nell’ambito della più vasta presenza britannica in Sicilia, una comunità inglese, forse complessivamente trascurabile per consistenza numerica ma certamente non per il volume degli affari trattati, si stabilì assai precocemente anche a Marsala. Ma essa finora non ha trovato tra gli studiosi quella attenzione che indubbiamente meriterebbe e soltanto qua e là nelle opere di carattere generale sulla storia economica della Sicilia è possibile rintracciare delle informazioni sulla colonia inglese di Marsala. 

In tale mancanza di una specifica bibliografia assume valore di fonte storica di primaria importanza la memorialistica dei numerosi viaggiatori stranieri, soprattutto inglesi, che sulla scia del Brydone2, vennero in Sicilia attirati ‘dal fascino dell’antichità classica e dal gusto dell’avventura. 

È evidente però che Marsala, posta in una posizione geografica periferica e scarsa di vistose vestigia di antichità, come quelle che potevano vantare altri centri isolani, più che una meta ricercata risultava una tappa di passaggio nella quale i “turisti” sostavano poche ore. Dopo aver appreso con stupore l’esistenza di connazionali che qui avevano fatto fortuna o annotato con un sentimento a metà tra l’orgoglio e il disappunto che la Chiesa Madre era dedicata ad un vescovo cattolico inglese3, che qualcuno definisce addirittura ribelle4, scendevano nella cosiddetta grotta della Sibilla5 o visitavano l’oscillante campanile del Convento dei Carmelitani6, quindi si recavano in uno degli stabilimenti inglesi, solitamente quello di Woodhouse7, per gustare un bicchiere di buon vino e ripartivano per altri luoghi artisticamente più interessanti o più pittoreschi. Di conseguenza solo pochi viaggiatori, andando al di là del pittoresco o della mera annotazione archeologica, hanno saputo lasciarci delle informazioni sulla realtà economica e sociale della città in generale e sulla colonia inglese in particolare. 

Tra questi ultimi va ricordato L. Simond, che, passando da Marsala nel 1818, non ebbe modo di visitare alcuno stabilimento vinicolo ma annotò la “curiosa circostanza”8 che il famoso vino Marsala fosse preparato da alcuni inglesi, i signori Woodhouse. Questa circostanza lo confermò nella sua analisi sui mali della Sicilia che il Simond individuò nella mancanza di libertà economica: 

[La Sicilia] sarebbe tuttora in grado di nutrire una popolazione cinque volte maggiore, se tal popolazione fosse lasciata in pace e se le sue industrie non fossero soffocate da assurdi regolamenti, dal momento che le sue innate capacità sono ben superiori alla cattiva amministrazione(9)

Richard Church, comandante generale delle truppe borboniche in Sicilia, in fuga da Palermo in rivolta nel 1820 giunse a Marsala dove fu accolto ospitalmente da John Woodhouse, il quale 

diede ordine che si preparassero vino, cibo e munizioni per rifornire l’imbarcazione, li portò a casa sua per cenare con loro, assicurandoli che non dovevano temere né per sé né per lui, e ciò perché in primo luogo la gente di Marsala gli doveva troppo per volergli arrecare offesa, e in secondo luogo egli disponeva di un numero sufficiente di operai per difendere la propria casa anche contro l’intera popolazione10. 

Troviamo qui enunciato per la prima volta e in maniera esplicita l’atteggiamento che sarà tipico degli inglesi nei confronti della comunità marsalese: da un lato c’è fiducia nella popolazione locale nella convinzione che i benefici ad essa arrecati dovrebbero renderla riconoscente, dall’altra c’è il timore di una rivolta improvvisa e di saccheggi. 
Uno sforzo maggiore di comprensione della realtà locale troviamo nel tedesco Justus Tommasini11, pseudonimo di un tal H. Westphal, che visitò la città nel maggio 1822 e che ci ha lasciato un’interessante ma non molto nota testimonianza su John Woodhouse e più in generale sull’economia siciliana di quegli anni: 

Ieri sera dal nostro padrone di casa [Woodhouse) è venuto ancora un altro ospite che sembrava conoscerlo molto bene, era un maltese che… faceva frequenti viaggi in Sicilia dove era molto conosciuto. Molto presto si awiò un discorso… e ti comunico per esteso ciò che disse. “I Siciliani sono un popolo molto inattivo, senza alcuna industriosità ed essi volentieri vorrebbero che cadesse nelle loro bocche la manna dal cielo così come accadde agli Ebrei in modo tale da non aver bisogno né di seminare né di arare. “Siamo ridotti all’estremo della miseria!” questa è la loro eterna canzone e le pallide ed affamate figure, avvolte in pochi e miseri stracci che contrastano enormemente colla natura esuberante rendono veritiera questa affermazione. Se si cerca però la causa di una tale miseria, la si troverà quasi certamente nella poltroniera del popolo. Certamente, chi vede correre avanti ed indietro questa gente ai mercati e sulle strade e soprattutto la sente infuriarsi, gridare, potrebbe pensare che non esiste gente più attiva dei Siciliani. Chi ha visto le grandi città come Palermo, Messina e Catania non vorrebbe neanche credere che la miseria del popolo sia così grande com’è in realtà, perché lì la classe meno abbiente trova tuttavia sempre la possibilità di guadagnare qualcosa per il sostentamento giornaliero. Ma se si va nelle piccole città, soprattutto nelle città interne dove non c’è alcun traffico si nota che nonc’è la possibilità di guadagno correndo qua e là, ma bisogna occuparsi di un certo lavoro per alcune ore del giorno e ciò è per loro faticoso e penoso. Così ci si convince che i Siciliani preferiscono vivere nella più grande miseria e privazione anziché avere una vita comoda per mezzo di una attività ordinata ed intensa. Certamente il governo ha la sua colpa e contribuisce con un sistema finanziario non adeguato e pesanti tasse alla miseria generale, ma la causa vera della miseria sta nel popolo stesso. (…) Il contadino che vive nella piccola città (i villaggi si trovano soltanto nella regione dell’Etna) spesso molte miglia distante dal suo campo, ogni settimana va fuori per due o tre giorni per coltivarlo e curarlo e la notte resta in una piccola capanna sul campo stesso e quindi per i giorni che rimangono resta in città e si dedica al suo far nulla. Come può prosperare l’agricoltura con un sistema di lavoro di questo tipo? Non mi si contraddica col dire che la gente sarebbe più attiva se ci fosse più traffico e potesse sperare in un mercato più sicuro per i suoi prodotti: ma il traffico si potrebbe trovare soltanto se prima ci fosse l’attività interna e se i Siciliani avessero prodotti da ofIrire … Il modo in cui il nostro padrone di casa [Woodhouse] è giunto alla sua ricchezza, fornisce un bell’esempio di cosa si può conquistare in questo paese con una attività vivace; ve lo voglio raccontare poiché per il momento non è presente.Circa venti anni fa egli arriva a Malta come povero bottaio, ma ha conoscenze riguardanti la coltivazione delle vigne, così prosegue per la Sicilia, perché ha sentito dire che qui c’è una grande quantità di buoni vini che nessuno sa come trattare. Si stabilisce a Marsala, apre un piccolo negozio senza tanti soldi e poi lo amplia a poco a poco, in quanto la sua attività gli consente un certo profitto. Ora è un uomo che possiede molto più di un milione di piastre spagnole, ha vigneti qui ed a Malta e possiede mille botti enormi piene fino all’orlo. (…) Quest’ultimo non ha avuto né aiuto né incoraggiamento da parte dello Stato, anzi ha dovuto pagare tasse molto alte, dimostrando di essere più attivo dei Siciliani i quali mettono le mani in tasca e si lamentano. Però Mr. Woodhouse non è l’unico straniero che si è arricchito in questo paese, a Palermo a Messina ed a Siracusa, si possono trovare parecchi stranieri che si sono arricchiti”12 

Tra i viaggiatori inglesi del primo Ottocento va ricordato ancora Richard Grenville, Duca di Buckingham13, venuto a Marsala nel giugno 1828, cui dobbiamo alcune utili informazioni sulla produzione e sul commercio del vino: 

Il Signor Barlow, un socio della ditta vinicola Woodhouse e C.. venne da me con campioni del loro vino. Adesso qui vi sono non meno di tre stabilimenti di commercianti inglesi di vino. Woodhouse esporta annualmente in media sulle 3.000 pipe. Vendono una grande quantità in America, così come in Inghilterra. Essi pongono molta attenzione alla crescita dell’uva, alla loro coltivazione e alla vinificazione. Possiedono grandi vigneti. ma oltre a questi sopraintendono alla coltivazione di una quantità di viti appartenenti a piccoli proprietari, di cui acquistano i raccolti e a cui anticipano i capitali per la coltivazione. Il vino è buono di per sé, ma, a mio giudizio, è molto danneggiato dalla quantità di brandy che vi aggiungono per i mercati americano e britannico. Per questa ragione vendono molto poco ai nativi o agli italiani, ma ne spediscono molto a Malta e alle navi inglesi nel Mediterraneo. La ditta Woodhouse e C. impiega regolarmente, per tutto l’anno, novantasette persone nel suo stabilimento, oltre agli addetti alla vendemmia e alla regolare coltivazione dell’uva. I siciliani stanno cominciando a diventare gelosi degli stabilimenti e perciò lamentano che i loro soldi vadano nelle mani degli stranieri. Essi non hanno ancora l’acume di capire che il capitale degli stranieri crea capitale in casa loro, e questa è la vera origine della prosperità di una nazione14 

Non sono molto interessanti le informazioni che ci forniscono altri viaggiatori come J. F. d’OsteIVald15, Girolamo Orti16, il Marchese d’Orrnonde17, Giovanna Power18 o J. Galt19 i quali si limitano a ripetere le medesime notizie, per lo più apprese dagli occasionali accompagnatori locali. Un discorso a parte merita George Dennis autore di un Handbook far travellers in Sicily, manuale prezioso per la ricchezza e la precisione delle notizie che contiene20. Il Dennis, che fu anche console inglese a Palermo, aveva una buona conoscenza della realtà isolana e si intendeva di agricoltura ed economia. oltre che di arte e di storia antica e moderna. 

Gli stabilimenti vinicoli di Marsala, – egli scrive – che sono fuori città, sono di grandi dimensioni, essendo dei larghi recinti quadrangolari di alte mura. con torri agli angoli e fiancheggianti le porte di ingresso, così costruite in modo da offrire difesa dai tumulti popolari; e possono essere presi per una serie di fortilizi isolati lungo la riva del mare. La maggior parte di essi sono di proprietà di Inglesi. Quelli dei signori Gill e Corlett e del signor Lipari sono a Nord della città; quelli a Sud sono i più grossi ed appartengono a parecchie ditte Wood, Woodhouse, Florio ed Ingham. Il primo stabilimento è stato quello del signor John Woodhouse, il quale risale al 1789. Per opera sua il vino marsala è stato introdotto, nel 1802, nella flotta inglese nel Mediterraneo e per cortesia di Lord Nelson ricevette l’appellativo di “Bronte-Madeira”, sotto il quale nome è stato in seguito importato in Inghilterra, dove, pur non essendo tenuto in così alta considerazione come lo sheny, attualmente raggiunge un prezzo quasi altrettanto alto. L’ammontare annuo del vino prodotto in Marsala e nel suo territorio, prima che l’oidio degli scorsi anni diminuisse il raccolto, era di circa 30.000 pipe, dei quali 20.000 venivano esportati: 8.000 circa di vino superiore in Inghilterra, Francia e Stati Uniti, e la differenza di inferiore qualità a Malta ed in Italia. La vite è coltivata nei declivi delle colline dei dintorni ed è generalmente di uva bianca, con qualche aggiunta di nera, la quale è ritenuta essere un conservante dell’aroma. Il viaggiatore non dovrebbe mancare di visitare l’uno o l’altro di questo baglio. Quelli di Ingham, Woodhouse e Florio sono i più grossi, ed impiegano circa 100 uomini ciascuno. Egli otterrà il permesso d’entrare mandando il suo biglietto da visita e sarà ricevuto con grande cortesia e attenzione. Ciascun baglio è in sé una piccola città. Ogni cosa è fatta all’interno delle mura, salvo il vino. Questo è acquistato dai coltivatori da un capo all’altro della campagna e ammassato qui per la esportazione. La grande estensione dei locali, le grandi dimensioni delle volte, qualcosa come 150 yarde in lunghezza, e molte migliaia di pipes sistemati in file e file e piani sopra piani, non possono non suscitare meraviglia; mentre l’attività degli operai, dei bottai e dei distillatori, l’impiego del vapore, la divisione del lavoro, l’ordine e la regolarità osservabili dappertutto, sono lusinghevoli per i visitatori, tali da offrire uno straordinario spettacolo di britannica industriosità in una terra indolente. Il baglio di Woodhouse contiene una cappella ed un cimitero per gli inglesi che muoiono a Marsala, nel quale vi è la tomba del vecchio John Woodhouse. il fondatore della colonia21. 

Quest’aspetto turrito, da avamposto isolato in territorio nemico che aveva impressionato il Dennis, si poteva cogliere ancora alla fine dell’Ottocento quando a Ronny Gower il baglio sembrò “più simile a una fortezza o a un carcere che a uno stabilimento vinicolo”22. Agli inizi di questo secolo D. Sladen dedicava oltre due capitoli di un volumetto intitolato Segesta, Selinunte and the West of Sicily alla colonia britannica di Marsala e all’attività degli stabilimenti enologici inglesi23. Il resoconto dello Sladen, assai interessante per la gran massa di informazioni che ci fornisce. meriterebbe di essere tradotto e ristampato. L’autore comincia col mettere in risalto l’influenza positiva che la secolare presenza inglese a Marsala ha avuto sui costumi locali: 

Non c’è niente di più insopportabile che arrivare in una stazione siciliana, dove gli impiegati possono metterci un’ora per portare i tuoi bagagli dal bagagliaio alla strada, mentre stai difendendo il tuo bagaglio a mano da tutti i banditi del posto. Ma abbiamo trovato Marsala una gradevole eccezione. Il posto è stato battuto dagli inglesi per tanta parte del secolo che è diventato proprio efficiente24. 

Un altro effetto della presenza inglese l’autore la vede nel tenore di vita della popolazione, che risulta notevolmente diverso e superiore rispetto a quello degli altri isolani, e nell’assenza del brigantaggio: 

Sparse qua e là c’erano piccole villette bianche o rosse appartenenti ai facoltosi commercianti di Marsala, tutte con alti vasi sui loro tetti piatti e alcune con alte palme all’angolo del giardino. Marsala e Trapani sono così progredite che la gente può vivere fuori città senza paura dei briganti. In Sicilia il brigantaggio è in rapporto inverso ai salari25 

Non meno ricca e interessante è la parte del libro in cui sono descritti i sistemi di conduzione aziendale della ditta Ingham Whitaker. Gli imprenditori inglesi, nota lo Sladen, non coltivano il vigneto che in quantità assai limitata di conseguenza sono costretti ad accaparrarsi il prodotto in anticipo attraverso un sistema di obbligazioni: 

I signori Ingham, Whitaker e C. “obbligano” gli agricoltori in anticipo per le loro uve, ed inviano i loro mediatori in giro ad intervalli durante !’inverno e la primavera per essere sicuri che le vigne vengano correttamente potate e coltivate; ma essi stiano specialmente attenti nel periodo della vendemmia a che gli agricoltori non raccolgano le uve fino a quando non siano mature26. 

Nella descrizione che l’autore fa dei rapporti tra inglesi e siciliani affiora un senso di separatezza, quasi una necessità di guardarsi da una popolazione di tipo levantino abile ad escogitare espedienti per rubare: 

Ogni lavoro viene effettuato nello stabilimento, e il baglio dall’alba al tramonto per sei giorni alla settimana è come se fosse una piccola operosa cittadina. Gli uomini, all’uscita dal baglio ogni sera. vengono perquisiti da uno del personale, e questo è necessario a causa della straordinaria brama che essi hanno di portar via dei souvenir nella forma di una vecchia lima, di una pialla o cose simili, anche se a volte i loro furti prendono una forma più seria. Essi sono, in realtà, occasionalmente fatti con positiva ingegnosità, come, per esempio, quando è stato scoperto che alcuni di loro avevano abilmente costruito piccoli recipienti di latta da adattare al torace sotto la camicia, capaci di contenere una o due pinte di vino o alcool, il cui frequente contrabbando poteva in breve raggiungere una considerevole quantità27. 

L’ultima descrizione dell’attività degli inglesi di Marsala, prima che la grande crisi li travolgesse, è offerta da Alec Tweedie28. La Tweedie dopo aver espresso il proprio compiaciuto stupore per aver trovato a Marsala presso i Whitaker una “deliziosa e confortevole casa inglese nel mezzo di contrade così forestiere”, nella quale ha potuto godere le indescrivibili gioie che possono assicurare “un vero bagno caldo, un caminetto inglese con legno scoppiettante e carbone nel pomeriggio e marmellata a colazione”, ricorda che l’onore della scoperta del vino Marsala spetta ad un inglese29. Descrive quindi con precisione le varie fasi della coltivazione della vite e della preparazione del vino e trova modo di ricordare l’atteggiamento dei lavoratori negli stabilimenti vinicoli inglesi: 

I lavoratori al “baglio” o stabilimento hanno il loro proprio refettorio come i monaci nel monastero; qui cucinano e consumano il loro pasto di mezzogiorno ed alla fine fanno la siesta pomeridiana sul manto erboso. Essi hanno avuto una certa quantità di vino ma non è permesso aiutare sé stessi. Quest’ultima era l’occupazione favorita un tempo, perciò adesso ogni uomo è perquisito all’uscita. Qualcuno di genio ha fabbricato da se stesso un bricco di latta stagnata di circa un pollice e mezzo, nel travasava una bottiglia di vino giornalmente fino a quando non fu scoperto. Altri rubano spago, chiodi, e cose insignificanti di qualsiasi tipo, articoli di così poco valore che è sembrato insensato rischiare il licenziamento per tali bagatelli 30 

Accanto alla letteratura memorialistica dei viaggiatori stranieri che si esaurisce agli inizi del secolo, quando il viaggio in Sicilia finisce di rappresentare un’esaltante avventura, vanno ricordati gli scritti, ricchi di notizie e riflessioni, di Tina Whitaker Scalia. Essa fu la prima a dare un’immagine dall’interno della colonia inglese di Sicilia in un articolo dedicato a Benjamin Ingham, suo prozio31. 

La Whitaker Scalia dopo aver ricostruito la genealogia della famiglia, delinea la figura e l’opera dell’Ingham. Per quel che riguarda il nostro tema, Tina ricorda che Ingham abitò quasi sempre a Marsala nel primo periodo.

Giovanni Alagna

(1) R TREVELYAN, Principi sotto Uvulcano, trad. italiana, Rizzoli, Milano 1977.
(2) P. BRYD0NE, Viaggio in SicUia e a Malta. 1770, trad. italiana, Longanesi, Milano 1968.
(3) R. COLT HOARE, A classical tour through ILaly and SicUy, London 1819, p. 347.
(4) W. H. SMYIll, SicUy and its islands, London 1824, p. 232.
(5) Tra i tanti chc visitarono la grotta della Sibilla ricordiamo: C. DE BORCH, Lettres surla Siclle, t. II, Turin 1782, p. 42; J. BOUEL, Voyage pittoresques des isles de Sicile, Paris 1782- 1787, pp. 19-20; G. BELLAS GREENOUGB, Diario di un viaggio in Sicilia 1803, Siracusa -Palermo 1989, p. 68.
(6) J. HOUEL, Voyage pittoresque cit., p. 19; R; COLT BOARE, A classical tour, cit., p. 346. (7) G. COCKBURN, A voyage to Cadiz and Gibraltar up the Mediterranean to SicUy and Maltain 1810 & Il, voI. 2, London 1815, p. 33; DE f’ORBIN, Souvenirs de la Sici/e, Paris 1823, p.70.
(8) L. SIMOND, A tour through ltaly and Sicily, London 1828, p. 473.
(9) Ibid.
(lO) E. M. CIIURCH, Sir Richard Church in ltaly and Greece, Edinburgh 1895, in R. TREVELEYAN, Principi cit., p. 50.
(11) J: TOMMASINI. Bliq[e aus Sizilien. Bcrlin und Stcttin 1825.
(12) Ibili, pp. 111-118.
(13) R. GRENVILLE. The private diary oj Hichard, Duke oj Buckingham and Chandos, voI. II, London 1862.
(14) [bid., pp. 104-105.
(15) J. F. D’OSTERVALD, Viaggio pittorico in Sicilia. trad. italiana, Giada, Palermo 1990.
(16) G. ORTI, Viaggio alle Due Sicilie, ossia il giovane antiquario.
Verona 1825.
(17) J. D’OSSORY, MARCHESE D’ORMONDE, An autumn in Sicily, Dublin 1850.
(18) G. POWER, Guida per la Sicilia, Napoli 1842.
(19) J. GALT, Voyages and travels in the years 1809, 1810. an.d 1811 containing statistical,commercial, and miscellaneous observations on Gibraltar, Sardina, Sicily, Malta, Serigo andThrkey. London 1812.
(20) F. DENNIS, A handbook for lravellers in Sicily, London 1864.
(21) Ibid., pp. 182-183.
(22) R. GOWER, Old diaries. London 1902, riportato da R. TREVELYAN, Principi cit., p. 263.
(23) D. SLADEN, Segcsta. Selinuntc and (Ile West c!f Sici/y. London 1903.
(24) Ibid. p. 58.
(25) IbicL p. 73.
(26) IbicL p. 64.
(27) Ibid, p. 68.
(28) ALEC-1WEEDIE, Sunny Sicily, its rustics and its ruins. London 1904.
(29) Ibici., p. 228.
(30) Ibid, p. 231
(31) T. WHITAKER SCALIA, Be,.yarnin lngharn di Palermo, irad. di R. zanca, in Beryaminlngharn nell’econornia siciliana dell’Ottocento, Marsala 1985.
 

Da “Spiragli”, anno VI, n.1, 1994, pagg. 48-57.




SABINA CARUSO, Sale cinematografiche a Palermo. dalle origini al 1953. Campo, Alcamo, 2007.

I luoghi di uno spettacolo che fiorì a Palermo nella prima metà del ‘900 

Questo libro, oltre che studio storico-architettonico delle sale destinate a cinema, dalle origini a metà degli anni ’50 del ‘900, sembra dare l’idea di un documentario-manifesto per rilanciare, con la rievocazione degli anni d’oro del cinema, l’interesse per questa forma di spettacolo. Il cinema, infatti, ha esordito a Palermo in un momento in cui la città viveva un periodo felice, grazie alla forza trainante della dinastia FIorio che, coinvolgendo l’imprenditoria locale e straniera, aveva risollevato le sorti dell’intera isola, facendo del suo capoluogo una capitale dal respiro rrlltteleuropeo: Floriopoli. 

L’atmosfera brillante della Belle Époque favorì più che altrove il veloce attecchimento del cinematografo, che entrò nelle abitudini dei palermitani modificandone gli stili di vita. Il fenomeno si protrasse anche dopo il declino dei Florio e la grave crisi economica, sociale e culturale che investì la Sicilia a ridosso del primo conflitto mondiale. 

L’evoluzione di una tipologia architettonica per i cinematografi, messa a punto nel 1913-1925, rispecchia il perdurante entusiasmo di quegli anni alimentato da una committenza privata lungimirante (Biondo, Finocchiaro, Utveggio, Bonci, Mangano, per citare i più rappresentativi) che seppe intuire la forza di espansione di questo mezzo di comunicazione e vi investì risorse per assecondare le istanze di un pubblico sempre più esigente e numeroso. 

I progetti per le sale cinematografiche vennero affidati alle firme più prestigiose dell’ epoca, a cominciare da Ernesto Basile che, col Kursaal Biondo, cominciò ad allontanarsi dallo schema del teatro ottocentesco, ponendo le premesse di una ricerca tipologica atta a connotare questi edifici sia strutturalmente sia per il linguaggio architettonico. 

Passare in rassegna attraverso documenti fotografici i vari locali dall’origine sin quando televisione e discoteche ne hanno contratto la frequentazione assume un doppio significato: da una parte far rivivere le immagini di quella che può definirsi un’epopea che ha caratterizzato la nostra storia urbana; dall’altra indurre riflessioni sulla necessità di recuperare quel che resta di un patrimonio storico-culturale che rischia di disperdersi per incuria o disinteresse. Ne ricordiamo i nomi più rilevanti: 

Gran Salone Biondo – Teatro Olympia – Kursaal Biondo – Cinema Excelsior, – Palazzo-Cinematografo Utveggio – Palazzo- Cinema Massimo – Palazzo Finocchiaro – Supercinema – Cinema «II Modernissimo» – Cinema Imperia – Cine- teatro Diana – Cinema Orfeo – Cineteatro Dante – Ci ne-teatro Colajanni – Cinema-teatro Arena Trianon – Cineteatro San Lorenzo – Cinema Gaudium – Cinema Astoria. 

Oltre il profilo architettonico, lo studio ha contestualizzato la società dell’ epoca e i suoi rituali mondani, di cui il cinematografo divenne il luogo più rappresentativo. 

E opportune ci sono parse le rievocazioni di vari interventi nella produzione cinematografica di alcuni gestori e architetti, come Paolo Bonci e Raffaello Lucarelli. 

Per completare il quadro, ricordiamo le principali sale di spettacolo. 

Agria Bellina

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pagg. 57-58.




 Giuseppe Palmeri, Giornali di Palermo. Settimanali d’opinione dal dopoguerra agli anni ’80, Ila Palma, Palermo. 

 

Giuseppe Palmeri nei Giornali di Palermo, tra un gelato di scorzonera e cannella sotto le Mura delle cattive, le stigghiole arrostite dello Spasimo e della Kalsa e i primuneddi salati, descrive in maniera puntuale gli odori ed i sapori della sua città, nel trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Partendo dalle bombe che hanno devastato Palermo nel 1943, passando poi al dopoguerra e all’autonomia siciliana e finendo con la rinascita della città ed il boom edilizio incondizionato, l’autore crea una breccia nella realtà politico-culturale del capoluogo siciliano. Interessante soprattutto il modo in cui Giuseppe Palmeri incrocia la descrizione dello stato in cui giace la Palermo del dopoguerra alla carta stampata locale del periodo; si sofferma soprattutto su I vespri d’Italia (1949-1963), Semaforo (1961-1964), La Rivolta (1965-1968), Il Domani (1957 1985) e Voce Nostra (1968-1980), emblemi di un giornalismo politico palermitano libero e spontaneo. La prosa di Palmeri è quindi una lettura educativa, oltre che piacevole, perché permette di capire, attraverso i suoi settimanali di opinione, una parte importante della storia della città di Palermo in un periodo in cui, secondo l’autore, si predilige «clientelismo, particolarismo e spreco di risorse». 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 56-57.

 




Un poeta fertile e di rara sensibilità

Un poeta fertile e di rara sensibilità  

Giovanni Monti, con il suo A due voci, in poche pagine riesce ad emozionare ed a creare nello spirito del lettore un varco, quel «qualcosa» che fa riflettere sulla vita, sulla morte ed in generale sull’esistenza. 

Il testo è un’unica poesia, anzi un poemetto, di colloquio con il padre malato; un discorso silenzioso, impercettibile con cui sembrano darsi l’addio. 

Versi semplici sia nel linguaggio che nello stile ma che creano un contenuto ricco e denso di significati profondi, di emozioni contrastanti che lasciano un segno nel lettore. 

Poco altro resta da aggiungere sulla raffinata prosodia di Giovanni Monti, se non l’invito a leggere A due voci non solo con la mente ma soprattutto con il cuore ed a lasciar penetrare nel proprio spirito la dolcezza e insieme l’amarezza dei suoi versi. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 63




FILIPPO GIGANTI, Ritorno a Jaffna, collana di narrativa «Meridiana», Ila-Palma, Palermo 1993, pp. 352.

Ci sono tragedie che, volutamente, vengono ignorate e non fanno più notizia, non essendo collegate a quegli interessi di cui si fanno garanti, forse nel proprio interesse, le grandi potenze mondiali. Il genocidio operato da più di un quarto di secolo nei confronti della minoranza di etnia tamil, da parte del governo cingalese di Sri Lanka è una di queste tragedie. 

Con il romanzo Ritorno a Jaffna, Filippo Giganti ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema dei Tamil che, in una penosa diaspora, hanno lasciano la loro «Isola splendente», cercando rifugio in altre parti del mondo. Innestandosi sulle vicende di alcuni componenti della comunità vivente a Palermo, l’autore, in prima persona, riesce a condurre per mano il lettore da questa terra di immigrazione a quella di origine con una prosa viva e scorrevole che illustra una vicenda carica di avventure, in cui decine di personaggi, ora abbozzati, ora a tutto tondo, scorrono davanti agli occhi del lettore evidenziando problemi personali e familiari, tradizioni e fede religiosa senza che tutto scada nella tentazione della ricerca folclorica. Questa «opera prima» di un apprezzato notaio di professione, che ha sempre coltivato l’esercizio letterario con particolare inclinazione, sorprende per la naturalezza con cui si passa da momenti di forte drammaticità a situazioni di struggente tenerezza, da descrizioni paesaggistiche a intimi approfondimenti. Quei lettori che hanno già dimestichezza con i Tamil, che lavorano nelle loro case o aziende potranno aprire nuovi orizzonti nel reciproco rapporto quotidiano, mentre gli altri, che forse mai ne hanno sentito parlare, potranno apprendere fatti e situazioni ai quali i brevi trafiletti di agenzia, che raramente appaiono sui nostri giornali, non rendono giustizia alcuna. 

Il romanzo è permeato da una costante vena di suspence che suscita tutta una serie di speranze destinate, in gran parte, a rimanere romanticamente inappagate, lasciando il desiderio di un ulteriore complemento, che ciascuno potrà integrare, interpretando a suo modo lo snodarsi degli eventi. E questo è forse il suo maggior pregio. 

Bettina Agria

Da “Spiragli”, anno XX n.2, 2008, pagg. 62-63.




Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Un monastero ortodosso in Oriente e una toccante storia di solidarietà 

Seydnaya è una storia. Seydnaya è un luogo. Seydnaya è amicizia, misticità. Seydanya può essere la storia di chi cerca di capire chi è, chi vorrebbe essere. Il romanzo è ambientato in un monastero singolare che raccoglie donne di religiosità diversa: cristiane, musulmane, ebree vi pregano per la Vergine, perché credono nella sua maternità e credono che «dal Suo grembo passi ogni figlio come ogni speranza del mondo». 

Ci sono due protagonisti e attraverso i loro pensieri. le loro azioni, il loro passato, il lettore impara a conoscerli e ad affezionarsi ad entrambi, seppure così diversi tra loro. Solamente nell’ultima parte i due personaggi si incontrano e basta un solo sguardo per far nascere una profonda amicizia: «Restarono convinti per sempre che in quei primi attimi della loro conoscenza si fossero detti tutto l’essenziale; le parole che quel giorno seguirono furono semplice conversazione, mentre i molti discorsi degli anni successivi rappresentarono la conferma di ciò che avevano provato nell’attimo del loro incontro». 

Il monastero ortodosso tra la Siria e la Terra Santa diviene luogo d’incontro, fisico e spirituale, di questi due personaggi, Gérard e Kurt, e delle loro anime. Due caratteri diversi ma uniti dal destino. Gérard un borghese alla ricerca di un ultimo congiungimento con sua moglie Anna; Kurt un fotoreporter che insegue il successo, la foto perfetta. Entrambi finiscono per trovare a Seydnaya sé stessi e la loro amicizia. 

Pochissime parole sono spese dall’autore nella descrizione del paesaggio, poiché ciò che importa non è l’esteriore ma l’interiore, non l’apparire ma l’essere. Non è il viaggio, né sono le storie dei protagonisti a costituire il cuore del romanzo, quanto piuttosto le loro anime e la loro crescita spirituale. 

Fabrizio Molina usa termini semplici, consueti, ma finisce per strutturarli in discorsi complessi, profondi, che si addentrano nella ricerca dell’ essere. Questo linguaggio, unito all’arcano monastero, contribuisce a creare un’atmosfera mistica, in cui il lettore si trova immerso. Infine, vale sottolineare anche l’obiettivo umanitario prefisso alla diffusione del libro, il cui netto ricavo è destinato ai bambini di «Nessun luogo è lontano-Onlus», di cui l’autore fa parte e che, sin dal 1998, agisce in campo socio-culturale. 

Bellina Agrìa

Da “Spiragli”, anno XX n.1, 2008, pag. 60.




ANNA BELLINA ALESSANDRO, Caminu di la vita, Repertorio dialettale, Ila Palma, Palermo, 2009.

Immagini che rivivono dal passato col sapore della lingua tradizionale 

Anna Bellina Alessandro con il suo Caminu di la vita ci regala un’emozione, un bagliore che riesce a illuminarci, anche se in poche pagine, l’anima. 

Una raccolta di poesie scritte in un dialetto siciliano elegante, usato come lingua maestra per descrivere diversi aspetti della vita quotidiana. 

Particolarmente emozionante è la poesia A Palermu vecchia. In pochi versi l’autrice descrive la bellissima città ed uno dei suoi rituali: l’arrivo de lu gilataru e del suo A st’ura v’arrifriscanu con il quale, in pochi secondi, riesce a radunare una folla di picciutteddi. Sono versi che nella mente del lettore creano un flashback, un ritorno al passato, a quando si era bambini. Chi infatti da piccolo non ha avuto un gelataio preferito e chi non ha corso sudato sotto il sole, così come perfettamente descritto nella poesia, per accaparrarsi il gelato al primo rintocco della campanella? 

Anche La picciuttedda rivela, nel ritmo dei suoi versi, l’ animo sincero della scrittrice palermitana, un po’ come l’occhi ca sunnu lu specchiu di lu cori. In realtà, tutte le poesie sono interessanti, tutte emozionanti e tutte degne d’essere descritte: Miraggiu, Lu latru, Littra a Federicu II Imperaturi … 

Caminu di la vita è un’opera impegnativa come lingua e come tematica, ma semplice e travolgente nella lettura. 

Svelare più di questo non si può … Tocca adesso al lettore scoprire tutto il resto e le emozioni che il Caminu di la vita riesce a suscitare. 

Agria Bettina

Da “Spiragli”, anno XXI n.1, 2009, pag. 65.




Recenti considerazioni sul Giovane in tunica 

Poiché è risaputo che tutte le opere d’arte, sia le figurative che le letterarie (architettura, scultura, pittura, arti minori, letteratura, teatro, spettacolo, etc.), fanno parte dell’attività politico-sociale-religiosa di un popolo, vissuto in un delimitato arco di tempo e spazio, è chiaro che l’arte riflette, come in uno specchio, le caratteristiche materiali e spirituali, e quindi anche estetiche, dei componenti etnici di quel popolo stesso in un certo periodo della sua esistenza, mentre è impopolare nei regimi assoluti, dittatoriali. 

Naturalmente ogni popolo (o regime), portatore di un suo ideale politico-sociale-religioso, coerentemente vissuto, resta eternato nelle opere d’arte figurative o letterarie superstiti, in cui esiste – com’è chiaro – una scala di valori: quelle fatte dai geni più grandi, e le altre fatte dagli artisti via via meno eccellenti, ma che riescono a rimanere vivi lungo i secoli. È poi compito della storia universale registrare tutto al punto giusto per i posteri. 

L’arte di un popolo è quindi espressione di una civiltà storica particolare, di una società particolare, vissuta nel suo tempo particolare. Essa è squisitamente sociale: non può non esserlo! Più importante della patria, della politica, della gloria di azioni eccezionali, del denaro, della scienza, della potenza personale o collettiva, della famiglia, più importante di tutto, è, per la persona singola o per un intero popolo, lo spirito religioso che alimenta il culto dell’eternità di enti divini, superiori al comune destino della morte certa per ogni vivente. 

Nella religione è posta la facoltà di un uomo o di un popolo, che con l’arte esprime l’essenza meravigliosa della sua anima immortale, capace di ben distinguere il sacro dal profano. la facoltà di «captare» la vita oltre l’effimero tempo della permanenza terrena, come era per i Greci nei «misteri» orfici. 

L’arte così diventa espressione del divino, forma non moritura degna della divinità, all’insegna della più sublime bellezza. Così i Greci ebbero i loro Numi immortali, scolpiti in forma antropomorfica ideale adorati in case ideali, i templi, protagonisti nella poesia, di mille miti fantastici. 

L’arte greca ha lasciato nelle sue opere originali (non certo nelle copie) le reliquie di questa fede incrollabile nell’immortalità dell’anima, sfuggendo alla falce fatale del nulla. Reliquie che sono opere sublimi, capaci di nutrire egregiamente i sentimenti di tutti gli spiriti umani di ogni tempo, sia con le opere figurative che con quelle di pensiero. 

Anche i Greci Ionici di Mozia vollero i loro templi policromi, le loro statue di numi torreggianti nel vano semioscuro del megaron (cella del tempio), come in una magica teofania. Alludiamo alla statua marmorea, nota come il Giovane in tunica. che noi crediamo il – nume – tutelare dei Greci di Mozia, scolpita in stile – severo -, nella prima metà del V secolo a.C. 

Vediamo come la statua ionica del Giovane in tunica possa far parte dell’attività politico-sociale-religiosa degli Ioni, di cui una minoranza, certamente marinara, si trovava a Mozia, con le altre minoranze èlime, sicane, puniche, presenti anche a Segesta con i Focei. È noto che i Greci erano divisi in tre stirpi, Dori, Ioni, Eoli. Naturalmente più chiara ne verrà fuori l’indagine se la paragoniamo al diverso modo di vivere e operare dei Dori. I Dori erano montanari, gli Ioni marinari, alle origini della loro apparizione in Grecia. 

I primi erano piuttosto rudi e forti, piantati sulla terra avara del Peloponneso che rendeva ben poco; i secondi erano più evoluti, liberi sui mari sconfinati, dediti al commercio che rendeva fior di quattrini e quindi ricchi anche del superfluo, da Atene fino alle loro 12 città dell’Asia Minore, fiorentissime, e, in occidente, fino alla Magna Grecia, Etruria, Gallia, Spagna. etc. Erano belli, come giovani Apollini, delle cui statue riempivano tutti i luoghi di culto in cui approdavano, essendo Apollo il loro dio, capostipite ionio, l’Apollo padre, nascente dal mare col suo carro del sole, dio della vita e della morte, dio della salute, delle 9 Muse leggiadre, dei coloni di tutte le nuove patrie lontane che sorgevano numerosissime lungo le rive del Mediterraneo, l’Apollo padre, adorato come e più dello stesso Zeus! 

I Dori poveri e malvestiti di ruvide lane, gli Ioni coperti di lini fini ed eleganti. Le donne poi dimostravano maggiormente l’appartenenza alle due stirpi dal modo di abbigliarsi e dal tenore di vita: contadine le prime, ricche borghesi le altre. 

L’arte aveva creato un tempio dorico (dopo l’umile megaron), grave e pesante, e un tempio ionico, svelto, dalle eleganti colonne: aveva creato statue di numi ed eroi dorici, massicci, nudi e violenti nelle metope quadrate staccate l’una dall’altra, e processioni di divinità ioniche nel fregio ininterrotto avvolte in elegantissime e diafane vesti svolazzanti al vento come vele sul mare; pitture doriche (forse molto modeste), e pitture ioniche, celebratissime, alte anche sei metri, al dire dei periegeti che ne parlarono entusiasti. E così ai canti corali dei Dori, gravi e solenni, si alternavano i canti epici dei poemi ionici che raccontavano le gesta degli dei e degli eroi dell’Iliade e dell’Odissea dello ionico Omero, il primo e il più grande poeta dell’umanità. 

Chiaramente, dunque, gli scultori dorici preferirono scolpire gli dei, gli eroi, gli atleti, gli efebi, etc., nudi, o con vestiti sommari molto semplici, mentre gli artisti ionici preferirono coprirli di vesti leggiadre, velate, suggestivamente trasparenti, per ingentilire le asperità dei corpi nudi non sempre impeccabili in certe parti, per renderli più belli, più aerei, più fluttuanti fra cielo e terra, più eterei, lontani dalla caducità dei mortali. 

Dopo il 480 a.C., nel periodo della prima metà del secolo V, detto dello stile severo, si scatenò per tutta la Grecia e le colonie qualcosa che raramente può avvenire nella vita di un popolo. 

La piena coscienza di avere sbaragliato centinaia di migliaia di uomini che li volevano sterminare aveva acceso nell’anima dell’uomo greco dei fermenti straordinari di potenza, di spiritualità, di socialità, di religiosità. Da qui naturalmente un potente afflato artistico mirante ad eternare quel clima di gloria, in tutti gli aspetti, ma soprattutto in quello religioso, avendo gli dei – così tutti credevano fermamente! – deciso di rendere il popolo greco, il primo, il più degno, il più forte, eterno nella storia del mondo. 

Templi e simulacri di divinità diventarono le cose più importanti da erigere in onore degli dei. Poeti e artisti ne decantavano, pieni di gratitudine, le lodi, per tanto magnifico dono. 

Ogni città, anche piccola, nella madre patria o nelle colonie, sentì così il bisogno di mettersi sotto la protezione eterna degli dei, così buoni, così apertamente protettori invincibili della stirpe ellenica! Tutti, quindi, si davano da fare per accaparrarsi gli artisti più universalmente noti per erigere statue che volevano collocare nei loro templi, fondati nelle città a dozzine. 

Ma chi erano gli artisti preferiti, più inequivocabilmente grandi? Non potevano essere altri se non quelli che, animati da fervore religioso, riuscivano a far emergere dalle pietre e dai bronzi i sentimenti più nobili, degni degli dei e degli uomini che li adoravano. Così coloro che ci tenevano veramente ricorrevano ad artisti ben noti, rifuggendo dalle opere degli artigiani, dozzinali e spesso insignificanti. 

Nel periodo dell’arte «severa» l’artista cercava di dare il meglio di sé, in maniera egregia e originale. Ma possiamo veramente dire che nelle opere «severe» non ci fosse qualcosa di comune come stava accadendo via via nel campo politico-sociale e religioso del «dopoguerra antipersiano, antibarbarico in genere» in tutte le città della Grecia? 

La guerra aveva unificato, la vittoria aveva glorificato, l’arte ora puntava all’esaltazione degli dei, protettori e salvatori di tutti i Greci della madrepatria e di quelli che vivevano in terre lontane, in Asia e in Italia! Gli artisti, i poeti, i filosofi viaggiavano in un clima di euforia universale, si ritrovavano poi alle olimpiadi, nei santuari panellenici, alle corti dei principi. Tutto ciò doveva sfociare via via nella grandezza del «secolo d’oro», degnamente rappresentato e reso universale da una sola città greca, Atene, capitale e guida della grande nazione ellenica in patria e nelle terre d’oltremare. Le «scuole d’arte» pullulavano, dirette da insigni maestri per rispondere alle richieste dei committenti. Prima fra tutte la scuola di Fidia. 

In genere si parla, da parte degli studiosi, della scuola di Fidia, operante solo nella seconda metà del V secolo a.C., periodo dello stile classico e della creazione del Partenone in Atene, eretto da una quantità di scultori, diretti da Fidia. Ma è lungo la prima metà del secolo che il grande Maestro crea il colosso crisoelefantino dello Zeus di Olimpia, 454/448 a.C., mentre è nella seconda metà che crea l’Athena Parthenos, 447/438 a. C., sull’Acropoli di Atene. 

È chiaro che l’acme di Fidia, 448/438 a.C., e dei suoi discepoli-collaboratori, venne raggiunta a seguito di tutta un’attività artistica svolta nella prima metà del secolo, in cui era in voga lo stile severo. In particolare, se fissiamo la data di nascita di Fidia nel primo decennio del secolo (495 a.C.), e quella dei suoi discepoli-collaboratori nel secondo decennio (490/485 a.C.), si ricava che il Maestro e i discepoli Alcamene, Peonio, Agoracrito, Colote, etc., si siano formati nella prima parte del secolo. I maestri di Fidia, Hegias e Hageladas, scultori, Polignoto, pittore, dovettero nascere nell’ultimo ventennio del VI sec. a.C., sicché, a metà del V, dovevano avere un’età fra i 60-70 anni. Potremmo allora fissare l’epoca degli studi di Fidia fino al 470, (a 25 anni d’età), anno in cui, tenendo conto dell’innata genialità, il grande artista dovette formare la propria scuola di stile severo, dal 470 al 450. 

L’affiatamento fra il Maestro e i suoi discepoli, presto passati al rango di collaboratori ad altissimo livello, diventa così elevato che le opere in marmo, in bronzo, in tecnica crisoelefantina, in toreutica, negli avori, nelle oreficerie, etc., acquistano un alto grado di perfezione e di eccellenza, tanto che potevano essere firmate indifferentemente da tutti, maestro e collaboratori, senza far torto a nessuno. 

Il Tempio di Zeus di Olimpia (Prima metà del V sec. a.C.) 

Essendo quello d’Olimpia il primo di tutti i santuari panellenici, sede delle Olimpiadi, non poteva essere trascurato da Pericle, che aveva in mente idee imperialistiche da realizzare con prudenza, però. Nel 454, volendo trasformare la Lega marittima Delio-Attica in impero, egli fece trasportare i tesori della Lega da Delo in Atene, che, secondo lui, doveva diventare la capitale. A questo punto diamo spazio a una nostra idea. 

Riteniamo che intorno al 454 a.C. Pericle dovette proporre al suo coetaneo e amico Fidia – il Maestro doveva essere quarantenne, mentre i suoi collaboratori fra i 35/30 anni d’età – di adornare il tempio di Zeus d’Olimpia, costruito dal 471 al 455 dall’architetto Libone oltre che delle opere marmoree, anche di una statua crisoelefantina colossale, mai vista al mondo, che doveva essere il simbolo imperiale della Grecia. 

Il tutto senza badare a spese: marmi, oro, avorio, pietre preziose, etc., e soprattutto con l’opera eccelsa dei più grandi artisti dell’epoca, scelti da Fidia, e solo da lui, scultori, toreuti, cesellatori, pittori, bronzisti, etc. Il lavoro doveva essere portato a termine nel più breve tempo possibile, ma egregiamente, in modo da ingrandire il suo prestigio e dare la massima soddisfazione a tutti i Greci della madrepatria e delle colonie. 

Fidia dovette accettare il lavoro delle opere d’arte per il tempio di Zeus di Olimpia, e ne studiò la divisione fra i suoi aiuti così: la grande statua crisoelefantina di Zeus l’avrebbe fatta lui stesso con gli artisti competenti nella tecnica specifica; i marmi del frontone orientale li avrebbe affidati a Peonio; quelli del frontone occidentale ad Alcamene; le mètope agli altri; ma il tutto sempre sui propri «cartoni», in stile severo, o meglio in uno stile severo-fidiaco, che possiamo chiamare di transizione. Anche per la Nike di Peonio. 

A conforto di questa nostra impostazione ci sono le fonti storiche di Pausania che citano Peonio e Alcamene espressamente come autori delle statue dei rispettivi frontoni. Ma i critici moderni non sono d’accordo con Pausania e attribuiscono queste opere ad un ignoto maestro di Olimpia. Come si può ribattere a queste affermazioni? 

È risaputo che certi critici si divertano un mondo a denigrare gli storici, per imporre se stessi, magari basandosi su cervellotiche attribuzioni di copie romane, che naturalmente lasciano il tempo che trovano dal punto di vista stilistico, estraneo al copista. Si potrebbe rispondere che l’unificazione dello stile severo-fidiaco, dovuto ai «cartoni» di Fidia di quel primo periodo della prima metà del V secolo, potrebbe superare facilmente le critiche degli studiosi. 

Alcamene e Peonio scolpiscono come comandano i «cartoni» di Fidia, ma con accenti personali lirici, che non possono essere paragonati alle copie romane di presunti originali dei due artisti, mai trovati! Non resta allora che ribaltare il metodo delle indagini, e veramente attribuire a Peonio ed Alcamene le statue dei due frontoni. 

Pausania (IX, 11, 6) riporta che dopo il 403 a.C. – la data è ricavata dal fatto storico – Trasibulo consacrò un .gruppo scultoreo di Athena ed Eracle nel tempio dell’eroe tebano, in Tebe, gruppo attribuito sempre da Pausania ad Alcamene. Questo è impossibile perché Alcamene non poteva esistere, o creare, alla fine del secolo! Forse era un omonimo. Ma un’opera destinata al culto non è né poteva essere stata fatta molti anni prima della sua consacrazione, specialmente se c’era stata nel mezzo una guerra, per esempio, come quella del Peloponneso (durata circa 28 anni, 431-404). 

L’argomento si presta a tanti ricordi storici. Migliaia di statue bronzee, rapite, come bottino di guerra, dagli eserciti invasori, collocate nei propri templi come trofei, venivano restituite ai legittimi proprietari dai nuovi conquistatori, come avvenne nel 146 a.C., dopo la presa di Cartagine, i cui templi furono spogliati dei trofei rubati nei secoli passati ai Sicelioti, i quali neanche a dirlo, li riconsacrarono, ringraziando i Romani di tanto prestigioso evento. C’erano statue di Fidia nel tempio della «Fortuna huiusce diei» del Palatino, in Roma, al dire di Plinio (34, 54), fra cui un’Athena, riconsacrata dal console Paolo Emilio Lucio Macedonico, dopo il trionfo della fine del 167 a.C. 

La «cerchia fidiaca» e il Giovane in tunica di Mozia del periodo severo 

Il Giovane in tunica di Mozia è ispirato all’Apollo del frontone occidentale del tempio di Zeus in Olimpia, opera, come abbiamo visto, di Alcamene, su «cartone» di Fidia, liberamente interpretato dall’Autore. 

La posa, con un braccio al fianco e la lancia nell’altro braccio, si riscontra nella figura del frontone orientale, riconosciuta come il personaggio di Enomao, frontone scolpito da Peonio. Ambedue artisti della «cerchia fidiaca» del «severo» e del «classico». A questo punto diventa suggestiva l’idea di accostare il Giovane in tunica all’Apollo di Alcamene, i cui volti, ambedue nobilissimi, si richiamano fra loro nei tratti fisionomici e artistici, mentre le vesti aderenti sono trattate in modo raffinato, le fluttuanti più scioltamente. Infatti sarebbe grave negare ad Alcamene, o ad altro artista di pari merito, la perizia di avvolgere la statua con una tunica aderente e trasparente (secondo ben noti schemi fidiaci), la capacità di creare un’opera d’arte di gran classe, dietro espressa richiesta dei committenti, ché forse pretesero, per il loro dio, un «cartone fidiaco». 

L’accostamento estetico fra l’Apollo d’Olimpia e il Giovane in tunica ci suggerisce l’idea della decisione, presa dai Greci lonici di Mozia, di affidare a una scuola famosa ellenica la realizzazione della statua del loro «dio» tutelare. Secondo lo scrivente, ad una di esse, a quella di Fidia, attiva in Olimpia, proprio dentro il recinto del Tempio di Zeus, dove sorgeva l’officina del Maestro, un giorno vennero i Moziesi per risolvere il problema che li assillava. Volevano un simulacro del loro dio protettore, per un tempio della loro terra, Mozia, in cui costituivano una minoranza di Greci lonici, entro i domini dell’eparchia cartaginese della Sicilia occidentale. Volevano un’opera d’arte, di prim’ordine, dalla migliore scuola del tempo, da artisti ionici, come loro, una statua di Apollo Patroo. 

Ai Moziesi, espressamente venuti a trovarlo nella sua officina, Fidia dovette additare l’Apollo di Alcamene sul frontone dirimpetto l’officina stessa, alla presenza dello stesso Autore, finendo per accordarsi su tutti i particolari. 

Così diciamo che potrebbe essere stato Alcamene l’artista a cui Fidia affidò l’incarico di esaudire la richiesta dei Moziesi (greco-ionici, come erano appunto Fidia e i suoi seguaci), dell’Apollo Patroo di Mozia, dio capostipite della stirpe ionica, venerato anche in un tempio dell’agorà di Atene. I committenti vollero il dio completamente vestito dato che dovevano trasportarlo in un paese di «barbari», ostili al nudo figurativo. 

Ci fu nella statua del Giovane in tunica qualche intervento di mano dello stesso Fidia? A volte il Maestro interveniva, altre volte no. Non resta che ammirarla in tutta la sua bellezza. 

Analisi estetica della statua del Giovane in tunica 

C’è molto di «severo fidiaco» nel Giovane in tunica di Mozia, da noi proposto come simulacro di Apollo Patroo. Che cosa in particolare? Il volto, i capelli a chioccioline, la forte ossatura del volto, mostrano ancora l’aspetto severo della composizione. Ma il movimento dinamico del corpo insieme alle vesti trasparenti, «bagnate», increspate, sottili ed elegantissime, non sono ignote allo stile velificato fidiaco che esploderà nelle opere classiche del periodo seguente, della seconda metà del V secolo a. C. 

D’altro canto, se paragoniamo la staticità degli Apollini (Pamopios, del Tevere) di Fidia, e la cattura degli spazi somatici vibranti e profondi da parte dello scultore del Giovane in tunica, ci accorgiamo della formidabile personalità di quest’ultimo che mette al servizio della «teofania» del suo personaggio la nobiltà dell’espressione, la potenza fisica calma e sicura, invincibile, l’eleganza delle vesti, la bellezza straordinaria delle forme, le proporzioni ideali delle masse muscolari avvolte flessuosamente dai lini che fasciano un floridissimo campione umano-divino della stirpe ionica, fattori tutti di rara perfezione, che si possono scoprire soltanto negli originali purissimi dei grandi artisti. 

Nel Giovane in tunica lo scultore è riuscito a rendere palpitante perfino il respiro del torace, gonfio per un’inspirazione profonda, la quale «svela», pur sotto la tunica, l’anatomia fino al basso ventre infossato, traendone spunti estetici raffinatissimi. A tal fine l’artista usa le piegoline sottili, fluenti, spezzandole ogni momento in corrispondenza d’ogni minimo avvallamento del corpo, di cui egli si serve per mettere in evidenza l’anatomia del bellissimo modello, non permettendo mai alla luce di oscurare, con macchie nere e profonde, la fluidità della composizione, resa diafana, sfumata, dolcissima, per raggiungere la teofania nel simulacro, sentita come mediata da una luce interna, d’origine soprannaturale, nullificatrice della materia. Meraviglioso artifizio di membra umane chiamate alla vita dal marmo luminoso, che, in questo caso, si prestava meglio del bronzo al fantasma poetico dell’artista, per il più bello e giovane iddio dell’Olimpo greco! 

Questo spiega anche il «motivo alto della fascia pettorale», che avrebbe annientato, se fissato alla vita, l’armoniosa fluidità e imponenza «dell’apparizione». E spiega anche il «motivo» della tunica talare, che rendeva superfluo qualsiasi puntello alla base delle gambe, necessario invece nelle statue marmoree. Le statue degli atleti erano in bronzo e bastavano di solito due tenoni sotto i talloni per ancorarli alla base (come i bronzi di Riace), per svettare liberi nello spazio. Portata in patria dai Greci di Mozia, la bellissima statua dovette adornare un tempio della città per oltre mezzo secolo (450-397 a.C.). Durante l’assedio famoso, abbattuta, rimase sepolta fino al 1979, data della scoperta. 

Noi diciamo che il simulacro di Mozia è uno dei tanti simulacri degli dei del periodo «severo» (480-448 a.C.), nobilissimo, come lo furono tutti gli altri di quel tempo felice. Un tempo veramente felice e straordinario che venne completato con la più bella immagine del «dio» per eccellenza. Zeus olimpico, di Fidia, l’opera più viva della stirpe ellenica. 

«Ciascuno di voi consideri una infelicità la morte, senza aver 

visto lo Zeus di Fidia»; tali sono le parole di Epitteto, filosofo 

(Arriano, Epitteto, 1, 6, 23). 

Certamente la più eccelsa delle sette meraviglie del mondo! 

Così si chiuse il periodo «severo» dell’arte greca, il Periodo degli Dei, e degli uomini vittoriosi contro le più immani avversità che la storia ricordi, uno dei periodi più belli di tutti i tempi, presente anche nell’isoletta di Mozia, col suo bellissimo Giovane in tunica, il più splendido «dio» della mitologia greca! 

Quante altre statue fidiache sono nascoste fra le rovine di Mozia? 

Giuseppe Agosta 

Da “Spiragli”, anno I, n.3, 1989, pagg. 41-50.




Vertigine di un equilibrio 

Se tragedia è la presa di congedo, la presa d’atto di una scissione dell’io dal mondo, di una lacerazione nell’io e nel mondo, insomma di una conflittualità non risolvibile, labirintica, Padron ne “I cerchi dell’inferno” (*) tematizza l’umana tragedia ben sopportando quel peso dell’etica che è la volontà di impotenza, pur se, nel funzionamento del testo e nelle sue articolazioni di senso, si avverte il titanismo di un intento che può essere riassunto nel motto di Freud: flectere si nequeo superos, acheronta movebo. Ma mentre Freud postula che la coscienza condiziona l’esistenza, Padron si affida alla parola e non per mimare i ritmi della quotidianità, lesi e inutilizzabili ad affrontare la problematica dell’esistere, ma per dire quelli ottativi della progettazione ove, formalizzandoli, abita e palpita la possibilità della bellezza. Senonché la bellezza è veramente l’esodo da questo mondo, discesa agli inferi: da affrontare ed esperire e da cui risalire (anche a costo di tradire gli occhi di Euridice) – e “i suoi occhi erano luce e tenerezza”1 e “con un’ascia fendettero gli occhi della tenerezza”2, ma padrone del canto, se non “dei mondi / e dell’eternità”3. 

In equilibrio sull’abisso, Padron sta innamorato della notte e della morte che vuole riscattare con la parola. 

La notte che si attraversa in queste pagine non è quella dei romantici, né quella dell’accoglienza: non è né rifugio né riparo, ma luogo ostile, invivibile: una “trappola del tempo”4 ove si perde la coincidenza e la coerenza con se stessi e si resta smarriti e senza identità e l’io non è più certificabile, ma privo di volto e di nome. 

Tanto che, con Agostino, Padron potrebbe dire: amor mortis conturbat me: ma il fascino e l’esperienza della morte – punto d’incontro fra creatività e identità -, il lorchiano gusto di morte, altro non sono che lussuria perché diventano un cupio dissolvi per il quale si rovescia la sentenza dell’Ecclesiaste, onde qui auget dolorem, auget et scientiam. Ed allora, attraversare il dolore è appunto discesa agli inferi ma anche disinganno barocco per il quale si esperisce ciò di cui non si vorrebbe fare esperienza. Percorrere ” I cerchi dell’inferno” significa visitare un luogo non abitabile: un luogo, direbbe S. J. Perse, flagrant et nul comme l’ossuarie des saisons, dove il labirinto è letteralmente smarrimento necessario per avanzarvi. 

Luogo di inappartenenza, perché, pur occupandolo “tra i vivi, /non mi appartengo più”5: dove, poi, “l’ombra è immutabile”6 e non esiste posto “per l’intimo abbandono”7 e “tutto è deserto. / Ormai è senza uscite questo labirinto”8: laborintus che ribadisce “la solitudine che urla”9. E la scoperta della solitudine ne comporta l’assimilazione al labirinto: nel labirinto della solitudine – dove “la memoria dei giorni / è quasi un nonnulla”10 perché “lettere d’amore e i loro progetti / sono ormai indecifrabili per sempre”11, sono “perdute memorie”12- Padron rimane “immobile, identico al silenzio”13, verifica l’asserzione di O. Paz. per il quale soledad y pecado original se identifican. Da questa constatazione prende avvio l’umana tragedia: ma la catastrofe apre al nuovo, è preludio, perché ogni compimento è cominciamento, attesa dell’e-vento e la scrittura di Padron sceglie come statuto quello di orientare, ogni volta in modo diverso, la parola per recuperare la disperazione o per scommettere su di essa e abolirla non già annullandola o rimuovendola. ma trascendendola, facendone una perifrasi della speranza, della “speranza impossibile”14: dire è esprimersi, uscire da sé, spezzare la solitudine. 

L’esaltazione polisemica che succede in questo work in progress fondato sull’ambiguità (nell’accezione e nelle direzioni che Empson imprime a questo termine) e slittamenti di senso, comporta il rischio, non sempre evitabile, di traboccare in un inquinamento semiotico per sovrabbondanza di significati spesso contraddittori e per il quale la metafora, talvolta, si pietrifica in enigma generando l’angoscia delle opzioni possibili. 

In altri termini, questa poesia mentre arriva a sfiorare il mistero e a farsi (quasi) mistica, ripropone anche il sempre latente conflitto fra Letteratura e Linguaggio che in altro non consiste se non nel tentativo perenne di conciliare, in esiti d’arte. facilità di lettura e densità di scrittura, di coniugare trasparenza e occultamento, armonia e allusività, incarnazione e astrazione e, cioè, (insostenibile) leggerezza dell’essere e ineludibile pesantezza del vivere: “quell’immenso affanno/di armonizzare la vita con la parola”15. 

In questa antitesi platonica di lògos e grafé, nel contesto più generale di correlazioni e inferenze che il testo di Padr6n suscita, la lingua viene funzionalizzata a partecipare contemporaneamente a un massimo di realismo e a un massimo di espressività: onde le rotture del ritmo, il variare delle strutture, l’effrazione continua del tessuto lessicale, gli strappi, le trasgressioni, gli eccessi e gli aggiustamenti e accorgimenti strategici della scrittura, finalizzati a spezzare la prigionia della lingua per aderire alla realtà rappresentata e/o immaginata, evitano brillantemente la deriva entropica e la caduta nell’omogeneo o nel monotono. 

In una realtà di segni già interpretati o esausti, Padron inserisce l’implacabile ossimoro della sua autenticità, della sua originalità: la sua esigenza di una diversa ragione del mondo che non sia “solo il pianto, il pianto”16 per onorare l’appuntamento a un luogo dove il tempo si inverta per farsi forma e ritmo – là dove convergono tutte le sirene. Tempo, tuttavia, questo di Padron, che si manifesta come “la lussazione del tempo”17, vale a dire come struttura intem1edia fra quello oggettivo in cui l’Autore è “con mistero e senza ira, / condannato ad esistere, ad essere parte”18: il tempo di Kronos che divora i suoi figli, tempo di distruzione, di strazio e di insufficienza; e quello soggettivo, il vissuto della malinconia e del lutto di aver perso irrecuperabilmente il senso dell’eternità, “nella totale assenza della vita, / … trasformato/nell’eternità morta”19. 

Anche per questo aspetto, Padron riconduce la poesia alla sua organizzata condizione di temporalità organizzata che, cioè, da potenziale si fa attuale in quanto, alludendo a ciò che manca, a ciò che è assente, ne evoca l’essenza e l’attualizza, elide la contraddizione fra vuoto e vastità (nel senso in cui l’intese Rilke) identificandoli e, con ciò, risolve il silenzio nel testo che instaura, traduce il silenzio in parola, forma spuria e scarto del silenzio. 

Perciò i gesti si placano in “una immobilità inestinguibile”20 e si placa il grido che attraversa tutte queste pagine: si placano, componendosi in una catarsi, in una poesia che è recupero del silenzio, “retorica del silenzio”, come dice Genette: eccesso che la parola consegna alla dissipazione. 

Parola che, animando la struttura dei testi, indugia a organizzare epifanie e magie, secondo una personalissima erotografia che non si limita a veicolare significati facendo parlare d’amore la scrittura, ma che producendolo, l’amore, persegue l’evento del segno. Ed è nella semiofania che, pur ubbidendo rigorosamente allo strutturarsi delle condizioni tecnico-espressive che consentono la materialità dello scrivere, la fisicità del prodotto, il testo di Padron suscita imprevisto, crea e innesca attesa, ostende e inventa onde esso e le sue letture non sono mai identici ma di valenza mimetica e di spessore simbolico cosi marcati che, rispecchiandosi reciprocamente, infinitamente riverberano, moltiplicandosi perché “voragine e gelo hanno gli specchi”21 e riflettono nunc et semper – in modo istantaneo e permanente – “la nostra perdita sfrenata”22, sono “abisso del mio inferno”23. 

In questa ottica, la scrittura, fra tensioni e tentazioni, diventa ricerca di un dire che coincida con l’essere, onde la parola, inseguendosi, si fa sull’abisso – vertigine di un equilibrio fra il grido e reco che lo prolunga, secondo un paradigma dell’inconclusione: tragicamente, si conferma l’impotenza pratica del poeta che, come Edipo, non può, non potrà mai, trasformare il cammino in regno. 

La parola, attesta questo libro di Padron, deve tendere a sbocciare in luce, rischiando che essa sia oscura: nil obscurius luce, perché sempre in bilico fra attesa e oblio, fra il dire e il tempo, fra essere e tempo; e il rapporto con la morte – che stabilisce – diventa il suo statuto definitivo: dice – con L. Chestov – le rivelazioni della morte.Perciò a me pare che col titolo “l cerchi dell’inferno”, J. J. Padron non si limiti a sintetizzare, alludendovi, il contenuto del testo senza, peraltro, esaurirlo, sicché l’oggetto ne risulta citato, ma voglia costituire una epigrafe di commento e di compimento: dunque. riassumere i testi riproponendoli in un paradigma dell’attesa, dell’e-vento, promessa di un nuovo inizio, in una conclusione inesauribile dalla quale tutto ricomincia. Perché è là, dalla chiusura del cerchio che tutto ha eternamente, inizio, per ripetersi: e il ripetuto è simbolo di ciò che diventa, della parola (in principio erat verbum) che sempre in se stessa muta: qui – richiamando Paul Valéry – te remords l’étincelante queue/ dans un tumulte au silence pareil. 

Giuseppe Addamo

*. Le note si riferiscono all’edizione italiana edita dalla Libera Università Mediterranea, Trapani, 1990. 
l. La donna della terra – pag. 37 
2. Tra noi crescono – pag. 52 
3. Il sogno del sesso – pag. 39 
4. La trappola del tempo – pag. 50 
5. Non so per quanto tempo – pag. 60 
6. Fetore – pag. 21 
7. Forse il fango stesso – pag. 46 
8. Fetore – pag. 21 
9. La città della morte – pag. 32 
10. Consiglio per il viandante – pag. 64 
11. Dove, dove andare – pag. 57 
12. La trappola del tempo – pag. 50 
13. L’invasione degli atomi – pag. 19 
14. Il grande iride – pag. 34 
15. Un’immobilità inestinguibile – pag. 27 
16. Il pianto – pag. 70
17. L’invasione degli atomi – pag. 20 
18. Quel frondoso peso – pag. 23 
19. Forse il fango stesso – pag. 46 
20. Un’immobilità inestinguibile – pag. 27 
21. Voragine e gelo hanno gli specchi – pag. 68 
22. E se Dio si stancasse di noi – pag. 31 
23. Voragine e gelo hanno gli specchi – pag. 68

 

Da “Spiragli”, anno III, n.1, 1991, pagg. 17-21